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SALUTE

CIRCOLARE
Un «conto alla rovescia» che si trasforma in un intrigante viaggio nel tempo – da Ippocrate ai
no-vax, dalla peste nera alla creazione dei lazzaretti – alla scoperta del ruolo della
trasversalità e della circolarità nelle grandi conquiste della salute di cui oggi godiamo.
I protagonisti di questo libro sono quei visionari, coraggiosi, determinati o solo fortunati, che
in epoche diverse hanno scoperto, per caso o per intuito, universi così vasti da andare ben
oltre i confini dell’immaginazione. Dalle loro storie emerge con chiarezza come la conoscenza
e lo studio dei meccanismi che generano salute si espandano grazie alla potenza del
pensiero laterale. È l’interdisciplinarietà che ha consentito di aprire campi immensi da
esplorare e approfondire, andando con il tempo a costituire i pilastri della salute.
La trasformazione digitale ci impone di ripensare alcuni percorsi e di proporne di nuovi e
rivoluzionari, per arrivare a un maggior equilibrio con gli animali, con le piante e con
l’ambiente che ci accoglie nel suo complesso. La sfida è quella di riconoscere che la salute è
un sistema di vasi comunicanti, che può essere migliorato grazie a un’innovazione
responsabile che miri a rigenerare l’equilibrio. Proprio come diceva Ippocrate.
Ilaria Capua è direttore dell’One Health Center of Excellence e Pre-eminent Full Professor
all’Università della Florida. È una virologa di fama internazionale e ha diretto laboratori di
ricerca in Italia e all’estero. È stata parlamentare della XVII Legislatura ed è autrice di opere
di divulgazione e saggistica: Idee per diventare veterinario (2008), I virus non aspettano
(2012), L’Abbecedario di Montecitorio (2015), Io, trafficante di virus (2017).
CULTURA E SOCIETÀ
ILARIA CAPUA
SALUTE CIRCOLARE
Una rivoluzione necessaria
Impaginazione: Alberto Bellanti, Milano
Copertina: Studio Wise, Milano

L’immagine di sfondo in copertina è tratta da Isidorus Hispalensis, De Natura Rerum, Cod. 83-II, fol. 131v
(dettaglio), manoscritto conservato presso Koeln, Erzbischoefliche Dioezesan- und Dombibliothek/Cologne,
Library of the Cathedral and of the Archdiocese. Si ringrazia per l’autorizzazione alla riproduzione.

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Prima edizione: giugno 2019

ISBN 978-88-238-1732-6
Agli NL di ieri, oggi e domani

Se non sei disposto a scoprire l’impossibile,


non lo scoprirai mai.
(Anonimo)
Indice

Prefazione, di Umberto Curi

–7 Consapevolezze
–6 Pazza idea
–5 Spiegare il tutto con il niente
–4 L’arte diventa strumento scientifico
–3 Mai da dentro, sempre da fuori
–2 Inventarsi l’inimmaginabile
–1 Nascosti per bene
0 Consapevolezza di una nuova necessità

Salute: dentro la parola. Postfazione di


Umberto Curi

Bibliografia essenziale
Ringraziamenti
Hanno contribuito
Prefazione
di Umberto Curi*

Ilaria Capua ci ha abituato a imprese coraggiose. Anche solo limitandosi agli anni più
recenti, il novero di iniziative sorprendenti, almeno per gli amanti del quieto vivere, è
particolarmente ricco. Rientrano in questa tipologia sia l’esperienza compiuta come
deputata al Parlamento nazionale, sia la scelta di raccontare pubblicamente, e senza
censure o rimozioni, il singolare caso giudiziario della quale ella è stata involontariamente
protagonista, anche attraverso la pubblicazione di un libro (Io, trafficante di virus, Rizzoli,
2017) che ha suscitato vasto interesse e ha sollecitato vivaci commenti.
Coraggiosa, ai limiti della temerarietà, Ilaria si dimostra anche con questo libro, per certi
aspetti perfino più azzardato di altre sue iniziative spericolate. Io stesso, messo al corrente
del progetto quando era in fase di elaborazione, avevo caldamente sconsigliato l’Autrice dal
procedere nella sua realizzazione. Con quale impudenza poteva avventurarsi nel terreno
scivoloso e infido della storia della medicina, stabilmente e autorevolmente presidiato da
alcuni «mostri sacri» della storiografia scientifica, senza poter esibire i «titoli» che
avrebbero potuto legittimare una simile impresa? Come poteva illudersi di sfuggire alle
severe osservazioni di quanti avrebbero eccepito sulla mancanza delle specifiche
competenze necessarie per inoltrarsi in un territorio pieno di insidie? E ancora: come
poteva pretendere di essere credibile, senza disseminare il testo di riferimenti bibliografici
utili per documentare la conoscenza di prima mano di testi latini e greci, oltre che della
copiosissima letteratura critica disponibile? Ammonendola a desistere, le avevo ricordato
tutto ciò, aggiungendo di mio una reazione indispettita per non essere stato
prioritariamente coinvolto nel dialogo descritto nel libro. Il mio amor proprio, reso ancor più
suscettibile da una lunga militanza accademica nei ranghi dell’università italiana, si sentiva
ferito dall’essere stato emarginato in favore di talenti intellettuali decisamente più giovani,
anche se (per il momento) meno titolati.
Insomma, tutto lasciava presagire che questa volta il gusto per le sfide, l’inclinazione alla
provocazione, avrebbero giocato un brutto tiro a Ilaria, esponendola su un fianco
vulnerabile, quale è quello di un lavoro non puramente dilettantesco non nel settore
prediletto della virologia, ma nel campo della storia della scienza. Per farla breve: a dispetto
di previsioni tetre, più ancora che oscure, con buona pace delle regole accademiche, Ilaria è
riuscita ancora una volta nell’impresa di sorprendermi, mettendo in crisi quelle che ritenevo
essere certezze incrollabili. Ha scritto un libro che non corrisponde in alcun modo ai
protocolli dei lavori scientifici dedicati alla storia della medicina, né si preoccupa
minimamente di questa negligenza, offrendoci tuttavia un testo vivo, ricco, attraente, a
tratti spumeggiante, sempre acuto, mai banale, proponendoci squarci di grande efficacia e
di sicuro impatto anche sul piano emotivo. Un testo del tutto insolito, non riconducibile ad
alcun modello fra quelli in circolazione, ma capace di stimolare la riflessione, di alimentare
interrogativi, di stupire per l’incisività della scrittura. Insomma: anziché attenersi a regole
apparentemente inviolabili, Ilaria ci sorprende ancora una volta inventando una sorta di
nuovo genere letterario, un archetipo che potrebbe generare per imitazione altri testi
analoghi, lasciando con un palmo di naso i cultori delle rigidità disciplinari, le vestali dei
saperi definiti per via accademica. Gli uni e gli altri destinati a essere oggetto del feroce
sarcasmo di qualcuno che se ne intendeva – alludo ad Albert Einstein – il quale amava
ricordare ai fautori degli steccati fra discipline che la natura non è divisa in dipartimenti,
come lo sono invece le università.
Evito di funestare il lettore sovrapponendo alla limpidissima scrittura di Ilaria una più
ermetica trattazione degli stessi temi. Mi limito ad attirare l’attenzione sul nocciolo duro del
progetto che è alla base del volume: in qualunque modo la si voglia valutare, l’impostazione
One Health che fa da impalcatura al testo segna indubbiamente la comparsa di un nuovo
paradigma, verosimilmente destinato a soppiantare prospettive ormai decisamente isterilite.
Riprendendo in maniera non meramente decorativa lo schema di Thomas Kuhn, si può
davvero affermare che l’ipotesi soggiacente alle pagine di questo libro identifica una fase di
«ricerca straordinaria», nella quale si profila l’urgenza di superare la coltivazione di antiche
certezze per dar vita a un nuovo paradigma. E non è senza significato rilevare che
l’approccio preconizzato nel volume riprende – nel suo «spirito», se non nella lettera – la
visione olistica di Ippocrate, saldando così in un comune orizzonte la nascita e il pieno
compimento della medicina.

Padova, aprile 2019

*
Umberto Curi è Professore emerito di Storia della Filosofia presso l’Università di Padova.
–7Consapevolezze

Credo di funzionare un po’ così. La mia bizzarra carriera mi ha insegnato a cercare in ogni
nuova esperienza una consapevolezza diversa da cui partire, ripartire – o magari anche
semplicemente tenerla lì, non si sa mai che un giorno non possa servire. L’esperienza
parlamentare, a sua volta, mi ha aperto a molte nuove consapevolezze, alcune delle quali mi
è parso meritassero uno specifico approfondimento. In particolare, mi sono resa conto di
quanto sia urgente ripensare il rapporto con la salute e, nel farlo, di come potrebbe essere
utile ripartire da alcuni interrogativi che ci hanno accompagnato da sempre, da quando
siamo in grado di ragionare.
La consapevolezza, poi, deve trovare agganci concreti. In questo caso, ho preso
ispirazione da un libro di Gianrico Carofiglio, Con i piedi nel fango (Gruppo Abele, 2018), e
ho capito che di certe cose bisogna parlare di più, per riflettere con attenzione; che si
possono riproporre alcuni concetti consolidati in una chiave di lettura diversa e proiettarli
così nel futuro; che è fondamentale elaborare, confrontarsi, per aprire un dialogo. Insomma,
in questo libro voglio raccontare due o tre cose che ho capito in quasi quarant’anni di
curiosità scientifica e di spirito di osservazione da NL (proprio così, NL).
Che cosa è uscito da questa mia riflessione? Prima di tutto, che secondo me abbiamo
bisogno di vedere la salute come un bene che scorre, come una linfa vitale che connette fra
loro gli uomini, gli animali, le piante e l’ambiente. Di fatto, uomini, animali, piante e
ambiente altro non sono che vasi comunicanti. Per capirlo fino in fondo, dobbiamo
espandere le conoscenze trasversali e affrontare i problemi nella loro complessità, non
possiamo limitarci a un approccio verticale. La scienza moderna porta nel suo DNA –
giustamente, beninteso – il processo di specializzazione, e per questo ha saputo dare i
risultati che tutti (a parte qualche scettico, chiamiamolo così) le riconoscono. Ma, in un
mondo sempre più complesso, il rischio è anche quello di perdersi, nell’iperdettaglio o
nell’iperconosciuto, e di non avere più la visione complessiva. Un approccio di più ampio
respiro, integrato, è essenziale per dare il nostro contributo ai 17 Sustainable Development
Goals delle Nazioni Unite, che – per quanto irraggiungibili secondo alcuni – rappresentano
l’unica speranza di revisione di politiche attuali che si rivelano ogni giorno di più
assolutamente insostenibili. Sono quindi completamente uscita dal mio ambito di
iperspecializzazione per volgermi indietro, andando a frugare nella storia della scienza e
focalizzandomi su alcuni personaggi per riflettere sul metodo e imparare da loro. Una
specie di abbrivio all’indietro, che mi ha permesso di prendere la rincorsa partendo dal
passato in preparazione per un salto concettuale in avanti.
Così, a poco a poco, la linea di riflessione che stavo seguendo si è allargata in modo
naturale dalla scienza alla storia e alla filosofia, alla cronaca, persino all’arte. E allora ho
proposto a Daniele Mont D’Arpizio, mio co-autore nel libro Io, trafficante di virus (Rizzoli,
2017), di darmi una mano e di calarsi nel suo ruolo di giornalista intervistatore, ponendomi
le domande lungo le quali si sviluppa questo percorso; poi ho chiesto a Sara Agnelli, adjunct
professor con un PhD in Classics che lavora con me all’One Health Center of Excellence
dell’Università della Florida, e ad Alberto Fioretti, giovane e volenteroso laureato in
filosofia, di aiutarmi a documentare quello che avevo in testa. La mia nuova consapevolezza.
Ho imparato moltissimo nello scrivere questo libro, che si è rivelato pagina dopo pagina
una passeggiata piena di meraviglia e di sorprese. Perché abbiamo tutti bisogno ogni tanto
di fermarci a riflettere sul senso di quello che facciamo e sulle nuove consapevolezze: senza
la conoscenza del percorso che abbiamo alle spalle è difficile stabilire la direzione futura. E,
allo stesso tempo, dobbiamo saper cogliere a piene mani le opportunità del presente. Per
farlo, ho cercato di usare il movimento – dobbiamo partire dal passato per lasciarci
trasportare da accelerazioni che ci consentano di immaginare le potenzialità della
tecnologia, alternate a ritorni verso la realtà in cui viviamo tutti i giorni. Ma dobbiamo
anche poter cogliere dei frammenti essenziali e contemporanei del mondo che ci circonda,
come se fossero ingrandimenti al microscopio ottico oppure osservazioni telescopiche di
scenari distanti. Un esercizio vertiginoso, ma essenziale, grazie al quale possiamo vedere il
concetto di salute in 3D, come se scorresse in un tunnel del tempo.
Con questo libro, vorremmo invitarvi a scoprire il valore della trasversalità e la sua
dirompenza, spesso illuminante, che porta a grandi e rapidi cambiamenti. Ma vorremmo
anche introdurvi alle resistenze che molte idee rivoluzionarie hanno incontrato, proprio
perché rivoluzionarie e profondamente trasformative. Questa chiacchierata semiseria è
quindi soprattutto un racconto e una riflessione, senza alcuna pretesa di completezza, su
alcuni passaggi e personaggi assolutamente rivoluzionari, sul loro pensiero e sulle
straordinarie scoperte scientifiche che ci hanno permesso di conquistare la salute che
abbiamo oggi – un percorso, però, che ci pone di fronte a degli interrogativi e a delle
decisioni da prendere.
È urgente rifletterci già oggi, ma ancor più guardando al domani: l’era digitale
rappresenta e rappresenterà sempre più una grandissima risorsa per migliorare la salute.
Bisogna metterla bene a frutto – altrimenti, secondo me, facciamo un dispetto cretino alle
nuove generazioni, caricandole di problemi che potremmo cominciare a risolvere adesso,
almeno per provare a render loro meno difficile la strada.
–6Pazza idea

Ilaria ma che ti sei messa in testa, perché parlare di salute?


Mi pare che sia ovvio. Ce n’è un bisogno disperato. I risultati straordinari che siamo riusciti
a raggiungere in questo campo sono sotto gli occhi di tutti, se solo ci fosse la volontà di
vederli, ma questo non significa che possiamo accontentarci. Prima di tutto perché i grandi
percorsi del pensiero scientifico vanno protetti e salvaguardati. Inoltre la scienza va avanti,
supera sempre se stessa e quindi abbiamo continuamente bisogno di idee nuove per
aggiornare le precedenti.

Ma questo non c’è sempre stato? Quindi che bisogno c’è adesso?
Ecco, proprio qui ti volevo: è ora di vedere alcune cose in prospettiva e riflettere e – perché
no – inventarci una salute diversa, visto che oggi abbiamo gli strumenti per farlo.

Partiamo allora dall’ABC: oggi a cosa ci riferiamo quando parliamo di salute?


La salute ha una caratteristica che è un controsenso: ci pensi quando non c’è, l’apprezzi
soprattutto quando non ce l’hai. Già questo dovrebbe farci capire come sia sfuggente a ogni
definizione, esattamente come altri concetti basilari, come quelli di bellezza e di giustizia.
Ma salute è assenza di malattia? Essere in salute concerne necessariamente tutto
l’organismo o può riguardarne una sola parte? La salute è soltanto della mente e del corpo
oppure anche dell’anima, qualunque cosa intendiamo per «anima»? È chiaro che si gioca su
più piani ed è riduttivo e complicato cercare di stabilire dei paletti perimetrali intorno a un
concetto tanto fondamentale.

Eppure da un’idea di salute bisogna pur sempre partire…


È più facile parlare di malattia che di salute. La malattia è già un elemento in più, un
«qualcosa» che uno possiede. In un certo senso, la salute vive all’ombra della malattia.
Spesso è proprio quando si è malati che ci si accorge di che cosa significa essere sani. Agli
albori del pensiero dell’uomo, per comprendere le condizioni di salute e malattia la
medicina greca si rivolgeva allo studio della natura (φύσις, physis), intesa come la totalità
delle cose che esistono, che nascono, che vivono, che muoiono. A partire dal pensiero greco
antico, questo approccio andrà poi ad accomunare autori e testi di epoche e discipline
diverse tra loro. Il caposaldo di un ragionamento tanto logico quanto ovvio: talmente ovvio
che ci erano arrivati in molti pure senza averne gli strumenti. Ovvero: poiché noi esseri
umani siamo assolutamente dipendenti dalle altre forme di vita sulla Terra dobbiamo
impegnarci a promuovere un approccio diverso. Spesso infatti l’errore che si fa è di
considerare la salute come valore e risorsa che riguarda soltanto gli esseri umani, e solo in
minima parte anche le altre specie viventi.

Qua però bisogna che mi spieghi bene perché non afferro.


Diciamo che se un tempo un individuo era considerato sano se non presentava alcuna
patologia, oggi la visione è più complessa. Per esempio, l’atto costitutivo
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, firmato a New York il 22 luglio 1946, si apre con
la seguente affermazione: «La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e
sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità». La definizione più
attuale, internazionalmente riconosciuta, non guarda quindi alla salute come a un concetto
ex vacuo, la mera assenza di malattia, ma come a un concetto positivo, cioè a uno stato di
benessere psico-fisico e anche sociale.

Un concetto positivo quindi e non la mera assenza di malattia, che abbraccia anche
aspetti di benessere psicofisico. Allora perché non va più bene?
Perché è ora di aggiornarlo e renderlo ancora più inclusivo. Una volta per esempio si
tendeva a lasciare fuori dall’ambito della salute fisica tutto l’aspetto psicologico, che oggi è
invece universalmente accettato come determinante anche dal punto di vista medico. Se si
sta bene psicologicamente si sta meglio anche fisicamente: oggi è anche banale dirlo, ma
arrivarci ha rappresentato una conquista. Allo stesso modo oggi anche le relazioni sociali
sono fondamentali in un individuo sano. Muoversi aiuta contro la depressione, camminare
all’aria e al sole fa bene alla mente. Manca adesso fare un grande passo in più: riportare
l’attenzione sugli equilibri, interni ed esterni all’organismo, che ne influenzano la salute.

In che senso esterni?


Che riguardano il mondo in cui si intersecano le nostre vite, tra di loro e con l’ambiente.
Ognuno di noi è in relazione con il mondo animale – il latte, le uova, il miele e la carne che
mangiamo, ma anche il gatto o la tartaruga che teniamo in casa –, quello vegetale (pane,
verdure e frutta, la birra e il vino, il legno dei nostri mobili) e quello inanimato (acqua, aria,
sabbia, pietra). Tradizionalmente noi immaginiamo l’ambiente come qualcosa che è
all’esterno del nostro organismo: in realtà ci siamo immersi, fa parte di noi e attraverso la
catena alimentare costituisce i mattoncini delle nostre cellule e sostiene la nostra vita.
Senza offendere, noi siamo sostanzialmente delle spugne evolute e assorbiamo
dall’esterno esattamente come fanno loro. Qui però entra in gioco quello che secondo me è
il vero tema da affrontare: quello dell’innovazione responsabile nei confronti della salute.
Gli unici esseri viventi che possono portare avanti questa idea siamo noi: mica possiamo
chiedere ai lombrichi.

Per questo oggi tu, che ti sei formata e hai lavorato soprattutto come virologa,
porti avanti questo concetto di One Health?
Proprio così. Prima di andare oltre, farei però un passo indietro, per andare a vedere quali
sono le origini del nostro concetto di salute: solo così è possibile avvicinarsi in maniera
diversa al tema che abbiamo scelto, ripensare alcuni concetti che ci sono stati ripetuti
talmente tante volte da apparirci oggi scontati, e che invece non lo sono affatto. Lo
ammetto: a scuola e all’università la storia non mi interessava molto; un po’ me ne
vergognavo, ma proprio non sopportavo la sua lentezza. A un certo punto nella vita però si
vedono le cose con una prospettiva diversa; così, dopo tanti anni nell’ambito della ricerca
strettamente scientifica, ho sentito la necessità di andare a cercare proprio nelle aree che
avevo maggiormente tralasciato: la storia e la filosofia, partendo dall’antichità greco-
romana.

E allora partiamo…
Partiamo!
–5Spiegare il tutto con il niente

Parliamo dunque della medicina secondo gli antichi. Da dove cominciamo?


Fare qualcosa per contrapporsi al dolore e alla malattia è tra gli istinti primordiali
dell’uomo, al pari della ricerca del nutrimento e di un dio da adorare. Tutti modi in fondo
per cercare di porre un argine, per quanto momentaneo, all’avanzare inesorabile della
morte. Ogni giorno che sei vivo, è un giorno che ti avvicina alla morte; tanto vale viverlo al
massimo delle sue potenzialità, quindi stando bene: per questo guaritori, cerusici e uomini-
medicina esistono praticamente in tutte le culture. Se però parliamo di salute a un pubblico
occidentale è naturale partire dalla cultura greca.

Come nasce quindi la scienza medica in Grecia?


Insomma, diciamo pure a voce alta che a quei tempi avevano un sacco di cose da capire con
pochi strumenti. A parte uno, potentissimo: la mente umana, con la sua intelligenza e
immaginazione. Anche la medicina, come tutte le scienze, nasce quindi dalla ricerca
filosofica, che all’inizio era diretta soprattutto verso la natura, in un intreccio speciale di
astrazione e di concretezza. Agli albori, la scienza medica greca era connessa al più
generale contesto culturale, filosofico e scientifico dell’epoca, che considerava l’essere
umano nella sua complessità, nella sua dimensione ambientale, biologica e sociale. La
concezione dell’organismo animale e umano si basava sulla combinazione degli elementi che
danno vita al cosmo e, di conseguenza, la salute venne definita come equilibrio degli
elementi primi, mentre la malattia fu concepita come disequilibrio. Tale equilibrio si poteva
mantenere o recuperare attraverso la prevenzione e la terapia. I Greci insomma avevano già
capito quasi tutto, gettando i pilastri concettuali che ancora oggi noi ricercatori utilizziamo,
magari senza rendercene conto.

Fammi capire: come ha fatto a evolvere il concetto di salute?


La cosa che salta subito all’occhio è che fin dall’inizio la storia della salute è strettamente
connessa alla storia della fisiologia. La definizione di salute, infatti, si modifica in base alla
descrizione di quei fenomeni e meccanismi che sono associati alle funzioni degli esseri
umani, animali e vegetali. Come funziona? Da sempre è questa la domanda al centro della
riflessione medica antica. La concezione di salute e malattia viene dunque costruita sulla
fisiologia degli umori a partire da Alcmeone (VI secolo a.C.) e, sistematizzata in alcune
opere attribuite a Ippocrate (V-IV secolo a.C.), si arricchisce del concetto di pneuma con
Aristotele (384/383-322 a.C.)1. Infine, sarà il compito di Galeno (130- 200 d.C. circa)
ridefinire il tutto in un sistema coerente.
Diciamo che ci si sono messi in parecchi, però bisogna riconoscere che come fonti dei dati
erano messi abbastanza male. Li vedo così: dovevano costruire una casa immaginaria per il
concetto di salute – senza mattoni, calce, cemento e tegole. Senza indicazioni sulla misura
massima, senza la minima conoscenza di come far funzionare un impianto elettrico o
idraulico. Già, perché allora non esistevano né cellule né microbi; né microscopi né
frigoriferi, niente: non avevano nulla se non ciò che era a loro visibile e la forza del
pensiero. Tutto da inventare.

Qual era l’idea greco-romana del funzionamento del nostro corpo?


La concezione generale della salute e della malattia che unifica tutta la medicina greca e
che con Galeno verrà consegnata all’epoca seguente (ci vorranno più di mille anni) si fonda
sull’equilibrio degli umori e sulla corretta circolazione del pneuma. Sempre animati
dall’approccio «se non capisco come funziona non lo posso mettere a posto», i medici greci
giunsero a formulare quella che oggi chiamiamo la teoria degli umori.

Di nuovo la teoria degli umori. È davvero stata tanto importante?


È stata senza dubbio fondamentale, il punto di partenza. Elaborata in connessione con la
teoria dei quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco), questa dottrina ha costituito la base
della medicina e della psicologia antiche. Si narra che Ippocrate – tradizionalmente
considerato il fondatore della scienza medica – raccontasse che fu il genero Polibo (V-IV
secolo a.C.), medico a sua volta, a porre in relazione i quattro elementi fondamentali con gli
umori, sostanze fluide che circolano nel corpo a seconda della sua fisiologia: sangue, bile
gialla, bile nera e flemma, corrispondenti rispettivamente a caldo, freddo, umido e secco.
Una sinergia o un caso fortunato di nepotismo non lo sappiamo, certo è che questa è la
teoria che ha dominato praticamente fino all’altroieri.

Qual è la finalità di questa teoria?


