Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
CIRCOLARE
Un «conto alla rovescia» che si trasforma in un intrigante viaggio nel tempo – da Ippocrate ai
no-vax, dalla peste nera alla creazione dei lazzaretti – alla scoperta del ruolo della
trasversalità e della circolarità nelle grandi conquiste della salute di cui oggi godiamo.
I protagonisti di questo libro sono quei visionari, coraggiosi, determinati o solo fortunati, che
in epoche diverse hanno scoperto, per caso o per intuito, universi così vasti da andare ben
oltre i confini dell’immaginazione. Dalle loro storie emerge con chiarezza come la conoscenza
e lo studio dei meccanismi che generano salute si espandano grazie alla potenza del
pensiero laterale. È l’interdisciplinarietà che ha consentito di aprire campi immensi da
esplorare e approfondire, andando con il tempo a costituire i pilastri della salute.
La trasformazione digitale ci impone di ripensare alcuni percorsi e di proporne di nuovi e
rivoluzionari, per arrivare a un maggior equilibrio con gli animali, con le piante e con
l’ambiente che ci accoglie nel suo complesso. La sfida è quella di riconoscere che la salute è
un sistema di vasi comunicanti, che può essere migliorato grazie a un’innovazione
responsabile che miri a rigenerare l’equilibrio. Proprio come diceva Ippocrate.
Ilaria Capua è direttore dell’One Health Center of Excellence e Pre-eminent Full Professor
all’Università della Florida. È una virologa di fama internazionale e ha diretto laboratori di
ricerca in Italia e all’estero. È stata parlamentare della XVII Legislatura ed è autrice di opere
di divulgazione e saggistica: Idee per diventare veterinario (2008), I virus non aspettano
(2012), L’Abbecedario di Montecitorio (2015), Io, trafficante di virus (2017).
CULTURA E SOCIETÀ
ILARIA CAPUA
SALUTE CIRCOLARE
Una rivoluzione necessaria
Impaginazione: Alberto Bellanti, Milano
Copertina: Studio Wise, Milano
L’immagine di sfondo in copertina è tratta da Isidorus Hispalensis, De Natura Rerum, Cod. 83-II, fol. 131v
(dettaglio), manoscritto conservato presso Koeln, Erzbischoefliche Dioezesan- und Dombibliothek/Cologne,
Library of the Cathedral and of the Archdiocese. Si ringrazia per l’autorizzazione alla riproduzione.
Tutti i diritti sono riservati, compresi la traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione, la
comunicazione al pubblico e la messa a disposizione con qualsiasi mezzo e/o su qualunque supporto (ivi compresi
i microfilm, i film, le fotocopie, i supporti elettronici o digitali), nonché la memorizzazione elettronica e qualsiasi
sistema di immagazzinamento e recupero di informazioni.
Per altre informazioni o richieste di riproduzione si veda il sito www.egeaeditore.it.
Date le caratteristiche di Internet, l’Editore non è responsabile per eventuali variazioni di indirizzi e contenuti dei
siti Internet menzionati.
ISBN 978-88-238-1732-6
Agli NL di ieri, oggi e domani
–7 Consapevolezze
–6 Pazza idea
–5 Spiegare il tutto con il niente
–4 L’arte diventa strumento scientifico
–3 Mai da dentro, sempre da fuori
–2 Inventarsi l’inimmaginabile
–1 Nascosti per bene
0 Consapevolezza di una nuova necessità
Bibliografia essenziale
Ringraziamenti
Hanno contribuito
Prefazione
di Umberto Curi*
Ilaria Capua ci ha abituato a imprese coraggiose. Anche solo limitandosi agli anni più
recenti, il novero di iniziative sorprendenti, almeno per gli amanti del quieto vivere, è
particolarmente ricco. Rientrano in questa tipologia sia l’esperienza compiuta come
deputata al Parlamento nazionale, sia la scelta di raccontare pubblicamente, e senza
censure o rimozioni, il singolare caso giudiziario della quale ella è stata involontariamente
protagonista, anche attraverso la pubblicazione di un libro (Io, trafficante di virus, Rizzoli,
2017) che ha suscitato vasto interesse e ha sollecitato vivaci commenti.
Coraggiosa, ai limiti della temerarietà, Ilaria si dimostra anche con questo libro, per certi
aspetti perfino più azzardato di altre sue iniziative spericolate. Io stesso, messo al corrente
del progetto quando era in fase di elaborazione, avevo caldamente sconsigliato l’Autrice dal
procedere nella sua realizzazione. Con quale impudenza poteva avventurarsi nel terreno
scivoloso e infido della storia della medicina, stabilmente e autorevolmente presidiato da
alcuni «mostri sacri» della storiografia scientifica, senza poter esibire i «titoli» che
avrebbero potuto legittimare una simile impresa? Come poteva illudersi di sfuggire alle
severe osservazioni di quanti avrebbero eccepito sulla mancanza delle specifiche
competenze necessarie per inoltrarsi in un territorio pieno di insidie? E ancora: come
poteva pretendere di essere credibile, senza disseminare il testo di riferimenti bibliografici
utili per documentare la conoscenza di prima mano di testi latini e greci, oltre che della
copiosissima letteratura critica disponibile? Ammonendola a desistere, le avevo ricordato
tutto ciò, aggiungendo di mio una reazione indispettita per non essere stato
prioritariamente coinvolto nel dialogo descritto nel libro. Il mio amor proprio, reso ancor più
suscettibile da una lunga militanza accademica nei ranghi dell’università italiana, si sentiva
ferito dall’essere stato emarginato in favore di talenti intellettuali decisamente più giovani,
anche se (per il momento) meno titolati.
Insomma, tutto lasciava presagire che questa volta il gusto per le sfide, l’inclinazione alla
provocazione, avrebbero giocato un brutto tiro a Ilaria, esponendola su un fianco
vulnerabile, quale è quello di un lavoro non puramente dilettantesco non nel settore
prediletto della virologia, ma nel campo della storia della scienza. Per farla breve: a dispetto
di previsioni tetre, più ancora che oscure, con buona pace delle regole accademiche, Ilaria è
riuscita ancora una volta nell’impresa di sorprendermi, mettendo in crisi quelle che ritenevo
essere certezze incrollabili. Ha scritto un libro che non corrisponde in alcun modo ai
protocolli dei lavori scientifici dedicati alla storia della medicina, né si preoccupa
minimamente di questa negligenza, offrendoci tuttavia un testo vivo, ricco, attraente, a
tratti spumeggiante, sempre acuto, mai banale, proponendoci squarci di grande efficacia e
di sicuro impatto anche sul piano emotivo. Un testo del tutto insolito, non riconducibile ad
alcun modello fra quelli in circolazione, ma capace di stimolare la riflessione, di alimentare
interrogativi, di stupire per l’incisività della scrittura. Insomma: anziché attenersi a regole
apparentemente inviolabili, Ilaria ci sorprende ancora una volta inventando una sorta di
nuovo genere letterario, un archetipo che potrebbe generare per imitazione altri testi
analoghi, lasciando con un palmo di naso i cultori delle rigidità disciplinari, le vestali dei
saperi definiti per via accademica. Gli uni e gli altri destinati a essere oggetto del feroce
sarcasmo di qualcuno che se ne intendeva – alludo ad Albert Einstein – il quale amava
ricordare ai fautori degli steccati fra discipline che la natura non è divisa in dipartimenti,
come lo sono invece le università.
