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INTRODUZIONE...........................................................................................................................

1. Che cos’è la Psicologia dell’Emergenza. Scopo, obiettivi e finalità........................................ 4


1.1. La storia della Psicologia dell’Emergenza .......................................................................... 7
1.1.1 La Psicologia dell’Emergenza negli Stati Uniti ........................................................... 8
1.1.2. La Psicologia dell’Emergenza in Italia ........................................................................ 9

2.Le teorie dell’emergenza .............................................................................................................. 12


2.1. La teoria generale degli insiemi: l’approccio sistemico................................................... 13
2.2. Le teorie ecologiche: l’approccio ecologico ..................................................................... 15
2.2.1 La Cor Theory ............................................................................................................... 16
2.3. La crisis theory...................................................................................................................... 20
2.4. Teorie psicosociali sullo stress traumatico ....................................................................... 22
2.4.1. Il modello dello stress psicosociale di Barbara Dohrenwend................................ 22
2.4.2. Il modello transazionale di Lazarus e Folkman ....................................................... 23
2.4.3.Il modello psicosociale delle crisi di vita o transizione di Schaeffer e Moss ........ 26
2.5. La teoria “Broaden and Build” delle emozioni positive................................................. 27
2.5.1. Il modello dinamico degli effetti di Zautra ............................................................. 27
2.6. Il modello di supporto sociale e di deterioramento di Kaniasty e Norris ................... 28

3. Gli scenari dell’emergenza.......................................................................................................... 29


3.1 Catastrofe e disastro ............................................................................................................. 29
3.2. Classificazione dei disastri................................................................................................... 31
3.3. Le fasi del disastro................................................................................................................ 32

4. La vittima ...................................................................................................................................... 33
4.1. La reazione emotiva all’evento traumatico....................................................................... 34
4.1.1. Il modello di Frijda....................................................................................................... 37
4.2. Le reazioni psicologiche...................................................................................................... 42
4.2.1. Le reazioni psicologiche collettive ............................................................................. 43
4.2.2. Le reazioni psicologiche individuali........................................................................... 44

5. Il Disturbo Post Traumatico da Stress ..................................................................................... 47


5.1. Le radici del PTSD............................................................................................................... 47
5.2. Diagnosi e Descrizioni clinica............................................................................................ 48
5.3. Disturbi associati al PTSD.................................................................................................. 54
5.4. Incidenza e fattori di vulnerabilità..................................................................................... 54
5.5 Teorie cognitive e PTSD ..................................................................................................... 56
5.5.1 La teoria di Horowitz sulle sindromi di risposta allo stress.................................... 58
5.5.2 La teoria della valutazione cognitiva o della frantumazione degli assunti
fondamentali di Janoff-Bulman ............................................................................................ 60
5.5.3 Il “fear network” di Foa ............................................................................................... 60
5.5.4 La teoria dell’elaborazione della “doppia rappresentazione” di Brewin ............... 62

6.Una terapia per il PTSD: l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) 64
6.1 L’EMDR: il protocollo standard per adulti e adolescenti............................................... 66
6.2 L’utilizzo dell’EMDR nella terapia di bambini con traumi psichici .............................. 69
6.3 L’EMDR in pratica. Trattamento con i sopravvissuti del terremoto del Molise ........ 71
6.4 CONCLUSIONI ................................................................................................... 72

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BIBLIOGRAFIA............................................................................................................................. 73

SITOGRAFIA.................................................................................................................................. 81

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INTRODUZIONE
“E’ tutt’altro che facile dire se la natura si sia
dimostrata per l’uomo una madre generosa
o una spietata matrigna”
Plinio il Vecchio

“Psicologia dell’emergenza: chi è costei?. Questa domanda di manzoniana memoria mette


in evidenza l’obiettivo del lavoro, che è quello di proporre un’introduzione a questo
“nuovo” ambito della Psicologia.
La storia dell’umanità è incredibilmente densa di riflessioni sul tema dell’emergenza
e dei disastri. Il confronto con le forze della natura, la distruttività umana, l’inaffidabilità
delle stesse tecnologie create dall’uomo hanno permesso di accumulare saperi di ogni tipo
sulla causa, i processi e gli esiti degli eventi devastanti e improvvisi. Dal punto di vista
umano ogni emergenza rappresenta un’intensa esperienza esistenziale, in cui la fragilità
dell’uomo, delle sue opere e dei suoi saperi si confrontano a livello individuale e collettivo
con forze obiettive e con fantasmi di morte, ingaggiando spesso impegnative battaglie per la
sopravvivenza fisica ed emotiva.
Nell’elaborato si cercherà di investigare il rapporto tra emergenza e psicologia,
comprendendo il contributo che la Psicologia dell’Emergenza può dare in contesti distrutti
da una catastrofe, affrontando molteplici aspetti di questo incontro tra cui: le dimensioni
emotive, cognitive, comportamentali e psicosociali; le conseguenze nel breve, medio e lungo
termine del disastro sugli individui; lo spettro normalità-patologia (dalle risposte adattive alle
manifestazioni di disagio fino ai conclamati disturbi mentali). Particolare attenzione è stata
rivolta all’inquadramento teorico di questa disciplina, ricordando sempre la sua natura
fortemente applicativa.
La Psicologia dell’Emergenza viene definita come la ricerca e l’applicazione delle
conoscenze psicologiche nei contesti di emergenza. Essa si occupa principalmente di
studiare le reazioni umane nei contesti avversi, di promuovere la salute mentale e di
rafforzare le competenze psicosociali prima che tali circostanze siano avvenute e dopo il
loro accadimento (Pietrantoni, Prati, 2009).
L’elaborato si propone di investigare da diversi punti di vista la Psicologia
dell’Emergenza, per tale motivo è possibile dividerlo in tre parti distinte.

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La prima parte che comprende il capitolo uno, due e tre che cerchèrà di mostrare le
radici della Psicologia dell’Emergenza, la sua storia nazionale e internazionale, i suoi scopi e
i suoi obiettivi. Vengono inoltre proposte delle “Teorie dell’Emergenze” che si sono
sviluppate grazie all’incrocio di molteplici contributi, dando vita a una prospettiva
multidisciplinare che viene messa ben in evidenza dall’approccio sistemico ed ecologico.
L’elaborato prosegue presentando delle Teorie Psicosociali che mostrano la capacità
dell’uomo di far fronte a circostanze così drammatiche, senza subirne conseguenze troppo
pesanti, che potrebbero determinare l’insorgenza di forme psicopatologiche. Infine, nel
terzo capitolo viene offerta una definizione di disastro e di emergenza, per meglio
comprendere i contesti dei quali uno psicologo dell’emergenza lavora.
La seconda parte, che include il quarto capitolo, è interamente dedicata alla vittima.
In particolare è presentata una classificazione dei diversi tipi di vittima (di primo, secondo e
terzo tipo), si procede poi ad approfondire le reazioni emotive e le fasi ad esse connesse
(caotica, eroica, della luna di miele, della disillusione e della ricostruzione). Data
l’importanza che le emozioni rivestono in circostanze così particolari è stato ampiamente
discusso il Modello di Frijda, che permette di sviluppare un’approfondita analisi della
tematica relativa alle emozioni. Nella parte conclusiva del capitolo vengono analizzate le
reazioni collettive e individuali delle vittime di disastri.
Infine, la terza parte che comprende il capitolo cinque, sei e sette investiga le
possibili conseguenze psicopatologiche delle vittime di un disastro. Il tema centrale è il
Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD), che indubbiamente risulta essere la
psicopatologia maggiormente incidente dopo un evento catastrofico. Rispetto al PTSD si
analizza la storia, la descrizione clinica, i disturbi associati, l’incidenza e i fattori di
vulnerabilità. È presente anche una piccola parentesi relativa ai Disturbi dell’Adattamento e
al Disturbo Acuto da stress (DAS), essendo anch’esse forme psicopatologiche che si
manifestano in circostanze critiche come può essere un disastro, anche se con un’incidenza
minore rispetto al PTSD. Nel sesto capitolo viene analizzato un ventaglio di teorie cognitive
che tentano di dare una spiegazione sull’insorgenza e la permanenza del disturbo. Il capitolo
conclusivo ha come tema centrale l’EMDR, una terapia considerata (da molti) elettiva per i
disturbi di origine traumatica, e in particolar modo per il PSTD. L’EMDR iniziò ad essere
utilizzato nel 1987, dopo una scoperta causale di Francine Shapiro, e si basa sulla
stimolazione alternata dei due emisferi celebrali mentre il paziente si focalizza sulle
componenti dell’esperienza traumatica.

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1. Che cos’è la Psicologia dell’Emergenza. Scopi, obiettivi e finalità.

“Psychologie d’urgence, urgence de psychologie?"