Quella di spiegare la fisiopatologia dell’organismo umano: serve a comprendere la salute e
la malattia, presupponendo una visione dinamica dei nostri fluidi corporei, le cui
caratteristiche mutano con il mutare delle stagioni, degli alimenti e dei comportamenti
umani. In seguito anche Aristotele, discutendo di elementi, ha avuto un’influenza
significativa sulla medicina post-ippocratica: per il filosofo gli elementi fondamentali erano
soggetti a mutamenti e reciproca trasformazione, secondo le polarità caldo/freddo e
secco/umido. Da questo primo livello di composizione degli organismi viventi vengono la
terra, l’aria, l’acqua e il fuoco. Infine, sulla base della tradizione aristotelica Galeno
concepisce la crasi degli umori (dal greco κρᾶσις, cràsis, «mescolanza») come un elemento
unico nel corso della formazione dell’essere umano. Durante la vita tale equilibrio è
soggetto a diversi cambiamenti ma è necessario mantenerlo nei limiti fisiologici, anche con
l’aiuto del medico.

Quindi secondo questa visione cos’era la salute, e come poteva essere ristabilita
dopo la malattia?
In generale per l’umoralismo la salute è direttamente influenzata dall’eccesso o deficienza
di uno qualsiasi dei quattro fluidi corporei presenti nel corpo umano. La parola eucrasia (in
greco εὐκρᾱσία, «buona mescolanza») indicava un giusto e armonioso equilibrio delle
sostanze umorali del corpo umano, essenziale per un buon stato di salute; a questo si
contrapporrebbe una sproporzione – discrasia (in greco δυσκρᾱσία, «cattiva mescolanza») –
tra i quattro fluidi corporei, che genera l’insorgenza di una qualsiasi malattia. Quindi
equilibrio, vasi comunicanti, proporzioni e sproporzioni. Caricare troppo da una parte toglie
a un’altra. Equilibrio e disequilibrio.

Materialmente quali erano le terapie?


Siccome all’epoca c’era grande scarsità di qualsiasi tipo di dato oggettivo o scientifico,
quando dalla teoria si cercava di passare alla pratica si faceva un po’ fatica. O meglio, ci si
arrangiava con quello che si aveva a disposizione come conoscenza, strumentazione e
possibilità di intervenire. Il ristabilimento dell’equilibrio di solito era raggiunto con
interventi di tipo riduttivo come salassi e sostanze purgative, ma anche con una dieta
corretta e con un giusto rapporto con l’ambiente. Gli umori infatti, secondo questa visione,
mutano in stretta relazione con la nutrizione, la respirazione e la qualità della vita;
dipendono dal rapporto fra il corpo umano e la natura, il tempo e la storia. L’equilibrio da
cui nasce la salute, prima ancora che fisiologico, è ambientale, dietetico, ecologico…
persino politico.

Che c’entra adesso la politica?!


Tantissimo. Una delle massime più note della medicina ippocratica afferma: «La democrazia
produce cittadini sani, la tirannia sudditi malati».

Un concetto di salute dei Greci era già più inclusivo di quello odierno.
Certo, perché lo studio dell’organismo umano comprendeva anche quello del suo contesto
ambientale, fisico e sociale. Non era possibile per i medici greci ragionare di salute e
malattia fuori dal contesto ambientale: le diverse configurazioni climatiche (le
«costituzioni») determinano le diverse configurazioni dell’organismo umano tipiche dei
diversi popoli. In Galeno l’equilibrio umorale che plasma i temperamenti degli organi e
dell’individuo nel suo insieme dipende dai fattori ambientali e comportamentali: per
esempio, la successione delle stagioni, con la predominanza di questo o quel fattore
ambientale, influenza in modo specifico l’equilibrio sfaccettato salute-malattia, consentendo
di prevedere il tipo di malattie e la loro evoluzione. Cause primarie di malattia sono il caldo,
il freddo, l’umidità, la secchezza, il vento. Ippocrate, nel suo Arie, acque, luoghi, sostiene
che «quando un medico arriva in una città che non conosce è bene che valuti la sua
posizione, come essa si esponga ai venti e dove si trovi rispetto al sorgere del sole». Della
serie: «ho preso un colpo d’aria» – un buon inizio, come identificazione delle cause del
malessere, ma non sufficiente.

Cosa ci può insegnare oggi lo studio di questo periodo?


Una delle indicazioni che possiamo ricavare è quella di tener presente, nella ricerca delle
cause delle malattie, delle relazioni tra organismo umano e ambiente fisico-sociale. Inoltre,
molti testi del corpus hippocraticum e gran parte del lavoro di sintesi di Galeno mostrano la
centralità della prevenzione. C’è un approccio alla salute che sottolinea l’importanza
dell’alimentazione, dell’attività e del riposo, della sessualità: la cura di sé diventa così un
tratto distintivo del saggio e del filosofo. Le metafore mediche e farmaceutiche per indicare
la funzione della filosofia ricorrono spesso nell’antichità, a cominciare da Democrito, che
paragonò il ruolo della saggezza a quello della medicina nella cura dell’anima: «La medicina
guarisce le malattie del corpo, mentre la saggezza libera l’anima dalle sofferenze».

Aspetti sorprendentemente moderni…


La teoria umorale ha influenzato la storia della salute almeno fino al XVI secolo, e anche in
seguito le idee di Ippocrate e Galeno hanno comunque continuato a essere dominanti:
verranno abbandonate solo quasi alla metà dell’Ottocento. Questo perché, per i tempi e i
mezzi con i quali era stata elaborata, quella teoria era sorprendentemente ricca di spunti e
aveva una sua logica che permetteva di offrire ipotesi esplicative anche nei confronti di
verità un po’ stridenti con la teoria «madre».

Significa che dobbiamo tornare alle sanguisughe e ai salassi?


Macché! Ovviamente no, anche se quegli interventi, nel contesto di una società pre-
scientifica, se ben applicati potevano forse avere alcuni benefici, fossero anche solo di
condizionamento psicologico. Quello che voglio dire è che era una teoria concettualmente
valida e piena di spunti fecondi, anche per il mondo di oggi. Il riconoscimento del
collegamento tra salute mentale e fisica è arrivato molto tardi e sotto molto aspetti è ancora
sconosciuto, a volte misconosciuto o addirittura irriso. La medicina degli umori riconosceva
l’esistenza di un elevato e molto complesso livello di interconnessione all’interno
dell’organismo, e tra questo e diversi fattori esterni. Si trattava di una teoria che era
inadeguata nel merito, ma ricca di verità nel metodo, ovvero nelle regole che ne
contraddistinguevano il funzionamento. E questo aspetto è di grandissima attualità perché
oggi, a differenza di un tempo, abbiamo gli strumenti per comprendere, misurare e studiare
alcune interconnessioni che fino a cinquant’anni fa non erano neanche pensabili. Pensiamo
alla relazione tra cambiamento climatico e tassi di incidenza delle allergie nella
popolazione, oppure nella diffusione delle malattie trasmesse da zanzare. È il momento di
recuperare quell’intuizione, quei ragionamenti primordiali sulla complessità – perché oggi
abbiamo gli strumenti per misurare queste interconnessioni: per trattarle cioè da un punto
di vista pienamente scientifico.

Note
1
Il termine latino tardo pneuma è un calco dal sostantivo neutro greco πνεῦμα, che significa propriamente
«soffio», «aria», dal verbo πνέω, «soffiare». Nello sviluppo della terminologia greca, questo termine, affine a
psyché, ψυχή, «anima», indica il principio di vita e, in modo più specifico, il principio vitale cosciente di ogni
organismo – corrispondente, per significato, al vocabolo latino spiritus.
–4L’arte diventa strumento scientifico

E così, Ilaria, tramite la teoria degli umori per gli antichi la salute e il benessere di
uomini, animali e ambiente erano collegati. Cosa si può recuperare oggi di questa
sensibilità?
Aspetta, andiamo per gradi. Prima parliamo del Medioevo.

Medioevo? Cosa c’entra con la scienza e con la salute?


C’entra, invece. Da un punto di vista superficiale si potrebbe pensare che in questo periodo
non sia successo niente di importante, a parte bruciare le streghe (cosa in realtà accaduta,
purtroppo, ma soprattutto più avanti, nel Seicento): un’epoca di violenze e di barbarie,
anche contro la scienza. In realtà non è proprio così. Delle cose bisogna vedere il diritto e il
rovescio, e soprattutto comprendere che ci sono stati periodi di rallentamento apparente
che hanno preceduto momenti di grande accelerazione.

Che idea di salute aveva l’uomo medievale?


È vero che in quell’epoca c’era un po’ di confusione su cosa fosse scienza e cosa no: non era
ancora arrivato Galileo a formulare il metodo sperimentale. Quando si parlava di salus ci si
riferiva soprattutto alla salvezza dell’anima: assistiamo a una specie di contrasto tra la
salute del corpo e quella dello spirito, che in questa prospettiva viene chiaramente
privilegiato. E la malattia dell’anima, l’eresia, a volte è più temuta persino delle pestilenze.
Non dimentichiamo che la principale causa delle malattie in quel periodo era considerata
l’ira di Dio, che le mandava per punire i peccatori che avevano smarrito la via.

Non sembra il terreno ideale per progredire in campo medico…


E invece di progressi ce ne sono stati, e anche importanti: per vederli però bisogna
guardare un po’ più in là e sapersi affacciare oltre i confini dell’Europa. Parlo di quello che
chiamiamo Medio Oriente, che nell’immaginario comune oggi viene spesso associato a
guerra e terrorismo, e che invece proprio in quel periodo conosce una stagione di
grandissimo arricchimento della scienza medica. Qui, infatti, durante la nostra età di mezzo,
mentre noi in Occidente siamo abbastanza fermi, la medicina viene perpetuata, tramandata
e arricchita, superando gigantesche barriere linguistiche, culturali e religiose. Dove?
Lontano.

Come?
Potremmo definirlo un enorme processo di inclusione e di rielaborazione creativa, che
espande e arricchisce la filosofia e la scienza greco-romana grazie al contributo di altre
civiltà di cui finora non ci siamo occupati, in particolare quella islamica. Infatti l’esposizione
ad altre culture consente, tramite un’opera capillare di traduzione e reinterpretazione, la
maturazione dei fondamenti della medicina e della salute.
Un mezzo miracolo, visto che di barriere ce n’erano parecchie. Qualcuna a caso:
linguistica, logistica, culturale. Bene, pensa che durante l’evo di mezzo i sapienti e i dotti
siriaci fungono da anello di congiungimento tra Impero romano d’oriente e Islam. Così,
attraverso questa prima traduzione e reinterpretazione, i grandi autori greci passano dal
Mediterraneo agli arabi.
È proprio questa interconnessione linguistica e culturale a far sì che la nuova scienza
islamica sia diversa dalla precedente. Non solo attinge alla visione greca, ma addirittura la
accresce. Per esempio, impara un altro linguaggio: quello dei numeri indoarabi. Sì, perché
quelli che noi chiamiamo numeri arabi in realtà hanno le loro origini qualche secolo prima
in India. Pensa a una medicina senza numeri arabi. Pensa a una scienza senza numeri arabi.
Pensa alle targhe senza numeri arabi.
Se questi ultimi sono diventati così popolari ci sarà pure un motivo. Senza di loro forse la
rivoluzione scientifica non sarebbe stata nemmeno possibile. E qui entrano di nuovo in gioco
la circolarità e le interconnessioni, essenziali per tenere viva la medicina antica attraverso
una comparazione e una cross-fertilizzazione delle culture. Cariche di polline esogeno, le
nostre culture riappaiono in Occidente soprattutto attraverso la Spagna, arricchite delle
osservazioni dei grandi medici e scienziati musulmani.

Cross-fertilizzazione? Cosa c’entra il polline?


Quale esempio migliore per dimostrare che l’interconnessione è fondamentale! È la linfa
che scorre sotto, è quello che permette lo sviluppo e il progresso. La stessa conoscenza (sì,
parolona, ma rende bene) potrebbe essere definita come un’infinità di snodi di vasi
comunicanti. Dinamica, non statica: quindi liquida, circolare. La cultura islamica in questo
periodo è vincente proprio perché più aperta agli influssi esterni, che sa raccogliere e
rielaborare. I conquistatori arabi riconoscono e apprezzano il valore della filosofia greca e
della matematica indiana. E mentre maturano tutte queste novità, la cultura islamica
incontra la civiltà persiana, da secoli un faro di scienza e di cultura, soprattutto nella
medicina. Alle università persiane andavano a studiare i migliori studenti arabi: il primo
medico arabo di cui abbiamo notizia – Al-Harith ibn Kalada (m. 634/635), il medico
personale di Maometto – aveva studiato proprio a Jundishapur, in Persia1.

Come avvengono questi scambi, o cross-fertilizzazioni come le hai chiamate?


Come avvengono in natura. Tu mi chiedi di polline e di crossfertilizzazione, e io ti rispondo
che il modello è quello dell’ape. L’ape si sposta e porta con sé polline che feconda la cellula
uovo che si trova nel fiore: è una fecondatrice inconsapevole, anche perché sicuramente NL.
Una cosa che veramente mi stupisce di quel periodo è che gli intellettuali si muovevano
tantissimo: come le api. E lo facevano a dispetto dei pericoli e della carenza di infrastrutture
– era normale mettersi in viaggio per giorni, spesso a piedi o a cavallo, per andare a
studiare presso una determinata scuola o per cercarsi direttamente dei maestri illuminati,
in modo da acquisire e riportarsi a casa il loro sapere generativo. Senza contare poi le
barriere più difficili da abbattere, quelle linguistiche e culturali.
Mica come oggi che con un click entri nel passato, nel presente e nel futuro, mentre alla
lingua che non capisci ci pensa Google Translator, arabo e cinese compresi.
In Europa, nel frattempo, finalmente iniziano a essere fondate le prime università ed
entrano in scena i clerici vagantes2, i primi cervelli in movimento, che trovano anche nella
Casa della sapienza della futura Baghdad il perno di un vero e proprio sistema di brain
circulation. Cioè, già avevano capito che le intelligenze devono muoversi, perché solo
attraverso il loro incontro la conoscenza si espande.

Così però distruggiamo tre cliché: il Medioevo come periodo buio e l’Islam come
religione esclusivamente oscurantista. E poi il fatto che i «cervelli in fuga» siano
un fenomeno recente.
Ogni tanto bisogna riconoscere alcuni aspetti positivi che a volte passano inosservati. Se
siamo arrivati alla terapia genica è anche perché abbiamo saputo arricchire la scienza.
Volendo riassumere, potremmo dire che il Medioevo è un periodo di trasformazione molto
articolato della competenza medica e del concetto di salute, in cui si iniziano a rafforzare le
discipline verticali, ma contemporaneamente rimane sempre presente la figura del medico-
scienziato-saggio che ha una visione complessiva dell’uomo e dell’universo. Inoltre, si
consolida la consapevolezza che i sapienti devono muovere il loro sapere verso aree di
eccellenza perché è attraverso queste ultime che si riveleranno nuove sorprendenti
dimensioni mediche e scientifiche tese a migliorare la salute.

…e arriviamo al Rinascimento.
Eh già, inizia una grandissima convergenza di saperi che trasforma l’approccio ai pilastri
del pensiero antico. Una nuova visione in cui scienza, tecnologia e arte si sposano, in una
sintesi che sarà incarnata da una figura come quella di Leonardo, vero prototipo del genio
rinascimentale, ma che ritroviamo anche in altri personaggi non meno fondamentali per la
storia della medicina. Come Girolamo Fracastoro (1476 ca.-1553), considerato uno dei
medici più geniali di tutti i tempi, o Andrea Vesalio (1514-1564), il fondatore della moderna
anatomia.

Direi di partire innanzitutto dall’anatomia.


È fondamentale, perché permette di passare da un concetto tradizionale di medicina intesa
come arte – perché tale era considerata nelle università medievali: un’ars, un’attività
materiale per certi versi minore rispetto alla filosofia e alla teologia – alla medicina come
scienza. Senza l’osservazione dal vero del corpo umano, attraverso lo strumento principe
della dissezione dei cadaveri, non sarebbe stato immaginabile un approccio scientifico sul
quale si sono poi appoggiate le altre discipline, dalla fisiologia alla chirurgia, alle
neuroscienze.

Hai accennato ad Andrea Vesalio: perché la sua opera è così importante?


È un grande rivoluzionario: in anatomia si può parlare di un prima e un dopo Vesalio. In lui
arrivano a coincidere il rigore dello scienziato e la sensibilità dell’artista e grazie alle
stupende tavole anatomiche che corredano le sue opere si formeranno generazioni di
medici, in una linea di pensiero che arriva praticamente fino ai giorni nostri. Se ancora oggi
guardiamo le tavole di un atlante di anatomia, c’è ben poco in più rispetto alle intuizioni di
Vesalio. Con lui l’arte si presta alla scienza, per permettere alla scienza di manifestarsi e di
essere se stessa.

Ma chi era questo Vesalio?


Nasce a Bruxelles, figlio d’arte, dato che suo padre era farmacista presso la corte imperiale,
e fu uno dei professionisti più bravi del suo tempo: non si diventa per caso medico personale
dell’imperatore Carlo V e di suo figlio Filippo II (che non facevano un passo senza di lui).
Fin da giovane però scoprì di avere un pallino: lo studio dell’anatomia. Per questo,
giovanissimo, durante gli studi a Parigi iniziò a frequentare i cimiteri e i patiboli per
procurarsi i «materiali» che gli servivano per approfondire le sue indagini. Per lo stesso
motivo decise a un certo punto di trasferirsi a Padova, attratto dalla libertà di ricerca e dalla
disponibilità di cadaveri da dissezionare.
Tornando al movimento di cervelli di cui parlavamo prima, Vesalio parte dalle Fiandre e, a
23 anni, si addottora all’Università di Padova e praticamente in contemporanea viene
nominato professore di chirurgia, con la condizione espressa di insegnare l’anatomia. Cosa
che fa a modo suo: per le dimostrazioni si serve di uno scheletro intero e di singole ossa.
Ricorre anche a disegni per illustrare la forma dei vasi e dei nervi. I suoi studi meticolosi e
attenti lo portano su di un terreno inaspettato: si rende conto che quello che insegna ai suoi
allievi, che all’epoca era ancora basato soprattutto sull’opera di Galeno, non corrisponde del
tutto a ciò che vede ogni volta che osserva un cadavere.

Perché?
Andando avanti nelle osservazioni si rende conto che nell’anatomia galenica ci sono degli
errori: per esempio, nella struttura della mandibola e della mascella, oppure nel fegato, che
secondo Galeno avrebbe dovuto avere cinque lobi. Alla fine dallo studio attento dei testi
arriva alla conclusione che l’anatomia di Galeno, fino ad allora ritenuta umana, era invece
basata sulle dissezioni di animali, in particolare delle scimmie. Quindi Vesalio intuisce che è
necessario un aggiornamento; la comparazione, la diversità lo spingono a capire che c’è
bisogno di un nuovo atlante anatomico, in linea con le conoscenze acquisite e con la
sensibilità del tempo. E che deve essere reso pubblico e fruibile.

È per questo che la sua opera è così rivoluzionaria?


Il De humani corporis fabrica, pubblicato nel 1543, è subito percepito dai contemporanei
come un nuovo inizio della scienza anatomica per l’ampiezza, la fedeltà al vero e l’intrinseca
bellezza delle oltre 300 illustrazioni. Con questo trattato Vesalio ridisegna l’anatomia, sfida
apertamente l’autorità di Galeno e dimostra la necessità di rifondare una nuova anatomia
umana. Sfodera il suo coraggio attaccando convincimenti radicati da circa 2000 anni. E
come lo fa? Con l’arte.

Di quest’opera spesso vengono in mente le bellissime xilografie, alcune delle quali


ancora ben presenti nell’immaginario collettivo.
La Fabrica non è solamente una pietra miliare nella storia della medicina, ma è anche un
capolavoro dal punto di vista artistico, reso in maniera superba dalle immagini di Jan
Stephan van Calcar (1499-1546), compatriota di Vesalio e allievo del Tiziano, e dall’abilità
dello stampatore Iohannes Herbst di Basilea (detto Oporinus, 1507-1568). Gli argomenti
sono trattati nell’ordine seguito da Vesalio durante le sue lezioni: ossa, muscoli, vasi
sanguigni e nervi, organi interni e cervello. Sfogliando le pagine, l’occhio del lettore va
subito alle tavole, forse le più raffinate rappresentazioni anatomiche mai compiute. Ma non
si tratta solo di una scelta estetica: il medico fiammingo vuole soprattutto dimostrare che
l’anatomia è fondamentale nella medicina, e che per questa è a sua volta necessario uno
studio dal vero.
Ecco, vorrei soffermarmi su questo punto e i deboli di stomaco possono tranquillamente
saltare alla prossima domanda. Fare lo studio dell’anatomia dal vero significa sezionare
cadaveri in ogni loro parte nella stanza settoria e annotare le osservazioni: un lavoro che
attraversa la vita e la morte e ti mette a contatto con quest’ultima e con l’inevitabilità della
sua azione, ovvero la decomposizione. A quei tempi non c’erano macchine fotografiche, né
mascherine e bisturi accurati, né frigoriferi, quindi era proprio un lavoraccio. Ma Vesalio
attraverso il suo esempio mostra che la via del futuro e della conoscenza è quella dello
studio con materiale biologico vero, piuttosto che la ripetizione mnemonica degli
insegnamenti degli antichi. Si tratta di una rivoluzione assoluta: la nascita della medicina
come scienza.

I contemporanei come la presero?


Alcuni malissimo. I sostenitori della tradizione non gliela perdonarono: il suo maestro a
Parigi Jacques Dubois (detto Jacobus Sylvius, 1478-1555), ardente galenista, arrivò a dargli
del pazzo, definendolo «mostro» ed «esempio più pericoloso di ignoranza, ingratitudine,
arroganza e empietà». Anche il suo successore sulla cattedra di Padova, Gabriele Falloppio
(1523-1562), pur con tutt’altro stile non gli risparmierà le critiche. Insomma fu insultato,
vilipeso, offeso. Spesso chi decide di andare controcorrente deve essere pronto a pagare in
prima persona il prezzo delle sue idee. Ma le idee nuove sono sempre controcorrente, sennò
sarebbero vecchie.

Lui come reagisce?


Lascia la sua cattedra a Padova, brucia tutti i suoi appunti e si trasferisce in Spagna a fare il
medico di Carlo V. Continuerà tutta la vita a difendere le sue scoperte dagli attacchi, ma a
28 anni il periodo più fecondo della sua vita è forse irrimediabilmente terminato. Morirà
nell’isola di Zacinto nel mar Ionio nel 1564, non ancora cinquantenne, al ritorno da un
viaggio abbastanza misterioso. Una versione racconta che era partito per la Terrasanta, non
si sa bene se per un pellegrinaggio o perché gli era stato imposto come viaggio di
espiazione, in quanto accusato di aver sezionato dei corpi ancora viventi. Sta di fatto che da
questo viaggio non tornerà mai più. Chissà, forse avrebbe voluto rientrare a Venezia o a
Padova, e qui difendere di nuovo la sua opera e magari – perché no – riprendere a insegnare
all’università. Ma il viaggio, e forse anche un’epidemia di peste, alla fine gli risulteranno
fatali.
Pensa che beffarda la vita – anzi, che beffarda la morte. Il corpo di Vesalio, il corpo che ha
disegnato i corpi che hanno fatto studiare tutti i medici del mondo, non è stato mai trovato.

Perché la figura di Vesalio è così importante oggi?


Fu davvero un personaggio straordinario, un prototipo di Homo europaeus: per esempio si
spostò moltissimo fin da studente, un po’ come accade agli studenti di oggi con il
programma Erasmus. La sua storia ci dimostra di nuovo che quello dei cervelli in fuga è un
falso problema, perché «cervello» si diventa anche andando nei posti migliori per
apprendere. Ma un cervello deve anche potersi spostare per insegnare o esercitare la
professione per poter dare il meglio. Quindi deve muoversi.
In lui comunque vedo soprattutto l’esempio di persona animata da ciò che considero una
missione: un uomo che ha veramente creato un’opera straordinaria, non solo nei contenuti
ma anche nella forma e, in un certo senso, nel modo di presentarla. Una delle grandi
rivoluzioni dell’opera di Vesalio sta nella trasversalità, attraverso il sapiente utilizzo delle
immagini ottenute da cadaveri sezionati: disegni non solo di altissima qualità, come
dicevamo, ma che soprattutto implicavano l’uso della prospettiva, con un realismo
totalmente inedito. Per la prima volta vengono usati massicciamente e sapientemente una
serie di trucchi ottici per far comprendere meglio a chi studia la complessità dell’anatomia.
Con un frullato di parole, si potrebbe dire che grazie all’uso della prospettiva si dà allo
studente anche una prospettiva diversa: quella delle tre dimensioni. Ti pare poco?