Evito di funestare il lettore sovrapponendo alla limpidissima scrittura di Ilaria una più
ermetica trattazione degli stessi temi. Mi limito ad attirare l’attenzione sul nocciolo duro del
progetto che è alla base del volume: in qualunque modo la si voglia valutare, l’impostazione
One Health che fa da impalcatura al testo segna indubbiamente la comparsa di un nuovo
paradigma, verosimilmente destinato a soppiantare prospettive ormai decisamente isterilite.
Riprendendo in maniera non meramente decorativa lo schema di Thomas Kuhn, si può
davvero affermare che l’ipotesi soggiacente alle pagine di questo libro identifica una fase di
«ricerca straordinaria», nella quale si profila l’urgenza di superare la coltivazione di antiche
certezze per dar vita a un nuovo paradigma. E non è senza significato rilevare che
l’approccio preconizzato nel volume riprende – nel suo «spirito», se non nella lettera – la
visione olistica di Ippocrate, saldando così in un comune orizzonte la nascita e il pieno
compimento della medicina.
*
Umberto Curi è Professore emerito di Storia della Filosofia presso l’Università di Padova.
–7Consapevolezze
Credo di funzionare un po’ così. La mia bizzarra carriera mi ha insegnato a cercare in ogni
nuova esperienza una consapevolezza diversa da cui partire, ripartire – o magari anche
semplicemente tenerla lì, non si sa mai che un giorno non possa servire. L’esperienza
parlamentare, a sua volta, mi ha aperto a molte nuove consapevolezze, alcune delle quali mi
è parso meritassero uno specifico approfondimento. In particolare, mi sono resa conto di
quanto sia urgente ripensare il rapporto con la salute e, nel farlo, di come potrebbe essere
utile ripartire da alcuni interrogativi che ci hanno accompagnato da sempre, da quando
siamo in grado di ragionare.
La consapevolezza, poi, deve trovare agganci concreti. In questo caso, ho preso
ispirazione da un libro di Gianrico Carofiglio, Con i piedi nel fango (Gruppo Abele, 2018), e
ho capito che di certe cose bisogna parlare di più, per riflettere con attenzione; che si
possono riproporre alcuni concetti consolidati in una chiave di lettura diversa e proiettarli
così nel futuro; che è fondamentale elaborare, confrontarsi, per aprire un dialogo. Insomma,
in questo libro voglio raccontare due o tre cose che ho capito in quasi quarant’anni di
curiosità scientifica e di spirito di osservazione da NL (proprio così, NL).
Che cosa è uscito da questa mia riflessione? Prima di tutto, che secondo me abbiamo
bisogno di vedere la salute come un bene che scorre, come una linfa vitale che connette fra
loro gli uomini, gli animali, le piante e l’ambiente. Di fatto, uomini, animali, piante e
ambiente altro non sono che vasi comunicanti. Per capirlo fino in fondo, dobbiamo
espandere le conoscenze trasversali e affrontare i problemi nella loro complessità, non
possiamo limitarci a un approccio verticale. La scienza moderna porta nel suo DNA –
giustamente, beninteso – il processo di specializzazione, e per questo ha saputo dare i
risultati che tutti (a parte qualche scettico, chiamiamolo così) le riconoscono. Ma, in un
mondo sempre più complesso, il rischio è anche quello di perdersi, nell’iperdettaglio o
nell’iperconosciuto, e di non avere più la visione complessiva. Un approccio di più ampio
respiro, integrato, è essenziale per dare il nostro contributo ai 17 Sustainable Development
Goals delle Nazioni Unite, che – per quanto irraggiungibili secondo alcuni – rappresentano
l’unica speranza di revisione di politiche attuali che si rivelano ogni giorno di più
assolutamente insostenibili. Sono quindi completamente uscita dal mio ambito di
iperspecializzazione per volgermi indietro, andando a frugare nella storia della scienza e
focalizzandomi su alcuni personaggi per riflettere sul metodo e imparare da loro. Una
specie di abbrivio all’indietro, che mi ha permesso di prendere la rincorsa partendo dal
passato in preparazione per un salto concettuale in avanti.
Così, a poco a poco, la linea di riflessione che stavo seguendo si è allargata in modo
naturale dalla scienza alla storia e alla filosofia, alla cronaca, persino all’arte. E allora ho
proposto a Daniele Mont D’Arpizio, mio co-autore nel libro Io, trafficante di virus (Rizzoli,
2017), di darmi una mano e di calarsi nel suo ruolo di giornalista intervistatore, ponendomi
le domande lungo le quali si sviluppa questo percorso; poi ho chiesto a Sara Agnelli, adjunct
professor con un PhD in Classics che lavora con me all’One Health Center of Excellence
dell’Università della Florida, e ad Alberto Fioretti, giovane e volenteroso laureato in
filosofia, di aiutarmi a documentare quello che avevo in testa. La mia nuova consapevolezza.
Ho imparato moltissimo nello scrivere questo libro, che si è rivelato pagina dopo pagina
una passeggiata piena di meraviglia e di sorprese. Perché abbiamo tutti bisogno ogni tanto
di fermarci a riflettere sul senso di quello che facciamo e sulle nuove consapevolezze: senza
la conoscenza del percorso che abbiamo alle spalle è difficile stabilire la direzione futura. E,
allo stesso tempo, dobbiamo saper cogliere a piene mani le opportunità del presente. Per
farlo, ho cercato di usare il movimento – dobbiamo partire dal passato per lasciarci
trasportare da accelerazioni che ci consentano di immaginare le potenzialità della
tecnologia, alternate a ritorni verso la realtà in cui viviamo tutti i giorni. Ma dobbiamo
anche poter cogliere dei frammenti essenziali e contemporanei del mondo che ci circonda,
come se fossero ingrandimenti al microscopio ottico oppure osservazioni telescopiche di
scenari distanti. Un esercizio vertiginoso, ma essenziale, grazie al quale possiamo vedere il
concetto di salute in 3D, come se scorresse in un tunnel del tempo.
Con questo libro, vorremmo invitarvi a scoprire il valore della trasversalità e la sua
dirompenza, spesso illuminante, che porta a grandi e rapidi cambiamenti. Ma vorremmo
anche introdurvi alle resistenze che molte idee rivoluzionarie hanno incontrato, proprio
perché rivoluzionarie e profondamente trasformative. Questa chiacchierata semiseria è
quindi soprattutto un racconto e una riflessione, senza alcuna pretesa di completezza, su
alcuni passaggi e personaggi assolutamente rivoluzionari, sul loro pensiero e sulle
straordinarie scoperte scientifiche che ci hanno permesso di conquistare la salute che
abbiamo oggi – un percorso, però, che ci pone di fronte a degli interrogativi e a delle
decisioni da prendere.
È urgente rifletterci già oggi, ma ancor più guardando al domani: l’era digitale
rappresenta e rappresenterà sempre più una grandissima risorsa per migliorare la salute.
Bisogna metterla bene a frutto – altrimenti, secondo me, facciamo un dispetto cretino alle
nuove generazioni, caricandole di problemi che potremmo cominciare a risolvere adesso,
almeno per provare a render loro meno difficile la strada.
–6Pazza idea
Ma questo non c’è sempre stato? Quindi che bisogno c’è adesso?
Ecco, proprio qui ti volevo: è ora di vedere alcune cose in prospettiva e riflettere e – perché
no – inventarci una salute diversa, visto che oggi abbiamo gli strumenti per farlo.