A. Letuvè

“Psicologia dei disastri” o “Psicologia delle catastrofi” sono i termini usati


rispettivamente da anglosassoni (Disasater Psychology) e francesi (Psychologie de catastrophe ), per
indicare quel nuovo ramo della psicologia che in Italia prende il nome di “Psicologia
dell’Emergenza”.
La Psicologia dell’Emergenza riassume una serie di misure da adottare, il prima
possibile, in circostanze di tragica esperienza allo scopo di evitarne potenziali ripercussioni a
lungo termine (De Felice, Colaninno, 2003).
Negli anni si sono susseguite ulteriori definizioni, tra cui la più completa e recente è
quella di Pietrantoni e Prati (2009) i quali definiscono tale ambito di studi come la ricerca, la
pratica e l’applicazione delle conoscenze psicologiche nei contesti d’emergenza. Per questi
autori la Psicologia dell’Emergenza si occupa principalmente di studiare le reazioni umane
alle calamità, di promuovere la salute mentale e di rafforzare le competenze psicosociali
prima che tali catastrofi siano avvenute e dopo il loro accadimento (Pietrantoni, Prati, 2009).
Gli scopi della psicologia dell’emergenza possono essere distinti in due grandi
famiglie: la comunicazione e la terapia (Axia, 2006).
Nel primo caso, lo scopo fondamentale dello psicologo è comunicare efficacemente
informazioni che possono o devono essere impiegate dalle persone coinvolte in
un’emergenza, quindi vittime e soccorritori. In queste situazioni si comunicano
informazioni vitali che le persone possono utilizzare a proprio favore.
Nel secondo caso lo scopo basilare del lavoro dello psicologo è quello di ridurre il
danno psicologico causato dalla catastrofe. La finalità degli interventi sulla crisi è di aiutate
le persone in pericolo a non fare degenerare una situazione di stress interno o esterno e
sostenerle nel riguadagnare un livello di funzionamento e uno stile di vita per quanto
possibile simile a quelli precedenti la crisi (De Felice, Colaninno, 2003).
Si può dire, quindi, che la psicologia dell’emergenza ha come specifiche finalità la
salvaguardia dell’equilibrio psichico di vittime, parenti e soccorritori cha abbiano vissuto
eventi traumatici; ripristinarlo se è stata già compromesso; riorganizzare il tessuto sociale e
facilitare il recupero dell’identità e della sicurezza collettiva. Per raggiungere tali scopi si

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serve dello studio, della prevenzione e del trattamento dei fenomeni psichici e sociali
determinati da un evento traumatico in soggetti o in intere comunità (Busico, 2004).
Gli ambiti di applicazione della Psicologia dell’Emergenza sono molto vasti: gli
interventi di Protezione Civile, il soccorso in caso di calamità, la formazione degli operatori,
la prevenzione, gli interventi umanitari all’estero e di peace keeping, il sostegno ai profughi o
alle persone torturate, il trattamento del trauma (Ranzato, 2002). E’ per questo che uno
psicologo dell’emergenza entra in contatto con molti attori istituzionali, non istituzionali e
professionali coinvolti nell’emergenza: l’esercito, i vigili del fuco, le associazioni non profit e
la Protezione Civile.
La Psicologia dell’Emergenza è costituita da due settori principali (Balecastro, 2005):
• La psicologia dell’emergenza collettiva, si occupa degli effetti di eventi traumatici
che hanno colpito un’intera comunità. In questi casi l’evento critico è collettivo, la
comunità è traumatizzata, data la distruzione dei luoghi e dei modi di essere e di
vivere che la caratterizzavano. Il sistema sociale è in uno stato di crisi, poiché
avviene uno stravolgimento delle caratteristiche dell’insieme sovra individuale in cui
la vita di ognuno si svolge. La struttura sociale è lacerata (De Felice, Colaninno
2003).
• La psicologia dell’emergenza individuale, invece si occupa delle conseguenze di
eventi che hanno colpito un individuo direttamente o indirettamente. In questo caso
l’evento minaccia il singolo individuo che resta scioccato e traumatizzato.
E’ possibile individuare i compiti della disciplina a diversi livelli (Petrillo, Labella,
Felaco, 2004):
• A livello individuale: sostegno e aiuto psicologico in situazioni di sofferenza, paura e
stress, per prevenire il panico; incremento dell’autoefficacia, del controllo interno e
delle strategie di coping.
• A livello sociale: sensibilizzazione e coinvolgimento di segmenti della cittadinanza;
addestramento degli operatori sociali e del volontario; sostegno psicologico agli
operatori esposti allo stress da emergenza.
• A livello professionale: elaborazione di metodologie adeguate per la realizzazione di
interventi contestualizzata; strutturazione di percorsi formativi per lo sviluppo di un
atteggiamento culturale di prevenzione dell’emergenza.
Nell’ambito della Psicologia dell’Emergenza negli ultimi anni sono state e
continuano ad essere svolte moltissime ricerche, che rivolgono il loro interesse ad esempio

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al trauma psichico (Cuzzolari, Frighi, 1991, Barbato, Pulliati, Micucci 2006); alle reazioni
psicologiche degli operatori (Spinello, 2007); al fenomeno del panico di massa (Drury,
Cocking, 2007); alla comunicazione dell’emergenza e delle relazioni di aiuto ( Sbattella,
1997, Rizzuto, 2003, Varveri, Lavanco, 2003); ai meccanismi di difesa dagli eventi traumatici
(Cusano, 2002) e molte altre.
Tali ricerche si orientano verso tre fini principali (Sica 1997):
• L’intervento, caratterizzato dall’attivazione di un programma psicologico per ridurre
l’eventuale disagio;
• La prevenzione, che avviene attraverso l’organizzazione di corsi, conferenze e
seminari rivolti a coloro che sono sensibili alla tematica.
• La formazione, per volontari e personale che lavora in strutture pubbliche e/o
private.

1.1. La storia della Psicologia dell’Emergenza

La Psicologia dell’Emergenza è una disciplina psicologica relativamente nuova: essa,


infatti, è emersa come campo separato della psicologia applicata all’inizio degli anni Ottanta
del Novecento (De Felice, Colaninno, 2003).
In ogni caso da sempre si è consapevoli delle ripercussioni degli eventi traumatici su
coloro che sono stati costretti a subirli.
Ne parlò Erodoto che, dopo la Battaglia di Maratona del 490 a.C., segnalò cinque
casi di cecità isterica.
Ne parlava Seneca, nel Naturales Quaestiones, descrivendo a Lucillo il terremoto che
sconvolse la Campania ed in particolare Pompei il 5 febbraio del 62 d.c. Scriveva: “In
occasione del terremoto, oltre alle rovine dalla città di cui si è detto, si verificarono anche i seguenti fenomeni:
morì un gregge di seicento pecore, si spaccarono statue, alcuni, dopo questo evento, vagarono con la mente
sconvolta e privi di controllo di sé” (VI, 1,3.)
In ambito teatrale Shakespeare, diede vita a molti personaggi in cui erano ritrovabili
risposte a stress acuti. Infatti, Enrico IV è il prototipo del soggetto affetto da quello che in
tempi moderni è stato classificato come Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD).
Anche nelle arti figurative è interessante notare la volontà di rappresentare queste
situazioni di risposta psicologica dell’uomo ad eventi esterni: il pittore Gèricault, ad
esempio, nella sua opera “La zattera della Medusa” rappresenta molto efficacemente alcune

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emozioni (quali, ad es. la sofferenza, l’incertezza, la disperazione) legate ad un contesto di
scampati al naufragio.
Ancora, in epoca moderna è possibile rintracciare dei dipinti in cui vengono messe
ben in evidenza le conseguenze di un evento traumatico, basti pensare a Guernica, il
capolavoro assoluto di Picasso, che rappresenta una vera e propria denuncia degli effetti
della guerra sull’umanità.
In Italia lo storico Placanica in merito al terremoto calabro-messinese del 1783
racconta: “Quel tremuoto era accompagnato da conseguenze straordinarie. Infatti nella misura in cui aveva
sconvolto la terra, così aveva turbato la mente, assai più dei corpi, riuscendo, nell’uno e nell’altro caso, a esiti
imprevisti e imprevedibili. C’è chi era senza meta, chi taceva guardando torvamente ai suoi compagni di
sventura, chi era preso d’insaziabile loquacità, chi affettava coraggio, chi proclamava il proprio terrore, ma in
tutti i dominava il terrore del castigo celeste e, quindi, il desiderio di scongiurare la condanna di Dio”
(Placanica, 1985).
La psicologia dell’emergenza cerca di evitare per l’appunto il sopraggiungere dei
comportamenti appena descritti. In ogni caso il riconoscimento ufficiale di questa disciplina
è recente.

1.1.1. La Psicologia dell’Emergenza negli Stati Uniti

E’ nel contesto statunitense che la Psicologia dell’Emergenza nasce e si sviluppa.


Infatti, è qui che possono essere ritrovate le pietre miliari che hanno fatto la fortuna della
disciplina.
Negli Stati Uniti gli iniziali sforzi per fornire sostegno psicologico in emergenza si
sono avuti nei primi anni del Novecento grazie al lavoro dell’organizzazione National Save-
A-Life League, fondata in numerosi centri urbani al fine di prevenire il fenomeno dei suicidi.
Era già presente comunque una consapevolezza delle conseguenze, spesso traumatiche,
delle guerre sui soldati. Durante la guerra civile Americana (1861-1865) da Costa descrisse
casi di ansietà cardiovascolare, esaurimento e paure nei soldati, parlando di “irritable heart”.
Poco dopo Lovell, medico e militare, descrisse come durante la guerra d’Indipendenza
(1775-1783) i soldati manifestassero alcolismo, depressione e altri sintomi psicotici.
Ma furono sicuramente le due guerre mondiali ad agevolare la constatazione che il
sostegno psicologico immediato potesse ridurre i problemi psicologici derivanti da stress
dovuti a eventi estremi.