Veri e propri effetti speciali.


Sfogliando la Fabrica – anche elettronicamente, andate a guardarla, basta un click –
colpisce poi il sistema delle legende, il fatto di identificare alcune aree del disegno e di
associarle a note, secondo un uso forse derivato dai libri di botanica. E poi c’è l’armonia
perfetta tra contenuti innovativi, senso artistico e tecnica grafica, sviluppata da Vesalio per
cercare di rendere il più possibile fruibili le sue esperienze di sezionatore. Un lavoro che
ancora stupisce, se solo pensiamo alle condizioni in cui è maturato, per esempio senza
sistemi di conservazione e di salvaguardia dal deterioramento dei corpi.

Insomma, per Vesalio hai una vera e propria passione.


A volte mi chiedo come abbia potuto svolgere un lavoro di tale complessità in quelle
condizioni. Quest’uomo morto a 50 anni, già a 28 aveva pubblicato il suo capolavoro: l’età di
un millennial di oggi. E soprattutto mi attrae il coraggio intellettuale con cui Vesalio capisce
che deve andare a osservare direttamente la materia che vuole studiare, che non può
limitarsi ad arrivare a conclusioni sulla base di quello che dicono le autorità in materia,
anche a rischio di andare contro una teoria dominante.

Accennavi al fatto che Vesalio è stato un po’ il Copernico della medicina…


Per una coincidenza straordinaria – ma sarà una coincidenza? – l’opera De revolutionibus
orbium coelestium, in cui Niccolò Copernico espone dettagliatamente il sistema
eliocentrico, precede di poche settimane la pubblicazione del De humani corporis fabrica
(giugno 1543). Ora, è assai improbabile che i due si siano incontrati, eppure è abbastanza
straordinario che entrambi, tra i maggiori scienziati dell’epoca, siano andati proprio in Italia
a studiare. C’è stato un tempo in cui il nostro Paese era il centro di questa enorme rete di
interconnessioni, che percorrevano tutta l’Europa. In particolare Padova, dove studiarono
entrambi e dove si laureò anche William Harvey, che qualche decennio più tardi scoprì il
sistema cardiocircolatorio – un’altra scoperta determinante per la nascita della nuova
scienza medica. Non è un caso se uno storico della scienza come Herbert Butterfield abbia
descritto Padova come «la culla della rivoluzione scientifica».

E così arriviamo alla scienza moderna.


Il pensiero scientifico moderno comincia a prodursi in questa fase della storia
dell’Occidente, pur dando frutti maturi soprattutto nel XVII secolo, quando si impone il
metodo galileiano, basato non solo sull’osservazione attenta della realtà – cosa che faceva
anche Aristotele – ma anche sulla riproducibilità delle esperienze e sull’utilizzo innovativo
della matematica. Nasce un nuovo modello di conoscenza, verificabile da chiunque (almeno
in linea teorica), e basata sui fatti più che sulla tradizione e sull’intuizione.
Dobbiamo riconoscere che la cosiddetta scienza antica era una realtà un po’ rudimentale,
un insieme di cognizioni che spesso sovrapponevano ambiti molto diversi e poco
assimilabili. Certo da qualche parte bisognava anche iniziare, e alcuni concetti erano un po’
sfuggenti da afferrare singolarmente. Come abbiamo visto, la teoria degli umori ci ha
regalato una visione di insieme che sostanzialmente attribuisce le cause delle malattie ai
disequilibri fra quattro umori. Prevede anche che l’eccesso o la deficienza di quegli stessi
umori influenzino direttamente la salute e il temperamento. Ci sta: dopo l’arrabbiatura
arriva il mal di testa. Per non parlare del colon irritabile.
Diciamo che non era facile senza numeri arabi e con nozioni appena embrionali di
biologia, di chimica e di fisica, di epidemiologia, di climatologia e via dicendo… Possiamo
anche concedergli che hanno fatto un buon lavoro con quello che avevano. C’era un
ragionamento di base che stava abbastanza in piedi. Finché non è stato travolto dal metodo
scientifico.
È comunque con la rivoluzione scientifica che vengono poste le basi del mondo moderno,
e noi ricercatori oggi siamo un po’ tutti figli di Galileo e di quei pionieri che a un certo
punto decisero che per seguire al meglio l’esempio dei grandi maestri bisognava battere
strade nuove, non limitarsi a mettere i piedi sulle loro impronte. A costo di essere attaccati,
contrastati, e a volte anche di dover lasciare la propria casa e il proprio Paese.

Un aspetto che continui a sottolineare è quello delle interconnessioni.


La storia che stiamo raccontando è fatta tutta di interconnessioni: tra culture, lingue e
Paesi, ma anche tra arte e scienza. La grande scienza non è sempre rigidamente settoriale,
spesso anzi vince proprio chi riesce a portare da un campo all’altro idee, metodi e punti di
vista innovativi. Queste storie ci fanno capire che nemmeno in passato l’orizzonte dei
ricercatori è stato limitato a un singolo Paese: fenomeni che spesso ci sembrano recenti
come l’interdisciplinarietà e la «circolazione dei cervelli» in realtà sono sempre esistiti, e a
maggior ragione non devono far paura oggi.

Stiamo parlando di conquiste maturate nel corso di molti secoli: una transizione
così lenta era necessaria?
Sì, perché doveva preparare le basi per un futuro diverso. Se per esempio prendiamo la
rivoluzione scientifica, dobbiamo ricordare che la svolta non fu immediata: ci sarebbero
voluti ancora secoli perché certe incrostazioni e superstizioni venissero rimosse. Del resto,
lo stesso Galileo Galilei (1564-1642), padre riconosciuto della scienza moderna, continuò
tranquillamente per anni a confezionare oroscopi su richiesta, per arrotondare la paga da
docente. Con il progresso delle conoscenze e l’accento su un «nuovo» sapere, scientifico e
rigoroso, inizia però anche per forza una maggiore specializzazione degli studiosi nelle varie
discipline. Comincia una verticalizzazione assolutamente necessaria e molto fertile. In un
certo senso però si inizia anche a perdere quello sguardo ampio che caratterizzava gli
studiosi di un tempo, e con esso il gusto della reciproca contaminazione tra conoscenze e
culture. Per questo ricordare e studiare figure come quelle di Leonardo e di Vesalio è
sempre essenziale. Leonardo (1452-1519), di cui proprio nel 2019 ricorre il
cinquecentesimo anniversario della morte, probabilmente era NL. Chissà, forse ci starebbe
pure, visto che usava la scrittura speculare.
Una riflessione che faccio spesso è che invece oggi le cose si muovono velocissime. Non
solo: mentre un tempo l’illuminazione o l’idea rivoluzionaria bisognava andarsele a cercare
nello «sconosciuto», oggi molto di ciò che allora era sconosciuto non solo è conosciuto, ma è
pure disponibile a un click di distanza. Vuoi conoscere l’anatomia dell’ornitorinco, quella
specie di castoro con il becco di papero che fa le uova? E che per di più vive solo in
Oceania? Digita e clicca. Per cui scoprire soluzioni nuove dovrebbe essere più semplice.
Ipotizziamo che le informazioni di cui avremmo bisogno per fare una grande scoperta o
invenzione ci siano già e siano accessibili. Cosa serve? L’idea. E l’idea è molto più facile
trovarla se si guarda un po’ più in là.

Note
1
Jundishapur era una città persiana che si trovava nella regione sud-occidentale dell’Iran, nell’attuale
provincia di Khuzestan. Per secoli la città fu il centro intellettuale dell’Impero sasanide (224-651) e sede della
nota «Accademia di Jundishapur». Nel corso del VI e VII secolo, in particolare, l’Accademia diventò il centro
medico più importante del mondo tardoantico.
2
Con l’espressione clerici vagantes («chierici vaganti») nel Medioevo si indicavano quegli studenti che erano
soliti spostarsi in tutta Europa per poter seguire le lezioni che ritenevano più opportune: la cosiddetta
peregrinatio academica, una vera e propria esperienza di mobilità favorita anche dall’assenza di frontiere.
–3Mai da dentro, sempre da fuori

Nel capitolo precedente abbiamo visto come Andrea Vesalio, considerato il padre
dell’anatomia moderna, sia probabilmente morto di peste.
Già, la peste: la peggiore nemica da combattere, l’epidemia letale per antonomasia. Pensa
che ancora all’inizio del Cinquecento «peste» era un termine generico per indicare un po’
tutti i morbi, e spesso si fa fatica a capire dalle fonti di che malattia si trattasse nei casi
specifici. Fin dagli albori dell’umanità le pestilenze poi erano viste come un castigo divino,
accompagnate dall’ira tanto nell’Iliade quanto nella Bibbia. Colpivano il povero e il ricco, il
semplice contadino così come il papa o l’imperatore. Una livella sociale.

Dal punto di vista della teoria degli umori come erano percepite le malattie
infettive?
Direi in maniera disordinata e abbastanza confusa, come si farebbe se si fosse bendati.
Infatti gli studiosi di allora lo erano, non potevano neanche immaginarsi la miriade di mondi
paralleli che stavano per scoprire, come per esempio quello dei microbi. Fin dall’antichità ci
si era resi conto che alcune malattie hanno la capacità di trasmettersi in qualche modo da
un individuo all’altro, diffondendosi anche in regioni diverse da quella d’origine. Solo che
per secoli non si era riusciti bene a comprendere come e perché. Si credeva che le epidemie
fossero provocate da corruptione e infectione: rifacendosi ai classici, si diceva che
l’infezione sarebbe stata legata a eventi naturali come sfavorevoli congiunzioni astrali,
eruzioni vulcaniche, esalazioni di acque paludose, sporcizia, fetore e miasmi provenienti dai
corpi putrefatti e corrotti. Insomma molto fumo e niente arrosto.
Una logica conclusione poteva essere quella di stare fisicamente più distanti dagli
ammalati, i quali potevano essere fonte di contagio. È così che nascono le antesignane delle
maschere con i filtri assoluti: per proteggersi, a un certo punto i medici iniziano a indossare
una maschera a forma di becco allungato, per tenersi distanti dall’ammalato, all’interno
della quale sono state messe un po’ di paglia e alcune essenze aromatiche a mo’ di filtro.

E i cosiddetti untori che ruolo avevano? Ne scrive diffusamente Alessandro


Manzoni a proposito della famosa peste di Milano del 1630.
Ci credettero anche medici esperti, come Alessandro Tadino (1580-1661), che si batté con
ogni energia per impedire il diffondersi della peste. Da un certo punto di vista è
comprensibile: persino oggi, nell’era delle tecnologie e dell’informazione, le varie teorie del
complotto continuano più che mai ad avere successo. In fondo trovare un colpevole sempre
pronto all’uso (una volta gli untori, oggi magari i medici che somministrano i vaccini) ha
anche un aspetto rassicurante: ci risparmia la fatica di mettere in discussione le nostre
convinzioni e i nostri comportamenti e soprattutto ci assolve da ogni responsabilità. Perché
qualunque cosa succeda è colpa di qualcun altro.

Possibile però che non ci si rendesse ancora conto dei meccanismi del contagio?
Eccoci al punto di svolta. Bisogna ammetterlo: in questo caso la teoria classica medica,
basata sugli umori, non era proprio più adeguata. Non era più in grado di spiegare la
fisiopatologia umana, anche se attraverso di essa si provava a individuare le cause del
contagio di alcune epidemie. L’umoralismo metteva giustamente in risalto l’influsso
dell’ambiente sulla salute, ma gli mancava un tassello tanto piccolo quanto fondamentale: la
scoperta dei microrganismi, gli agenti patogeni responsabili praticamente di tutte le
malattie infettive.

Dunque un limite teorico che derivava da un limite tecnologico.


Non si trattava solo di questo: in questo come in altri casi la vecchia cultura scientifica
appariva sclerotizzata, studiata e trasmessa come un monolite incapace di rinnovarsi. Una
mentalità che, per rimanere ai Promessi sposi, Alessandro Manzoni ritrae perfettamente
nella figura di don Ferrante, vero campione della vecchia cultura del Seicento, secondo cui
«in rerum natura, non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che
il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste».

Tornando alle pestilenze, Manzoni parla spesso anche di lazzaretti. Erano così
terribili?
Certo che quello dei Promessi sposi assomiglia proprio a un girone infernale, senza acqua
potabile e con trenta persone per stanza, costrette a dormire per terra o sulla paglia
imputridita, nutrendosi di pane ottenuto con intrugli indigesti. Ambienti del genere erano
malsani comunque, a prescindere dalla peste nera. Ci sono stati però anche casi in cui i
lazzaretti – tenuti meglio e in condizioni meno estreme – contribuirono a contenere il
contagio, talvolta migliorando anche le condizioni delle persone che vi erano ricoverate. In
fondo, ancora oggi uno dei primi passi per impedire la diffusione della malattia è
l’isolamento dei soggetti contagiati. Misure come la quarantena, ovvero quaranta giorni di
isolamento a cui venivano sottoposte le navi provenienti da zone colpite dalla peste nera nel
XIV secolo, sono in uso anche oggi. Quaranta giorni come il diluvio, la permanenza di Mosè
sul Sinai, la durata del processo di imbalsamazione nell’antico Egitto, o ancora il tempo
ritenuto necessario per la purificazione della donna dopo il parto.

Come nascono i lazzaretti?


L’Italia fu un vero e proprio laboratorio per comprendere come le infrastrutture e, in
generale, l’ambiente avessero un ruolo fondamentale nella diffusione delle malattie. A
cominciare da Venezia, dove per la prima volta si sperimentò un approccio che potremmo
definire, con molte virgolette, «epidemiologico». Molti aspetti di questi morbi non potevano
ancora essere compresi, ma si iniziò comunque a capire che il contatto con persone affette
da alcune malattie poteva favorire l’insorgenza di altri casi. Tornava al centro
dell’attenzione un altro aspetto di interconnessione, quella tra salute dell’uomo e ambiente,
e di come essa potesse facilitare o meno l’insorgere e la trasmissione di malattie. Venezia
era caratterizzata da un afflusso continuo di mercanti e viaggiatori da tutto il mondo. Fu
chiaro che il rischio di contagio e di diffusione era strettamente legato al movimento delle
persone e alle caratteristiche ambientali: le soluzioni vennero quindi cercate sfruttando le
caratteristiche stesse della città, isolando i pazienti su alcune isole della laguna.
Grazie ai lazzaretti si svilupparono concetti e procedure che poi si sarebbero rivelati
essenziali nel controllo delle malattie diffusive. Si comprese, per esempio, che il contagio
può avvenire senza manifestarsi immediatamente, che c’è un periodo di incubazione nel
quale occorre tenere d’occhio chi potrebbe aver contratto la malattia. Si capì poi che
bisogna rifuggire il contatto non solo con le persone malate, ma anche con i loro oggetti e
indumenti, i cadaveri e i locali nei quali hanno soggiornato. Così si prese a provvedere negli
stessi lazzaretti alla distruzione del materiale infetto, in una sorta di sanificazione ante
litteram: non si trattava ancora di sterilizzazione in senso moderno, ma perlomeno si
iniziava ad avvicinarsi all’idea. E così, poco a poco, si cominciò anche a intuire la causa del
secolare enigma del contagio (anche se per risolverlo definitivamente ci sarebbe voluto
ancora molto tempo).

In che modo si giunge a questa prima intuizione?


Un pensiero nuovo e coraggioso arriva da un contemporaneo di Vesalio, Girolamo
Fracastoro, medico, filosofo e astronomo: quello che si dice un innovatore «di sostanza».
Pubblica nel 1546 a Venezia il trattato De contagione et contagiosis morbis et curatione (Sul
contagio e sulle malattie contagiose), che ha per oggetto proprio il meccanismo dei contagi.
Che a noi oggi può anche sembrare ovvio, ma dobbiamo sempre ricordarci che gli strumenti
essenziali di verifica appariranno più di tre secoli dopo. Per scoprire le cose però bisogna
prima immaginarle: Fracastoro è dotato soprattutto di immaginazione ed è il primo a
ipotizzare che le infezioni siano dovute a microrganismi portatori di malattia, con la
capacità di moltiplicarsi nell’organismo e di contagiare altri soggetti attraverso la
respirazione o altre forme di contatto. Quindi fornisce una causa (microbi) a più effetti
(malattia e contagio).
Calcoliamo che a quei tempi lo «spettro percepito dell’esistente» si limitava solo a ciò che
si poteva osservare a occhio nudo. Se paragoniamo quello che era visibile allora e quello
che è visibile oggi – dalle stelle lontane migliaia di anni luce, fino ai corpuscoli dentro le
cellule degli organismi viventi, e poi ancora più giù fino alle molecole – possiamo
considerare che a Fracastoro mancava almeno il 99,9 per cento delle informazioni. Tutto
questo panegirico per dire che fu capace di immaginare quei microbi che sarebbero stati
scoperti – quindi visti – circa duecento anni più in là.

Come è stato possibile un simile balzo d’ingegno?


Fracastoro aveva preso a studiare una malattia molto diffusa e assai temuta: il «mal
francese», ovvero la sifilide; poi in base ai suoi studi nel 1530 aveva pubblicato a Verona il
poema Syphilis sive De morbo gallico (Della Sifilide, ovvero Del morbo gallico): un vero e
proprio trattato scientifico in versi latini, un esempio perfetto di trasversalità tra quelle che
oggi chiameremmo cultura umanistica e cultura scientifica (e che all’epoca, come abbiamo
visto, non erano così distinte). Partendo dalle osservazioni sul campo, Fracastoro si rese
conto che alcuni elementi molto consistenti si opponevano alla vecchia dottrina umorale a
favore di una nuova teoria. Diciamolo, certe cose proprio non ci stavano dentro – tra cui il
contagio, che però per molti versi era evidente (spesso si ammalano interi nuclei familiari, o
reti di persone che sono state in contatto).
Sarà proprio nel successivo De contagione et contagiosis morbis che Fracastoro costruirà
un nuovo paradigma, che stravolgerà l’idea che causa di malattia siano i miasmi1. In effetti,
il cattivo odore al massimo provoca nausea e fa vomitare, ma di certo non è in grado di
causare febbri e pestilenze: ci doveva essere sotto qualcos’altro. Anzi ci doveva essere
dentro qualcosa. In fondo accade spesso che, tanto nella scienza in generale quanto nello
studio della salute in particolare, le verità siano per così dire mutevoli. Quello che è dato
per vero oggi si trasforma in qualcosa di nuovo, che evolve fino a quando non si scontra con
alcune certezze faticosamente consolidate fino a quel momento. E allora devi decidere: se
dare retta al nuovo che avanza, oppure a quello che ti hanno insegnato. E non è così
semplice.

E Fracastoro cosa decide?


La sua prima grande pensata è quella di materializzare il miasma. Intuisce che non il vapore
esalato dalla putretudine, non l’aria «corrotta», ma un veleno – virus in latino2 – è il
presunto agente dei morbi epidemici. Il nemico diviene materiale, potenzialmente tangibile,
e quindi si può combattere.

Un bel salto in avanti.


Sì, e questo è solo la prima parte. Fracastoro aveva sostanzialmente capito che dentro il
miasma doveva esserci qualcosa, e fin qui ci siamo. Ma aveva pure capito che questo
qualcosa doveva essere in grado di muoversi e di amplificarsi. Ovvero, spostarsi da un
essere infetto a uno sano, trasformare il sano in ammalato e dagli ammalati propagarsi
nuovamente ad altre persone sane, rendendole ammalate. Quindi Fracastoro non solo diede
una connotazione materiale all’agente causale – ma, attraverso i suoi ragionamenti sul
contagio, fu in grado di attribuirgli alcune caratteristiche. La componente materiale venne
da lui concepita sotto forma di seminaria, piccoli semi di infezione che interagivano con un
ambiente congeniale. Come i semi per il terreno, i seminaria contagiorum – questi corpi
invisibili che trasmettono le malattie – si annidavano e crescevano tra gli umori corporei a
essi più affini. Un buon compromesso fra gli umori e i microbi.

Come si diffondevano questi «semi»?


Secondo Fracastoro esisteva per esempio una predilezione dei morbi epidemici per le classi
povere, perché certo sporcizia e malnutrizione non aiutano. Questo mi sembra un pensiero
ancora valido oggi, quindi un’osservazione acuta. Secondo lui infatti i seminaria
simpatizzano con gli umori crudissimi propri dei pauperes che si ammassano in baracche e
accampamenti, ospizi e taverne: soldati, pellegrini, mendicanti e vagabondi. Ma in realtà c’è
un altro aspetto che accomuna i luoghi e le persone: il movimento.
Perché? Perché il contagio avviene tra un essere infetto e uno recettivo, e nella
stragrande maggioranza dei casi questo presuppone una vicinanza fisica. Nel contagio
l’uomo è anche mittente, ha una funzione di amplificatore: dalla superficie del suo corpo i
seminaria si distaccavano come gli impalpabili detriti che si scrostano dai muri delle case
battute dal vento e dalla pioggia. È questa la grande intuizione di Fracastoro: sono questi
seminaria, non l’aria corrotta, a diffondere le malattie contagiose.

Qual è il contributo di Fracastoro nello sviluppo dell’epidemiologia?


Quello che esprime è un antico sapere, che però lui sa riformulare, ripensare, reinventare.
Fracastoro arricchisce alcuni concetti esistenti inserendovi una «verità compatibile».
L’ambiente e i luoghi assumono un ruolo, non ben chiaro ma evidente; il movimento acquista
importanza, così come la assumono la vicinanza fra le persone, la povertà, l’igiene. Il
miasma inoltre si arricchisce di qualcosa di invisibile, ma vivo. Dunque Fracastoro sembra
in un certo senso scomporre lo stato di malattia in più determinanti, ognuno dei quali crea
una crepa nella teoria prevalente e precedente.

Che impatto ebbero le sue intuizioni?


Nonostante i nuovi paradigmi da lui avanzati, Fracastoro, considerato uno dei medici più
geniali di tutti i tempi, non riuscì a scalzare il modello galenico aerista. Questo verrà sfidato
solo a partire dalla seconda metà del Settecento: dapprima grazie all’operato di altri due
medici italiani, Francesco Redi (1626-1698) e Lazzaro Spallanzani (1729-1799), e solo più
tardi tramite il fermento di Louis Pasteur (1822-1895).

Ma come mai così tanto tempo?


Mancava ancora un tassello importante: i microrganismi. Un altro concetto che a noi,
nell’epoca dei microscopi elettronici, sembra quasi banale, ma che in realtà non lo è affatto.
Animaletti tanto piccoli da essere invisibili, che vivono e si riproducono dentro di noi: una
prospettiva che a un antico Greco o a un uomo del Medioevo sarebbe sembrata
inconcepibile. Anzi, secondo me avrebbe potuto destare sospetti nell’Inquisizione. Questo
perché, come dicevo, per secoli l’occhio nudo è stato il nostro unico strumento di
osservazione per quell’infinitesimo percentuale che ci è permesso di vedere senza ausili
tecnologici.

E come si arriva alla fine a immaginare questo microcosmo dentro di noi?


Per caso. Come una pallonata che sfonda una vetrata. La rivoluzione arrivò da uno studioso
che con la medicina c’entrava poco o nulla: Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723), ottico e
naturalista olandese passato alla storia per essere stato il primo a osservare microrganismi
usando un microscopio. Grazie ai suoi studi si aprì un mondo nuovo, fino ad allora
impercettibile: di punto in bianco ci si rese conto che esistevano esseri viventi invisibili a
occhio nudo, ma che grazie alle lenti di ingrandimento potevano finalmente apparire ai
nostri sensi.

Com’è che Antoni van Leeuwenhoek diventò il primo «microscopista»?


Per caso: l’universo dei microbi si aprì grazie a una spinta trasversale proveniente da
tutt’altro campo. La pallonata, appunto. Van Leeuwenhoek sfruttò per le sue ricerche i
grandi progressi compiuti nel Seicento nella costruzione delle lenti a magnificazione, allo
stesso modo di Galileo Galilei ma con l’obiettivo – in tutti i sensi – opposto. Mentre Galileo le
impiegava per osservare i corpi celesti, cioè oggetti molto grandi e lontani, lo scienziato
olandese le usò, all’inizio in modo del tutto accidentale, per vedere i piccolissimi esseri con
cui senza rendercene conto abbiamo ogni giorno a che fare. Non solo microrganismi: van
Leeuwenhoek fu per esempio anche il primo a osservare al microscopio i globuli rossi.

Veramente sorprendente, se pensiamo che non era un medico.


In realtà, van Leeuwenhoek è diventato scienziato sul campo: aveva studiato poco e non
proveniva dai circoli scientifici e culturali del tempo. Iniziò come contabile in una bottega di
stoffe, infatti la creatività si attacca a tutto e trova sempre la sua strada. Un vero NL.