Un concetto positivo quindi e non la mera assenza di malattia, che abbraccia anche
aspetti di benessere psicofisico. Allora perché non va più bene?
Perché è ora di aggiornarlo e renderlo ancora più inclusivo. Una volta per esempio si
tendeva a lasciare fuori dall’ambito della salute fisica tutto l’aspetto psicologico, che oggi è
invece universalmente accettato come determinante anche dal punto di vista medico. Se si
sta bene psicologicamente si sta meglio anche fisicamente: oggi è anche banale dirlo, ma
arrivarci ha rappresentato una conquista. Allo stesso modo oggi anche le relazioni sociali
sono fondamentali in un individuo sano. Muoversi aiuta contro la depressione, camminare
all’aria e al sole fa bene alla mente. Manca adesso fare un grande passo in più: riportare
l’attenzione sugli equilibri, interni ed esterni all’organismo, che ne influenzano la salute.
Per questo oggi tu, che ti sei formata e hai lavorato soprattutto come virologa,
porti avanti questo concetto di One Health?
Proprio così. Prima di andare oltre, farei però un passo indietro, per andare a vedere quali
sono le origini del nostro concetto di salute: solo così è possibile avvicinarsi in maniera
diversa al tema che abbiamo scelto, ripensare alcuni concetti che ci sono stati ripetuti
talmente tante volte da apparirci oggi scontati, e che invece non lo sono affatto. Lo
ammetto: a scuola e all’università la storia non mi interessava molto; un po’ me ne
vergognavo, ma proprio non sopportavo la sua lentezza. A un certo punto nella vita però si
vedono le cose con una prospettiva diversa; così, dopo tanti anni nell’ambito della ricerca
strettamente scientifica, ho sentito la necessità di andare a cercare proprio nelle aree che
avevo maggiormente tralasciato: la storia e la filosofia, partendo dall’antichità greco-
romana.
E allora partiamo…
Partiamo!
–5Spiegare il tutto con il niente
Quindi secondo questa visione cos’era la salute, e come poteva essere ristabilita
dopo la malattia?
In generale per l’umoralismo la salute è direttamente influenzata dall’eccesso o deficienza
di uno qualsiasi dei quattro fluidi corporei presenti nel corpo umano. La parola eucrasia (in
greco εὐκρᾱσία, «buona mescolanza») indicava un giusto e armonioso equilibrio delle
sostanze umorali del corpo umano, essenziale per un buon stato di salute; a questo si
contrapporrebbe una sproporzione – discrasia (in greco δυσκρᾱσία, «cattiva mescolanza») –
tra i quattro fluidi corporei, che genera l’insorgenza di una qualsiasi malattia. Quindi
equilibrio, vasi comunicanti, proporzioni e sproporzioni. Caricare troppo da una parte toglie
a un’altra. Equilibrio e disequilibrio.
Un concetto di salute dei Greci era già più inclusivo di quello odierno.
Certo, perché lo studio dell’organismo umano comprendeva anche quello del suo contesto
ambientale, fisico e sociale. Non era possibile per i medici greci ragionare di salute e
malattia fuori dal contesto ambientale: le diverse configurazioni climatiche (le
«costituzioni») determinano le diverse configurazioni dell’organismo umano tipiche dei
diversi popoli. In Galeno l’equilibrio umorale che plasma i temperamenti degli organi e
dell’individuo nel suo insieme dipende dai fattori ambientali e comportamentali: per
esempio, la successione delle stagioni, con la predominanza di questo o quel fattore
ambientale, influenza in modo specifico l’equilibrio sfaccettato salute-malattia, consentendo
di prevedere il tipo di malattie e la loro evoluzione. Cause primarie di malattia sono il caldo,
il freddo, l’umidità, la secchezza, il vento. Ippocrate, nel suo Arie, acque, luoghi, sostiene
che «quando un medico arriva in una città che non conosce è bene che valuti la sua
posizione, come essa si esponga ai venti e dove si trovi rispetto al sorgere del sole». Della
serie: «ho preso un colpo d’aria» – un buon inizio, come identificazione delle cause del
malessere, ma non sufficiente.
Note
1
Il termine latino tardo pneuma è un calco dal sostantivo neutro greco πνεῦμα, che significa propriamente
«soffio», «aria», dal verbo πνέω, «soffiare». Nello sviluppo della terminologia greca, questo termine, affine a
psyché, ψυχή, «anima», indica il principio di vita e, in modo più specifico, il principio vitale cosciente di ogni
organismo – corrispondente, per significato, al vocabolo latino spiritus.
–4L’arte diventa strumento scientifico
E così, Ilaria, tramite la teoria degli umori per gli antichi la salute e il benessere di
uomini, animali e ambiente erano collegati. Cosa si può recuperare oggi di questa
sensibilità?
Aspetta, andiamo per gradi. Prima parliamo del Medioevo.
Come?
Potremmo definirlo un enorme processo di inclusione e di rielaborazione creativa, che
espande e arricchisce la filosofia e la scienza greco-romana grazie al contributo di altre
civiltà di cui finora non ci siamo occupati, in particolare quella islamica. Infatti l’esposizione
ad altre culture consente, tramite un’opera capillare di traduzione e reinterpretazione, la
maturazione dei fondamenti della medicina e della salute.
Un mezzo miracolo, visto che di barriere ce n’erano parecchie. Qualcuna a caso:
linguistica, logistica, culturale. Bene, pensa che durante l’evo di mezzo i sapienti e i dotti
siriaci fungono da anello di congiungimento tra Impero romano d’oriente e Islam. Così,
attraverso questa prima traduzione e reinterpretazione, i grandi autori greci passano dal
Mediterraneo agli arabi.
È proprio questa interconnessione linguistica e culturale a far sì che la nuova scienza
islamica sia diversa dalla precedente. Non solo attinge alla visione greca, ma addirittura la
accresce. Per esempio, impara un altro linguaggio: quello dei numeri indoarabi. Sì, perché
quelli che noi chiamiamo numeri arabi in realtà hanno le loro origini qualche secolo prima
in India. Pensa a una medicina senza numeri arabi. Pensa a una scienza senza numeri arabi.
Pensa alle targhe senza numeri arabi.
Se questi ultimi sono diventati così popolari ci sarà pure un motivo. Senza di loro forse la
rivoluzione scientifica non sarebbe stata nemmeno possibile. E qui entrano di nuovo in gioco
la circolarità e le interconnessioni, essenziali per tenere viva la medicina antica attraverso
una comparazione e una cross-fertilizzazione delle culture. Cariche di polline esogeno, le
nostre culture riappaiono in Occidente soprattutto attraverso la Spagna, arricchite delle
osservazioni dei grandi medici e scienziati musulmani.
Così però distruggiamo tre cliché: il Medioevo come periodo buio e l’Islam come
religione esclusivamente oscurantista. E poi il fatto che i «cervelli in fuga» siano
un fenomeno recente.
Ogni tanto bisogna riconoscere alcuni aspetti positivi che a volte passano inosservati. Se
siamo arrivati alla terapia genica è anche perché abbiamo saputo arricchire la scienza.