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A partire dagli anni Sessanta, Caplan (1964) iniziò i sui studi sulla prevenzione,
conciliandoli con gli interventi in ambiti di emergenza. L’autore distinse l’attività preventiva
in primaria, secondaria e terziaria. La prevenzione primaria è tesa a limitare le cause del disagio
nell'intera società. La prevenzione secondaria ha lo scopo di individuare precocemente i sintomi
di un disagio e i soggetti a rischio. Infine, la prevenzione terziaria ha l'obiettivo di limitare il più
possibile i danni di un disagio presente e di mettere e in atto interventi riabilitativi.
Negli Usa la guerra del Vietnam ha costituito un ulteriore motivo di
approfondimento per la Psicologia dell’Emergenza, grazie allo studio effettuato sui veterani
che soffrivano di problemi psichiatrici a breve e a lungo termine. Per tale motivo, si può
dire che l’attuale categoria diagnostica del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) trovi le
sue origini nell’America della guerra del Vietnam.
Negli anni Ottanta nel DSM III fu riconosciuta ufficialmente l’angoscia associata
alle crisi e agli eventi traumatici come sintomi tipici del PTSD. Inoltre, in risposta alla
crescente consapevolezze delle condizioni di vulnerabilità in cui lavoravano i professionisti
dell’emergenza, l’International Critical Incident Stress Foundation (ICISF) diede vita ad una rete
internazionale di Crisis Response Team, e nel 1997 ottenne l’affiliazione delle Nazioni Unite.
Nel 1992, la Croce Rossa Americana inaugurò la realizzazione di una rete nazionale
per la salute mentale, che aveva come obiettivo quello di intervenire in caso di calamità,
specializzandosi poi in training per i disastri dell’aeronautica.
Nel 1994 fu introdotta nel DSM IV una nuova categoria diagnostica che riflette gli
effetti dell’esposizione ad una crisi: il “Disturbo acuto da stress”.
Nel 1997, il vicepresidente Al Gore pubblicò il “Gore Commission Report” che aveva
come tematica principale la sicurezza nell’aviazione, in cui si raccomandavano i programmi
di intervento sulla crisi. L’air force statunitense da quel momento in poi ebbe, di fatto, dei
Critical Incident Stress Response Teams per provvedere, in casi di emergenza, ai bisogni relativi
nelle varie comunità colpite da un disastro.

1.1.2. La Psicologia dell’Emergenza in Italia

Le prime osservazioni condotte in Italia furono sui sopravvissuti alla prima guerra
mondiale e sui superstiti del terremoto di Messina del 1908; già a quell’epoca si notò una
certa atonia sentimentale, stati depressivi, fobici ossessivi e una serie di disordini somatici

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che si presentarono una volta cessate le reazioni tipiche dei primi giorni dopo la catastrofe
(De Felice, Colaninno, 2003).
Tuttavia, l’interesse nei confronti della Psicologia dell’Emergenza, non ha una lunga
storia nel nostro Paese.
La necessità della presenza degli psicologi in situazioni di emergenza venne
individuata per la prima volta durante il terremoto dell’Irpinia nel 1980 (Villoni, Bellocchi,
1982), però il riconoscimento ufficiale si raggiunse solo dopo il terremoto ad Assisi nel
1997.
La nascita della Psicologia dell’Emergenza in Italia da molti viene collocata appunto
il 10 ottobre 1997, quando a Roma il II° Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi
riunito in seduta approvò un comunicato, pubblicato nel Giornale dell’Ordine n. 5 IV del
novembre 1997, con il quale si invitava l’intera comunità degli psicologi italiani a
collaborare, prestando soccorso psicologico alle vittime del terremoto dell’Umbria (Lanza,
2001; Ranzato, 2002).
La crisi sismica del 1997/98 ha costituito il punto di partenza per l’aumento
dell’attenzione verso i problemi di tipo psicologico dei sopravvissuti ai disastri, nonché dei
loro familiari e dei loro soccorritori; da quegli anni in poi, infatti, è notevolmente aumentata
l’attività degli psicologi in occasione di catastrofi o di emergenze sul territorio nazionale. In
quella circostanza l’intervento nelle zone terremotate coinvolse oltre la Protezione Civile, gli
Ordini degli Psicologi e le ASL di Umbria e Marche, ma si limitò al periodo post-emergenza
e si concluse entro l’anno dell’evento sismico. Si costruirono sei gruppi di ascolto gestiti da
volontari, la cui supervisione fu affidata al Centro EOS, il quale offriva assistenza
psicologica, legale e sociale alle vittime di eventi traumatici (Lambertucci, 1999).
L’esperienza del terremoto verificatosi nel 1997 ha rappresentato un trampolino di
lancio, infatti, successivamente la presenza degli psicologi italiani negli interventi di soccorso
e di protezione Civile è aumentata significativamente.
E’ importante, inoltre, evidenziare come durante questi anni siano nati all’interno
degli Ordini regionali degli Psicologi i cosiddetti Gruppi di Lavoro sulla Psicologia dell’Emergenza,
con l’obiettivo di coordinare le risorse locali in stretta sinergia con altri organi, quali ad
esempio la Croce Rossa Italiana, il Dipartimento della Protezione Civile, i Servizi Sociali, le
Associazioni di Volontariato e le Organizzazioni Non Governative. Negli ultimi anni
troviamo tali gruppi di lavoro attivi in varie realtà, quale Umbria, Friuli Venezia Giulia,
Veneto, Bolzano, Liguria, Marche, Campania, Piemonte, Lazio, Lombardia.

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A partite dal 2000 furono emanate delle leggi a favore dell’intervento psicologico in
caso di emergenza, basti pensare al DDL 4449 presentato in data 2 febbraio 2000, per
iniziativa dei senatori Fiorillo e D’Urso, che riguardava appunto, “L’istituzione del ruolo
dello psicologo delle situazioni di crisi”.
Un ulteriore passa in avanti è stato fatto con la pubblicazione dei “Criteri di
massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi” nella GU dell’aprile 2001,
in particolare, tale fonte al paragrafo 1.7 testualmente puntualizza: “L’intervento sanitario in
seguito ad un disastro deve fare fronte ad una complessa rete di problemi che si inquadrano nell’ambito della
medicina delle catastrofi e che prevedono la programmazione ed il coordinamento delle seguenti attività:
Primo soccorso ed assistenza sanitaria, Interventi di sanità pubblica, Attività di assistenza psicologica ed
assistenza sociale alla popolazione (assistenza psicologica, igiene mentale, assistenza sociale, domiciliare,
geriatrica.)”. Grazie a questo documento l’attività di assistenza psicologica alle popolazioni
colpite diventa un obbligo di legge.
L’ultimo passo avanti è stato quello del 1 marzo 2006 con il varo da parte della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento di Protezione Civile – Servizio Rischio
Sanitario e Ambientale dei “Criteri di massima sugli interventi psicosociali da attuare nelle
catastrofi”. Nel corso degli ultimi anni sono state attivate cattedre, corsi di perfezionamento
e master in Psicologia dell’emergenza, i quali hanno riscosso un immenso e immediato
successo.
Il grande contributo di questa disciplina in ambito italiano si è reso evidente durante
il Terremoto dell’Aquila del 2009, nel quale psicologi “specializzati” e non provenienti da
tutto il Paese, diedero e continuano a dare il loro contributo per evitare l’insorgere di
conseguenze traumatiche negli abitanti del territorio colpito da questa grande tragedia.

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2. Le teorie dell’emergenza

Nella Psicologia dell’Emergenza sono confluiti contributi teorici, metodologici e


concettuali di molteplici ambiti della psicologia.
In particolare la psicologia clinica analizza l’impatto psicopatologico del trauma e
identifica i metodi di trattamento più consoni. Si occupa quindi, delle esperienze connesse al
tema dei traumi psichici e dello stress.
La psicologia sociale e la psicologia di comunità hanno focalizzato la loro attenzione
su aspetti molto importanti quali: l’influenza sociale, la solidarietà e l’altruismo, l’identità
collettiva, la comunicazione e la persuasione, il lavoro di rete e la prevenzione.
Anche la psicologia dell’educazione è coinvolta nel contesto d’emergenza, perché le
situazioni di crisi possono essere viste anche come occasioni di evoluzione e di
apprendimento. Quindi vi è spazio per individuare degli obiettivi educativi e metodologici
utili per accompagnare singoli e comunità nei percorsi di crescita associati alla crisi.
Come sottolineano Castelli e Sbattella (2003), dal punto di vista della psicologia dei
gruppi e delle organizzazioni, l’emergenza è un contesto in cui sperimentare coesione e
capacità d’azione, ma anche un tempo in cui le emozioni e le angosce possono amplificarsi a
dismisura, rimbalzando da un membro all’altro dei diversi gruppo che costituiscono la rete
sociale. Di conseguenza, le tecniche di gestione di gruppo, prima, durante e dopo
l’emergenza possono essere di vitale importanza sia per le organizzazioni dei soccorritori sia
per i gruppi vittima.
Centrale è anche il contributo della psicobiologia e della psicofisiologia le quali
forniscono un grosso apporto per comprendere i correlati corporei delle esperienze di paura
e di minaccia.
Infine, non si può dimenticare il contributo della psicologia generale, che ha messo
in luce come attenzione, percezione e ragionamento funzionino diversamente in situazioni
di forte stress.
In ogni caso, il tema dell’emergenza ha coinvolto nel tempo saperi ed esperienze
riconducibili ad ambiti assai diversi, suggerendo la necessità di un approccio
multidisciplinare ed interdisciplinare. Infatti, in un contesto d’emergenza le scienze umane
incontrano quelle tecniche, ed è necessario che gli esperti di entrambi i settori siano in grado
di tradurre i diversi linguaggi professionali.

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Un contributo al problema dell’integrazione dei saperi viene da alcune teorie di
ordine generale, quali: la teoria generale dei sistemi (approccio sistemico) e le teorie
ecologiche (approccio ecologico).