Certo, era olandese…


Vero. Bravo a fare i conti, aprì un negozio che vendeva tessuti di qualità, passamanerie e
lavorazioni particolari. La curiosità che frulla nella testa di un genio però trova sempre il
suo sfogo: non si trattiene, viene fuori. Così il nostro NL iniziò a fissarsi sui dettagli dei
tessuti, ma per capire meglio aveva necessità di andare oltre la sensazione tattile: voleva
vederli quei dettagli, ne sentiva il bisogno – il bisogno di verificare letteralmente con i
propri occhi quello che percepiva con la punta delle dita. La sua carriera da scienziato iniziò
proprio da qui: voleva vederci di più e così si incuriosì delle lenti e del loro straordinario
potenziale. Iniziò a costruire i microscopi da autodidatta, e finalmente poté osservare con
maggiore chiarezza le caratteristiche del filato dei tessuti che commerciava. Nel corso della
vita costruì circa 500 lenti e decine di microscopi (di cui era molto geloso, al punto da non
mostrarli a nessuno), usando sistemi particolari per aumentarne la potenza, come specchi e
candele. Già, perché non c’era mica la luce elettrica allora.

Quei sistemi di lenti avrebbero aperto (e ci avrebbero aperto) un mondo fino ad


allora sconosciuto.
Ammettiamolo, van Leeuwenhoek ha sostanzialmente scoperto un’altra dimensione: un po’
come se oggi uno scoprisse come funziona la telepatia. Con il microscopio c’è stata la
rivelazione inattesa di un vero e proprio universo invisibile che coesiste in noi e con noi.
Non solo: osservando alcuni girini, van Leeuwenhoek fu anche il primo a notare le fibre
muscolari e i capillari. Pensa un po’: uno che voleva guardare come erano fatti il velluto o la
seta, a un certo punto scopre un universo. Immagino che la sua curiosità abbia finito per
esplodere e lui non abbia potuto resistere, iniziando a guardare all’ingrandimento tutto
quello che gli passava sottomano. Un ingranditore seriale.

Com’è che la comunità scientifica venne a conoscenza delle sue scoperte?


Una sua grande fortuna fu quella di avere un amico intelligente e non invidioso. Il medico
Reinier de Graaf (1641-1673) segnalò il suo lavoro alla Royal Society di Londra, la quale nel
1673 pubblicò per la prima volta una lettera di van Leeuwenhoek, in cui l’ottico olandese
spiegava cosa aveva visto osservando con i suoi microscopi: muffe, api e pidocchi. Come
dicevo, aveva infatti applicato le sue potentissime lenti a tutto quello che gli capitava a tiro:
polvere da sparo, spermatozoi, globuli rossi, chicchi di caffè, minerali; identificò persino un
parassita, la Giardia, nelle sue stesse feci. Aveva capito che con la sua invenzione (di cui era
molto orgoglioso e protettivo, ma ci sta) si potevano scoprire mondi e mondi paralleli dentro
ogni forma di vita e sostanza. Scrisse moltissime lettere alla Royal Society di Londra nelle
quali illustrava le sue scoperte meravigliose: l’occhio composito dell’insetto, il pungiglione,
la struttura lamellare. Tutto disegnato a mano, accompagnato dalle interpretazioni delle
osservazioni (in copia unica senza backup) e poi inviato tramite corriere a cavallo da Delft,
nei Paesi Bassi, a Londra.
Ma a un certo punto van Leeuwenhoek, in una goccia di acqua presa da un laghetto,
osservò dei microrganismi che si muovevano. Fu in quel momento che il mondo invisibile da
lui scoperto diventò vivo. Pazzesco.

Una scoperta incredibile.


Non si trattava di vegetali o granelli di sabbia, perché quelle piccole creature un po’ a forma
di pantofola si muovevano da sé: dovevano dunque essere animali, ma erano
incredibilmente piccoli. Per questo li chiamò diertgens, «animaletti», poi tradotto nel latino
animalcula e nell’inglese animalcule. Van Leeuwenhoek si chiedeva da dove venissero questi
animaletti e perché ne esistesse una tale varietà, per forma e comportamento. Nessuno fino
ad allora aveva potuto osservarli, era davvero il primo. Sta di fatto che in quel mondo
appena scoperto c’erano dentro organismi vivi e mobili.

Un universo scoperto da un commerciante di stoffe.


Sì, ma curioso e determinato, che poco a poco divenne consapevole di ciò che ai suoi tempi
era impensabile. L’idea che esistessero organismi unicellulari non era mai stata
contemplata: lo stesso concetto di cellula, con una sua vita autonoma, era inimmaginabile.
Fino ad allora tutto questo mondo era stato invisibile, in un certo senso segreto.

Come reagì la scienza ufficiale del tempo?


Insomma… inizialmente la Royal Society mise in discussione le osservazioni dell’ormai de
facto naturalista olandese. Ci volle una visita apposita, e solo dopo che tre rappresentanti
dell’istituzione inglese ebbero assistito a una dimostrazione fatta da van Leeuwenhoek fu
accettata l’idea che tali microrganismi esistessero davvero. Nel 1680 van Leeuwenhoek fu
nominato membro della Royal Society: ne fu molto onorato, ma non partecipò mai a una
riunione. Così diventò famoso in tutta Europa per le sue scoperte senza aver mai scritto una
pubblicazione scientifica, e la cosa più assurda della sua storia è che si portò nella tomba
molti dei suoi segreti (lenti e microscopi). Credo che l’immensità della sua scoperta gli
avesse dato un po’ alla testa: lo scopritore di un universo – se sano di mente non può non
voler condividere la gioia della scoperta e non desiderarne l’amplificazione per il bene
dell’umanità e del progresso. Il fatto che van Leeuwenhoek morì portandosi nella tomba i
segreti… beh, non si fa. La conoscenza si costruisce sul lavoro altrui: se tutti si fossero
comportati come lui si sarebbe dovuto ricominciare daccapo ogni volta – e staremmo ancora
alle pitture rupestri. Mi viene in mente a proposito quell’aforisma attribuito a Bernardo di
Chartres, poi riconiato da Newton: «Noi siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti,
così che possiamo vedere più lontano non a causa della nostra statura o dell’acutezza della
nostra vista, ma perché, stando sulle loro spalle, stiamo più in alto di loro». Bernardo ci ha
lasciato un grande insegnamento, a cui dovremmo forse più spesso rivolgerci se vogliamo
godere dei frutti della nostra storia.

Parli spesso di trasversalità e di cross-fertilizzazione delle conoscenze: in questo


caso che c’entrano?
Ma è evidente! Qui abbiamo una scoperta scientifica di portata rivoluzionaria partita da
quello che oggi chiameremmo il mondo del commercio e della piccola impresa. Da chi è
portato a far di conto e a verificare con i suoi occhi piuttosto che a filosofeggiare. Il nostro
van Leeuwenhoek inizialmente fece uso del microscopio non tanto a scopo medico-
scientifico, ma per un’esigenza economica: voleva capire bene come fossero fatti i tessuti
per migliorarsi come commerciante. Ma la cosa straordinaria è che fu talmente aperto
mentalmente da scoprire un universo che poco aveva a che fare con i tessuti, i fiocchi e le
passamanerie. E il mondo scientifico di allora, pur con dubbi e resistenze, seppe in qualche
modo accettarlo.

Note
1
La parola «miasma» deriva dal greco antico μίασμα, «contaminazione», vocabolo che condivide la stessa
radice del verbo μιαίνειν, «lordare», «contaminare». Nella medicina greca antica, a partire da Ippocrate, miasma
passò a significare un’esalazione malsana, in particolare quelle emanate da cadaveri e acque stagnanti. Tali
esalazioni erano considerate la causa di malattie come la malaria, di infezioni e di contagi.
2
La parola «virus» deriva dal sostantivo latino vīrus, che significava «umore», «succo», ma anche «veleno». Fu
solo a partire dal XVI secolo che questo termine entrò più stabilmente nel gergo medico, descrivendo un pus
contagioso. Alla fine del XIX secolo, la parola iniziò a essere attribuita a un agente infettivo di nuova scoperta, più
piccolo dei batteri.
–2Inventarsi l’inimmaginabile

Ricapitoliamo: a un certo punto ci si rende conto che le malattie non derivano da


imprecisati ed evanescenti miasmi, ma da «veleni» costituiti da particelle
estremamente piccole.
Questi veleni però sono animati, perché sono in grado di trasmettersi ad altri soggetti
recettivi; poi, attraverso le lenti meravigliose di van Leeuwenhoek, iniziano ad assumere
contorni e forme. Ad arrivare fino a qui, partendo da Fracastoro, ci abbiamo messo circa
duecento anni, ma difendersi da virus e batteri è tutta un’altra storia. Lo stesso concetto di
difendersi in modo attivo non era mica facile da sviluppare, specialmente se si considera
che proteggersi contro qualcosa di invisibile è, concettualmente e praticamente,
difficilissimo da concepire prima, da immaginare poi. Per quello ci vorranno quasi altri
cento anni dopo la scoperta di van Leeuwenhoek, quando un medico e naturalista
britannico, Edward Jenner (1749-1823), introduce la pratica della vaccinazione.

Contro il vaiolo, una delle malattie più pericolose.


Diciamo che però aveva un pregio: il vaiolo – quel mostro che sfigura i volti e deturpa i corpi
e gli spiriti, e ha tassi di mortalità altissima – è un nemico abbastanza semplice da capire. È
un virus che si comporta da virus, un tipo regolare: e nel suo essere regolare c’è anche il
fatto che se ti ammali una volta e sopravvivi all’infezione poi diventi immune, salvo,
protetto. Si tratta quindi di comprendere meccanismi che oggi ci appaiono tutto sommato
semplici e abbastanza solidi, ripetitivi: è una malattia mortale che ti pone di fronte allo
scontro finale – il duello. Se le sopravvivi una volta, poi non potrà mai più colpirti. E questo
ai tempi di Jenner era già stato intuito, tanto che ci si era inventati un metodo: quello di
provocare a scopo preventivo delle piccole infezioni controllate, tramite il procedimento
noto come variolizzazione.

Io credevo che fosse Jenner il padre delle procedure di immunizzazione.


Sì e no. Già Voltaire descrive la terapia preventiva del vaiolo praticata dai Circassi, gli
abitanti di una regione del Caucaso settentrionale. Questi si erano accorti che il vaiolo
colpisce una sola volta nella vita e immunizzavano i bambini già all’età di pochi mesi. I
Turchi adottarono lo stesso costume, che diventò pratica comune nella città di
Costantinopoli. In Inghilterra l’innesto volontario del vaiolo viene introdotto grazie all’opera
di un medico di origine greca, Emmanuel Timoni (1670-1718), e alla lungimiranza di Lady
Mary Wortley Montagu (1689-1762), che assieme al marito, ambasciatore a Costantinopoli,
aveva osservato i benefici della variolizzazione tanto da applicarla ai propri figli. Tecniche
analoghe erano del resto diffuse da secoli nelle Isole Ionie, nell’Istria e nei territori
confinanti con la Grecia, e larga eco ne era giunta anche a Venezia e persino in Cina. Quindi
un po’ già si era capito.

Aspetta un attimo, hai accennato a Lady Mary Wortley Montagu: qui finalmente
abbiamo una protagonista donna nella nostra storia?
Già, introducendo l’inoculazione del vaiolo in Inghilterra, Lady Mary ebbe un ruolo non da
poco nella storia della salute occidentale, anche se, ahimè, non le è stato riconosciuto
spesso. Fu una donna coraggiosa che viaggiò moltissimo, come ci testimoniano le tante
lettere che scrisse durante la sua vita e che la resero particolarmente famosa, non sempre
in modo positivo purtroppo. Nel Settecento e nell’Ottocento, infatti, Lady Mary fu attaccata
e criticata per la libertà di pensiero ed espressione che troviamo nelle sue lettere.
In esse ci descrive una vita quasi fosse una parabola romanzesca: l’amore per la scrittura
sin da fanciulla; la fuga e il matrimonio contro la volontà paterna; l’ascesa nella società
politico-intellettuale inglese; il soggiorno, accanto al marito ambasciatore, a Istanbul, da
dove importerà il metodo di immunizzazione dal vaiolo; e infine la deludente relazione con il
letterato Francesco Algarotti. Insomma, Lady Mary fu in grado di uscire dagli schemi
culturali del suo tempo, da una prospettiva nuova, tutta femminile. E proprio la tecnica
dell’innesto la fece diventare una delle protagoniste della storia dell’immunizzazione.

Chissà se già all’epoca c’erano i no-vax.


Ci arriveremo.

Come nasce la variolizzazione?


Ciò che colpisce in questa storia è che l’esercizio dell’inoculazione avviene sulla base di
informazioni e dell’esempio forniti dalla gente comune, ed è formidabile che si diffonda
anche in Europa superando barriere linguistiche, religiose e culturali. E si diffonde
semplicemente perché funziona. Il «favoloso innesto», come lo definisce Giuseppe Parini
nella sua quinta ode, ci fa capire che l’inoculazione è percepita come un qualcosa di
meraviglioso e magico – e in effetti, per chi ha paura di quella malattia piena di eruzioni e
che lascia il segno indelebile, lo è, quasi un miracolo. Il che non va considerato
necessariamente un limite, anzi proprio il fatto di avere questo alone di meraviglia nella
pratica diventa un vantaggio nell’opera di coinvolgimento dei ceti più poveri che vivono nei
villaggi e nelle campagne, illetterati e impauriti di fronte a un morbo che quando passa ci
lascia sempre la firma.

Se la variolizzazione funziona, che bisogno c’è del vaccino?


Queste inoculazioni un po’ estemporanee e poco standardizzate effettivamente proteggono,
ma possono anche farti stare molto male o spedirti sotto terra: una soluzione decisamente
carente dal punto di vista dell’innocuità dell’intervento…

È qui che entra in scena Jenner.


Jenner osserva che c’è un’altra popolazione che sembra essere resistente al vaiolo: quella
dei mungitori di vacche. Ma soltanto quelli che si sono presi un’infezione sulle mani, che di
sicuro deriva da strane lesioni sulla cute dei capezzoli delle vacche in lattazione. Ecco: lui
riesce in qualche modo a intendere che un virus «parente», anche se proveniente da
un’altra specie (un animale!), può offrire protezione clinica contro il morbo più temibile.
Un’intuizione sensazionale, anche se Jenner non è certo il primo: già nel 1774 un altro
medico britannico, Benjamin Jesty (1736-1816), aveva vaccinato la sua famiglia e prevenuto
la malattia, ma non era stato in grado di verificare le sue scoperte attraverso il metodo
scientifico e non le aveva divulgate.

Cosa che invece fa Jenner.


Nel 1798 Jenner pubblica sotto forma di lettera al suo amico Caleb Hillier Parry (1755-1822)
– a proprie spese, dopo che la Royal Society si è rifiutata di farlo – An Inquiry Into Causes
and Effects of the Variolæ Vaccinæ. La grandiosa scoperta è che una malattia dell’uomo può
essere prevenuta tramite la somministrazione preventiva di materiale infetto prelevato,
nientepopodimeno che da un animale.
Entro più nel dettaglio, perché questa scoperta infrange tabù, sradica certezze e
distrugge argini: peggio di uno tsunami. Sintesi numero uno del dottor Jenner: una malattia
dell’uomo può essere prevenuta attraverso un virus delle mucche, noto nel Regno Unito
come cowpox. Sintesi numero due: quel materiale infetto può essere prelevato da mucche
infettate appositamente. Tre rivelazioni in un colpo solo: i vaccini eterologhi (e qui gli va
anche bene, anche perché i Poxvirus si prestano), una malattia che si trasmette dagli
animali all’uomo (malattia dei mungitori) e un metodo per salvare l’umanità da una delle
piaghe peggiori. Con un unico tiro segna tre gol. E lo fa di nuovo mettendo in correlazione
salute degli animali e salute dell’uomo.
Quasi a voler far sì che anche noi generazioni del terzo millennio non ci dimentichiamo di
questo incredibile incrocio tra la nostra salute e quella degli animali, il dottor Jenner usa la
parola vaccino (che deriva dal latino vacca). Un termine che nel tempo ha esteso il suo
significato originale per arrivare a indicare, nel linguaggio medico, un preparato che si
somministra a un organismo per stimolarlo a produrre difese specifiche, cioè ad acquisire
un’immunità attiva.
Questa intuizione geniale e coraggiosa, quasi oscena per la mentalità dell’epoca, sarà poi
approfondita da Jenner negli scritti dei tre anni successivi (Further Observations on the
Variolæ Vaccinæ, A Continuation of Facts and Observations relative to the Variolæ Vaccinæ
e The Origin of the Vaccine Inoculation), che rivoluzionano in maniera definitiva la storia
della medicina e della salute pubblica.
È una rivoluzione che mette in discussione e sostanzialmente stravolge le teorie
dell’epoca, ottenendo subito un’ampia risonanza: pensa, i lavori di Jenner appaiono in
italiano già nel 1799. Una scoperta che coglie impreparati gli stessi colleghi della Royal
Society, anche perché va sostanzialmente contro quella distinzione e separazione tra le
specie viventi su cui si sono esercitati gli studiosi nei loro tentativi di classificazione.
Insomma, sta per passare un bulldozer sopra agli orticelli dei singoli settori disciplinari e,
come per magia, emergono delle gigantesche aree di ricerca fino ad allora sconosciute. Tipo
l’immunologia.

In effetti a prima vista sembra una teoria quasi incredibile.


Proprio così, tant’è che le idee del coraggioso Jenner all’inizio sono così innovative da
essere rigettate come «troppo rivoluzionarie». E secondo me ci sta pure. Provate solo a
mettervi nei loro panni: un uomo che propone di usare materiale infetto prelevato da un
animale ammalato come strumento per proteggere degli umani da una malattia diversa?
Pura fantascienza, ma funziona proprio così. Guarda un po’, la soluzione che ha spalancato
le menti alla vaccinazione stava nascosta nei capezzoli delle mucche.

L’ennesima storia di rivoluzioni e di interconnessioni.


Pensiamo: la scoperta dell’universo della microbiologia avviene grazie a un commerciante di
tessuti; il concetto di contagio viene elaborato da un medico-filosofo-astronomo che ha
intuito grandi cose, ma rimane ancora in parte intrappolato fra il vecchio e il nuovo, ancora
un po’ convinto che anche gli astri diano qualche spintarella alla salute. Una rivoluzione del
tutto eretica sotto molti aspetti, anche nei confronti del rapporto tra uomo e animali, ce la
illustra poi Jenner. I pilastri della microbiologia sono progressivamente compresi grazie a
incursioni e osservazioni fatte prevalentemente in altri campi, e la loro solidità è tutta nello
sguardo e nella mente di rivoluzionari che non hanno pregiudizi, e che soprattutto sono
pronti a sostenere le proprie idee anche contro le istituzioni di quei tempi. Chissà, forse
saranno stati degli NL: se non nella pratica – non saprei – sicuramente nella forma mentale.

Di nuovo NL? Ma che significa?


Poi te lo spiego, non preoccuparti.

Comunque con la vaccinazione iniziamo finalmente a combattere virus e batteri…?


Sì e no: le prime vaccinazioni funzionano, ma siamo ancora lontani dall’aver capito come
agiscono batteri e virus, e soprattutto ci sono nuovi campi sterminati da esplorare e ci vuole
un po’ di tempo e qualche altra intuizione geniale, che arriva magari di nuovo da un mondo
parallelo – casualmente sempre quello degli animali. Rimane ancora salda, per il momento,
l’idea di contagio attraverso una forza quasi «magica», per la quale lo scienziato Jenner
trova un nome che abbiamo già sentito: virus.

Più che micromondo, c’è un mare magnum.


Lì dentro c’è di tutto. In fondo batteri e virus sono ovunque, nei soggetti sani come negli
ammalati: bisogna quindi capire come iniziare a catalogare questo nuovo universo. Per
esigenze di spazio e di tempo non possiamo soffermarci sulle migliaia di microbiologi che
nel corso dei secoli si sono fatti due occhi come mongolfiere sul microscopio: è però un
peccato, perché raramente si ricorda la loro abnegazione. E poi, devo ricordarlo, sono
determinanti anche gli esperimenti sugli animali.

Piccola parentesi: oggi c’è molta polemica intorno a questo aspetto…


Rispetto il dibattito etico, figuriamoci se a un veterinario di formazione come me non
interessano il benessere e la salute degli animali. Dobbiamo fare sempre meglio sotto
questo aspetto. Tutto quello che posso dire è che è un genere di sperimentazione che è stato
determinante per il progresso della nostra salute. Lo abbiamo visto quando abbiamo trattato
l’anatomia – Galeno aveva studiato gli organi degli animali –, lo vediamo adesso con la
microbiologia. È chiaro che alcuni fenomeni possono essere studiati anche, a volte
soprattutto, negli animali.

Così comunque arriviamo all’Ottocento, il secolo della tecnologia e della scienza.


Proprio nel corso dell’Ottocento le conoscenze sulla salute, quasi fossero mattoncini Lego
colorati – alcuni dei quali si erano già assemblati a incastro –, iniziano a organizzarsi in
maniera più strutturata. Parte un processo di riorganizzazione che innesca una convergenza
e un consolidamento, facendo confluire le scoperte avvenute in molti settori. Si creano i veri
pilastri della medicina: dallo scatolone del sapere, pieno di pezzetti colorati, iniziano
finalmente a comporsi le discipline biomediche. Come delle torri fatte di pietra irregolare, le
conoscenze vengono assemblate a partire da nozioni sparse, a volte scollegate e casuali:
una miriade di invenzioni, intuizioni, esperimenti, prove e verifiche, che trovano via via
rimandi e riferimenti reciproci, sino a costituire un’immagine «scientifica» del corpo e della
salute umana. Un lavoro erculeo e collettivo che, iniziato sul tavolo anatomico, arriva alla
scoperta di tutta una serie di altri «personaggi» via via identificati in cocchi, bacilli, vibrioni
e parassiti, dai quali è possibile risalire all’eziologia delle malattie più importanti.
Dunque nozioni sempre più verticali, più specifiche, che si addentrano con profondità
crescente nell’argomento. Nel XIX secolo finalmente avviene la vera grande trasformazione:
la teoria cellulare di Rudolf Virchow (1821-1902) scardina definitivamente quella umorale
che, come abbiamo visto, aveva dominato per più di duemila anni. Inizia una concatenazione
di scoperte successive, una dietro l’altra come in una galoppata inarrestabile attraverso le
nuove aree del sapere: Louis Pasteur e Robert Koch (1843-1910) individuano e dimostrano
le cause misteriose e invisibili di molte malattie; poi l’anestesia con l’etere apre la porta ai
miracoli della chirurgia e i raggi X ci fanno vedere in maniera quasi «magica» e incredibile
l’interno del nostro corpo.

Fa parte di questo quadro anche una microbiologia sempre più «matura»?


Con il suo avvento cambia il concetto di salute. Come abbiamo visto, secondo la teoria
umorale la salute era determinata da un equilibrio dei quattro fluidi corporei presenti in una
persona, che governavano anche il temperamento umano: non a caso ancora oggi chiediamo
«di che umore sei?». L’insorgenza di una qualsiasi malattia era spiegata con un eccesso o
una deficienza di uno qualsiasi dei quattro umori. Questa spiegazione si incrina nel
momento in cui la teoria umorale non riesce più ad accogliere quello che avviene nella
realtà.
Riflettendo, deve essere stata proprio l’osservazione critica della dinamica del contagio ad
aver contribuito in maniera determinante a farla saltare. Come si fa a spiegare il contagio
con la teoria degli umori? Il contagio prevede dei meccanismi che essa non riesce a
contemplare – e quindi si elaborano concettualmente i seminaria, poi si intuisce il loro
possibile meccanismo di propagazione e infine si iniziano a distinguere i tratti degli
indiziati. Si frantuma così uno schema concettuale che, fino all’intrusione casuale di un
mercante di tessuti che si divertiva con le lenti, aveva retto per oltre duemila anni. La
scienza medica di Galeno e quella di Pasteur hanno angolazioni e prospettive talmente
differenti che non riescono più a incontrarsi. E dopo gli scontri – con tanto di morti e feriti,
abiure e punizioni – si passa ormai al nuovo, continuando però a mantenere l’intuizione
originale: la circolarità. Anzi, con la nuova scienza microscopica questa circolarità si
potenzia e si espande.

Cosa intendi in questo caso per circolarità?


I microbi divengono i nuovi anelli di congiunzione fra mondi separati, assumono il ruolo di
connettori fra salute umana, animale e vegetale. E oggi questa circolarità è ancora più
evidente con il problema dell’antibiotico-resistenza. I microbi superkiller, selezionati da
decenni di trattamenti antibiotici, sono frutto della circolazione e ri-circolazione batterica
fra l’uomo e quello che lo circonda. Gli animali domestici possono rappresentare la fonte di
contagio, così come l’ambiente; basti pensare alle infezioni ospedaliere: entri per un banale
intervento chirurgico e rischi di prenderti un’infezione mortale. Oppure come la storia della
lattuga contaminata nel 2018, questa dopo te la devo proprio raccontare.