Volendo riassumere, potremmo dire che il Medioevo è un periodo di trasformazione molto
articolato della competenza medica e del concetto di salute, in cui si iniziano a rafforzare le
discipline verticali, ma contemporaneamente rimane sempre presente la figura del medico-
scienziato-saggio che ha una visione complessiva dell’uomo e dell’universo. Inoltre, si
consolida la consapevolezza che i sapienti devono muovere il loro sapere verso aree di
eccellenza perché è attraverso queste ultime che si riveleranno nuove sorprendenti
dimensioni mediche e scientifiche tese a migliorare la salute.
…e arriviamo al Rinascimento.
Eh già, inizia una grandissima convergenza di saperi che trasforma l’approccio ai pilastri
del pensiero antico. Una nuova visione in cui scienza, tecnologia e arte si sposano, in una
sintesi che sarà incarnata da una figura come quella di Leonardo, vero prototipo del genio
rinascimentale, ma che ritroviamo anche in altri personaggi non meno fondamentali per la
storia della medicina. Come Girolamo Fracastoro (1476 ca.-1553), considerato uno dei
medici più geniali di tutti i tempi, o Andrea Vesalio (1514-1564), il fondatore della moderna
anatomia.
Perché?
Andando avanti nelle osservazioni si rende conto che nell’anatomia galenica ci sono degli
errori: per esempio, nella struttura della mandibola e della mascella, oppure nel fegato, che
secondo Galeno avrebbe dovuto avere cinque lobi. Alla fine dallo studio attento dei testi
arriva alla conclusione che l’anatomia di Galeno, fino ad allora ritenuta umana, era invece
basata sulle dissezioni di animali, in particolare delle scimmie. Quindi Vesalio intuisce che è
necessario un aggiornamento; la comparazione, la diversità lo spingono a capire che c’è
bisogno di un nuovo atlante anatomico, in linea con le conoscenze acquisite e con la
sensibilità del tempo. E che deve essere reso pubblico e fruibile.
Stiamo parlando di conquiste maturate nel corso di molti secoli: una transizione
così lenta era necessaria?
Sì, perché doveva preparare le basi per un futuro diverso. Se per esempio prendiamo la
rivoluzione scientifica, dobbiamo ricordare che la svolta non fu immediata: ci sarebbero
voluti ancora secoli perché certe incrostazioni e superstizioni venissero rimosse. Del resto,
lo stesso Galileo Galilei (1564-1642), padre riconosciuto della scienza moderna, continuò
tranquillamente per anni a confezionare oroscopi su richiesta, per arrotondare la paga da
docente. Con il progresso delle conoscenze e l’accento su un «nuovo» sapere, scientifico e
rigoroso, inizia però anche per forza una maggiore specializzazione degli studiosi nelle varie
discipline. Comincia una verticalizzazione assolutamente necessaria e molto fertile. In un
certo senso però si inizia anche a perdere quello sguardo ampio che caratterizzava gli
studiosi di un tempo, e con esso il gusto della reciproca contaminazione tra conoscenze e
culture. Per questo ricordare e studiare figure come quelle di Leonardo e di Vesalio è
sempre essenziale. Leonardo (1452-1519), di cui proprio nel 2019 ricorre il
cinquecentesimo anniversario della morte, probabilmente era NL. Chissà, forse ci starebbe
pure, visto che usava la scrittura speculare.
Una riflessione che faccio spesso è che invece oggi le cose si muovono velocissime. Non
solo: mentre un tempo l’illuminazione o l’idea rivoluzionaria bisognava andarsele a cercare
nello «sconosciuto», oggi molto di ciò che allora era sconosciuto non solo è conosciuto, ma è
pure disponibile a un click di distanza. Vuoi conoscere l’anatomia dell’ornitorinco, quella
specie di castoro con il becco di papero che fa le uova? E che per di più vive solo in
Oceania? Digita e clicca. Per cui scoprire soluzioni nuove dovrebbe essere più semplice.
Ipotizziamo che le informazioni di cui avremmo bisogno per fare una grande scoperta o
invenzione ci siano già e siano accessibili. Cosa serve? L’idea. E l’idea è molto più facile
trovarla se si guarda un po’ più in là.
Note
1
Jundishapur era una città persiana che si trovava nella regione sud-occidentale dell’Iran, nell’attuale
provincia di Khuzestan. Per secoli la città fu il centro intellettuale dell’Impero sasanide (224-651) e sede della
nota «Accademia di Jundishapur». Nel corso del VI e VII secolo, in particolare, l’Accademia diventò il centro
medico più importante del mondo tardoantico.
2
Con l’espressione clerici vagantes («chierici vaganti») nel Medioevo si indicavano quegli studenti che erano
soliti spostarsi in tutta Europa per poter seguire le lezioni che ritenevano più opportune: la cosiddetta
peregrinatio academica, una vera e propria esperienza di mobilità favorita anche dall’assenza di frontiere.
–3Mai da dentro, sempre da fuori
Nel capitolo precedente abbiamo visto come Andrea Vesalio, considerato il padre
dell’anatomia moderna, sia probabilmente morto di peste.
Già, la peste: la peggiore nemica da combattere, l’epidemia letale per antonomasia. Pensa
che ancora all’inizio del Cinquecento «peste» era un termine generico per indicare un po’
tutti i morbi, e spesso si fa fatica a capire dalle fonti di che malattia si trattasse nei casi
specifici. Fin dagli albori dell’umanità le pestilenze poi erano viste come un castigo divino,
accompagnate dall’ira tanto nell’Iliade quanto nella Bibbia. Colpivano il povero e il ricco, il
semplice contadino così come il papa o l’imperatore. Una livella sociale.
Dal punto di vista della teoria degli umori come erano percepite le malattie
infettive?
Direi in maniera disordinata e abbastanza confusa, come si farebbe se si fosse bendati.
Infatti gli studiosi di allora lo erano, non potevano neanche immaginarsi la miriade di mondi
paralleli che stavano per scoprire, come per esempio quello dei microbi. Fin dall’antichità ci
si era resi conto che alcune malattie hanno la capacità di trasmettersi in qualche modo da
un individuo all’altro, diffondendosi anche in regioni diverse da quella d’origine. Solo che
per secoli non si era riusciti bene a comprendere come e perché. Si credeva che le epidemie
fossero provocate da corruptione e infectione: rifacendosi ai classici, si diceva che
l’infezione sarebbe stata legata a eventi naturali come sfavorevoli congiunzioni astrali,
eruzioni vulcaniche, esalazioni di acque paludose, sporcizia, fetore e miasmi provenienti dai
corpi putrefatti e corrotti. Insomma molto fumo e niente arrosto.
Una logica conclusione poteva essere quella di stare fisicamente più distanti dagli
ammalati, i quali potevano essere fonte di contagio. È così che nascono le antesignane delle
maschere con i filtri assoluti: per proteggersi, a un certo punto i medici iniziano a indossare
una maschera a forma di becco allungato, per tenersi distanti dall’ammalato, all’interno
della quale sono state messe un po’ di paglia e alcune essenze aromatiche a mo’ di filtro.
Possibile però che non ci si rendesse ancora conto dei meccanismi del contagio?
Eccoci al punto di svolta. Bisogna ammetterlo: in questo caso la teoria classica medica,
basata sugli umori, non era proprio più adeguata. Non era più in grado di spiegare la
fisiopatologia umana, anche se attraverso di essa si provava a individuare le cause del
contagio di alcune epidemie. L’umoralismo metteva giustamente in risalto l’influsso
dell’ambiente sulla salute, ma gli mancava un tassello tanto piccolo quanto fondamentale: la
scoperta dei microrganismi, gli agenti patogeni responsabili praticamente di tutte le
malattie infettive.