2.1. La teoria generale degli insiemi: l’approccio sistemico

Nel presente paragrafo verrà analizzata la teoria generale degli insieme, cercando di
comprendere cosa possa offrire alla Psicologia dell’Emergenza.
La teoria generale dei sistemi (Von Bertalanffy 1983) introduce concetti e termini
che oggi vengono utilizzati in molte discipline, anche se in riferimento a fenomeni con
differenti ordini di complessità.
Un “sistema” è una porzione circoscritta e individuata di universo dotata di
determinate caratteristiche complessive, e all’interno della quale possono essere descritte le
relazioni che uniscono le parti e le rendono un tutto inscindibile.
Sistema può essere considerato un individuo, un linguaggio, una comunità di
persone, un ambiente, un territorio. Si possono così definire sistemi biologici, sistemi
sociali, sistemi meccanici, sistemi ecologici (Castelli, Sbattella 2003).
Le teorie sistemiche sono validi strumenti per descrivere e comprendere la
complessità strutturale di una situazione di emergenza, ed anche per comprendere i processi
trasformazionali drammatici e dilaganti che le caratterizzano.
Il cambiamento improvviso di un determinato elemento provoca una cascata di
effetti imprevedibili su tutto l’insieme di elementi e di relazioni che costituiscono il sistema.
Ad esempio, un incidente collettivo che causa la morte improvvisa di molti abitanti di un
piccolo paese sconvolge la vita di un numero considerevole di famiglie, ma anche gli assetti
politici ed economici locali.
Le teorie sistemiche risultano adatte anche per comprendere i tentativi di ristabilire
l’ordine precedente alla catastrofe. Infatti, i legami che tengono unite le parti di un sistema
tendono ad essere un freno per tutti i cambiamenti, e questo spinge il sistema ad
autoregolarsi con meccanismi omeostatici, ma nel caso di cambiamenti bruschi e
drammatici risulta praticamente impossibile ripristinare gli equilibri preesistenti. Questo può
far riflettere sul non semplice ruolo dei soccorritori. In un sistema sconvolto da una
catastrofe, l’arrivo di persone, denaro e tecnologia può provocare risultati molti diversi. È
possibile che si assista ad un miglioramento delle condizioni generali, ma c’è l’eventualità

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che l’ingresso massiccio di persone obblighi la comunità a gestire un numero esponenziale
di nuove relazioni, che può ulteriormente sconvolgerla, complicando la situazione.
In ogni caso qualunque emergenza può essere un’opportunità per il sistema di
attivare cambiamenti importanti, che possono mettere in azione un vero e proprio
apprendimento complessivo. La crisi non è da vedersi solo come un turbamento dell’ordine
costituito, cui va data una risposta mirata a recuperare gli equilibri pregressi, ma come
un’opportunità evolutiva, attraverso cui cercare nuove forme di adattamento.
Secondo Bateson (1976) il cambiamento che passa per una crisi è di livello differente
rispetto ai cambiamenti lineari progressivi. Infatti, l’autore parla di livelli diversi
(zero/primo/secondo/terzo)1 per descrivere l’ampiezza delle diverse ristrutturazioni.
Naturalmente non si vuole concepire la crisi come una fase necessaria per lo
sviluppo personale e comunitario.

1
Secondo Beatson (1968) esistono diversi livelli di apprendimento:
• L’apprendimento zero: è caratterizzato dalla specificità e dall’immutabilità della risposta che,
giusta o sbagliata che sia, non è correggibile; può ad esempio trattarsi di un animale che in una
situazione sperimentale fornisce risposte stereotipate. Un esempio di apprendimento zero nelle
relazioni umane è fornito dal caso del marito alcolista che promette di smettere alla moglie che
sta minacciando di lasciarlo, che però torna nuovamente a casa ubriaco e fare nuove promesse
alla moglie, che si lascia ancora convincere, e così via.
• L’apprendimento uno: è caratterizzato da un cambiamento nella specificità della risposta, tramite
la correzine degli errori di scelta tra un insieme di possibili alternative; esempio di questo tipo di
apprendimento sono dati dal condizionamento pavloviano classico, o dall’apprendimento che si
presenta in contesti di ricompensa strumentale e di evitamento strumentale. Un esempio clinico
di apprendimento uno è dato dal caso del figlio che, in seguito a una serie di esperienze negative,
prende la decisione di non prendere più le parti del padre o della madre quando i genitori
litigano.
• L’apprendimento due, o deuteroapprendimento: può essere definito come un cambiamento nel
processo di apprendimento uno, ad esempio un cambiamento correttivo dell’insieme di
alternative nell’ambito del quale si effettua la scelta, oppure un cambiamento di punteggiatura
delle sequenze delle esperienze. In altre parole, si tratta di un cambiamento nella modalità di
suddividere in contesti il flusso esperienziale, che si associa a un cambiamento nell’uso dei segni
- contesto. Un caso particolare di deuterapprendimento è rappresentato dall’apprendimento dei
contesti di vita. Rifacendosi all’esempio clinico precedente, il giovane che, dopo aver imparato a
non essere coinvolto nei litigi dei genitori, decide di astenersi dall’intervenire anche nelle
diatribe di lavoro, ha conseguito una deutero apprendimento, in quanto ha saputo trasferire
l’apprendimento uno ad un altro contesto.
• L’apprendimento tre: è un cambiamento dell’apprendimento due, ad esempio un cambiamento
correttivo nel sistema degli insiemi di alternative tra le quali si opera la scelta. Sebbene esso sia
raro e difficile da conseguire, si ammette tuttavia che possa verificarsi in situazioni molto
particolari, quali ad esempio le conversioni religiose o, talora, anche in psicoterapia.

14
2.2. Le teorie ecologiche: l’approccio ecologico

Le teorie ecologiche si occupano della natura delle relazioni tra vissuti personali e
modificazioni ambientali.
Queste teorie sono nate nel campo della biologia e da questo traggono quattro
principi fondamentali per spiegare il funzionamento e l’evoluzione della comunità, anche
quelle che sono state soggette ad eventi traumatici:
• Principio di adattamento: si tratta del principio attraverso il quale gli organismi
modificano le loro abitudini o caratteristiche per affrontare le trasformazioni
ambientali. Senza adattamento, un cambiamento nelle risorse può minacciare la
sopravvivenza. Il principio richiama l’attenzione a tutto ciò che è richiesto per
sopravvivere in un particolare ambiente (norme, tradizioni, strutture politiche…).
Facendo riferimento a questo punto, è possibile creare una tassonomia dei differenti
tipi di disastro e di eventi traumatici. Infatti, ogni disastro è circondato da un
ambiente ecologico particolare, dato dall’interazione dell’evento stesso con i modi in
cui intervengono le norme, le tradizioni, le strutture del gruppo colpito.
• Principio dei cicli di risorse: studia la modalità attraverso cui le energie e le risorse
rilevanti per la sopravvivenza sono generate e si ripresentano periodicamente.
Hobfoll (1988) usa questo principio per studiare lo stress collettivo e il suo impatto
sugli individui; egli infatti suggerisce che ogni analisi di un disastro o di un evento
traumatico a livello di comunità debba includere una valutazione attenta delle risorse
personali e sociali disponibili, attivabili o compromesse dall’evento. Infatti un
elemento che può essere vantaggioso in un contesto, può essere, invece
svantaggioso in un altro.
• Principio dell’interdipendenza: analizza i livelli di interconnessione tra diversi aspetti
del sistema. Il principio sottolinea l’importanza di comprendere come le azioni di
soccorso si integrino con le azioni proprie della comunità locale.
• Principi di successione: riguarda le proprietà dinamiche dell’ambiente; afferma che il
cambiamento in una comunità può creare delle condizioni più favorevoli a una data
popolazione e meno a un’altra. L’attenzione è rivolta a rilevare come evolvono nel
tempo i diversi contesti, quindi l’interesse va alle dimensioni temporale e ai percorsi
che hanno portato una data comunità alle forme attuali di adattamento. Sottolinea
l’importanza dell’analisi del passato di una comunità, ma dà anche rilievo al futuro,

15
ai sogni e alle speranze collettive. L’obiettivo è quello di far sorgere nuove possibilità
e risorse dalle ceneri di un disastro.
Presi nel loro complesso, questi quattro principi consentono di illustrare i
meccanismi d’influenza reciproca tra ambienti, gruppi e individui e di predisporre interventi
basati sulla conoscenza delle risorse disponibili e sui processi di trasformazione in atto in
una data comunità (Zani, Palmonari, 1996).

2.2.1. La Cor Theory

Il contributo più significativo all’interno delle teorie ecologiche è quello di Hobfoll.