Come inizia questa rivoluzione della microbiologia?


Direi di partire da Pasteur: un uomo in fermento, in tutti i sensi possiamo affermare. Nella
sua vita, infatti, affronta il suo lavoro, ovvero la sua missione impossibile in quel mondo che
si trova «al di là della lente», con un approccio NL: aperto, candido e accogliente.

Ancora questo NL, c’entra con l’olandese?


Abbi ancora un po’ di pazienza. Quello che importa adesso è che con Pasteur entriamo in
questo universo invisibile e parallelo, che con van Leeuwenhoek – sì, quello olandese –
avevamo solo intuito e che coesiste con noi in silenzio, tranne che quando si creano quelle
condizioni che lo rendono dannoso per la salute o al contrario addirittura utile a migliorarla.
Capite da soli che il povero Pasteur, i suoi allievi e coevi fanno l’equivalente di ricomporre
un mosaico pavimentale di un’abbazia carolingia grande come lo stadio di San Siro, senza
avere idea dell’immagine che debbono ricostruire. Anche perché, grazie ai cannocchiali al
contrario di van Leeuwenhoek, alcune cose immaginate si possono vedere (per esempio, i
batteri e le muffe), ma altre decisamente ancora no, come i virus.

Eppure anche Pasteur, come van Leeuwenhoek, non è un medico.


È un chimico, ma da vero chimico che non si accontenta guarda oltre e non si ferma di
fronte a fenomeni che non si spiegano con le sue nozioni: si lancia anzi in una battaglia a
tutto campo per affrontare i problemi principali dell’epoca nei campi dell’agricoltura,
dell’industria agraria e dell’allevamento. Uno scienziato che non ha paura di impegnarsi
anche per problemi concreti, che hanno ricadute significative nell’economia e nella società.

Qual è l’impatto concreto delle sue ricerche?


Enorme. Come pioniere della materia era molto dotato e creativo. Pensiamo solo alla
pastorizzazione, il procedimento che porta il suo nome. Oggi ci fa pensare al latte che
compriamo al supermercato: in realtà Pasteur sviluppa un trattamento termico per «curare
le malattie del vino», ovvero per evitare un’eccessiva fermentazione; soltanto più tardi si
capisce che questo processo può essere applicato a molti altri prodotti deperibili come il
latte e la birra. Applicando il calore ai prodotti alimentari, Pasteur ottiene due risultati: da
una parte viene rallentato il deterioramento, dall’altra si eliminano molti batteri nocivi per
la salute. Se ti pare poco, pensa che tre dei cinque figli di Pasteur morirono di tifo.
Lo scienziato francese inventa inoltre i vaccini per due orrende malattie dell’epoca,
pericolose sia per il bestiame sia per l’uomo: compie esperimenti con il bacillo dell’antrace,
producendo un vaccino termicamente trattato che si rivela efficace; poi, con una creatività
ancora più ambiziosa, lavora e sviluppa vaccini contro la rabbia, malattia fino ad allora
incurabile, che causa la morte tra sofferenze atroci. E che l’uomo si prende sempre
attraverso il morso o il contatto con la saliva di un animale infetto: sia esso un pipistrello, un
cane o una tigre del Bengala.

Un rivoluzionario, quindi?
Non solo lui. Durante questa fase Pasteur e i suoi colleghi Émile Roux (1853-1933), Joseph-
Henri Toussaint (1847-1890) e il già citato Koch abbattono mentalmente le barriere che
separano la salute dell’uomo da quella degli animali. Ormai non ci si spaventa più di fronte
all’evidenza che animali ed esseri umani possono contrarre la medesima malattia: dalle
osservazioni nascono studi e Pasteur intuisce che sostanze chimiche o forze fisiche (come il
calore) possono interagire con il mondo invisibile, neutralizzando alcuni effetti dannosi. Di
punto in bianco, lo studio e la ricerca sugli animali divengono una risorsa per gli studi sulla
salute umana attraverso l’anello della microbiologia: si connettono di nuovo e ancora di più
due mondi che un tempo sembravano separati.

Niente male per un chimico.


Non solo: grazie al suo operato e a quello del suo gruppo di ricercatori, a fine Ottocento si
inaugura il periodo durante il quale la batteriologia modificherà totalmente il pensiero
scientifico, trovando applicazione anche nell’agricoltura e nella fabbricazione di prodotti
alimentari.

Una nuova strada che ci conduce fino a oggi.


Aspetta, perché poi arriva l’illuminazione successiva, per certi versi ancora più
sorprendente. Non solo determinati parassiti microscopici e macroscopici possono
trasmettersi da animale a uomo e viceversa: alcuni di essi possono anche usare un terzo
essere vivente come «veicolo» per arrivare da un ospite all’altro. Si apre un nuovo fronte
della conoscenza: quello delle malattie trasmesse da vettori1. Ovvero, dei patogeni
«autostoppisti».

Qualche esempio?
Partiamo dalla malaria, la più importante: fin dall’antichità un autentico flagello per le
popolazioni che vivono nelle zone tropicali e subtropicali paludose del mondo. Il termine
italiano malaria – da mal’aria: «aria cattiva, dannosa» – ne suggerisce meglio le
caratteristiche essenziali rispetto al francese paludisme, che invece sembra rievocare quei
miasmi che evaporano dalle acque stagnanti delle paludi, considerati dagli antichi l’origine
stessa della malattia. Anche la malaria però con i miasmi e l’aria cattiva c’entra, ma mica
tanto. Anche se le zanzare che la veicolano sono insetti tipici delle paludi e delle zone
umide.
Il problema è che all’epoca mancano due passaggi fondamentali: da una parte
l’identificazione dei seminaria o degli animalcula responsabili, nel caso della malaria un
protozoo a forma di virgola; dall’altra l’idea che la malattia può essere trasmessa da un
vettore. Cioè la nostra piccola creatura a forma di virgola non è in grado di passare da un
soggetto ammalato a uno ancora sano senza qualcosa che la trasformi e la trasporti. Ha
bisogno di trasformarsi in un punto, la nostra virgola, prima di poter generare nuove
infezioni. E dov’è che avviene questa trasformazione? Nell’apparato digerente di una
zanzara. Solo dopo essere maturata da virgola a punto nella pancia di un fastidioso insetto è
pronta per colpire un altro ospite. Niente zanzara vuol dire niente contagio, niente malattia.
Mica facile da capire.

Come inizia lo studio sistematico della malaria?


Non tanto per un forte interesse scientifico, ma per motivi economici. Gli inglesi e i francesi
avvertono la gravità del problema nelle loro colonie, mentre l’Italia all’epoca la malaria ce
l’ha in casa e molti medici del nostro Paese si impegnano per studiarla. In particolare, un
altro di quei personaggi che non riesce proprio a stare fermo dentro la sua disciplina:
Giovanni Battista Grassi (1854-1925).

Perché? Che percorso aveva avuto Grassi, prima di occuparsi di malaria?


Medico laureato a Pavia, è un altro esploratore di frontiere. Dopo gli studi universitari,
infatti, si dedica soprattutto alla ricerca in biologia e in zoologia, frequentando varie
istituzioni europee: osserva il ciclo riproduttivo delle anguille, scopre un nuovo ordine di
Aracnidi dandogli un nome ispirato alla moglie (Koenenia mirabilis); descrive, in una serie
di monumentali lavori, la società delle termiti.

Come si avvicina alla malaria e alle zanzare?


Da tutt’altra parte, come al solito. Nel 1888 Grassi inizia a studiare la malaria negli uccelli
in collaborazione con il medico Riccardo Feletti, finché nel 1890 pubblicano insieme una
monografia in cui descrivono le loro osservazioni, in particolare nel gufo, nel piccione e nel
passero. Ma ciò che più affascina Grassi sono gli insetti: tant’è che insegna entomologia agli
studenti di agraria e anatomia agli studenti di medicina. In fondo la sua vera passione è
quella di fare il tassonomo2, cioè il catalogatore, quello che mette in ordine le cose secondo
una logica. Un po’ come il mosaico da ricostruire di cui parlavamo prima: se non hai
l’immagine reale devi inventarti una logica. E lui in questo campo dà il meglio. Infatti nel
1896 vince uno dei riconoscimenti mondiali più importanti per la biologia, la Darwin Medal
della Royal Society: non tanto per le sue ricerche sulla malaria, quanto per i suoi contributi
in entomologia e biologia marina. Un tipo insomma a cui non puoi chiedere di essere
superficiale e inaccurato.

In cosa consiste il suo contributo?


Grassi, abbiamo visto, è fissato con le specie. Capisce subito che si tratta di zanzare, ma
mica tutte le zanzare sono uguali. Lui è un tassonomo e sa bene che non tutte le specie
possono trasmettere la malaria. Per provare che le colpevoli sono le zanzare del genere
Anopheles si affida a un esperimento con un solo volontario: il signor Sola (sì, si chiamava
proprio così), il quale viene convinto a dormire per 30 notti in una stanza infestata da
zanzare diverse dalla Anopheles, raccolte in una zona endemica e quindi presumibilmente
infette. Tutto bene, nessun contagio. Allora il nostro classificatore sferra il suo colpo di
genio. Libera nella medesima stanza qualche esemplare di Anopheles – pare le chiamassero
«zanzarone» – e il nostro solo volontario signor Sola nel giro di qualche giorno inizia ad
avere i brividi e la febbre alta. Malaria. Grassi aveva appena chiuso un cerchio nel cerchio.

Note
1
«Vettore» è un termine che viene dal latino vector -oris «conducente», «portatore», derivante dal verbo
vehĕre, «condurre», «portare». In epidemiologia, tale parola indica quegli animali ematofagi – ovvero che si
nutrono di sangue – come pulci, zecche, zanzare, pipistrelli ecc., capaci di trasmettere – mediante puntura o
morso – agenti di malattie infettive.
2
La tassonomia (dal greco τάξις, taxis, «ordinamento», e νόμος, nomos, «norma» o «regola») è, per
antonomasia, la «disciplina della classificazione». Generalmente, il termine indica la tassonomia biologica, ovvero
l’insieme dei criteri con cui si ordinano gli organismi in un sistema di classificazione composto da una gerarchia
di taxa annidati.
–1Nascosti per bene

Con la scoperta di microbi e protozoi arriviamo praticamente a oggi. Oppure no?


Da una parte con l’aiuto dei microscopi e dall’altra con lo studio dei casi clinici facciamo
fare passi da gigante alle nostre conoscenze e alla comprensione di alcuni meccanismi, ma
inevitabilmente a ogni passo il quadro si complica. Lo abbiamo visto con la malaria e il suo
complesso ciclo di vita e di trasmissione: tra l’Ottocento e il Novecento riusciamo a
comporre molte tessere e a ricostruire parti sempre più grandi del puzzle, ma spesso queste
sono ancora staccate tra loro. Per cercare i collegamenti serve uno sguardo d’insieme, non
fissarsi solo sul particolare.

Da dove partiamo?
Ti piace Il trono di spade?

I libri o la serie? E comunque che c’entra adesso?


Anche quella che stiamo raccontando in fondo è una saga, molto più importante e per certi
versi più avvincente di quelle che ci piace tanto guardare in tv. Certo, gli eroi in questo caso
non sono guerrieri dalla capigliatura fluente bensì scienziati stempiati e occhialuti, ma a
volte ci sono analogie curiose. Nel nome, per esempio: foneticamente indistinguibile, solo
una silenziosa «h» distingue John Snow (1813-1858), medico e scienziato inglese, da Jon
Snow, il Guardiano della Notte. Non so se l’autore del bestseller, George R.R. Martin, avesse
intenzione di stabilire un parallelo: sta di fatto che, dietro l’apparenza ordinaria e forse un
po’ tristanzuola, anche John con la «h» è un rivoluzionario, e a modo suo un eroe.
Primogenito di nove (mica facile), ma perlomeno in una famiglia abbiente, John studia
medicina e diviene anestesista e ostetrico, assistendo al parto di due figli della regina
Vittoria. In teoria potrebbe diventare il classico professionista di successo, molto brillante
ma forse non così innovativo. E invece la sua storia sarà un’altra.

In cosa consiste la sua rivoluzione?


Nel 1854 Londra è colpita da un’incontrollabile e quindi tragica epidemia di colera: in pochi
giorni si ammalano e muoiono centinaia di persone. Nessuno sa dove mettere le mani.
Infatti, delle cause della malattia allora non si conosce ancora nulla: la teoria dei miasmi è
ancora molto seguita e fra gli animalcula che si stanno freneticamente cercando di
classificare non esiste ancora un microbo da indicare come il colpevole. È in situazioni come
queste che una mente aperta deve esprimere la sua creatività al massimo livello – ed è
quello che fa John Snow. Con il giusto tempismo e un’intuizione formidabile, assolutamente
non scontata. Snow capisce che c’è un collegamento fra i casi e tira fuori da uno scaffale
uno strumento fino ad allora completamente sottoutilizzato dimostrando, anzi sostanziando
una nuova dimensione.

Quale strumento?
Una cartina geografica. L’idea rivoluzionaria è usare una pianta di Londra su cui mappare i
casi. Bisogna dire che ha pure un po’ fortuna, perché la malattia si presta: con la tubercolosi
la sua idea non sarebbe servita a nulla.

Tutto qui?
Molte cose sembrano ovvie… dopo che ci ha pensato qualcun altro. Oggi mappare la
diffusione di una malattia è una delle prime cose che si fanno: sembra banale, e questo dà il
senso di quanto invece sia geniale. Snow capisce che per comprendere e quindi riuscire ad
arrestare l’epidemia deve usare un «filtro» nuovo, che agisca come un setaccio per leggere
le informazioni rilevanti che arrivano dai focolai. Tradotto in termini concreti, inizia a
geolocalizzare (come si dice adesso) i casi di colera su una mappa di Soho, a Londra. Prende
così vita e forma l’epidemiologia: una disciplina che non si concentra sul paziente o sulla
causa della malattia, ma sulle dinamiche con cui si diffonde. Analizza il movimento. E al
concetto di una malattia in movimento si aggancia quello di prevenzione. Se si muove, posso
fermarla – anche ignorando che cosa la provoca. Non ha importanza se si tratta di colera o
salmonellosi: l’importante è capire come interrompere la catena di trasmissione. Un’idea
che mette di nuovo a sistema tutta una serie di competenze diverse e non propriamente
mediche: per esempio nell’ambito della cartografia, dell’organizzazione dei processi e della
comunicazione.

A quali conclusioni approda Snow?


Che le abitazioni di quasi tutti i morti e gli ammalati si riforniscono da una determinata
pompa di distribuzione dell’acqua, in Broad Street. Con l’aiuto del reverendo Henry
Whitehead – il quale non era mica tanto convinto della teoria di Snow e che sull’argomento
pubblica anche un libro, The Cholera in Berwick Street – Snow ottiene il permesso dalle
autorità cittadine di chiuderla. Si narra che quella stessa notte cessarono completamente le
morti da colera.

Un successo!
E invece no. Benché sia un medico di una certa fama non gli sarà affatto facile cambiare
l’opinione comune riguardo all’eziologia di questa malattia. Povero Snow, secondo me
doveva avere una grande confusione in testa. È parecchio scettico sulla teoria dei miasmi,
all’epoca ancora dominante, che afferma che epidemie come quelle di colera o di peste nera
siano causate da una forma nociva di «aria cattiva». D’altra parte, in questi anni la teoria
dei germi non è ancora ampiamente accettata, perciò Snow ignora il meccanismo mediante
il quale la malattia si trasmette. Le evidenze però lo portano a credere che il contagio non
sia dovuto all’aria fetida: secondo lui a causare la diffusione dell’epidemia è la
contaminazione degli acquedotti con gli scarichi fognari. Aveva già esposto per la prima
volta nel 1849 la sua teoria in un saggio, On the Mode of Communication of Cholera, del
quale nel 1855 viene pubblicata una seconda edizione, con un’indagine molto più elaborata
sul ruolo della rete di approvvigionamento idrico nell’epidemia di Londra del 1854.

La fonte del contagio non è insomma l’aria, ma l’acqua.


Sì, uno stravolgimento sostanziale, perché l’acqua è bagnata, la puoi toccare. Molto più
definita, palpabile, tracciabile, l’acqua con questa intuizione si sostituisce al miasma, così
evanescente e poco concreto. Lo studio di Snow illumina e provoca le menti mettendo in
risalto un’altra componente fondamentale del mondo delle malattie infettive (e non solo).
Ma l’acqua in questo caso ha anche un significato simbolico; non vale solo per se stessa,
non è soltanto l’elemento che ricopre il 70 per cento della superficie della Terra: è
nell’ambiente e ne rappresenta parte integrante, lo lambisce, lo penetra, lo idrata e lo rende
vitale. Ci circonda (laghi, mari, oceani e pozzanghere), ci costituisce e ci attraversa, la
beviamo e la eliminiamo. L’acqua è l’ambiente, e l’ambiente è l’acqua. La grandissima
scoperta di Snow si inserisce prepotentemente nel sapere medico di allora, trasportandolo
in una dimensione inedita. Anche se in parte lo aveva intuito già Ippocrate: la salute
dell’uomo dipende anche dalla salute dell’acqua. Infatti nella parte inferiore del diagramma
sulla copertina di questo libro c’è proprio scritto aqua.

Si torna così a un’idea di ambiente come «influencer» della salute e della malattia.
Il ruolo dell’ambiente, che abbiamo intuito fin da quando vengono poste le basi della teoria
umorale, inizia finalmente ad acquisire basi scientifiche più solide e a espandersi
concettualmente. L’acqua non veicola soltanto infezioni e parassiti: porta con sé anche
temperature alterate (che oggi stanno lentamente «lessando» le barriere coralline e facendo
sciogliere i ghiacci), sostanze chimiche, creature che la abitano. Snow trova la chiave
nell’acqua, risolvendo iconicamente e funzionalmente il problema, ma non sarà in grado di
identificare la causa dell’epidemia. Solo trent’anni dopo la scoperta del vibrione del colera
arriverà alla comunità scientifica grazie a Robert Koch.

Insomma i primi microbiologi in questo periodo si danno un bel da fare.


Certo… Per millenni l’uomo è stato in balia dei microbi: già nel XIII secolo a.C. in Cina
alcuni testi documentano la paura legata allo scoppio di una malattia infettiva. Si calcola
che la peste nera del 1347-1352 annienti almeno un terzo della popolazione europea. Ma le
sue conseguenze vanno oltre: come ci ricorda anche Boccaccio nel Decameron, la peste
porta con sé un vero e proprio capovolgimento degli usi e costumi del tempo e mette in
dubbio qualsiasi credenza, anche religiosa. L’orrenda malattia trasmette così tanto dolore e
disperazione da far perdere il senso delle cose, della prospettiva. Niente ha più senso di
fronte alla morte che la peste inesorabilmente diffonde.
Ecco, pensa che quella malattia – proprio quella – si prende generalmente da una pulce. E
questa pulce a sua volta dove l’ha presa, l’infezione pestifera? Da un ratto. Salta da un
animale all’uomo attraverso una pulce (che di salti del resto è specialista). Insomma,
funziona così: un ratto ammalato, una pulce che, mordendolo, si infetta, poi salta e atterra
sull’uomo, lo morde – e l’uomo si ammala. Quindi di nuovo una malattia dell’uomo che ha
come fonte di infezione gli animali e che dipende dall’ambiente e dalle sue condizioni
(sporcizia o salubrità). Al di là di tutto, è chiaro che non è opportuno vivere «a tiro di pulce»
da un ratto, il quale di certo non frequenta begli ambienti.

A proposito, quando si inizia a fare davvero attenzione all’igiene e alla pulizia?


Decisamente rivoluzionario è il metodo antisettico di Joseph Lister (1827-1912), che sarà
definito dal patologo tedesco Virchow «uno dei più grandi benefattori del genere umano». E
non a torto, se si considera che l’introduzione delle sue pratiche consentirà di salvare
letteralmente milioni di vite.

Come?
Lister, scozzese, diviene professore di chirurgia presso l’Università di Glasgow e ha modo di
leggere gli studi di Pasteur sulla fermentazione, convincendosi del fatto che nelle ferite si
verifichi un fenomeno simile ai processi fermentativi del lievito. Fortuna che ha studiato sia
il francese sia il tedesco, altrimenti la sua intuizione non sarebbe forse riuscita a maturare,
bloccata dalle barriere linguistiche.

In cosa consiste questa «illuminazione»?


Nel fatto che le infezioni di una ferita possano essere provocate o trasmesse da paziente a
paziente attraverso i microbi presenti sulle mani degli stessi medici: Lister comincia dunque
a ragionare su come spezzare questa catena di infezione. Teniamo presente che a quei
tempi le regole elementari dell’igiene personale sono ancora a uno stato embrionale, non se
ne colgono appieno i meccanismi.
Questa mancanza è gravissima soprattutto per chi deve essere sottoposto a un’operazione
chirurgica, minimizzando i benefici di molti interventi. Non ci voglio neanche pensare: farsi
operare (con un’anestesia molto all’acqua di rose), sostanzialmente al buio (niente
diagnostica per immagini), senza pulizia e antibiotici. Se non muori della causa
dell’operazione, spesso muori per i suoi effetti.
È qui che Lister concepisce la possibilità di prevenire o impedire le infezioni post-
operatorie attraverso un intervento sul personale medico e paramedico, sulla
strumentazione e sul paziente stesso, con lo scopo di uccidere i microbi che causano
infezioni, setticemie e gangrene post-chirurgiche. E sai come gli viene l’idea?

Intuisco che hai un’altra storia da raccontarmi…


Gli viene, guarda caso in perfetto stile NL, osservando un fenomeno che avviene nelle
pratiche di allevamento degli animali e che ha a che fare con l’irrigazione dei campi con
materiale fognario. Quindi di nuovo la catena uomo-animale-ambiente. Vedi che non si tratta
di invenzioni o di fissazioni! Spero che inizi a essere chiaro come nella salute non si può
ragionare a compartimenti stagni: non solo perché comparazione e analogia sono motori
formidabili di idee, ma perché nella biosfera tutto è collegato. Facciamocene una ragione:
noi umani non siamo, e soprattutto non possiamo vivere, separati dagli altri esseri viventi.

Ma cosa osserva di preciso Lister?


Che nella città di Carlisle gli scarichi fognari vengono trattati con il fenolo (un disinfettante)
prima di essere sparsi nei campi, e che questa pratica non solo riduce di molto il cattivo
odore, ma soprattutto uccide gli «endozoi» (un altro modo per indicare il micromondo che
stavano imparando a conoscere) che di solito infestano il bestiame. Un’altra scoperta
rivoluzionaria della salute che arriva da un’interconnessione – in questo caso logica,
sostanziale e interdisciplinare – e che dimostra la sua circolarità.

Quindi cosa fa Lister?


Se l’igiene protegge gli animali perché non dovrebbe proteggere anche le persone? Così
impone ai chirurghi del suo reparto di lavare le mani con un sapone antisettico (inizialmente
costituito dallo stesso fenolo) perché nota l’arresto immediato di un’infezione dopo aver
spruzzato la sostanza su una lesione. Poi inizia a usarlo anche sugli abiti, sui pazienti e sulle
loro ferite, diminuendo drasticamente il tasso di infezioni mortali. Altra intuizione di Lister è
quella di obbligare i chirurghi a utilizzare dei guanti in lattice, vietando invece quelli di
materiale poroso (cotone), che venivano adoperati anche su più pazienti nell’arco di una
giornata. Infine introduce nelle sale operatorie pratiche di igiene e disinfezione volte a
impedire la contaminazione microbica degli strumenti chirurgici.

Possibile anche qui non esserci arrivati prima?


Come ho detto, a quei tempi ci si muoveva, anche concettualmente, quasi al buio. Oggi ci
sfugge la portata rivoluzionaria di idee e di pratiche apparentemente semplici o che ci
sembrano persino scontate, e che invece impiegarono decenni per essere accettate e infine
affermarsi. In questo caso Lister si spinge addirittura oltre quelle che sono le conoscenze
più avveniristiche del suo tempo: non si interessa tanto di come far crescere, isolare e
classificare i microbi – che è il fronte scientifico che in quel momento va per la maggiore.
Piuttosto si pone una domanda che con il senno di poi appare piuttosto ovvia: come si
possono uccidere i microbi, o perlomeno fermare la loro proliferazione, a prescindere dal
loro nome e cognome? Ovvero, esiste una sostanza che sia in grado di uccidere i microbi,
siano essi E. coli o V. cholerae? Una questione essenziale, necessaria, eppure certamente
innovativa. Insomma, Lister era il solo che vedeva le cose in prospettiva. L’unico in grado di
cogliere le potenzialità di ciò che tutti stavano studiando oltre l’immediatezza del risultato.

Una rivoluzione lungimirante anche questa.