Tornando alle pestilenze, Manzoni parla spesso anche di lazzaretti. Erano così
terribili?
Certo che quello dei Promessi sposi assomiglia proprio a un girone infernale, senza acqua
potabile e con trenta persone per stanza, costrette a dormire per terra o sulla paglia
imputridita, nutrendosi di pane ottenuto con intrugli indigesti. Ambienti del genere erano
malsani comunque, a prescindere dalla peste nera. Ci sono stati però anche casi in cui i
lazzaretti – tenuti meglio e in condizioni meno estreme – contribuirono a contenere il
contagio, talvolta migliorando anche le condizioni delle persone che vi erano ricoverate. In
fondo, ancora oggi uno dei primi passi per impedire la diffusione della malattia è
l’isolamento dei soggetti contagiati. Misure come la quarantena, ovvero quaranta giorni di
isolamento a cui venivano sottoposte le navi provenienti da zone colpite dalla peste nera nel
XIV secolo, sono in uso anche oggi. Quaranta giorni come il diluvio, la permanenza di Mosè
sul Sinai, la durata del processo di imbalsamazione nell’antico Egitto, o ancora il tempo
ritenuto necessario per la purificazione della donna dopo il parto.
Note
1
La parola «miasma» deriva dal greco antico μίασμα, «contaminazione», vocabolo che condivide la stessa
radice del verbo μιαίνειν, «lordare», «contaminare». Nella medicina greca antica, a partire da Ippocrate, miasma
passò a significare un’esalazione malsana, in particolare quelle emanate da cadaveri e acque stagnanti. Tali
esalazioni erano considerate la causa di malattie come la malaria, di infezioni e di contagi.
2
La parola «virus» deriva dal sostantivo latino vīrus, che significava «umore», «succo», ma anche «veleno». Fu
solo a partire dal XVI secolo che questo termine entrò più stabilmente nel gergo medico, descrivendo un pus
contagioso. Alla fine del XIX secolo, la parola iniziò a essere attribuita a un agente infettivo di nuova scoperta, più
piccolo dei batteri.
–2Inventarsi l’inimmaginabile
Aspetta un attimo, hai accennato a Lady Mary Wortley Montagu: qui finalmente
abbiamo una protagonista donna nella nostra storia?
Già, introducendo l’inoculazione del vaiolo in Inghilterra, Lady Mary ebbe un ruolo non da
poco nella storia della salute occidentale, anche se, ahimè, non le è stato riconosciuto
spesso. Fu una donna coraggiosa che viaggiò moltissimo, come ci testimoniano le tante
lettere che scrisse durante la sua vita e che la resero particolarmente famosa, non sempre
in modo positivo purtroppo. Nel Settecento e nell’Ottocento, infatti, Lady Mary fu attaccata
e criticata per la libertà di pensiero ed espressione che troviamo nelle sue lettere.
In esse ci descrive una vita quasi fosse una parabola romanzesca: l’amore per la scrittura
sin da fanciulla; la fuga e il matrimonio contro la volontà paterna; l’ascesa nella società
politico-intellettuale inglese; il soggiorno, accanto al marito ambasciatore, a Istanbul, da
dove importerà il metodo di immunizzazione dal vaiolo; e infine la deludente relazione con il
letterato Francesco Algarotti. Insomma, Lady Mary fu in grado di uscire dagli schemi
culturali del suo tempo, da una prospettiva nuova, tutta femminile. E proprio la tecnica
dell’innesto la fece diventare una delle protagoniste della storia dell’immunizzazione.
Un rivoluzionario, quindi?
Non solo lui. Durante questa fase Pasteur e i suoi colleghi Émile Roux (1853-1933), Joseph-
Henri Toussaint (1847-1890) e il già citato Koch abbattono mentalmente le barriere che
separano la salute dell’uomo da quella degli animali. Ormai non ci si spaventa più di fronte
all’evidenza che animali ed esseri umani possono contrarre la medesima malattia: dalle
osservazioni nascono studi e Pasteur intuisce che sostanze chimiche o forze fisiche (come il
calore) possono interagire con il mondo invisibile, neutralizzando alcuni effetti dannosi. Di
punto in bianco, lo studio e la ricerca sugli animali divengono una risorsa per gli studi sulla
salute umana attraverso l’anello della microbiologia: si connettono di nuovo e ancora di più
due mondi che un tempo sembravano separati.
Qualche esempio?
Partiamo dalla malaria, la più importante: fin dall’antichità un autentico flagello per le
popolazioni che vivono nelle zone tropicali e subtropicali paludose del mondo. Il termine
italiano malaria – da mal’aria: «aria cattiva, dannosa» – ne suggerisce meglio le
caratteristiche essenziali rispetto al francese paludisme, che invece sembra rievocare quei
miasmi che evaporano dalle acque stagnanti delle paludi, considerati dagli antichi l’origine
stessa della malattia. Anche la malaria però con i miasmi e l’aria cattiva c’entra, ma mica
tanto. Anche se le zanzare che la veicolano sono insetti tipici delle paludi e delle zone
umide.
Il problema è che all’epoca mancano due passaggi fondamentali: da una parte
l’identificazione dei seminaria o degli animalcula responsabili, nel caso della malaria un
protozoo a forma di virgola; dall’altra l’idea che la malattia può essere trasmessa da un
vettore. Cioè la nostra piccola creatura a forma di virgola non è in grado di passare da un
soggetto ammalato a uno ancora sano senza qualcosa che la trasformi e la trasporti. Ha
bisogno di trasformarsi in un punto, la nostra virgola, prima di poter generare nuove
infezioni. E dov’è che avviene questa trasformazione? Nell’apparato digerente di una
zanzara. Solo dopo essere maturata da virgola a punto nella pancia di un fastidioso insetto è
pronta per colpire un altro ospite. Niente zanzara vuol dire niente contagio, niente malattia.
Mica facile da capire.
Note
1
«Vettore» è un termine che viene dal latino vector -oris «conducente», «portatore», derivante dal verbo
vehĕre, «condurre», «portare». In epidemiologia, tale parola indica quegli animali ematofagi – ovvero che si
nutrono di sangue – come pulci, zecche, zanzare, pipistrelli ecc., capaci di trasmettere – mediante puntura o
morso – agenti di malattie infettive.
2
La tassonomia (dal greco τάξις, taxis, «ordinamento», e νόμος, nomos, «norma» o «regola») è, per
antonomasia, la «disciplina della classificazione». Generalmente, il termine indica la tassonomia biologica, ovvero
l’insieme dei criteri con cui si ordinano gli organismi in un sistema di classificazione composto da una gerarchia
di taxa annidati.
–1Nascosti per bene
Da dove partiamo?
Ti piace Il trono di spade?
Quale strumento?
Una cartina geografica. L’idea rivoluzionaria è usare una pianta di Londra su cui mappare i
casi. Bisogna dire che ha pure un po’ fortuna, perché la malattia si presta: con la tubercolosi
la sua idea non sarebbe servita a nulla.
Tutto qui?