Egli, partendo dal principio dei cicli di risorse, ha elaborato un modello denominato
Conservation of Resources Theory (Cor Thory), ovvero “Teoria della conservazione delle risorse”.
I fenomeni di stress in questa teoria vengono descritti in termini di perdita di risorse
a livello individuale: lo stress cresce quando gli individui o le comunità hanno a che fare con
una privazione significativa di risorse o con il timore di una loro possibile perdita.
In questo ambito la nozione di risorse ha una connotazione ampia che include
quattro macrocategorie che possono essere applicate a persone e comunità:
• Le caratteristiche personali, sono attributi riguardanti il Sé, come l’età, il genere,
l’autoefficacia o le abilità lavorative; in una comunità tali caratteristiche includono
fattori come il senso di comunità o la coesione sociale;
• Gli oggetti sono beni tangibili come il possesso di un’abitazione o di un’auto o la
presenza di infrastrutture o industrie;
• Le condizioni sono le strutture sociali e le regole, per esempio per gli individui
possono essere l’affettività e l’anzianità di servizio; per la collettività, l’offerta di
impiego e la presenza di servizi di emergenza.
• Le energie a livello individuale, sono la disponibilità di tempo, denaro e conoscenza;
a livello collettivo bisogna aggiungere ad esempio la disponibilità di fonti di
elettricità o di scorte alimentari.
Queste risorse sono le componenti chiave della vita quotidiana, e quindi la loro
perdita è grande fonte di stress.
Secondo Pietrantoni e Prati (2009) questa teoria si basa sul’assunzione che vi sia una
motivazione primaria a conservare le risorse nell’affrontare eventi stressanti da parte sia
delle persone che della comunità. L’impatto dello stress traumatico, quindi, può essere

16
concettualizzato sia in termini di perdite iniziali a causa dell’evento traumatico (es: perdita
della casa in un terremoto) che di perdite successive come conseguenze dell’evento (es:
perdita del lavoro).
La teoria si suddivide in tre principi e tre corollari, che descrivono le dinamiche di
perdita e di guadagno delle risorse e il loro impatto sugli individui e sulla collettività.
Il primo principio evidenzia “il primato della perdita”. A parità di condizioni, le
risorse perse hanno un impatto maggiore di quelle guadagnate.
Il secondo principio riguarda l’investimento essenziale per proteggersi dalla perdita
di risorse, per il loro recupero e guadagno. Gli investimenti possono controbilanciare le
perdite, proteggere da perdite future e contribuire a guadagnare risorse. Tali investimenti,
tuttavia, portano a una diminuzione delle risorse di riserva e, se tali risorse non sono
prontamente rimpiazzate, le difese contro gli eventi futuri sono ulteriormente indebolite.
Infine, il terzo principio stabilisce che l’acquisizione di nuove risorse diviene centrale
in un momento di perdite significative. In caso di disastri, i componenti di una comunità
tendono a reagire con impotenza e disperazione: questo è il motivo principale per cui anche
piccoli guadagni in situazioni connotate da grosse perdite diventano cruciali per la ripresa.
Affinché l’aspetto delle acquisizioni di risorse sia positivo, è necessario che tali risorse siano
reali, coinvolgano azioni individuali e collettive e comportino conseguenze tangibili. In
questo senso si ribadisce il ridimensionamento delle risorse: le acquisizioni devono essere
reali e non il frutto di una riformulazione della situazione (Pietrantoni, Prati 2009).
Ai tre principi si aggiungono tre corollari di approfondimento:
• Il primo corollario postula che gli individui con più risorse sono meno vulnerabili e
maggiormente in grado di procurarsene di nuove. Al contrario, le persone con meno
risorse sono più vulnerabili alla loro perdita e meno in grado di recuperarle. Anche
per le comunità vale la stessa cosa.
• Il secondo corollario afferma che perdite iniziali causano perdite future; un iniziale
smarrimento di risorse, accresce quindi la vulnerabilità del sistema verso ulteriori
perdite future. Questo fatto rischia di innescare la “spirale delle perdite”. Nel
momento in cui la perdita non è controllata, lo stress e i danni aumentano
progressivamente in modo esponenziale. Il processo è molto simile anche a livello
di comunità; infatti, quando le risorse, le forze e i mezzi di una collettività sono
distrutti, anche la capacità di far fronte alle richieste ambientali è intaccata.

17
• Il terzo corollario riguarda la “spirale del guadagno”. Questo è un processo più
lento, difficile e di minore impatto rispetto alla “spirale della perdita” in
conseguenza del fatto che un investimento richiede sforzi e tempi maggiori per
ottenere risultati ed inoltre perché vi è sempre un rischio connesso a tale
operazione. Ecco perché gli individui sono più propensi ad assumere un
atteggiamento protettivo delle proprie risorse contro una probabile perdita o in
seguito ad una grave perdita (Castelli, Sbattella 2003).
La teoria della conservazione delle risorse racchiude altresì una serie d’indicazioni
per l’intervento in situazioni di emergenza (Hobfoll, Lilly 1993):
• Valutazione dell’estensione dei danni per le persone e la comunità;
• Verifica delle risorse disponibili e della possibilità d’impiego;
• Necessità di considerare ed esaminare le aspettative sulle conseguenze a lungo
termine per decidere su quali energie concentrarsi;
Per dare avvio a un buon intervento, la comunità deve attivarsi anche in termini di
prevenzione prima dell’intervento e immediatamente dopo, in modo da avviare il ciclo di
ripresa e frenare quello della perdita.
Questa teoria consente di comprendere come lo stress traumatico agisca sugli
individui e sulle comunità, tenendo conto sia di aspetti culturali e materiali e ponendo
attenzione alla dimensione dinamica dei processi, consentendo tra l’altro un intervento
mirato ed efficace.
Lo schema (immagine 1) sottostante rappresenta sinteticamente il modello: le risorse
dipendono dalla condizione di vita le quali possono comportare perdite acute o croniche.
Queste mettono in moto processi di conservazione che, tramite strategie proattive e
reattive, determinano un investimento di risorse allo scopo di favorire l’adattamento. Se tali
strategie hanno successo, si ha un adattamento alla situazione: l’acquisizione di nuove
risorse va a reintegrare quelle possedute (pool di risorse) e compensa le perdite (spirale del
guadagno). Se, invece, il risultato delle perdite, siano esse acute o croniche, è il
disadattamento (in termini di esiti negativi dal punto di vista emotivo, del funzionamento e
delle risorse) si hanno perdite secondarie.

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Perdite
+/- acute e +
croniche
Perdite secondarie

disadattamento +
Strategie attive
basate su +
anticipazione adattamento

Guadagni secondari

Investimento di
risorse
+
+
Condizioni di Pool di risorse
vita generali

Percorsi di rete
Percorsi di azione
Fonte: Pietrantoni, Prati (2009)

Questa teoria è stata testata anche in occasione dell’attentato alle Torri Gemelle ed
ha mostrato come la perdita delle risorse (tempo libero, riposo adeguato, momenti con la
famiglia…) si colleghi a esiti psicopatologici quali depressione e PSDT (Hobfoll, Tracy,
Galea, 2006).
La teoria della conservazione delle risorse è stata comunque soggetta ad una serie di
critiche. In particolar modo le viene rimproverato il fatto che non sempre le perdite sono
oggettivamente ben definite per cui la dimensione della valutazione assume più importanza;
inoltre l’aspetto delle variabili di personalità che non è incluso, può invece fortemente
influenzare la valutazione delle perdite.
Al di là dei limiti, questa teoria risulta molto utile nei disastri, dato che la minor
enfasi posta sulla dimensione della valutazione personale, consente di concettualizzare
stressor collettivi basandosi sulla dimensione oggettiva delle risorse, il che consente di
preparare previsioni delle conseguenze di un disastro e delle necessità di una comunità
colpita.

19
2.3. La crisis theory

Il primo a definire la sintomatologia delle reazioni di crisi è stato Lindemann (1944),


uno psichiatra che studiò le reazioni emotive dei sopravvissuti ad un incendio del 1943 al
“Cocoanut Grove”, un nightclub di Boston, in cui erano perite cinquecento persone.
L’Autore rilevò che in questa situazione si verificarono normali reazioni ad una
condizione stressante e che tali reazioni si presentavano in modo simile in tutti i soggetti e
con un decorso suddividibile per fasi; dimostrò inoltre che un adeguato intervento
terapeutico, rivolto ai parenti delle vittime, offriva la possibilità di elaborare il lutto evitando
l’insorgere di esiti patologici.
Secondo l’autore i parenti delle vittime dovevano raggiungere, nel corso della
terapia:
• Un’accettazione del dolore del lutto;
• Un riconoscimento delle proprie modalità di reazione emozionale;
• La capacità di esprimere pena e senso di perdita:
• La verbalizzazione dei vissuti di colpa;
Non molto tempo dopo, Hill (1949) studiò le reazioni individuali e familiari alla
crisi, equiparandole al percorso delle montagne russe. Da principio l’individuo risulta
paralizzato, poi si sente confuso, disorientato e indifeso. Più avanti si sente risollevato ed
esce dalla crisi, utilizzando specifiche abilità d’emergenza e trascinando con sé anche i suoi
familiari.
Qualche anno più tardi, Caplan (1964), associò il concetto di omeostasi a quello di
intervento sulla crisi considerando l’organismo umano costantemente impegnato in un
lavoro di mantenimento dell’equilibrio omeostatico con l’ambiente esterno. Nella situazione
di crisi questo bilanciamento fallisce e si instaura una condizione di disequilibrio che
richiede tempo e successivi passaggi prima della risoluzione. Caplan ha descritto lo
svolgimento della crisi per fasi sequenziali: una situazione irrisolvibile con le risorse
possedute dalla vittima nell’immediato; una risposta emotiva acuta e poi la consapevolezza
della propria impotenza, la disperazione, la destrutturazione del precedente equilibrio
interiore e relazionale (Grassi, 1993). L’uscita dalla crisi può condurre ad un’aumentata
capacità di fronteggiare e risolvere le proprie difficoltà esistenziali; oppure alla
stabilizzazione di risorse adattive distorte. Ciò può portare ad un ripristino dello status quo o
anche alla regressione e all’adattamento ad un livello ancora più basso.