E come tale incontra anche molte resistenze. Tanto per cambiare, le procedure messe a
punto da Lister non si affermano immediatamente. All’inizio quasi tutti i chirurghi lo
osteggiano perché a nessuno piace essere costretto a cambiare le proprie abitudini, inoltre
c’è ancora una scarsa consapevolezza dell’importanza dell’antisepsi e delle pratiche
igieniche e di sterilizzazione. Del resto, bisogna anche capirli: il fenolo irrita gli occhi e le
mucose nasali, poi puzza… Nel giro di pochi anni però non sarà più possibile ignorare gli
enormi progressi dovuti all’introduzione dell’antisepsi. Il metodo di Lister si diffonde in tutti
gli ospedali d’Europa e ben presto il tasso di mortalità per infezione scende. Il cerchio si
chiude e la chirurgia è quasi pronta a decollare.

Come viene concepito in questo periodo il rapporto tra malattia e microbi?


Il nesso tra microbo e malattia diventa il cruccio principale di Koch, che vi dedicherà buona
parte della sua carriera. E tant’è che pensa e ripensa… si inventa i suoi postulati, ovvero i
pilastri che definiscono le caratteristiche di una malattia infettiva, compatibili con le
conoscenze di allora. Una specie di dogma ragionato che aveva un suo senso. Un
meccanismo a incastro basato sulla logica. Ma qui quello che conta è che il microbo può
causare malattia, e che questo meccanismo si può riprodurre in condizioni sperimentali.
Così di colpo si apre un nuovo universo: la patologia sperimentale.

Quindi Koch scopre il nesso fra microbo e malattia, mentre Snow e Lister
sviluppano metodi preventivi per evitare il contagio, così come – per molti versi – i
vaccini. E se invece uno l’infezione l’ha già contratta?
Entriamo allora nella questione delle terapie antibiotiche, che inizia ad avere una certa
priorità soprattutto con lo scoppio della Grande Guerra. Pensa che sul fronte occidentale i
soldati muoiono più per infezione che in combattimento. Dato che le infezioni di guerra sono
tutto sommato piuttosto semplici e ripetitive, si inizia a cercare alacremente una sostanza
che sia capace di debellarle: un problema che interessa particolarmente un batteriologo
scozzese che è stato mandato nel laboratorio di un ospedale militare francese sullo stretto
di Dover, non lontano da Dunkerque. Questo ricercatore desta l’attenzione dei suoi superiori
per la fama che si è procurato a Londra come medico privato: arrotondava infatti i suoi
guadagni somministrando a pazienti ricchi e famosi colpiti da sifilide (sì, proprio quella che
aveva ispirato Fracastoro…) una nuova sostanza chiamata salvarsan, che significa «ciò che
salva attraverso l’arsenico». Da questa pratica aveva intuito che si sarebbe potuta cercare
una sostanza simile per curare anche altre infezioni, come appunto quelle dei militari al
fronte. Parliamo ovviamente di Alexander («Alec») Fleming (1881-1955): un altro uomo che
sapeva guardare oltre, anche oltre le sue stesse scoperte.

Il padre della penicillina.


Più che padre, direi il talent-scout degli antibiotici. Prima di iscriversi a medicina il giovane
Alec, settimo di otto figli e orfano di padre, si era arruolato nell’esercito scozzese e aveva
combattuto nella guerra boera. Studente brillante, nel 1906 era stato ammesso
all’Inoculation Department del St. Mary Hospital, un istituto creato non molti anni prima da
Almroth Wright (1861-1947), il celebre batteriologo che aveva scoperto il vaccino per il tifo.
Allo scoppio della Grande Guerra Wright viene nominato colonnello e mandato in Francia
per creare un laboratorio e un centro di ricerche a Boulogne-sur-Mer, portando con sé
anche Alec. Il lavoro che li aspetta è titanico, hanno a che fare con i corpi feriti dei soldati in
un ospedale in condizioni di guerra. Gli unici rimedi antibatterici a disposizione sono l’acido
fenico, l’acido borico e l’acqua ossigenata: molto meglio di niente, ma si tratta comunque di
sostanze che hanno le loro controindicazioni e i loro limiti. Manca ancora il tassello più
importante: la cura, e Fleming è determinato a trovarla.

Ci riuscirà, nonostante tutto.


Non subito, però. Quando la guerra finisce Fleming riprende il suo lavoro al St. Mary,
dedicandosi appunto alla ricerca di farmaci per combattere i batteri. E si impegna davvero,
anche con una certa creatività: un giorno, mentre un forte raffreddore lo infastidisce,
Fleming aggiunge una goccia del suo muco in una coltura batterica: con suo gran stupore
nota che i batteri muoiono in poco tempo. Ha di fatto scoperto una delle nostre difese
naturali contro le infezioni, il lisozima, che però non è immediatamente utilizzabile come
medicinale. Un buco nell’acqua, anzi nel muco: siamo nel 1922.

Non si dà comunque per vinto.


Nell’estate di sei anni dopo Fleming comincia a studiare i batteri stafilococchi: brutte
bestie, provocano molte infezioni – urinarie, respiratorie, cutanee. Sotto lo strumento che
doveva servire per vedere il velluto, appaiono come batteri a forma di pallina – kokkos, dal
greco antico κόκκος, che significa «chicco», «granello» – che si aggregano in grappoli –
staphyle, sempre dal greco σταφυλή, «grappolo d’uva». Un giorno semina alcune capsule
Petri con una coltura di stafilococco e poi se ne va in vacanza per due settimane1.

Immagino comunque la sorpresa di Fleming al ritorno…


Non è ancora chiaro come, ma si verificano due cose, in una coincidenza sorprendente: la
prima è che nella capsula Petri seminata con la coltura batterica si intrufolano alcune spore
di muffa. E questo ci sta pure, sono certa che una cosa del genere sia successa a molti altri
batteriologi di ieri e di oggi. Si dice inoltre che al piano di sotto ci fosse un altro scienziato
che lavorava con le colture di miceti, tenendo porte e finestre aperte… quindi con la muffa
(quella giusta però) ci siamo. Molto più strano è però che Fleming dimentichi la coltura
fuori dal termostato, senza incubarla a 37°. Le capsule Petri rimangono così sul bancone
due settimane a una temperatura ambiente di 25°, quindi in condizioni compatibili con la
crescita sia dello stafilococco sia della muffa.

Detta così, è una coincidenza davvero sorprendente.


Se non si fossero incrociati almeno quattro fattori diversi – crescita di batteri, crescita di
muffa, temperatura giusta e vacanza di due settimane – Fleming non avrebbe visto nulla.
Invece quando al ritorno osserva la coltura, nota subito che, come in un uovo l’albume
circonda il tuorlo, attorno alla muffa c’è un alone senza più batteri. Un vero e proprio
miracolo! Madre Natura dove aveva nascosto alcune delle molecole più potenti per
combattere le epidemie e le pestilenze? Le febbri puerperali e le setticemie, le polmoniti, le
nefriti e le gastroenteriti? Gli ascessi dentali, le ferite dei soldati massacrati al fronte? Nelle
muffe. La muffa miracolosa viene inizialmente identificata come Penicillium rubrum (ma due
anni più tardi si scopre che in realtà è il Penicillium notatum): da qui il nome penicillina.

Che fortuna, però.


Fu Pasteur a dire che «La fortuna favorisce la mente preparata». Nella storia della scienza,
ci sono poche persone che possono personificare questo detto meglio di Fleming.
Comunque, come abbiamo visto, la fortuna ha aiutato molti dei nostri rivoluzionari.
Adesso però una domanda la faccio io. Hai fatto caso che, con l’eccezione di Lady Mary
Wortley Montagu, i nostri sono tutti uomini? Io è tutto il libro che ci penso. Allora parliamo
di una grandissima, minuta donna che fugge dalle leggi razziali, si afferma come
ricercatrice in America, fonda istituti di ricerca italiani, vince un premio Nobel e diventa
senatrice a vita della Repubblica Italiana. Ecco, proprio lei, Rita Levi-Montalcini (1909-
2012) scopre insieme a Stanley Cohen (n. 1922) il Nerve Growth Factor (NGF), la prima di
una lunga serie di sostanze che stimolano la crescita dei nervi. E così come gli antibiotici
per combattere le febbri e le pestilenze erano nascosti nella muffa, il fattore di crescita dei
nervi (grazie a cui è possibile far rigenerare le cellule nervose, quelle che stanno nel
cervello e midollo e ci fanno pensare, muovere e toccare, per capirci) era nascosto nel
veleno di serpente. Ripeto: veleno di serpente. Tanto vale metterlo nell’uovo di dinosauro.
Rita Levi-Montalcini e Stanley Cohen non solo ne immaginano il meccanismo d’azione
(attraverso alcuni studi che comprendevano la co-cultura), ma ne identificano pure una
fonte, che permetterà a loro e altri di poterlo studiare in profondità.
In questa cavalcata, prevalentemente sul dorso di creature microscopiche a me così
familiari, la storia di Rita Levi-Montalcini mi permette un ulteriore aggancio, quello con
altre discipline. La strabiliante presenza di un fattore di crescita per le cellule nervose nel
veleno di serpente è soltanto uno degli esempi delle «interconnessioni impensabili» che
hanno lastricato la strada che ci ha portato ai livelli di salute di oggi. Se questa intervista
fosse fatta a un oncologo, credo che racconterebbe una trama analoga, con personaggi
diversi, ma sostanzialmente basata sulle scoperte negli animali che hanno aperto gli
orizzonti ai virus oncogeni, al ruolo dell’ambiente come fattore di rischio per alcuni tumori.
Un percorso di consapevolezza che è servito a comprendere alcuni meccanismi trasversali e
che si è espanso in molte direzioni.

Torniamo un momento alle malattie infettive. Con la prevenzione, i vaccini e gli


antibiotici abbiamo quasi tutto. Possiamo cantare vittoria?
Mai farlo se dall’altra parte hai la potenza della natura, la sua incredibile e rigogliosa
resilienza. Ecco perché dico che un rivoluzionario come Fleming è andato oltre se stesso. In
un’intervista del 1945, fresco dell’assegnazione del Nobel per la Medicina, afferma che è
verosimile che i batteri trovino prima o poi un modo per divenire resistenti agli antibiotici, e
mette in guardia medici e ricercatori sul loro abuso. Già dieci anni dopo che la penicillina ha
iniziato a essere usata su scala mondiale, iniziano i primi fenomeni di antibiotico-resistenza.
Oggi, a neanche un secolo da quella scoperta, il problema dei superbatteri rischia di
travolgerci. Ed è forse da qui che ci conviene partire per iniziare a parlare di salute
circolare e interconnessa, oggi.

Note
1
La piastra di Petri, o capsula Petri, è un recipiente piatto di vetro o plastica, solitamente di forma cilindrica. Si
tratta di uno strumento di lavoro primario in numerosi campi della biologia, che viene impiegato per la crescita di
colture cellulari e che permette di osservare a occhio nudo colonie batteriche. Il nome viene da colui che la
inventò nel 1877, il batteriologo Julius Richard Petri (1852-1921), assistente di Robert Koch. Le piastre più
utilizzate hanno un diametro tra i 50 e i 100 mm e un’altezza di 15 mm.
0Consapevolezza di una nuova necessità

Ci avviciniamo al termine di questa nostra conversazione, e vorrei tornare alla


domanda da cui siamo partiti: cosa c’è oggi che non va nel nostro modo di
guardare alla salute?
È proprio qui che ti volevo portare. In alcune parti del pianeta abbiamo raggiunto livelli di
salute impensabili fino a pochi anni fa; al tempo stesso tanti segnali ci dicono che a essere
in pericolo oggi è la nostra stessa sopravvivenza come specie. Abbiamo di fronte sfide
immani, come quella di estendere il benessere di cui attualmente godiamo solo in Occidente
anche agli altri popoli, ma in maniera sostenibile per le risorse esistenti. Serve però una
nuova chiave di lettura, che ci permetta di far avanzare la salute come sistema. Per fare
questo, dobbiamo sviluppare aree di ricerca totalmente interdisciplinari che abbiano
l’obiettivo di andare al di là dei percorsi consolidati. È il momento storico a esigere un
paradigma diverso.

Come ci si può arrivare?


Cambiando mentalità, e facendo leva sulle opportunità una volta inimmaginabili che oggi
abbiamo a disposizione. Per esempio, sfruttando un aspetto straordinario di questo
momento storico, l’alba di una nuova dimensione: quella dei big data.

Anche tu adesso ti sei fissata con i big data?


Non è che mi sono fissata: è realtà. Ti do qualche numero. Nel 2017 è stato sviluppato un
prototipo di computer capace di gestire simultaneamente 160 terabyte di dati – un volume
di informazioni pari a cinque volte quelle contenute in tutti i volumi della Library of
Congress di Washington, la biblioteca più grande del mondo, processato da una singola
macchina! Nel 2018, ogni minuto del giorno venivano utilizzati oltre 3 milioni di gigabyte di
traffico Internet solo negli Stati Uniti. Se poi guardiamo alle previsioni per il futuro, in poco
più di cinque anni avremo oltre 150 miliardi di dispositivi in rete, 20 volte gli abitanti del
pianeta.

Un numero spaventoso…
…che cresce in modo esponenziale. Pensa che solo nel 2016 è stato prodotto un volume di
dati pari alla somma di quelli generati nell’intera storia dell’umanità fino al 2015. E sai
quale è la previsione sul tempo di raddoppio di qui a meno di dieci anni? 12 ore: ogni 12 ore
raddoppierà il volume di dati prodotto.

A cosa servirà una massa così imponente di informazioni?


Per tantissime cose. Tutto quello che faremo potrà essere raccolto, analizzato, «arricchito»
in tempo reale di informazioni. Già oggi siamo in grado di fotografare con lo smartphone i
cibi al ristorante e al supermercato e conoscerne subito gli ingredienti con le caratteristiche
nutrizionali e caloriche. E sta avanzando a passi da gigante una tecnologia sempre più
wearable, «indossabile», che permette non solo di misurare i parametri vitali come
frequenza cardiaca e pressione arteriosa ma di avere giornalmente un’istantanea digitale di
dove, cosa, quando e quanto abbiamo mangiato, bevuto, camminato, dormito e svolto altre
funzioni organiche e non. Nella dimensione parallela del digitale – «l’oltremondo» per usare
le parole di Alessandro Baricco – ci saranno uno o più avatar che ci corrispondono, fatti solo
di dati. Stiamo diventando tutti dei cloud, nuvole di dati in evoluzione. Hai presente le
sveglie digitali che proiettano l’orario sul soffitto? Ecco, prova a immaginarci così: siamo
diventati dei «generatori di dati» che vengono proiettati da un’altra parte. E lì, in uno o più
server che non sapremmo neanche localizzare, c’è la proiezione della nostra esistenza – in
digitale.
Non mi sembra così tranquillizzante…
Non riguarda soltanto noi umani, depositari pressoché unici della capacità di comprendere i
concetti di passato, presente e futuro, ma anche gli animali, le piante e l’ambiente. I nostri
campi coltivati e i nostri allevamenti sono già informatizzati e da anni misuriamo le variabili
legate all’ambiente come temperatura, umidità, presenza dei pollini, raggi ultravioletti – ma
anche la potenza degli uragani, il riscaldamento del mare, lo scioglimento dei ghiacci. Da
anni abbiamo mappe sulla diffusione di insetti, specie invasive e malattie infettive. Una vera
e propria ossessione, quella della nostra specie, per l’attività di catalogare, registrare,
accumulare dati…

In che modo le nuove tecnologie cambieranno il nostro modo di rapportarci


all’ambiente?
Una volta ci limitavamo a dividere le mele rosse da quelle gialle, a prender nota di quanto
pesavano quando le raccoglievamo e a metterle nelle cassette. Oggi abbiamo la capacità di
seguire il percorso di ogni singola mela, da quando è fiore a quando diventa marmellata:
valore nutritivo, provenienza, taglia, peso, specie, varietà. Tutto in tempo reale. Riusciremo
a capire cose nuove, registrare la realtà fotogramma per fotogramma. Si genereranno
intuizioni straordinarie e certamente potranno essere usate per stabilire un rapporto più
integrato e più rispettoso con l’ambiente che ci circonda.

Ci vorrà una potenza di calcolo inimmaginabile.


Infatti l’altra sfida, oltre ai big data, è quella dell’intelligenza artificiale. Ma lo sai che già
oggi esiste, tra i tanti, un progetto dell’IBM denominato «Watson Health»? No, anche se ci
starebbe, non è un richiamo all’assistente di Sherlock Holmes, bensì a Thomas J. Watson, il
primo presidente di IBM. Si tratta di un computer che si è «studiato» oltre 35 milioni di
articoli scientifici di medicina e tantissimi dati clinici reali, e in base a una griglia di sintomi
e di informazioni sul paziente riesce a dare delle indicazioni diagnostiche al medico curante.
Non ce ne rendiamo ancora conto, ma abbiamo di fronte scenari incredibili. Hai presente i
documenti precompilati? Appunto. Noi abbiamo già la possibilità di avere delle «diagnosi
precompilate» che aiutano il medico nella formulazione di una diagnosi definitiva.

Intelligenza artificiale e big data possono davvero rivoluzionare il nostro modo di


intendere la medicina e la salute?
Tutti i rivoluzionari della salute di cui abbiamo parlato finora sono andati contro le teorie
prevalenti nella loro epoca: facendo però una fatica erculea, perché non avevano l’accesso
alle informazioni e la facilità di comunicare di cui disponiamo oggi. Di fatto hanno abbattuto
muri a spallate e a mani nude, raccogliendo i dati che gli servivano in maniera quasi
completamente autonoma, e per questo meritano ancora più rispetto e ammirazione. Oggi la
situazione è completamente diversa: viviamo immersi nei dati, ma non li utilizziamo, se non
in piccola parte e spesso per fare cose futili.

Mi fai un esempio di come i big data potrebbero essere usati per il progresso
scientifico?
I nostri device sono antenne di rilevamento e trasmissione dati in tempo reale di cui siamo
solo in parte consapevoli. Una volta si disegnava, oggi si fotografa. Mentre pochi sono in
grado di fare un bel disegno, che rifletta la realtà (pensa a quelli di Vesalio o di Leonardo),
tutti sono (più o meno) in grado di fotografare. Ultrasemplifichiamo, guardando i lati positivi
della tecnologia: è come se in linea teorica noi fossimo tutti diventati dei supereroi rispetto
a come eravamo solo qualche secolo fa. Oggi ci muoviamo a una velocità anche superiore
alla velocità del suono – altro che viaggi a cavallo fra pestilenze e attacchi di banditi. Non
dobbiamo disegnare ma possiamo scattare una foto, non dobbiamo fare operazioni
matematiche perché qualcuno ha insegnato a una macchina a farle per noi (anche solo la
vecchia calcolatrice!). Se i rivoluzionari della scienza di cui abbiamo parlato avessero avuto
gli strumenti che abbiamo oggi, non ci avremmo messo mica tutti questi secoli a capire
queste cose! La tecnologia, in ogni caso, rappresenta sicuramente un’opportunità
incredibile; anche se da sola non basta.

Cosa manca?
Anzitutto la consapevolezza. La sostanza del mio ragionamento è questa: se riconosciamo
che la salute è un bene universale, e riflettiamo sulle interconnessioni e interdipendenze
che la contraddistinguono, non possiamo continuare a pensare che abbia senso avvelenare,
invadere e considerare come nostra proprietà esclusiva l’ambiente – si tratti di colpa, dolo o
negligenza. Non abbiamo più alibi. Dobbiamo adottare una nuova visione e cambiare le
nostre abitudini a tutti i livelli. Pensiamo solo che in molti Paesi, anche fra i più progrediti, i
farmaci continuano tranquillamente a essere buttati nell’immondizia domestica, magari
assieme alle batterie, oppure rovesciati direttamente nel gabinetto. Senza voler cadere nel
banale, non possiamo trattare così male il nostro mega sacco amniotico. Non possiamo
prenderlo a calci, scaricarci dentro le nostre peggiori intenzioni e poi pretendere che non ne
risentiamo né noi né i nostri coinquilini.

Ma Madre Natura è resiliente, si sa.


Allora parliamo del problema gigantesco dell’erosione della biodiversità. La biodiversità non
riguarda solo l’estinzione del pangolino. Questo mammifero con le scaglie (andate a vedere
che faccia ha) è cacciato senza pietà per la sua carne e per le scaglie, che sono usate per la
medicina tradizionale (qualche tempo fa hanno trovato un deposito di scaglie provenienti da
circa 10.000 pangolini). O i ghepardi, i licaoni o i rinoceronti, massacrati per il corno. La
biodiversità rappresenta molto più che questi esempi grotteschi: di fatto, è l’elasticità del
sistema di vita sulla Terra, lo spazio di manovra che la vita esibisce di fronte a cambiamenti
lenti o rapidi. Se arriva una gelata, qualche piantina sopravvive perché aveva qualcosa di
diverso dalle altre. Perché è diversa.
Non so se mi sono spiegata bene: se tutti gli elementi di un sistema di vita sono
geneticamente uguali, nessuno di essi sopravvivrà a una catastrofe che colpisca quella
specie. Se invece fossero stati elementi diversi tra loro, forse qualcuno ce l’avrebbe fatta.
Nel solco del significato della biodiversità, oggi si cercano sostanze anti-dolorifiche nel
veleno delle creature marine, farmaci o antibiotici nuovi da estrarre dalle creature più
impensabili. Diverse. Se queste specie scompaiono, scompariranno riserve – note e a oggi
ignote – di molecole speciali, e molto di più. D’altronde, se tanto mi dà tanto, Madre Natura
potrebbe aver nascosto qualche molecola miracolosa nelle antenne delle falene del Borneo.
E lo sai quali sono, secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, i motori che stanno
asfaltando la biodiversità: lo sfruttamento indisciplinato della terra e del mare, lo
sfruttamento eccessivo degli organismi viventi, il cambiamento climatico, l’inquinamento e
le specie invasive. Non possiamo pretendere che a occuparsi di questi problemi siano il
pangolino o il licaone, visto che in larga parte sono causati da noi, Homo sapiens.

Insomma mi stai dicendo che siamo noi che dobbiamo occuparcene?


Riconosciamolo: la nostra specie, sedicente dominante, ha «le chiavi della macchina», e
questa è una grande responsabilità. Fermiamoci un attimo a pensare: volenti o nolenti
siamo noi esseri umani ad avere la capacità di comprendere alcuni meccanismi e di
intervenire su di essi. Le altre specie non hanno queste caratteristiche. Non possono certo
occuparsi di salute circolare (che peraltro lo riguarda abbastanza visto che vive nudo e
sottoterra) un lombrico, oppure un carciofo o una stella marina. La splendida astronave su
cui siamo tutti imbarcati può essere fatta funzionare rispettando o calpestando la salute del
suo motore, dei tiranti e della scocca?

Vogliamo tutti un pianeta più sano, ma come si fa?


Intanto, oltre a focalizzarci soltanto sulla salute in maniera verticale, iperspecialistica,
dovremmo tornare a pensarla come faceva Ippocrate, che aveva intuito la necessità di una
prospettiva più ampia, e portare avanti una politica più lungimirante. Dobbiamo stare
attenti, non abbiamo più scuse: non possiamo continuare a voltarci dall’altra parte, non
sfruttare l’opportunità di capire dove abbiamo sbagliato. Finora ci siamo comportati come
se le riserve e la resilienza del pianeta e dei suoi abitanti fossero infinite. E invece non è
così; sono stati fatti degli sbagli: molti, troppi. Oggi i big data ci forniscono lo strumento sia
per analizzare quegli sbagli, sia per capirne l’entità e le ramificazioni, offrendo un’infinità di
opportunità trasversali che possono far ripartire dei ragionamenti intorno alla salute
circolare, mantenendo fermo al centro il perno dell’etica.

Cosa ci insegna il cammino percorso finora?


Puoi pensare a una nuova fase quando hai raggiunto gli obiettivi del percorso precedente, in
toto o in parte, oppure quando un determinato approccio è saturo. Non sta a me giudicare,
ma è certo che siamo già a un livello di verticalizzazione così profondo, che se continuiamo
a essere solo iperspecializzati rischiamo di non sfruttare tutte le infinite potenzialità che
abbiamo oggi incredibilmente a disposizione. Piuttosto dovremmo mirare a un progresso
responsabile a 360 gradi, seguendo cioè un ragionamento circolare: l’innovazione non deve
essere più concepibile come uno strumento che porta un miglioramento da un lato e
distruzione dall’altro. Deve incoraggiare un progresso complessivo del sistema.
Ce lo dicono anche i Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite. E a questo
proposito non dimentichiamo che innovazione responsabile significa anche ottimizzare le
risorse e sfruttare quello che già esiste. Un tempo questo problema non era all’ordine del
giorno: c’erano delle conquiste da raggiungere, e allo stesso tempo non c’erano gli
strumenti di indagine e di comunicazione che sono oggi disponibili. Vesalio come faceva a
ottimizzare senza elettricità, telefono, e soprattutto, come dicevo, senza cella frigo?
Oggi stiamo vivendo una rivoluzione che prima nemmeno potevamo immaginare. Ma in
questa nuova dimensione, in questo giardino dell’Eden di numeri e significati nascosti e
proibiti è assolutamente necessario che facciamo tutti quanti uno sforzo in più.
Rivoluzionari e militanti devono guardare al loro futuro includendo il concetto di
responsabilità.