Molte cose sembrano ovvie… dopo che ci ha pensato qualcun altro. Oggi mappare la
diffusione di una malattia è una delle prime cose che si fanno: sembra banale, e questo dà il
senso di quanto invece sia geniale. Snow capisce che per comprendere e quindi riuscire ad
arrestare l’epidemia deve usare un «filtro» nuovo, che agisca come un setaccio per leggere
le informazioni rilevanti che arrivano dai focolai. Tradotto in termini concreti, inizia a
geolocalizzare (come si dice adesso) i casi di colera su una mappa di Soho, a Londra. Prende
così vita e forma l’epidemiologia: una disciplina che non si concentra sul paziente o sulla
causa della malattia, ma sulle dinamiche con cui si diffonde. Analizza il movimento. E al
concetto di una malattia in movimento si aggancia quello di prevenzione. Se si muove, posso
fermarla – anche ignorando che cosa la provoca. Non ha importanza se si tratta di colera o
salmonellosi: l’importante è capire come interrompere la catena di trasmissione. Un’idea
che mette di nuovo a sistema tutta una serie di competenze diverse e non propriamente
mediche: per esempio nell’ambito della cartografia, dell’organizzazione dei processi e della
comunicazione.
Un successo!
E invece no. Benché sia un medico di una certa fama non gli sarà affatto facile cambiare
l’opinione comune riguardo all’eziologia di questa malattia. Povero Snow, secondo me
doveva avere una grande confusione in testa. È parecchio scettico sulla teoria dei miasmi,
all’epoca ancora dominante, che afferma che epidemie come quelle di colera o di peste nera
siano causate da una forma nociva di «aria cattiva». D’altra parte, in questi anni la teoria
dei germi non è ancora ampiamente accettata, perciò Snow ignora il meccanismo mediante
il quale la malattia si trasmette. Le evidenze però lo portano a credere che il contagio non
sia dovuto all’aria fetida: secondo lui a causare la diffusione dell’epidemia è la
contaminazione degli acquedotti con gli scarichi fognari. Aveva già esposto per la prima
volta nel 1849 la sua teoria in un saggio, On the Mode of Communication of Cholera, del
quale nel 1855 viene pubblicata una seconda edizione, con un’indagine molto più elaborata
sul ruolo della rete di approvvigionamento idrico nell’epidemia di Londra del 1854.
Si torna così a un’idea di ambiente come «influencer» della salute e della malattia.
Il ruolo dell’ambiente, che abbiamo intuito fin da quando vengono poste le basi della teoria
umorale, inizia finalmente ad acquisire basi scientifiche più solide e a espandersi
concettualmente. L’acqua non veicola soltanto infezioni e parassiti: porta con sé anche
temperature alterate (che oggi stanno lentamente «lessando» le barriere coralline e facendo
sciogliere i ghiacci), sostanze chimiche, creature che la abitano. Snow trova la chiave
nell’acqua, risolvendo iconicamente e funzionalmente il problema, ma non sarà in grado di
identificare la causa dell’epidemia. Solo trent’anni dopo la scoperta del vibrione del colera
arriverà alla comunità scientifica grazie a Robert Koch.
Come?
Lister, scozzese, diviene professore di chirurgia presso l’Università di Glasgow e ha modo di
leggere gli studi di Pasteur sulla fermentazione, convincendosi del fatto che nelle ferite si
verifichi un fenomeno simile ai processi fermentativi del lievito. Fortuna che ha studiato sia
il francese sia il tedesco, altrimenti la sua intuizione non sarebbe forse riuscita a maturare,
bloccata dalle barriere linguistiche.
Quindi Koch scopre il nesso fra microbo e malattia, mentre Snow e Lister
sviluppano metodi preventivi per evitare il contagio, così come – per molti versi – i
vaccini. E se invece uno l’infezione l’ha già contratta?
Entriamo allora nella questione delle terapie antibiotiche, che inizia ad avere una certa
priorità soprattutto con lo scoppio della Grande Guerra. Pensa che sul fronte occidentale i
soldati muoiono più per infezione che in combattimento. Dato che le infezioni di guerra sono
tutto sommato piuttosto semplici e ripetitive, si inizia a cercare alacremente una sostanza
che sia capace di debellarle: un problema che interessa particolarmente un batteriologo
scozzese che è stato mandato nel laboratorio di un ospedale militare francese sullo stretto
di Dover, non lontano da Dunkerque. Questo ricercatore desta l’attenzione dei suoi superiori
per la fama che si è procurato a Londra come medico privato: arrotondava infatti i suoi
guadagni somministrando a pazienti ricchi e famosi colpiti da sifilide (sì, proprio quella che
aveva ispirato Fracastoro…) una nuova sostanza chiamata salvarsan, che significa «ciò che
salva attraverso l’arsenico». Da questa pratica aveva intuito che si sarebbe potuta cercare
una sostanza simile per curare anche altre infezioni, come appunto quelle dei militari al
fronte. Parliamo ovviamente di Alexander («Alec») Fleming (1881-1955): un altro uomo che
sapeva guardare oltre, anche oltre le sue stesse scoperte.
Note
1
La piastra di Petri, o capsula Petri, è un recipiente piatto di vetro o plastica, solitamente di forma cilindrica. Si
tratta di uno strumento di lavoro primario in numerosi campi della biologia, che viene impiegato per la crescita di
colture cellulari e che permette di osservare a occhio nudo colonie batteriche. Il nome viene da colui che la
inventò nel 1877, il batteriologo Julius Richard Petri (1852-1921), assistente di Robert Koch. Le piastre più
utilizzate hanno un diametro tra i 50 e i 100 mm e un’altezza di 15 mm.
0Consapevolezza di una nuova necessità
Un numero spaventoso…
…che cresce in modo esponenziale. Pensa che solo nel 2016 è stato prodotto un volume di
dati pari alla somma di quelli generati nell’intera storia dell’umanità fino al 2015. E sai
quale è la previsione sul tempo di raddoppio di qui a meno di dieci anni? 12 ore: ogni 12 ore
raddoppierà il volume di dati prodotto.
Mi fai un esempio di come i big data potrebbero essere usati per il progresso
scientifico?
I nostri device sono antenne di rilevamento e trasmissione dati in tempo reale di cui siamo
solo in parte consapevoli. Una volta si disegnava, oggi si fotografa. Mentre pochi sono in
grado di fare un bel disegno, che rifletta la realtà (pensa a quelli di Vesalio o di Leonardo),
tutti sono (più o meno) in grado di fotografare. Ultrasemplifichiamo, guardando i lati positivi
della tecnologia: è come se in linea teorica noi fossimo tutti diventati dei supereroi rispetto
a come eravamo solo qualche secolo fa. Oggi ci muoviamo a una velocità anche superiore
alla velocità del suono – altro che viaggi a cavallo fra pestilenze e attacchi di banditi. Non
dobbiamo disegnare ma possiamo scattare una foto, non dobbiamo fare operazioni
matematiche perché qualcuno ha insegnato a una macchina a farle per noi (anche solo la
vecchia calcolatrice!). Se i rivoluzionari della scienza di cui abbiamo parlato avessero avuto
gli strumenti che abbiamo oggi, non ci avremmo messo mica tutti questi secoli a capire
queste cose! La tecnologia, in ogni caso, rappresenta sicuramente un’opportunità
incredibile; anche se da sola non basta.
Cosa manca?