20
Anche Rapport (1970) negli stessi anni individuò degli stadi tipici della situazione di
crisi:
• Aumento della tensione, risultato del fallimento dei meccanismi solitamente
utilizzati nella risoluzione dei problemi;
• Sviluppo di meccanismi nuovi che entrano in funzione con tre possibili esiti: la
risoluzione del problema, la sua ridefinizione, la sua negoziazione;
• Recupero dell’equilibrio, in cui si può arrivare ad un livello di funzionamento uguale,
superiore o inferiore al precedente.
Tutte queste teorie hanno in comune una serie di punti. Prima di tutto la necessità,
perché si possa parlare di crisi, di un periodo di disequilibrio e di disorganizzazione, ovvero
di una fase in cui il soggetto sia privato dei suoi consueti meccanismi di difesa. È proprio
questo senso di impotenza di fronte alla crisi che determina l’angoscia.
In secondo luogo i diversi autori sono concordi nel ritenere che la crisi possa essere
un potenziale momento di crescita.
L’importante eredità della Crisis Theory è la constatazione che la crisi non è sintomo
di malattia, ma si pone rispetto a questa in una relazione più complessa: può essere
svincolata dai sintomi clinici, può coincidere con la loro esplosione o portare al loro
superamento (De Felice, Colaninno, 2004).
Tuttavia, gli autori sopracitati non formularono dei modelli d’intervento sulla crisi
specifici.
È dagli anni cinquanta e sessanta che numerosi autori si cimentarono
nell’individuare, a completamento della Crisis Theory, anche delle linee guida per l’intervento.
In questi interventi, l’obiettivo è quello di garantire l’assistenza in prima linea alle vittime di
incidenti, al fine di prevenire o ridurre l’impatto potenzialmente negativo degli stress estremi
che possono causare un trauma psicologico.
Con questo tipo di intervento si vuole pertanto attivare un pronto soccorso emotivo
e non una vera e propria psicoterapia. Sebbene non esista un modello unico d’intervento
sulla crisi, esso, nei suoi principi di base, può essere considerato una metodologia di
prevenzione secondaria, dal momento che può solo limitare gli effetti di eventi stressanti già
avvenuti, subito dopo il loro impatto (Francescato, Ghirelli, 1988). Le caratteristiche
dell’intervento sono:
• Il focus temporale dell’intervento è astorico: ci si occupa solo del presente;

21
• L’obiettivo è quello di attivare una modificazione del comportamento evidenziando
i problemi e aiutando il soggetto a cercare soluzioni alternative;
• L’intervento è breve (4-6 settimane) con incontri frequenti;
• Il contesto preventivo presuppone un intervento lì dove è necessario, in stretta
prossimità con l’evento stressante e non obbligatoriamente in un ambiente sicuro e
tranquillo;
• Gli operatori devono assumere un comportamento attivo, direttivo e orientato al
problema.

2.4. Teorie psicosociali sullo stress traumatico

Le teorie psicosociali sullo stress traumatico focalizzano la loro attenzione non solo
sulla psicopatologia che può insorgere in conseguenza ad un evento traumatico, ma anche
sui possibili esiti positivi, considerando il ruolo di mediazione della percezione soggettiva e
delle personali strategie di coping.
I modelli più importanti sono:
• Il modello dello stress psicosociale della Dohrenwend (1978);
• Il modello transazionale di Lazarus e Folkman (1984);
• Il modello psicosociale delle crisi di vita o transizione di Schaffer e Moss (1992).

2.4.1. Il modello dello stress psicosociale di Barbara Dohrenwend

La teoria della Dohrewend ipotizza che la situazione ambientale e le caratteristiche


personali stabiliscono la possibilità di incorrere in eventi stressanti, i quali danno luogo a
reazioni transitorie allo stress le cui conseguenze sono mediate da fattori situazionali
(sostegno sociale, economico) e fattori psicologici (valori, abilità di coping) (Pietrantoni,
Prati, 2009).
Il processo ha inizio con un episodio che riguarda il verificarsi di uno o più eventi
stressanti e che termina con un cambiamento psicologico, positivo o negativo, o con il
ripristino della situazione psicologica iniziale. Le forme di reazione allo stress hanno tutte in
comune il fatto di essere transitorie, a meno che non siano guadagni secondari. Ciò che
segue queste reazioni immediate e transitorie dipende dalla mediazione di fattori situazionali
e psicologici che definiscono il contesto in cui questa reazione si verifica. Nel modello

22
ambedue i mediatori situazionali e psicologici della relazione stress-patologia sono rilevanti,
in quanto interagiscono con le reazioni allo stress in un modo complesso per produrre uno
dei tre possibili esiti:
• La crescita psicologica;
• Il ritorno a uno stato psicologico normale;
• Lo sviluppo di una psicopatologia, nel senso di una“reazione disfunzionale
persistente”.
Questo modello ha il merito di focalizzare l’attenzione su una visione olistica dei
problemi, mostrando come i problemi umani siano inseriti nel contesto sociale, e come
occorra sviluppare teorie che tengano in considerazione “la persona – in – una - situazione”
(Zani, Palmonari, 1996).
Immagine 2

Azione Sviluppo organizzativo


politica e di comunità

Mediatori situazionali: Crescita


Situazione sostegni o handicap psicologica
nell’ambiente materiali, sociali, ecc.

Nessun
Eventi di Reazioni cambiamento
vita transitorie psicologico stabile
stressanti allo stress

Caratteristiche psicopatologia
psicologiche
della persona Mediatori psicologici: aspirazioni,
nella situazione valori, capacità di coping, ecc.

Istruzione e Training individuale Intervento sulla


socializzazione sulle abilità crisi terapia

Fonte: Pietrantoni, Prati (2009)


2.4.2. Il modello transazionale di Lazarus e Folkman

23
Nel modello transazionale di Lazarus e Folkman i due ricercatori concepiscono lo
stress psicologico come una particolare relazione tra la persona e l’ambiente, che viene
valutata dall’individuo come provante o come eccedente le sue risorse e quindi rischiosa per
il suo benessere.
In tale modello sono fondamentali i concetti di valutazione cognitiva e stili di coping.
Lo stress è quindi visto come un processo di transizione tra l’individuo e il suo contesto
socio-ambientale: lo stress non risiede né nella persona né nella situazione, ma nella
transizione tra le due. L’esito di questo processo di transizione è determinato dall’incontro
situato fra le caratteristiche, i desideri e la storia personale dell’individuo da una parte e le
risorse ambientali dall’altra. Ciò che è fonte di stress per un individuo può non esserlo per
un altro, e tutti gli eventi sono in potenza degli stressor (Ferrara, La Barbera, 2006).
Lo stress riflette un rapporto tra individuo e ambiente, percepito dalla persona come
eccessivamente affaticante (Merenda, Poerio, 2003).
Nella teoria di Lazarus e Folkman i due processi principali che determinano l’entità
delle esperienze di stress in una determinata situazione sono la valutazione cognitiva e le
scelte di coping. La valutazione cognitiva è un processo valutativo che determina perché e
fino a che punto una particolare situazione venga percepita come stressante da un dato
individuo (Strobe, Strobe, 1996.)
Gli autori del modello distungono tre tipi di valutazione:
• Una valutazione primaria volta a determinare quanto la situazione implichi danno,
perdita o minaccia;
• Una valutazione secondaria in cui vengono considerate le risorse e le capacità a
disposizione per far fronte allo stimolo stressante, e si attiva una valutazione delle
proprie capacità di coping (insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali attuati
per controllare specifiche richieste interne e/o esterne che vengono valutate come
eccedenti le risorse della persona). Il soggetto quindi considera quali strategie di
coping adottare sulla base delle risorse sociali e personali disponibili.
• La valutazione terziaria (rivalutazione) consiste nell’esaminare l’efficacia delle
strategie adottate.
Quando una situazione è valutata come stressante le persone devono fare qualcosa
per dominarla e/o controllare le loro reazioni emotive. I processi di risposta a richieste
stressanti che ne derivano sono stati chiamati processi di coping.

24
Le strategie di coping, che originano dall’interazione fra contesto e persona, sono
classificate in due tipi:
• Centrate sul problema, ovvero volte a prevenire o modificare la fonte di stress; si
attiva una regolazione delle emozioni negative conseguenti alla situazione stressante;
• Centrate sull’emozione, ossia volte a ridurre le emozioni negative provocate dalla
situazione di stress;
La situazione verrà vissuta come stressante in base al possesso di risorse di coping.

Nella pagina seguente viene proposta un sintetica rappresentazione del modello


(immagine 3) Evento/difficoltà

Valutazione primaria
Processo di percezione
dell’evento

Evento stressante Evento positivo


Evento irrilevante Danno
Minaccia
Sfida

Risorse di coping Risorse di coping


sociecologiciche personali
Utilitaristiche Salute, energia
Reti Sociali Valutazione secondaria
Processo di Credenze
considerazione di una Abilità di problem
risposta alla minaccia solving

Stili di coping:
• Centrato sul
problema;
• Centrato sulle
emozioni;

riconsiderazione
esito

25
Fonte: Pietrantoni, Prati (2009)

2.4.3. Il modello psicosociale delle crisi di vita o transizione di Schaeffer e Moss

Nella teoria di Schaeffer e Moss il sistema ambientale (le relazioni della persona, il
supporto sociale della famiglia, gli aspetti economici, la situazione della comunità..) e
personale (le caratteristiche demografiche e le risorse personali come l’autostima,
l’ottimismo, la fiducia di sé…) influenzano le crisi e le transizioni di vita le quali, a loro
volta, influenzano le possibilità di esiti positivi o negativi tramite la mediazione della
valutazione cognitiva e delle risposte di coping.
I ricercatori individuano due tipologie di risposte di coping: il coping attivo (approch)
che riguarda i tentativi di analizzare il problema in maniera logica, la rielaborazione positiva,
la ricerca di supporto e le azioni di problem solving; il coping di evitamento (avoidance) che
riguarda i tentativi di minimizzare il problema, di ritenere che niente possa essere fatto, di
ricercare ricompense alternative e di limitarsi a sfogare le emozioni.
Nel modello il coping attivo è considerato adattativo, mentre il coping di evitamento
disadattivo; questo dipende comunque dalla situazione.
Gli esiti possono essere o positivo di adattamento/crescita o negativo di
disadattamento.
I diversi fattori si influenzano circolarmente.
In questo modello, la prospettiva è quella secondo cui si arricchiscono i più ricchi,
ovvero chi ha più risorse.
Le crisi di vita in ogni caso sono viste come momenti costruttivi nei quali la persona
ha un’opportunità per apprendere nuove abilità.
Immagine 4