Ma perché è necessario cambiare marcia?


Primo: perché c’è bisogno di un cambio di paradigma, e abbiamo visto che ogni tanto i
paradigmi si possono e si devono cambiare. Lo abbiamo visto nelle storie di cui abbiamo
parlato nel campo della biomedicina e della salute: con osservazioni attente, curiosità, studi
approfonditi, scoperte casuali e opere dell’ingegno, a un certo punto lo scenario può
trasformarsi, può evolvere. Può essere stravolto da un’intuizione completamente inattesa.
Non riallineare i paletti a fronte di nuove consapevolezze o strumenti è una forma di
ottusità.

In concreto, cosa significa?


Le nuove tecnologie sono nuove possibilità, ci impongono di ripensare completamente il
nostro modo di rapportarci alla salute. E non parlo solo della ricerca scientifica; dobbiamo
fare anche i conti con un altro fronte che vuole anch’esso il cambiamento: quello del mondo
dei pazienti. È inevitabile che la loro voce si farà sentire più forte e, speriamo, sempre più
istruita e consapevole. Il che a mio avviso rappresenta una grandissima opportunità.

Vuoi dire che deve cambiare anche il rapporto tra studiosi e resto della
popolazione, tra medici e pazienti?
Se da un lato è chiaro che dobbiamo imparare ad ascoltare di più le necessità dei portatori
d’interessi, dall’altro abbiamo anche strumenti che prima non c’erano per capire
determinati meccanismi. Se qualcuno chiama, urla o si fa sentire dal mare magnum di
internet, significa che vuole dialogare. Oggi questo si può fare, e quindi il rapporto con il
paziente in senso lato diventa attivo e bidirezionale. Questo è un passaggio obbligato per
arrivare a una maggiore responsabilizzazione di tutti rispetto alla propria salute.

Di nuovo la questione delle informazioni. Mettiamoci nella prospettiva del


ricercatore: come è possibile conciliare la mole impressionante di studi, di ricerche
e di dati sulla salute con la capacità di abbracciarli in un’unica visione?
La novità è questa: oggi ci sono gli strumenti per farlo. La fonte di informazioni si moltiplica
con l’uscita di ogni nuovo modello dei nostri inseparabili amici misuratori – smartphone,
automobili, elettrodomestici, termostati e rilevatori presenti in ogni impianto: in casa
privata, fabbrica o allevamento. Oltre a questa lettura «passiva» ce n’è una più attiva che
riguarda, per esempio, la partecipazione alla raccolta dati.
Non è solo una questione di tecnologie. Oltre a internet e ai big data, c’è un’altra
dimensione che abbiamo tralasciato e che oggi tendiamo a dare per scontata:
l’internazionalizzazione. La scoperta origina quasi sempre da un processo di comprensione
e di sfruttamento di opportunità al di fuori dei confini nazionali (e mentali). Nel distillato di
storie che abbiamo ricostruito ci sono alcune costanti: una di queste è proprio che le grandi
scoperte si nutrono di punti di vista, culture e interpretazioni diverse. Pensa solo a Vesalio,
fiammingo di Bruxelles, che nella sua vita insegna a Padova, stampa il suo capolavoro in
Svizzera e poi si trasferisce alla corte imperiale in Spagna. La globalizzazione della scienza
non l’abbiamo inventata adesso, è una tendenza che c’è da sempre tra gli studiosi e i
ricercatori di tutto il mondo.

Del resto, se non ricordo male, quello della libera circolazione dei dati scientifici è
sempre stato un tuo «pallino».
Per me è continuare la marcia, l’ovvio sviluppo di un percorso che ho iniziato diversi anni fa.
Nel 2006, quando lavoravo ancora in Italia – all’Istituto Zooprofilattico delle Venezie a
Legnaro, in provincia di Padova – decisi di condividere la sequenza genetica di un virus che
avevamo appena decodificato su una piattaforma ad accesso libero aperta a tutti gli
scienziati, ovunque lavorassero. In poco tempo il fatto divenne noto in tutto il mondo:
ricevetti pure qualche aspra critica, ma soprattutto sostegno e consenso. Anche se non era
certo merito mio.

E di chi era allora?


I tempi erano semplicemente maturi per un cambio di paradigma. I paradigmi si riescono a
cambiare quando «è l’ora» di farlo, perché se il momento è sbagliato l’onda del
cambiamento si trasforma in risacca. Fu, per così dire, un’intuizione che atterrò su un
terreno fertile, maturo: pronto insomma ad accoglierla.

Fece molto rumore?


Abbastanza, mi trovai scaraventata sul New York Times e sul Wall Street Journal. Mi trovai
in qualcosa più grande di me. Sentivo però che avevo scelto la cosa giusta da fare. In quel
momento era necessario fornire ai ricercatori di tutto il mondo più materiale da studiare,
più sequenze genetiche. Noi rendemmo pubblica e gratuita la nostra, dando l’esempio e
invitando altri a fare lo stesso.

Cosa ti ha insegnato quell’esperienza?


Che la condivisione delle informazioni è importante e che ognuno può fare la sua parte.
L’iniziativa non avrebbe avuto senso se poi non fosse stata seguita da moltissimi ricercatori
e da organizzazioni che hanno promosso la filosofia e la cultura dell’open access. Una
sequenza genetica in più o in meno cambia poco, migliaia di sequenze ti permettono di
andare molto più in profondità. Quindi l’obiettivo è stato raggiunto dalla comunità di
scienziati, non da uno solo.

E cosa possono fare le persone comuni, i ragazzi, i genitori, i pensionati?


Parlavamo prima di dati raccolti passivamente, ovvero «rilevati», e di dati invece generati
attivamente: informazioni sulla propria salute e sui parametri vitali, come la pressione
arteriosa e il livello di glicemia, sulle proprie abitudini alimentari e motorie, ma anche dati
ambientali come il livello di inquinamento. Informazioni di questo tipo potrebbero essere
fondamentali, per esempio, per capire l’effetto a lungo termine di alcune sostanze e di
alcuni farmaci: oggi studi del genere sono costosissimi e durano anni, mentre con un
cambio di paradigma le conoscenze a riguardo potrebbero beneficiare di un’accelerazione.
L’epidemiologia digitale è già qui, aspetta solo che liberiamo le sue energie.
Gli epidemiologi cercano i segni, recenti o antichi, lasciati da una malattia o da
un’infezione. Le tracce che abbiamo studiato fino a questo momento erano più o meno come
impronte di piedi nudi sul bagnasciuga: un po’ poco da guardare e da misurare, ci facevano
capire giusto forse la lunghezza e la larghezza. Oggi le impronte che possiamo studiare sono
come quelle lasciate dalle scarpe da calcetto, con i tacchetti e le scritte sotto, che marcano
una traccia assai più dettagliata nella sabbia bagnata. In 3D, con molte informazioni
supplementari. Diciamo che fino ad adesso abbiamo studiato solo una piccola parte, o un
determinato aspetto del problema.

Perché però dovremmo accettare di mettere in comune i nostri dati: non è come
fare da cavie?
Beh, sostanzialmente perché ci conviene. Ci sono ancora tantissime cose che non sappiamo
su alcuni meccanismi fisiologici e patologici. Attivando processi partecipativi per usare la
potenza dei big data si potrebbe davvero dare un impulso incredibile allo studio di alcune
patologie, e quindi allo sviluppo ulteriore delle terapie, a partire dal cancro e dal diabete. Si
tratta anche di un senso di responsabilità sociale: se tutti ci muoviamo nella stessa direzione
con più consapevolezza potremo innescare una serie di spirali positive.

Spiegati meglio.
Potremmo dare il via a una grande accelerazione in tutti quegli studi in cui è essenziale una
massiccia quantità di dati rilevati su parametri vitali biologici, fisici, biochimici e di
comportamento. Questo significherebbe tantissime opportunità nell’ambito della salute:
proprio qui i dati potranno veramente servirci a collegare molti puntini mancanti. I big data
sono visti dalla maggior parte dei ricercatori come opportunità per andare avanti nel
proprio ambito di ricerca, non come risorse per l’avanzamento trasversale del sistema
salute. Certo bisogna anche continuare ad approfondire nei singoli settori, ovvero rimanere
sul proprio binario; adesso però occorre soprattutto saper guardare le cose da un’altra
prospettiva, magari anche quella degli NL.

NL? Ancora con gli olandesi?


Gli olandesi non c’entrano nulla con essere NL, anche se sono certa che di olandesi NL ce
ne sono parecchi, a cominciare da van Leeuwenhoek. Comunque, l’uso ragionato e
interdisciplinare dei big data può essere lo strumento per una visione più larga, che
abbracci la salute in tutte le sue componenti. Faccio un esempio un po’ diverso dai soliti:
pensiamo alla cura della depressione o delle malattie neurodegenerative, un ambito molto
complesso. Fino a qualche decennio fa non venivano neppure considerate malattie; in
seguito si è passati a cercare terapie farmacologiche, infine sempre più spesso alcuni studi
hanno esteso l’attenzione ad altri fattori, come le relazioni familiari e personali.
Oggi parliamo di ambienti arricchiti per gli ammalati di Alzheimer – si lavora con i
disegnatori di interni e gli arredatori per offrire loro un ambiente stimolante. Addirittura la
Mayo Clinic riconosce l’utilità della musica in pazienti affetti da questa patologia o dalla
demenza. La scienza ci dice che le aree del cervello legate alla memoria musicale sono
relativamente meno danneggiate di altre per quel che riguarda queste due specifiche
patologie – e proprio evocando i ricordi musicali si può quindi provare a ridurre lo stress,
l’ansia e la depressione nei pazienti.

Curare con la musica e con le lampadine colorate? Non rischiamo di scivolare su un


approccio New Age? Già adesso non manca chi offre cure a base di ascolto e di
empatia, oppure con il peperoncino o il limone…
No, no! Se prese in questa maniera sono cose pericolosissime. Non confondiamo: la scienza
è scienza e si occupa di cose quantificabili e misurabili, che si possono verificare. Evidenze
e affermazioni che possono essere falsificate, se vogliamo dirla come Karl Popper. Ciò non
toglie che con questi dati oggi sia possibile anche studiare fenomeni un tempo molto più
difficili da osservare, all’incrocio tra biologia propriamente detta e comportamenti sociali.
Dobbiamo escludere a priori che si possa trattare di campi promettenti? Non credo proprio.

Torniamo però al punto: dobbiamo per forza accettare di essere sotto controllo
ogni secondo per far avanzare la scienza?
Ma scusa, non è già così? In questo momento non stai chattando sul telefonino, oggi non hai
controllato la posta o fatto acquisti online? Non hai usato la carta di credito o il navigatore,
non hai giocato con il tuo smartphone, non hai messo un like o rilanciato un post sui social?
Oggi regaliamo già i nostri dati a destra e a manca: avrebbe certamente più senso usarli in
forma anonima per una buona causa, a beneficio di tutti. La tecnologia fa parte di noi, è una
protesi con cui interagiamo: tanto varrebbe trasformare tutto ciò in un’energia positiva,
qualcosa che vada a beneficio della conoscenza e del benessere collettivo.

Quindi secondo te la privacy non è un problema?


È un problema serissimo, ma ne devono parlare gli esperti, non certo io che mi occupo di
tutt’altro. Nulla vieta comunque di cominciare a ipotizzare degli scenari, mentre giuristi e
informatici si mettono al lavoro per trovare un equilibrio tra opposte esigenze.

Pensi che si potrebbe arrivare a un concetto di salute come equilibrio circolare


uomo-animale-piante-ambiente?
Il messaggio che vorrei dare è che non possiamo più andare avanti pensando alla salute
dell’Homo sapiens come nostro unico obiettivo prioritario, né come individui né come
specie. Dobbiamo cercare di far convergere la salute come sistema. Le nostre capacità di
previsione crescono a un ritmo vertiginoso: in questo nuovo scenario, per esempio, non si
possono più studiare la malaria o Zika ignorando fenomeni come il riscaldamento globale.
La conoscenza in fondo è cogliere i collegamenti tra le cose e le informazioni; adesso
possiamo farlo incrociando e analizzando dati che già esistono. Per esempio: a proposito di
Zika, sapevi che l’andamento dell’epidemia è stato influenzato dai flussi del turismo e dalle
navi crociera? Gli epidemiologi sono andati a cercare come si diffondeva studiando proprio
le rotte navali.

Dovremmo forse evitare di ripetere alcuni sbagli?


Questo deve essere uno dei punti di partenza. Inutile negarlo, ci sono cose che abbiamo
fatto male ed errori in cui non dobbiamo ricadere. Dobbiamo trovare dei percorsi alternativi
che tengano in considerazione la salute con uno sguardo più ampio, rinnovando e
immettendo energia nuova in un sistema esausto o patologico, perché consumato da anni di
pratiche sempre uguali a se stesse.

Fammi un esempio.
Fleming lo aveva intuito, e adesso siamo arrivati a un punto critico: l’abuso degli antibiotici
ha selezionato dei batteri superkiller. Lo scienziato scozzese aveva preannunciato che
«batteri istruiti» avrebbero imparato a resistere agli antibiotici. Gli antibiotici per di più
sono stati usati in maniera sistematica anche negli animali da reddito, determinando la
selezione e circolazione di batteri resistenti, che hanno almeno una marcia in più.

In che senso circolazione?


I batteri delle mucche non si limitano a stare nelle mucche. È esattamente l’opposto: i
meccanismi di distribuzione e di produzione del cibo possono portarci sulla tavola dei
microbi che proprio non dovrebbero starci. Pensa che, alla fine del 2018, negli Stati Uniti
una contaminazione da Escherichia coli O157:H7, derivata da una partita di insalata infetta,
ha interessato 16 Stati. Se-di-ci. Già, perché l’insalata contaminata non solo era finita nel
bancone dei frigoriferi della grande distribuzione, ma anche nella produzione su scala
industriale di panini. E lo sai da dove proviene questo particolare ceppo di batteri? Per dirla
in maniera educata, dall’intestino di mucche, pecore e anche cervidi. E poi, come ci arriva il
nostro microbo sull’insalata di 16 Stati? Attraverso la fertirrigazione dei campi, quindi
grazie alla catena di distribuzione – con i camion che ce lo portano, tramite la rete di
vendita, sulle nostre tavole. È una tossinfezione che può essere molto grave, causare una
malattia invalidante o anche rivelarsi mortale. E per la quale non ha senso usare antibiotici.

Insomma, abbiamo generato degli apparati produttivi che sono completamente


verticalizzati.
Sì: li chiamerei proprio egoisti. Se per rispondere alle necessità produttive stravolgiamo
meccanismi ecologici e naturali, dobbiamo avere bene presente che l’analisi costi-benefici
non riguarda soltanto l’immediato, ma soprattutto il medio e lungo periodo.
Ti faccio un altro esempio: oggi sempre più cani vengono sottoposti a chemioterapia per
curare il cancro, e in questo modo si riesce ad allungare la vita dei nostri amici ammalati di
qualche mese. Al di là delle considerazioni nello specifico, questi pazienti oltre al
trattamento chemioterapico devono essere sottoposti a terapie antibiotiche ripetute e
continue perché, esattamente come capita a noi esseri umani, anche loro con la
chemioterapia diventano immunodepressi, fragili. E indovina cosa succede? Questi animali
eliminano con le feci una percentuale altissima di batteri multiresistenti. Di conseguenza
soprattutto anziani e bambini rischiano di contrarre infezioni che poi sono difficilissime da
debellare.
Il punto che mi preme sottolineare è che adesso certe cose le sappiamo. Conosciamo i
meccanismi, i percorsi e i pericoli. Non possiamo più pensare «vabbè, non si dovrebbe fare
ma se lo faccio IO non cambia nulla». Noi funzioniamo come comunità, non come individui,
le azioni dei singoli condizionano indirettamente la vita di tutti, come per esempio quando si
parla di immunità di gregge.

A proposito, si parla molto negli ultimi tempi di vaccinazioni e, soprattutto, dei


movimenti no-vax.
Facciamo così: non parliamo della realtà italiana ma guardiamo al loro proposito in
generale, che è quello di far passare lo stato della popolazione da «resistente» a «recettiva»
nei confronti di microbi che abbiamo imparato a combattere con le vaccinazioni. Se i novax
raggiungessero l’obiettivo che hanno in mente ci farebbero fare un passo avanti e uno
indietro. Il passo indietro sarebbe che l’aspettativa di vita media si ridurrebbe
drasticamente: a «regime», per così dire, le nuove generazioni sarebbero completamente
scoperte rispetto a varicella, morbillo, pertosse, difterite e tetano, che potrebbero spaziare
allegramente mietendo vittime qua e là. Le persone morirebbero soprattutto a causa delle
malattie infettive o delle loro complicazioni. Inoltre si ammalerebbero, rimarrebbero a casa
con la febbre e le bolle, starebbero male.

E il passo avanti in questo scenario apocalittico dove sarebbe?


Provocatoriamente si potrebbe dire che, visto che si verificherebbe un abbassamento della
speranza di vita tanto marcato (diciamo intorno ai 60 anni!), verrebbero risolti in maniera
drastica i problemi legati alla spesa sanitaria e pensionistica. Ma dubito che ci sia qualcuno
(anche tra i no-vax) disposto a vedere in una simile catastrofe un reale guadagno per la
società.
Però. Adesso torniamo alla questione individuo e collettività.
Io sono assolutamente convinta che esistono percorsi paralleli a quelli che abbiamo
sviluppato per arrivare fino a qui, che possono permettere il co-avanzamento della salute. A
differenza dei bizzarri ma rivoluzionari personaggi di questo libro (tutti maschi tranne due,
ahimè), che sono andati a cercare la vera innovazione sfidando dogmi e allargando lo
sguardo ad altre discipline, noi oggi potremmo sfruttare l’immensità di informazioni
generate da altri settori per scopi differenti.

Cambiare visione, paradigma… a volte la tua sembra proprio una fissazione.


Sai, ognuno è frutto della sua esperienza – che non è quello che ti accade, ma quello che
riesci a farne. Nel raffigurarmi i salti di ragionamento acrobatici che hanno spianato la
strada ai risultati dei celebri «rivoluzionari» di cui abbiamo parlato, ho pensato al loro come
a un cammino di liberazione da pregiudizi e da preconcetti. Esiste una condizione mentale
che secondo me facilita questa ricerca di ciò che è diverso e lontano, a volte ai limiti
dell’immaginabile. Ed è quella di non essere lateralizzato.

Non lateralizzato… vuoi dire NL?


Sì. Una piccola percentuale della popolazione non riesce a distinguere il lato destro dal
sinistro – di se stessi, e quindi del mondo circostante. Il processo di lateralizzazione degli
individui avviene intorno alla prima elementare e se perdi quella finestra di consapevolezza
sei finito: mai e poi mai le parole destra e sinistra avranno un significato per te. Quindi i non
lateralizzati non sono capaci di seguire un’indicazione stradale come «vai prima a destra,
poi prendi la seconda a sinistra»; si smarriscono frequentemente, spesso infilano i corridoi
dalla parte sbagliata. Allo stesso tempo, però, il non lateralizzato sa che destra e sinistra
sono solo in testa: sono una congettura e non una caratteristica intrinseca delle cose, anche
se a tutti sembra il contrario.

Suggerisci quindi un modo «non lateralizzato» di guardare alle sfide di cui


abbiamo parlato? Senza pregiudizi, ma anche senza punti di riferimento?
Ecco, forse il vero insegnamento che dovremmo recuperare per poter far avanzare la salute
come sistema è quello di cercare ogni tanto di lasciare la strada maestra tracciata da altri,
recuperando il coraggio e il candore che hanno caratterizzato i personaggi di cui abbiamo
parlato.
Tutti potrebbero provare ogni tanto ad assumere il punto di vista di un non lateralizzato,
guardando oltre i limiti fisici e mentali che ci sono imposti. Destra e sinistra sono utili, ma a
volte – nello spazio interstellare, per esempio – possono fare più confusione che altro.
Esistono ancora mondi interi da scoprire e da esplorare, e come quasi sempre nella storia
della scienza la strada per arrivarci ci sarà offerta dall’interfacciarsi tra loro di più
discipline.
La vera chiave per leggere il futuro è quella di usare nuovi linguaggi per comunicare la
scienza, come fece Vesalio, e avere il coraggio di sfidare il consolidato per l’impensabile,
come Fracastoro. Insomma rendere accessibili e scoprire i nuovi mondi paralleli invisibili
che influenzano la nostra salute.

Guardare alle opportunità che abbiamo senza pregiudizi. È questo il messaggio che
oggi vorresti dare?
Ho usato questa passeggiata, caro Daniele, per animare un racconto fatto di persone, idee e
concetti attraverso la lente dell’interdisciplinarietà. Parlando di personaggi a me cari ho
cercato di tratteggiare come nei secoli lo «sparigliamento delle carte» abbia in molti casi
portato a trasformazioni rivoluzionarie. Lo sparigliamento è quindi un elemento necessario
alla crescita e alla curiosità. Quello casuale non è governabile, ma è possibile costruire
deliberatamente percorsi guidati che mirino ad abbracciare ciò che oggi prende il nome di
disruptive innovation. Il momento è assolutamente favorevole a questa trasformazione, i big
data sono lì che aspettano. Noi dobbiamo soltanto credere nell’interdisciplinarietà e
spingerla in ogni ambito: la storia ci insegna che è grazie a essa che sono possibili le grandi
scoperte che consentono di trasformare la salute da «cilindro» a «sfera». Per compiere
questa trasformazione mi piace immaginare la postfazione di Umberto Curi come Capitolo 1
di questo manifesto aperto che vuole invitarvi a ripensare alla salute in senso più
contemporaneo.
Cercare nuovi punti di vista è sempre utile, a volte è necessario.
Quando si tratta di salute, può essere vitale.
Salute: dentro la parola. Postfazione*
di Umberto Curi