Anzitutto la consapevolezza. La sostanza del mio ragionamento è questa: se riconosciamo
che la salute è un bene universale, e riflettiamo sulle interconnessioni e interdipendenze
che la contraddistinguono, non possiamo continuare a pensare che abbia senso avvelenare,
invadere e considerare come nostra proprietà esclusiva l’ambiente – si tratti di colpa, dolo o
negligenza. Non abbiamo più alibi. Dobbiamo adottare una nuova visione e cambiare le
nostre abitudini a tutti i livelli. Pensiamo solo che in molti Paesi, anche fra i più progrediti, i
farmaci continuano tranquillamente a essere buttati nell’immondizia domestica, magari
assieme alle batterie, oppure rovesciati direttamente nel gabinetto. Senza voler cadere nel
banale, non possiamo trattare così male il nostro mega sacco amniotico. Non possiamo
prenderlo a calci, scaricarci dentro le nostre peggiori intenzioni e poi pretendere che non ne
risentiamo né noi né i nostri coinquilini.
Vuoi dire che deve cambiare anche il rapporto tra studiosi e resto della
popolazione, tra medici e pazienti?
Se da un lato è chiaro che dobbiamo imparare ad ascoltare di più le necessità dei portatori
d’interessi, dall’altro abbiamo anche strumenti che prima non c’erano per capire
determinati meccanismi. Se qualcuno chiama, urla o si fa sentire dal mare magnum di
internet, significa che vuole dialogare. Oggi questo si può fare, e quindi il rapporto con il
paziente in senso lato diventa attivo e bidirezionale. Questo è un passaggio obbligato per
arrivare a una maggiore responsabilizzazione di tutti rispetto alla propria salute.
Del resto, se non ricordo male, quello della libera circolazione dei dati scientifici è
sempre stato un tuo «pallino».
Per me è continuare la marcia, l’ovvio sviluppo di un percorso che ho iniziato diversi anni fa.
Nel 2006, quando lavoravo ancora in Italia – all’Istituto Zooprofilattico delle Venezie a
Legnaro, in provincia di Padova – decisi di condividere la sequenza genetica di un virus che
avevamo appena decodificato su una piattaforma ad accesso libero aperta a tutti gli
scienziati, ovunque lavorassero. In poco tempo il fatto divenne noto in tutto il mondo:
ricevetti pure qualche aspra critica, ma soprattutto sostegno e consenso. Anche se non era
certo merito mio.
Perché però dovremmo accettare di mettere in comune i nostri dati: non è come
fare da cavie?
Beh, sostanzialmente perché ci conviene. Ci sono ancora tantissime cose che non sappiamo
su alcuni meccanismi fisiologici e patologici. Attivando processi partecipativi per usare la
potenza dei big data si potrebbe davvero dare un impulso incredibile allo studio di alcune
patologie, e quindi allo sviluppo ulteriore delle terapie, a partire dal cancro e dal diabete. Si
tratta anche di un senso di responsabilità sociale: se tutti ci muoviamo nella stessa direzione
con più consapevolezza potremo innescare una serie di spirali positive.
Spiegati meglio.
Potremmo dare il via a una grande accelerazione in tutti quegli studi in cui è essenziale una
massiccia quantità di dati rilevati su parametri vitali biologici, fisici, biochimici e di
comportamento. Questo significherebbe tantissime opportunità nell’ambito della salute:
proprio qui i dati potranno veramente servirci a collegare molti puntini mancanti. I big data
sono visti dalla maggior parte dei ricercatori come opportunità per andare avanti nel
proprio ambito di ricerca, non come risorse per l’avanzamento trasversale del sistema
salute. Certo bisogna anche continuare ad approfondire nei singoli settori, ovvero rimanere
sul proprio binario; adesso però occorre soprattutto saper guardare le cose da un’altra
prospettiva, magari anche quella degli NL.
Torniamo però al punto: dobbiamo per forza accettare di essere sotto controllo
ogni secondo per far avanzare la scienza?
Ma scusa, non è già così? In questo momento non stai chattando sul telefonino, oggi non hai
controllato la posta o fatto acquisti online? Non hai usato la carta di credito o il navigatore,
non hai giocato con il tuo smartphone, non hai messo un like o rilanciato un post sui social?
Oggi regaliamo già i nostri dati a destra e a manca: avrebbe certamente più senso usarli in
forma anonima per una buona causa, a beneficio di tutti. La tecnologia fa parte di noi, è una
protesi con cui interagiamo: tanto varrebbe trasformare tutto ciò in un’energia positiva,
qualcosa che vada a beneficio della conoscenza e del benessere collettivo.
Fammi un esempio.
Fleming lo aveva intuito, e adesso siamo arrivati a un punto critico: l’abuso degli antibiotici
ha selezionato dei batteri superkiller. Lo scienziato scozzese aveva preannunciato che
«batteri istruiti» avrebbero imparato a resistere agli antibiotici. Gli antibiotici per di più
sono stati usati in maniera sistematica anche negli animali da reddito, determinando la
selezione e circolazione di batteri resistenti, che hanno almeno una marcia in più.
Guardare alle opportunità che abbiamo senza pregiudizi. È questo il messaggio che
oggi vorresti dare?
Ho usato questa passeggiata, caro Daniele, per animare un racconto fatto di persone, idee e
concetti attraverso la lente dell’interdisciplinarietà. Parlando di personaggi a me cari ho
cercato di tratteggiare come nei secoli lo «sparigliamento delle carte» abbia in molti casi
portato a trasformazioni rivoluzionarie. Lo sparigliamento è quindi un elemento necessario
alla crescita e alla curiosità. Quello casuale non è governabile, ma è possibile costruire
deliberatamente percorsi guidati che mirino ad abbracciare ciò che oggi prende il nome di
disruptive innovation. Il momento è assolutamente favorevole a questa trasformazione, i big
data sono lì che aspettano. Noi dobbiamo soltanto credere nell’interdisciplinarietà e
spingerla in ogni ambito: la storia ci insegna che è grazie a essa che sono possibili le grandi
scoperte che consentono di trasformare la salute da «cilindro» a «sfera». Per compiere
questa trasformazione mi piace immaginare la postfazione di Umberto Curi come Capitolo 1
di questo manifesto aperto che vuole invitarvi a ripensare alla salute in senso più
contemporaneo.
Cercare nuovi punti di vista è sempre utile, a volte è necessario.
Quando si tratta di salute, può essere vitale.
Salute: dentro la parola. Postfazione*
di Umberto Curi
Corpo e anima
Per i Greci, la salute – del corpo, ma anche dell’anima – coincide con l’equilibrio ordinato tra
facoltà e poteri diversi. Perciò il compito della medicina consiste nel determinare o favorire
un corretto rapporto di forze sia all’interno del corpo, fra i diversi umori e le qualità che in
esso sono presenti, sia all’esterno, fra l’organismo e l’ambiente. La dieta e gli esercizi, per
esempio, hanno lo scopo di ristabilire un’opportuna gerarchia, garantendo l’armonia fra
l’interno e l’esterno, fra le forze e i poteri che agiscono dentro e fuori di noi. Da questo
punto di vista, si può dire che la medicina, la quale tende ad apportare sanità e forza al
corpo, assomiglia alla retorica, il cui scopo è quello di infondere persuasione e virtù
all’anima. Ciò che accomuna queste discipline è il fatto che, affinché esse siano esercitate in
maniera appropriata, è necessario che in entrambi i casi sia ben conosciuta la natura
(physis) di ciò a cui esse si applicano, vale a dire rispettivamente del corpo e dell’anima.