Sistema ambientale Outcome positivo

Crisi di vita o Appraisal e


transizione coping

Sistema personale Outcome negativo

26
Fonte: Pietrantoni, Prati (2009)

2.5. La teoria “Broaden and Build” delle emozioni positive

Una considerazione condivisa da tutta la comunità scientifica è che le emozioni


positive possono avere un effetto protettivo in caso di eventi potenzialmente drammatici.
Questa evidenza è in linea con la “Broaden and Build theory of positive emotions”
di Fridrickson (2001). Secondo questa teoria dell’amplificazione e costruzione (broaden and
build theory), le emozioni positive sono veramente importanti per l’adattamento, poiché
sono in grado di amplificare (broaden) il repertorio cognitivo e comportamentale delle
persone, e, grazie a quest’amplificazione le persone costituiscono (build) le proprie risorse
fisiche (salute e longevità), psicologiche (resilienza, ottimismo, creatività), intellettuali
(conoscenza) e sociali (amicizia e supporto) (Pietrantoni, Prati, 2009).
La teoria sostiene che le emozioni negative e positive hanno funzioni adattive e di
sopravvivenza. Le emozioni negative restringono il campo dell’attenzione per sostenere
specifiche tendenze all’azione (attacco e fuga). Le emozioni positive allargano il campo
dell’attenzione.
Si può capire come i benefici delle emozioni negative siano evidenti nell’immediato,
mentre quelli delle emozioni positive emergano nel lungo periodo.
Gli effetti delle emozioni positive consistono non soltanto nella creazione di una
condizione di benessere soggettivo, di sicurezza, e di adattamento favorevole alla nicchia
ecologica, ma servirebbero anche a inibire gli effetti nefasti prodotti dalle emozioni negative.
Esse sarebbero una sorta di antidoto contro gli esiti nocivi generati dalle esperienze
emotive negative (Della Fava, 2007).

2.5.1. Il modello dinamico degli effetti di Zautra

Nel modello dinamico di Zautra (2001) le emozioni positive e negative sono


sostanzialmente indipendenti in condizioni ordinarie ma, con l’aumentare della serietà della
condizione stressante si osserva un legame sempre più forte tra i due ordini di stati affettivi.
L’attivazione di emozioni positive è visto, come un fattore di protezione nei confronti di
eventi fortemente stressogeni, poiché interrompe l’esperienza di emozioni negative;

27
l’emozione positiva diminuisce l’entità dell’attivazione negativa successiva a un evento
traumatico e previene la formazione di problemi di salute.

2.6. Il modello di supporto sociale e di deterioramento di Kaniasty e Norris

Il sostegno sociale è considerato da sempre come un fattore protettivo in seguito a


eventi potenzialmente traumatici.
Da Kaniasty e Norris (2000) viene proposto un modello teorico di intervento
relativo alla funzione che il sostegno sociale può assumere nel mediare le conseguenze
psicologiche dei membri della comunità, andata incontro a disastri.
Il modello di supporto sociale e di deterioramento recupera il processo di
mobilitazione degli aiuti che può muoversi in direzioni diverse a seconda della fase di
sviluppo dell’evento: all’inizio si registra una mobilitazione spontanea del sostegno a cui
segue un intervallo di tempo con progressivo deterioramento dello stesso e consapevolezza
della rottura sociale. È in questo in momento che il lavoro degli operatori (medici, psicologi,
volontari…) dovrebbe concentrarsi, per rimediare a quel deterioramento a cui il sistema di
aiuto interno alla comunità va spontaneamente incontro. Nella figura sottostante viene
rappresentato il modello. In essa è riprodotto il processo di mobilitazione degli aiuti (che
caratterizza la prima fase post-disastro) cui segue la registrazione di un alto livello di
sostegno sociale ricevuto (viste le azioni intraprese da parte di tutti verso tutti); nello stesso
momento, si registra un sempre crescente livello di esaurimento delle risorse interne con
conseguente deterioramento del sostegno informale ( è anche la fase in cui ognuno cerca di
ritornare alla normalità della propria vita personale), e un livello di sostegno sociale
percepito relativamente basso, che può condurre a conseguenze psicologiche che ritardano,
se non addirittura aggravano, la risposta collettiva al disastro.
Nel modello si sottolinea la necessità di introdurre nella fase del deterioramento del
sostegno una pronta assistenza, che può fungere da cuscinetto alle reazioni collettive al
disastro, fornendo sostegno emotivo e affettivo.
Immagine 5

Sostegno ricevuto

Mobilitazione del assistenza protettiva


supporto impatto diretto
Stress da disastri Conseguenze
psicologiche

28
deterioramento del supporto stima dell’effetto protettivo
Sostegno
percepito

Fonte: Pietrantoni, Prati (2009)

3. Gli scenari dell’emergenza

Dal punto di vista psicologico un contesto d’emergenza è una situazione interattiva


caratterizzata dalla presenza di una minaccia; da una richiesta di attivazione rapida e da
rapide decisioni; dalla percezione di una sproporzione improvvisa tra bisogno (cresciuto per
intensità, ampiezza, numerosità, ritmo) e potenziale di risposta attivabile dalle risorse
immediatamente disponibili; da un clima emotivo congruente (Sbattella, 2009).
Secondo Axia (2006) gli essere umani entrano in uno stato psichico di emergenza
quando pensano di essere di fronte alla morte e quando considerano che la loro vita sia in
vero pericoloso. Come sottolinea ancora l’autrice di fronte ad un’emergenza il corpo e la
mente vanno a mille, e tutto questo è fortemente traumatico per chi lo vive. Non è tanto la
situazione esterna ad essere traumatica, ma è l’esperienza della consapevolezza di poter
morire. Il trauma si insedia nella mente, e ha conseguenze, a breve e a lungo termine.
L’emergenza richiama il riferimento a concetti quali disastro e catastrofe, che
devono essere analizzati con maggiore cognizione di causa, essendo questi portatori di
significati simili, ma comunque diversi.

3.1. Catastrofe e disastro

I termini che si riscontrano più frequentemente nella letteratura psicologica riferita a


questo ambito sono “disastro” e “catastrofe” che nel linguaggio comune sono ritenuti
spesso sinonimi.

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L’etimologia delle parole aiuta, però, a comprendere le sottili differenze che giocano
un ruolo chiave nell’individuare e scegliere il piano operativo che dovrebbe orientare la
ricerca e l’intervento.
“Disastro” è parola composta da dis-, prefisso che esprime valore negativo, e astro
(stella): ha il significato originario quindi di “cattiva stella”.
“Catastrofe” deriva dal greco katastrophè, rivolgimento, parola che a sua volta
discende dal verbo katastrèphein (rivoltare, rovesciare), composta da katà (giù) e strephein
(voltare). Katastrophè è il nome dato da Aristotele, nella sua partizione della tragedia greca,
alla soluzione, di solito luttuosa, del dramma.
Basta questa prima riflessione per comprendere che il disastro identifica più l’evento
in sé dannoso, il più delle volte –anche secondo il senso comune- coincidente con un agente
fisico che provoca danni ed effetti rilevanti dal punto di vista materiale; la catastrofe
individuerebbe, invece, insieme al carattere subitaneo dell’evento, l’effetto di
sconvolgimento sia a livello materiale sia a livello organizzativo di un sistema colpito da un
disastro (Lavanco, Novara 2003).
Come osserva Villone-Bettocchi (1982) il disastro dovuto a cause naturali dovrebbe
più opportunamente venire indicato con il termine di calamità o cataclisma e il termine
catastrofe essere riservato a quegli eventi calamitosi o disastrosi le cui conseguenze
raggiungono livelli di estrema gravità.
Nell’ambito delle scienze umane sono state molte le definizioni di disastro e
catastrofe.
Il sociologo Fritz (1961), definisce disastro: “Un evento concentrato nel tempo e nello spazio,
nel quale una società o una sua parte relativamente autosufficiente subisce gravi danni e va incontro a perdite
tali per le persone e le proprietà che la struttura sociale ne risulta sconvolta ed è impedito, in tutto o in parte,
lo svolgimento delle funzioni sociali essenziali”.
A circa vent’anni di distanza Turney (1989) definisce un disastro come: “Una
situazione di stress collettivo che accade relativamente in maniera improvvisa ed in una particolare area
geografica, dove le perdite interferiscono sullo svolgimento della vita sociale quotidiana”.
Queste definizioni ai giorni nostri, però, non sono più adatte, in quanto vanno ad
escludere alcuni incidenti tecnologici che non sono né circoscritti nello spazio, né nel
tempo.
Una definizione che tiene maggiormente conto degli effetti è stata elaborata da
Croq, Doutheau e Sailhan (1987) che definiscono una catastrofe in relazione agli effetti che