L’origine del termine medicina è controversa. La derivazione latina da medeor allude a un


significato originario di «provvedere», «prendersi cura», «rimediare» – verbi dai quali si
sarebbe poi sviluppato il significato tecnico di «curare». Più interessante l’etimologia greca,
secondo la quale il termine apparterrebbe a una famiglia di verbi che indicano l’attività del
«darsi pensiero», «prendersi cura», intese come espressioni di un atteggiamento generale
del «custodire» o «proteggere». Così, in Omero, medon è il custode, il signore, e medea
sono le cure o i pensieri che occupano la mente del «protettore». Insomma, alla radice dei
termini medico e medicina – in italiano, ma anche nelle altre lingue moderne – ritroviamo
un’attitudine che non coincide immediatamente con un’azione, con un intervento su
qualcuno, ma che piuttosto allude a una disposizione interiore, caratterizzata da uno stato
d’animo di interesse per la condizione di un altro. Medico è dunque colui che istituisce una
relazione, caratterizzata dalla sollecitudine per la condizione di un altro.
Ciò che peculiarmente caratterizza il discendente del greco Asclepio, come del latino
Esculapio, è il prendersi cura di altri, lo stare in pensiero, senza che ciò implichi alcuna
contropartita, senza che la «protezione» elargita trovi un corrispettivo in denaro o in altre
forme.
Si può ricordare che Isidoro di Siviglia (560-636), nella parte propriamente medica
dell’opera enciclopedica intitolata Etymologiae od Origines, fa risalire l’etimologia di
medicina a modus, cioè alla «giusta misura» che deve guidare chi la professa. «Per questo»
scrive Isidoro, «la medicina è chiamata seconda filosofia, poiché entrambe le discipline sono
complementari all’uomo». In tal senso si può ribadire ciò che aveva già detto Claudio
(Galeno), medico dell’imperatore Marco Aurelio e dei suoi figli, vissuto a Roma e a Pergamo
fra il 130 e il 200 d.C.: «Il migliore dei medici sia anche filosofo».
Il medico deve infatti conoscere non solo il metodo logico, ma anche la teoria degli
elementi costitutivi dei corpi. Senza questo controllo delle coordinate fondamentali della
filosofia, il medico scade dalla condizione di iatreus a quella di pharmakéus, spacciatore di
farmaci. Senza la filosofia, infatti, non è possibile esercitare bene l’arte medica, mentre è
più facile lasciarsi risucchiare dalla logica del guadagno.
D’altra parte, la stretta connessione – fino al limite dell’identità – tra medicina e filosofia è
affermata anche dal medico ebreo Mosè Maimonide, secondo il quale il termine stesso
medeor da cui discende la medicina deriverebbe da medietas, vale a dire da quella virtù del
«giusto mezzo» posta da Aristotele a fondamento della sua etica. Il medico, in altre parole,
come il filosofo, eserciterebbe un’arte consistente nel rifuggire gli estremi, puntando
sempre alla medietà. È noto che la medicina professata da Galeno, ma per molti aspetti
anche la disciplina alla quale viene conferito nel corso dei secoli un carattere sempre più
dichiaratamente scientifico, discende in larga misura dalle enunciazioni rintracciabili nel
Corpus Hippocraticum, vale a dire in quell’insieme di scritti, la cui stesura si può
verosimilmente ricondurre al periodo che va dal 430 al 370 a.C. Ippocrate è una figura
ambivalente, che rappresenta insieme una tradizione venerabile e un progresso
rivoluzionario, la rivolta contro il sistema e al tempo stesso la salvaguardia di
un’impostazione nella quale le idee e la pratica della medicina riflettono la dinamica
dell’ordine sociale. Ippocrate deve essere considerato un riferimento obbligato e
imprescindibile per qualsiasi ragionamento relativo allo statuto e alle finalità della
medicina. Non un semplice documento storico, né un antenato a cui tributare rispetto e
ammirazione, ma anche al quale riservare una nicchia fra le polverose testimonianze di un
tempo irrevocabilmente passato. Ma, piuttosto, un interlocutore privilegiato, con il quale è
necessario misurarsi, quando si intenda approfondire la ricerca sulle possibilità e i limiti
dell’arte medica.
Nelle ricerche della scuola ippocratica è possibile cogliere «al lavoro» uno stile di
indagine non riducibile alla precarietà di una pratica puramente empirica, come tale
destituita di validità epistemologica. Il dichiarato impegno metodologico della riflessione
ippocratica, l’orgogliosa consapevolezza delle peculiarità della téchne medica contro le
approssimazioni della fisiologia della scuola di Cnido, storica competitrice della medicina
ippocratica, mostrano infatti come essa intendesse sostituire nella validità teorica e
nell’efficacia pratica la sapienza antica appoggiata sulla tradizione o sulla speculazione
naturalistica. Attraverso il percorso indicato dal suo fondatore, la medicina prende corpo in
questo spazio intermedio fra l’irraggiungibile «certezza assoluta» della matematica e
l’esercizio meramente empirico di chi proceda semplicemente «a caso». Partecipando in
qualche misura dell’uno e dell’altro procedimento, trovandosi dunque al confine fra il rigore
dell’epistéme e la casualità della týche, fin dalle sue origini la medicina ricomprende in sé
questa fondamentale duplicità.
Di Ippocrate, oltre all’amplissima raccolta di scritti a noi pervenuti sotto il titolo del
Corpus che da lui prende il nome, ci è giunta anche una sentenza, spesso citata, che ben
sintetizza la peculiarità dell’arte di cui egli ha posto le basi: «La vita è breve, l’arte è vasta,
l’occasione fugace, l’esperimento è pericoloso (péira sphaleré), il giudizio è incerto»
(Aforismi, I, 1). Sia pure nei termini schematici di quello che oggi potremmo definire uno
slogan, il detto ippocratico richiama alcuni tratti caratterizzanti della iatriké téchne, sui
quali conviene conclusivamente riflettere. A cominciare dall’aspetto fra tutti più importante,
vale a dire la definizione della medicina come téchne – come ciò che, per la polisemia del
termine greco, si presenta come arte e insieme come tecnologia.
Arte, per il ruolo ineliminabile che taluni requisiti irriducibilmente soggettivi –
dall’«occhio clinico» fino alla previsione sull’andamento futuro della malattia – giocano nel
suo esercizio concreto. Tecnologia, non solo per l’impiego sistematico di una strumentazione
sempre più perfezionata, ma anche per la sua attitudine costitutivamente manipolatrice, per
la vocazione a modificare, e non soltanto a studiare, il paziente che si ha di fronte.
Da notare che l’ambivalenza del significato del termine impiegato per designare la
medicina corrisponde alla duplicità della funzione medica. Ippocrate e i suoi seguaci
muovono certamente dall’osservazione empirica, raccolgono indizi e sintomi, istituiscono
correlazioni con il clima e con la morfologia dei territori, formulano congetture sulle cause
razionali delle diverse malattie, ma non si limitano a questo. Il compito che essi si assumono
non si esaurisce con l’osservazione e lo studio, con l’indicazione di ipotesi o la constatazione
di alcune interessanti analogie. Lo studio è funzionale a un intervento, è la premessa
necessaria per un’azione, esercitata sul corpo vivo di chi sia affetto da qualche patologia.
Ma quelle ora citate non sono le sole ambivalenze riscontrabili nella medicina descritta da
Ippocrate. Correlato a esse, ma ancora più importante, è un connotato che è pertinente allo
statuto stesso della medicina, già a partire dalla sua origine storica e dalla sua genealogia
mitica. In quanto è protesa a intervenire sulla condizione dei corpi (ma anche delle
«anime»), attraverso una modificazione del loro andamento «naturale», la medicina
rappresenta in se stessa una sfida indirizzata alla physis, a ciò che ciascuno di noi è in
conseguenza della nascita. La medicina è in se stessa e di per se stessa espressione
dell’indisponibilità ad accogliere il compiersi di processi che riguardino gli organismi
umani, assecondando lo sforzo a rettificare a loro vantaggio ciò che altrimenti seguirebbe
un andamento giudicato anomalo.
Questa attitudine generale può essere colta con molta chiarezza attraverso una
distinzione che è concettualmente alla base della pratica medica, vale a dire la differenza
tra fisiologia e patologia. L’assunto implicito in tale distinzione è che fisiologico – e cioè,
conforme alla physis – sia non ciò che si sviluppa spontaneamente, come effetto e
conseguenza di processi «naturali», ma piuttosto ciò che corrisponde a un concetto di
«salute» astrattamente definito, come adeguatezza a un modello universale costruito
artificialmente.
Il compito assegnato alla medicina, fin dai suoi esordi, coincide dunque con il tentativo di
ricondurre sistematicamente il patologico al fisiologico, dove tuttavia la physis a cui il
fisiologico si riferisce non è la natura nella sua libera estrinsecazione, ma è invece una
nozione di salute convenzionalmente stabilita. Per dirla in altri termini, ciò a cui è rivolta la
medicina, e non accidentalmente, ma per la sua intima e più propria «vocazione», non è il
riferimento alla natura e alle sue dinamiche come norma in base alla quale stabilire ciò che,
discostandosi da essa, debba essere considerato patologico, quanto piuttosto la definizione
tutta artificiale di uno standard di salute, al quale sottomettere la condizione
dell’organismo, anche a costo di modificarne la tendenza naturale. In questa prospettiva, la
patologia non consisterà nell’allontanarsi dalla condizione naturale, ma nell’assecondarla
senza praticare interventi che la correggano, uniformandola allo schema astratto di un
organismo sano.
Di conseguenza, il lavoro del medico non consisterà nell’intervenire per riabilitare le
«leggi» della physis, ma al contrario per piegare la physis ai parametri che le convenzioni in
auge nella comunità scientifica di quell’epoca, o le sempre rilanciate pretese della società,
considereranno quali indicatori di uno stato di buona «salute». Lo spazio specifico della
medicina si dischiude dunque nello scambio fra norma e devianza, fra natura e artificio, fra
fisiologico e patologico.
Gli esiti più recenti della pratica e della ricerca biomedica, spesso considerati alla stregua
di scandalose anomalie, rispetto agli orientamenti «normali» della scienza medica, sono
viceversa già tutti potenzialmente inscritti nelle sue origini e nella sua destinazione iniziale.
Portando alle conseguenze più estreme, ma anche più coerenti e compiute, il principio
ispiratore che è alla base della iatriké téchne, non si tratterà più di limitarsi a ri-stabilire
una presunta «normalità» originaria. La medicina punterà piuttosto a costituire, del tutto ex
novo, una condizione che sia conforme a esigenze e domande sempre più assillanti, tendenti
a ottenere una dilatazione del concetto stesso di benessere del corpo.
Un’ultima annotazione, che ci riporta direttamente a questo libro di Ilaria Capua. Per
Ippocrate non è possibile separare lo studio del corpo dallo studio di quel complesso di
funzioni che i Greci chiamavano psyché, e che noi traduciamo abitualmente (e con molta
approssimazione) con il termine anima. Potremmo dire, in maniera molto schematica, che la
medicina è essenzialmente e irriducibilmente olistica, in quanto si riferisce a un holon – a un
«intero», a una «totalità» – che comprende anche la considerazione dell’ambiente fisico e
sociale in cui si trova l’individuo. Da questo punto di vista, si può già anticipare che la
visione One Health, che fa da cornice a questo volume, da un lato segna una rilevante
innovazione, ma dall’altro lato riprende e porta a compimento finalità che compaiono già
alle origini della storia della medicina. Vediamo perché.

Corpo e anima
Per i Greci, la salute – del corpo, ma anche dell’anima – coincide con l’equilibrio ordinato tra
facoltà e poteri diversi. Perciò il compito della medicina consiste nel determinare o favorire
un corretto rapporto di forze sia all’interno del corpo, fra i diversi umori e le qualità che in
esso sono presenti, sia all’esterno, fra l’organismo e l’ambiente. La dieta e gli esercizi, per
esempio, hanno lo scopo di ristabilire un’opportuna gerarchia, garantendo l’armonia fra
l’interno e l’esterno, fra le forze e i poteri che agiscono dentro e fuori di noi. Da questo
punto di vista, si può dire che la medicina, la quale tende ad apportare sanità e forza al
corpo, assomiglia alla retorica, il cui scopo è quello di infondere persuasione e virtù
all’anima. Ciò che accomuna queste discipline è il fatto che, affinché esse siano esercitate in
maniera appropriata, è necessario che in entrambi i casi sia ben conosciuta la natura
(physis) di ciò a cui esse si applicano, vale a dire rispettivamente del corpo e dell’anima.
In altre parole, se vogliamo intervenire con la competenza necessaria, e non solo
empiricamente, sul corpo o sull’anima, se vogliamo esercitare in termini scientifici la
medicina e la retorica, dobbiamo conoscere in maniera approfondita la struttura e il
funzionamento di ciò che corpo e anima sono per natura, vale a dire come conseguenza
della loro nascita. Colui che agisca, prescrivendo farmaci o imponendo diete, senza avere
una conoscenza approfondita dell’organismo, della sua morfologia e della sua fisiologia, non
sarebbe veramente un medico, ma semplicemente un praticone. D’altra parte, per essere
davvero all’altezza del compito, il medico non potrà limitarsi alle competenze relative alla
natura del corpo; egli dovrà piuttosto tener conto anche dell’anima, perché tra psyché e
sóma sussiste una relazione indissolubile: così come non si devono curare gli occhi, senza
curare anche la testa, né la testa senza il corpo, per la stessa ragione non si può pretendere
di risanare il corpo senza prendersi carico anche dell’anima.
Insomma, se è correttamente concepita e praticata, la medicina presuppone un approccio
olistico, vale a dire un modo di «trattare» il paziente come una totalità, anziché come un
insieme di parti separate. Il buon medico dovrà dunque conoscere in maniera approfondita
la natura, e cioè il modo in cui le cose sono costituite per effetto della loro nascita. E non
potrà avere competenze soltanto sulla natura del corpo, ma anche sulla natura dell’anima, e
dunque anche sui rapporti intercorrenti fra l’uno e l’altra. In termini generali, ciò significa
che il medico può essere considerato un tecnico della natura, un esperto del processo che
ha condotto le cose a essere quello che sono, un conoscitore dell’intima costituzione del
corpo e dell’anima e delle relazioni fra esse sussistenti. Quando parla un medico, dobbiamo
dunque attenderci che parli qualcuno che sa quale è la natura delle cose a cui egli si
riferisce.
Per distinguersi dal mero praticone, non basta che il medico conosca la natura del corpo,
e neppure che – viste le indissolubili connessioni tra i due – egli abbia competenze che
riguardano la relazione tra il corpo e l’anima. È necessario infatti che egli tenga sempre
presente ciò a cui entrambi possono essere ricondotti, vale a dire la phýsis tou hólou, la
natura del tutto. Se si indaga, insomma, la phýsis – si tratti della psyché ovvero del sóma – e
si intende dire intorno a essa qualcosa che sia degno di lógos, non si può prescindere
dall’interrogarsi sulla «natura del tutto». L’approccio caratteristico del medico consisterà
dunque nel riportare costantemente all’orizzonte concettuale della totalità le singole
questioni particolari. Nessuna analisi adeguata potrà essere compiuta, se non riconducendo
il problema in esame al contesto complessivo di cui è parte.
Come già si è accennato, la tesi dell’inscindibilità fra la natura del corpo e la natura del
tutto può farsi risalire fino a Ippocrate. Lo stesso assunto si ritrova anche nelle parole con le
quali, nelle pagine del dialogo di Platone intitolato Simposio, il medico Erissimaco esordisce
nel suo discorso a casa di Agatone, prendendo le mosse proprio da un’impegnativa
affermazione riguardante la phýsis ton somáton, la «natura dei corpi». Essi portano in sé,
sostiene infatti Erissimaco, un «duplice amore», l’uno che si trova nella parte sana del
corpo, l’altro nella parte malata, sicché se «il più gran medico» può essere considerato colui
che è capace di «distinguere l’amore bello da quello brutto», addirittura un «professionista
perfetto» sarà chi riesca a tramutarli, «sì che al posto di un amore s’acquisti l’altro».
Da questo punto di vista, l’arte medica può essere accomunata alla musica, poiché
entrambe condividerebbero l’essere erotikón epistémai, «scienze di moti d’amore», l’una
riguardo al corpo (186c 5), l’altra «quanto all’armonia e al ritmo» (187c 5), e quindi
relativamente all’anima. Perciò Eros deve essere considerato alla stregua di una forza
presente nell’intera phýsis, un principio operante in ogni processo organico, nella forma
specifica della presenza simultanea, e della conciliazione armonica, fra coppie oppositive,
come il caldo e il freddo, il dolce e l’amaro.

Verso nuove definizioni


La salute – si afferma pressoché unanimemente – non può essere definita come «assenza di
malattie». E ciò perché da un lato si tratterebbe di una definizione negativa, meramente
residuale (mentre ciò che si cerca è una definizione in positivo), e dall’altro perché il confine
fra ciò che è malattia e ciò che non lo è presuppone precisamente il riferimento a quella
nozione di salute che si vorrebbe cercare di chiarire.
Il passo storicamente successivo è noto ed è opportunamente richiamato in questo libro di
Ilaria Capua. Nel 1946 l’Organizzazione Mondiale della Sanità formula un concetto di
salute, secondo la seguente definizione, che è ancor oggi alla base della definizione
ufficiale: «La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non
consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità». Come si può facilmente intuire,
pur caratterizzandosi per lo sforzo di procedere oltre i limiti della definizione negativo-
residuale, la formula prevista dall’OMS non è in grado di superare le difficoltà già
segnalate. I motivi principali sono evidenti. Alludendo a uno stato di «completo benessere»
si finisce infatti per indicare un modello astratto e sostanzialmente irrealizzabile, giungendo
così al paradosso di dover riconoscere che, non potendosi affermare per nessun essere
vivente lo stato di «completo benessere», siamo tutti in modi diversi ammalati. A ciò si
aggiunga che l’identificazione della salute con il benessere implicherebbe che ogni
situazione di parziale o totale malessere debba essere considerata espressione di una
condizione patologica, mentre invece si può dimostrare che non sussiste una correlazione
biunivoca fra benessere e salute (e fra malessere e malattia).
Risultati non pienamente convincenti emergono inoltre anche dai principi affermati nella
cosiddetta «Carta di Ottawa», vale a dire nel documento approvato in occasione della prima
Conferenza internazionale per la promozione della salute, svoltasi nella città canadese nel
1986, nel quale si afferma fra l’altro che «grazie a un buon livello di salute l’individuo e il
gruppo devono essere in grado di identificare e sviluppare le proprie aspirazioni, soddisfare
i propri bisogni, modificare l’ambiente e di adattarvisi». La salute è in questo modo
identificata con l’espansione oltre i confini del soggetto che ne gode, diventando con ciò un
mezzo propulsore di ulteriori positivi interventi. Allo stesso tempo, quindi, la capacità di
adattamento all’ambiente viene considerata un elemento indicatore di un buono stato di
salute. Pur cercando di superare i macroscopici limiti insiti nella definizione dell’OMS,
anche la Carta di Ottawa conferma la difficoltà di formulare una definizione positiva di
salute, evitando semplici tautologie («la salute è star bene»), o circoli logici insostenibili.
In tempi recenti, il dibattito è stato riaperto da un editoriale pubblicato su Lancet del
2009, intitolato «What is health? The ability to adapt», nel quale apertamente si prendevano
le distanze dalla definizione dell’OMS, indicando congiuntamente un differente punto di
riferimento. Secondo il prestigioso periodico di lingua inglese, si tratterebbe di adottare la
formulazione contenuta nel libro di Georges Canguilhem, consistente nel rifiutare l’idea che
esistano normali o anormali stati di salute. Ciò perché, secondo lo studioso francese, la
salute non è qualcosa che possa essere definita in termini statistici o meccanicistici, poiché
si tratta piuttosto della capacità di adattarsi al proprio ambiente.
La salute non sarebbe, insomma, un’entità fissa, in quanto cambierebbe per ogni
individuo, a seconda delle circostanze. Ne consegue che la salute non è definita dal medico,
ma dalla persona, conformemente ai suoi bisogni funzionali, mentre al medico spetterebbe il
compito di aiutare l’individuo ad adattarsi al proprio ambiente fisico e sociale. L’editorialista
concludeva il ragionamento con un’affermazione destinata a rilanciare la discussione: «La
salute è un’idea elusiva e al tempo stesso fortemente motivante. Rimpiazzando la perfezione
[di cui si parla nella definizione del 1946] con l’adattamento, noi ci avviciniamo a un
programma per la medicina più caritatevole, confortante e creativo – un programma al
quale tutti noi possiamo contribuire».
La varietà delle posizioni emerse, nel contesto di un dibattito particolarmente ampio,
lascia intendere quanto sia arbitrario tentare di condensare in qualche formula riassuntiva
le risposte fornite all’interrogativo proposto nel titolo del Lancet. Mentre, infatti, risultano
complessivamente evidenti i limiti delle definizioni via via proposte, risulta sempre più
arduo azzardare una pars construens, capace di eliminare le difficoltà affiorate nei tentativi
finora compiuti. In termini generalissimi, si potrebbe tuttavia osservare che l’area di
consenso e di condivisione rispetto ad alcune definizioni cresce quanto più astratta e
indeterminata – e, dunque, al limite, poco significativa, se non del tutto inutilizzabile – è
l’accezione proposta, mentre i dissensi si moltiplicano in presenza di definizioni
maggiormente stringenti.

*
Nelle pagine che seguono, ho ripreso e sviluppato temi e spunti in parte già presenti in miei precedenti
lavori, ai quali rinvio per un ulteriore approfondimento delle questioni qui affrontate: Il mantello e la scarpa.
Scienza e filosofia tra Platone e Einstein, Padova, Il Poligrafo, 1999; Miti d’amore, Milano, Bompiani, 2005;
Endiadi. Figure della duplicità, Milano, Raffaello Cortina, 2015; Le parole della cura. Medicina e filosofia, Milano,
Raffaello Cortina, 2017.
Bibliografia essenziale

G. Armocida, B. Zanobio, Storia della Medicina, Milano, Masson, 2003.


L. Bertinato, «Mediterranean routes and the bulwarks of plague control during the
“Serenissima Republic” in Venice», World Neurology, 30 gennaio 2017.
F. Bottaccioli, Filosofia per la medicina, medicina per la filosofia. Grecia e Cina a confronto,
Milano, Tecniche Nuove, 2010.
V. Boudon-Millot, Galeno di Pergamo: un medico greco a Roma, Roma, Carocci, 2016.
G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, Paris, Puf, 1966; trad. it. di M. Porro, Il
normale e il patologico, Torino, Einaudi, 1998.
G. Cosmacini, Medicina e sanità in Italia nel ventesimo secolo: dalla “spagnola” alla II
guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1989.
G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza,
2011.
G. Cosmacini, C. Crisciani, Medicina e filosofia nella tradizione dell’Occidente, Milano,
Episteme Edizioni, 1998.
G. Cosmacini, M. Menghi, V. Boudon-Millot, Galeno e il galenismo: Scienza e idee della
salute, Milano, FrancoAngeli, 2012.
U. Curi, Le parole della cura. Medicina e filosofia, Milano, Raffaello Cortina, 2017.
U. Eco, Sulle spalle dei giganti: Lezioni alla Milanesiana, 2001 2015, Milano, La nave di
Teseo, 2017.
Galeno, M. Vegetti, Nuovi scritti autobiografici, Roma, Carocci, 2013.
Galeno, M. Vegetti, I. Garofalo, Opere scelte di Galeno, Torino, Utet, 1978.
S. Giardina, A.G. Spagnolo, «Le virtù della storia: la sfida tra dogma e innovazione nella
rivoluzione anatomica di Andrea Vesalio», Biografie Mediche, 2013 (2), pp. 7-9.
D. Helbing et al., «Will democracy survive big data and artificial intelligence?», Scientific
American, 25 febbraio 2017.
Ippocrate, M. Vegetti, Opere di Ippocrate, Torino, Utet, 2000.
R. Porter, Breve ma veridica storia della medicina occidentale, Roma, Carocci, 2011.
Storia del pensiero medico occidentale, a cura di M. Grmek, voll. 3, Roma-Bari, Laterza
1993-1998.
F. Zampieri, Storia della medicina dalla preistoria ai nostri giorni, Padova, Cleup, 2016.
Ringraziamenti

Una serie innumerevole di grazie alla rinfusa a tutti quelli che mi hanno sostenuto, ognuno
a modo suo, in questo progetto divulgativo. Non li limito a Beppe Ippolito, Ilaria Borletti
Buitoni, Mario Rasetti, Giovanna Guzzetti, Sergio Saia, Eligio Piccolo – se ci siete stati nel
farmi da sponda in questa impresa così atipica, vi dico davvero grazie.
Ma un grazie speciale lo devo a due persone.
Il primo – se non altro per averlo coinvolto, suo malgrado, in questa «pazza idea» – va a
Umberto Curi. Ma non tanto per il suo contributo a questo libro, di cui certamente sono
onoratissima, ma per essere stato quello che mi ha reso accessibile la filosofia. Ovvero, colui
che me l’ha resa concreta, un passaggio per me essenziale – anche per scrivere questo
volume.
E poi un grazie speciale a Sara Agnelli. Ho fortemente voluto una classicista nel mio
gruppo di lavoro all’Università della Florida (operazione che ha fatto sollevare non poche
sopracciglia) e attraverso la sua prospettiva e le sue conoscenze siamo riuscite a trovare
questa chiave di lettura che mi ha permesso di apprezzare il sapere e il percorso degli
antichi e degli eroi che hanno conquistato la salute di cui oggi godiamo. Credo che, come
persone che operano nella scienza, abbiamo l’obbligo di guardarci indietro ogni tanto.
Se non altro per la prospettiva, rispetto al micro-micro-micro dettaglio di cui ci stiamo
occupando.
Hanno contribuito

Sara Agnelli si è laureata in Lettere Classiche all’Università Cattolica di Milano. Dopo un


PhD in Classics alla University of Florida, dal 2017 lavora all’One Health Center of
Excellence, dove è responsabile dei rapporti interdisciplinari tra sapere scientifico e
umanistico.

Daniele Mont D’Arpizio vive e lavora a Padova. Giornalista e scrittore, si occupa soprattutto
di scienza, cultura e storie.

Alberto Fioretti si è laureato in Filosofia alla Sapienza Università di Roma. Sta per
diventare pubblicista dopo aver collaborato per circa due anni a diversi quotidiani cartacei e
online.
Dal catalogo

Nicola Palmarini
Immortali. Economia per nuovi highlander

Roberto Poli
Lavorare con il futuro. Idee e strumenti per governare l’incertezza

Cristina Pozzi
Benvenuti nel 2050. Cambiamenti, criticità, curiosità

Francesco Morace
Futuro + Umano. Quello che l’intelligenza artificiale non potrà mai darci

Gerd Leonhard
Tecnologia vs Umanità. Lo scontro prossimo venturo

Cosimo Accoto
Il mondo ex machina. Cinque brevi lezioni di filosofia dell’automazione

Cosimo Accoto
Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale

Jeff Howe, Joi Ito


Al passo col futuro. Come sopravvivere all’imprevedibile accelerazione del mondo

Flaviano Zandonai, Paolo Venturi


Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società

Aldo Bonomi, Francesco Pugliese


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Barbara Santoro
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