In altre parole, se vogliamo intervenire con la competenza necessaria, e non solo
empiricamente, sul corpo o sull’anima, se vogliamo esercitare in termini scientifici la
medicina e la retorica, dobbiamo conoscere in maniera approfondita la struttura e il
funzionamento di ciò che corpo e anima sono per natura, vale a dire come conseguenza
della loro nascita. Colui che agisca, prescrivendo farmaci o imponendo diete, senza avere
una conoscenza approfondita dell’organismo, della sua morfologia e della sua fisiologia, non
sarebbe veramente un medico, ma semplicemente un praticone. D’altra parte, per essere
davvero all’altezza del compito, il medico non potrà limitarsi alle competenze relative alla
natura del corpo; egli dovrà piuttosto tener conto anche dell’anima, perché tra psyché e
sóma sussiste una relazione indissolubile: così come non si devono curare gli occhi, senza
curare anche la testa, né la testa senza il corpo, per la stessa ragione non si può pretendere
di risanare il corpo senza prendersi carico anche dell’anima.
Insomma, se è correttamente concepita e praticata, la medicina presuppone un approccio
olistico, vale a dire un modo di «trattare» il paziente come una totalità, anziché come un
insieme di parti separate. Il buon medico dovrà dunque conoscere in maniera approfondita
la natura, e cioè il modo in cui le cose sono costituite per effetto della loro nascita. E non
potrà avere competenze soltanto sulla natura del corpo, ma anche sulla natura dell’anima, e
dunque anche sui rapporti intercorrenti fra l’uno e l’altra. In termini generali, ciò significa
che il medico può essere considerato un tecnico della natura, un esperto del processo che
ha condotto le cose a essere quello che sono, un conoscitore dell’intima costituzione del
corpo e dell’anima e delle relazioni fra esse sussistenti. Quando parla un medico, dobbiamo
dunque attenderci che parli qualcuno che sa quale è la natura delle cose a cui egli si
riferisce.
Per distinguersi dal mero praticone, non basta che il medico conosca la natura del corpo,
e neppure che – viste le indissolubili connessioni tra i due – egli abbia competenze che
riguardano la relazione tra il corpo e l’anima. È necessario infatti che egli tenga sempre
presente ciò a cui entrambi possono essere ricondotti, vale a dire la phýsis tou hólou, la
natura del tutto. Se si indaga, insomma, la phýsis – si tratti della psyché ovvero del sóma – e
si intende dire intorno a essa qualcosa che sia degno di lógos, non si può prescindere
dall’interrogarsi sulla «natura del tutto». L’approccio caratteristico del medico consisterà
dunque nel riportare costantemente all’orizzonte concettuale della totalità le singole
questioni particolari. Nessuna analisi adeguata potrà essere compiuta, se non riconducendo
il problema in esame al contesto complessivo di cui è parte.
Come già si è accennato, la tesi dell’inscindibilità fra la natura del corpo e la natura del
tutto può farsi risalire fino a Ippocrate. Lo stesso assunto si ritrova anche nelle parole con le
quali, nelle pagine del dialogo di Platone intitolato Simposio, il medico Erissimaco esordisce
nel suo discorso a casa di Agatone, prendendo le mosse proprio da un’impegnativa
affermazione riguardante la phýsis ton somáton, la «natura dei corpi». Essi portano in sé,
sostiene infatti Erissimaco, un «duplice amore», l’uno che si trova nella parte sana del
corpo, l’altro nella parte malata, sicché se «il più gran medico» può essere considerato colui
che è capace di «distinguere l’amore bello da quello brutto», addirittura un «professionista
perfetto» sarà chi riesca a tramutarli, «sì che al posto di un amore s’acquisti l’altro».
Da questo punto di vista, l’arte medica può essere accomunata alla musica, poiché
entrambe condividerebbero l’essere erotikón epistémai, «scienze di moti d’amore», l’una
riguardo al corpo (186c 5), l’altra «quanto all’armonia e al ritmo» (187c 5), e quindi
relativamente all’anima. Perciò Eros deve essere considerato alla stregua di una forza
presente nell’intera phýsis, un principio operante in ogni processo organico, nella forma
specifica della presenza simultanea, e della conciliazione armonica, fra coppie oppositive,
come il caldo e il freddo, il dolce e l’amaro.
*
Nelle pagine che seguono, ho ripreso e sviluppato temi e spunti in parte già presenti in miei precedenti
lavori, ai quali rinvio per un ulteriore approfondimento delle questioni qui affrontate: Il mantello e la scarpa.
Scienza e filosofia tra Platone e Einstein, Padova, Il Poligrafo, 1999; Miti d’amore, Milano, Bompiani, 2005;
Endiadi. Figure della duplicità, Milano, Raffaello Cortina, 2015; Le parole della cura. Medicina e filosofia, Milano,
Raffaello Cortina, 2017.
Bibliografia essenziale
Una serie innumerevole di grazie alla rinfusa a tutti quelli che mi hanno sostenuto, ognuno
a modo suo, in questo progetto divulgativo. Non li limito a Beppe Ippolito, Ilaria Borletti
Buitoni, Mario Rasetti, Giovanna Guzzetti, Sergio Saia, Eligio Piccolo – se ci siete stati nel
farmi da sponda in questa impresa così atipica, vi dico davvero grazie.
Ma un grazie speciale lo devo a due persone.
Il primo – se non altro per averlo coinvolto, suo malgrado, in questa «pazza idea» – va a
Umberto Curi. Ma non tanto per il suo contributo a questo libro, di cui certamente sono
onoratissima, ma per essere stato quello che mi ha reso accessibile la filosofia. Ovvero, colui
che me l’ha resa concreta, un passaggio per me essenziale – anche per scrivere questo
volume.
E poi un grazie speciale a Sara Agnelli. Ho fortemente voluto una classicista nel mio
gruppo di lavoro all’Università della Florida (operazione che ha fatto sollevare non poche
sopracciglia) e attraverso la sua prospettiva e le sue conoscenze siamo riuscite a trovare
questa chiave di lettura che mi ha permesso di apprezzare il sapere e il percorso degli
antichi e degli eroi che hanno conquistato la salute di cui oggi godiamo. Credo che, come
persone che operano nella scienza, abbiamo l’obbligo di guardarci indietro ogni tanto.
Se non altro per la prospettiva, rispetto al micro-micro-micro dettaglio di cui ci stiamo
occupando.
Hanno contribuito
Daniele Mont D’Arpizio vive e lavora a Padova. Giornalista e scrittore, si occupa soprattutto
di scienza, cultura e storie.
Alberto Fioretti si è laureato in Filosofia alla Sapienza Università di Roma. Sta per
diventare pubblicista dopo aver collaborato per circa due anni a diversi quotidiani cartacei e
online.
Dal catalogo
Nicola Palmarini
Immortali. Economia per nuovi highlander
Roberto Poli
Lavorare con il futuro. Idee e strumenti per governare l’incertezza
Cristina Pozzi
Benvenuti nel 2050. Cambiamenti, criticità, curiosità
Francesco Morace
Futuro + Umano. Quello che l’intelligenza artificiale non potrà mai darci
Gerd Leonhard
Tecnologia vs Umanità. Lo scontro prossimo venturo
Cosimo Accoto
Il mondo ex machina. Cinque brevi lezioni di filosofia dell’automazione
Cosimo Accoto
Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale
Rossella Sobrero
Sostenibilità, competitività, comunicazione. 20 idee per il futuro
Barbara Santoro
Pensare sostenibile. Una bella impresa