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ne conseguono: “Una catastrofe è costituita dal sopraggiungere di un evento nefasto, per lo più improvviso
e brutale, che provoca: distruzioni materiali importanti, o un gran numero di vittime, o una
disorganizzazione sociale notevole, o due o tre di queste conseguenze contemporaneamente”. Questi autori
si focalizzano sullo sconvolgimento totale del sistema umano colpito e non solo; infatti il
disastro coinvolge sia la comunità in questione sia quelle attigue non direttamente
interessate.
Lechat (1989) fornisce un importante contributo alla definizione di disastro,
sostenendo che non ci si può basare soltanto sul raggio di estensione territoriale in cui il
disastro agisce, ma che si deve considerare anche la capacità di reazione della comunità. Su
questo punto sono d’accordo molti studiosi degli anni Ottanta, i quali mettono in luce che, a
prescindere dall’eterogeneità dell’agente fisico, il disastro è prima di tutto un fenomeno di
natura sociale a cui segue una disorganizzazione e, quindi, una risposta sociale.
I grandi pionieri di questa concezione furono Kinston e Rosser che nel 1974
definivano un disastro come: “Una situazione di stress massivo collettivo”.
Questa intuizione venne recuperata a partire dagli anni Ottanta. Da questo
momento in poi i lavori degli studiosi spostarono il loro focus d’attenzione sul cambiamento
di alcune fondamentali dinamiche della vita collettiva, fino a concepire il disastro come un
problema che si verifica a livello di comunità.
Gist e Lubin (1989) scrivono, infatti, che “il disastro è un evento a livello di comunità”,
sottolineando un punto di vista ecologico centrato sulla comunità fondata sui sentimenti di
coesione ed appartenenza. In quanto fenomeno collettivo, per questi autori, il disastro altera
i singoli, le famiglie ed il raggruppamento umano preso nel suo insieme.
Per Cuzzolaro e Frighi (1991) è appunto quest’aspetto che differenzia gli stress da
catastrofe dai cosiddetti stresfful life events (Miller, 1989) cui le persone vanno incontro nella
normale vita quotidiana. Per i due autori: “Un evento, per essere definito disastro deve avere un
impatto traumatico collettivo e deve suscitare reazioni collettive sia a livello pratico (comportamento ed azioni
sociali) sia a livello emotivo ed immaginario”.
Le difficoltà di una definizione unitaria della categoria “disastro” rendono necessario
una tassonomia di questi eventi, per riconoscere e sottolineare le differenze.

3.2. Classificazione dei disastri

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I disastri vengono classificati e distinti per una serie di proprietà: causa; frequenza;
controllabilità; rapidità di inizio; durata della fase di allarma; durata della fase d’impatto;
durata della fase di ricostruzione (Cattarinussi, Pelanda, 1981); estensione dell’area di
impatto; potenziale distruttivo; durata del rischio successivo; probabilità che l’evento si
ripeta. I diversi fattori influenzano le reazioni della popolazione colpita.
Una classificazione dei disastri è quella che li suddivide in due grandi famiglie, quelli
naturali (natural disaster, “Act of God) e quelli provocati dagli esseri umani (man-made disaster,
“Act of Man.
I disastri naturali sono: bufere di neve; cicloni; eruzioni vulcaniche; frane; incendi;
terremoti; tifoni; tsunami; ecc;
I disastri provocati dall’uomo sono: catastrofi ecologiche (affondamento di
petroliere, incidenti nucleari); delitti; violenze; terrorismo; inquinamento chimico
(Cuzzolaro, Frighi, 1991).
Una seconda classificazione distingue i disastri in base all’inizio, che può essere
repentino, o lento (Barbato, Puliatti, Micucci, 2006).

3.3. Le fasi del disastro

Per creare risposte coerenti con lo sviluppo temporale degli effetti della calamità è
necessario conoscere il disastro nelle sue fasi (Strassoldo, Cattarinussi, 1978).
Classificare le fasi del disastro è utile per pianificare l’intervento. Le fasi principali
sono:
• La previsione: è l’analisi delle cause di un evento;
• La prevenzione: consiste nelle diverse attività finalizzate a limitare i danni di un
evento;
• L’allarme: è la fase che precede il verificarsi dell’evento. Tale fase consiste nel
portare a conoscenza della popolazione l’imminente pericolo, informandola dei
comportamenti corretti da tenere per limitare i danni. È il momento per la comunità
di usufruire dei piani di Protezione Civile per l’evacuazione;
• L’impatto: il momento in cui l’evento accade;
• Il soccorso: in questa fase si agisce per salvare i sopravissuti e garantire la
sopravvivenza, assicurando ogni forma di prima assistenza, quindi i servizi sanitari,
assistenziali, psicologici (Young et al 2002);

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• Il ripristino: questa fase inizia nel periodo in cui il pericolo di vita non incombe più,
ed è caratterizzata dal tentativo di ripristinare le funzioni essenziali ad una vita
organizzativa normale (abitare, comunicare ecc...)
• La ricostruzione: vengono riattivate le attività economiche e sociali.

4. La vittima

…Ancor più catastrofico del sisma è quel terremoto che


né si vede né si ode, quel terremoto
che avviene dentro…
Loredana Petrone (Psicologia dell’Emergenza)

Non è difficile immaginare cosa si possa provare nel momento in cui la propria casa
è improvvisamente distrutta: la perdita della parte muraria coincide con la perdita degli
aspetti più intimi e privati della propria vita quotidiana. Se a tutto ciò si associa il paesaggio
circostante trasformato in un cumulo di macerie o in un mare di fango, il dolore per un
lutto subito o l'angoscia per un famigliare ferito o disperso, é intuibile la situazione
psicologica in cui vive la vittima di una catastrofe. La vittima che sopravvive a una
catastrofe, anche se supera l'evento senza subire conseguenze o menomazioni fisiche,
riporta in forma più o meno lieve, danni non visibili, ma non per questo meno profondi e
dolorosi delle ferite al corpo.
È importante non partire dal presupposto che una calamità comporti esperienze
dello stesso tipo e della stessa intensità per tutte le persone, né che tutti i superstiti
subiscano la calamità avendo alle spalle storie simili di traumi passati (Yong, Ford, Ruzek,
Friedman, Gusman, 2002.)
Si possono distinguere tre tipologie di vittime (Lo Iacono, Troiano, 2002):
• Le vittime del primo tipo: i soggetti che hanno subito direttamente l’impatto
dell’evento catastrofico;
• Le vittime del secondo tipo: i parenti e le persone care della vittima del primo tipo;

33
• Le vittime del terzo tipo: i soccorritori, i professionisti e i volontari chiamati a
intervenire.
Naturalmente non tutte le comunità rispondono nello stesso modo a un disastro e
variabili come il tipo di disastro e il contesto socio ambientale risultano essere cruciali: per
esempio le conseguenze di un disastro terroristico non sono le stesse di un terremoto,
oppure un disastro ha un impatto diverso se colpisce il centro di New York o di Calcutta.
In Italia, se confrontiamo le risposte della comunità al terremoto dell’Irpinia e quello
del Friuli notiamo differenze, ad esempio, su tempi e modalità della ricostruzione
(Pietrantoni, Prati, 2009).

4.1. La reazione emotiva all’evento traumatico

Il tema delle emozioni è cruciale in tutti i contesti di emergenza (Castelli, Sbattella,


2003). Si può dire che le emozioni siano la “cerniera” tra la dimensione organica, la realtà
psichica e le dimensioni sociali che caratterizzano gli individui.
Il Center of Mental Health Services ha stilato una descrizione del lasso di tempo
concomitante e seguente il disastro, basandosi sulla risposta emozionale di coloro che ne
sono rimasti coinvolti. Si distinguono in tal senso quattro fasi (Barbato, Pulliati, Micucci,
2006):
• Fase caotica (coincide con l’impatto del disastro): si ha un primo momento di
panico e disorganizzazione. Emergono reazioni spontanee e difficilmente
controllabili. L’ansia è forte soprattutto se non si conosce la sorte delle persone care;
• Fase eroica (immediatamente successiva al disastro): si ha la comparsa di emozioni
forti, ci si sente chiamati in causa e spinti a mettere in atto azioni eroiche e si
riconoscono il gruppo familiare e i vari team dell’emergenza come le risorse umane
più importanti. In questo momento si osservano comportamenti pro sociali in un
clima di iperattività e frenesia nella conduzione dei soccorsi. Questo alto livello di
attivazione fisiologica e di attività comportamentale dura da qualche ora a qualche
giorno. Non ci sono, in linea generale, comportamenti patologici, ma anzi il disastro
assume una forte connotazione unificante per una serie di ragioni: è un periodo che
abbatte ogni motivo conflitto; sospende tutte le differenze sociali, colpendo ognuno
indiscriminatamente; pone problemi chiari ed evidenti alla cui soluzione tutti
possono collaborare; facilita l’introduzione di innovazioni sul piano delle idee,

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valori, comportamenti, istituzioni, tecnologie; e rende pubblici e collettivi sentimenti
come la paura, la sofferenza e la perdita;
• Fase della luna di miele (compresa tra la prima settimana e il terzo mese dopo il
disastro): è caratterizzata da ottimismo e fiducia nel pieno recupero della comunità;
si percepisce che il peggio è passato e che nel giro di breve si potrà tornare alla
normalità. Alle alte aspettative corrisponde un aumento del senso di comunità
dovuto alla percezione di aver condiviso un’esperienza traumatica. L’interesse dei
media catalizza l’attenzione sugli abitanti della zona colpita e contribuisce a far
pervenire risorse in termini finanziari, materiali e umani. I leader politici fanno visita
alla popolazione e promettono piani di aiuti per la ricostruzione. Tuttavia questo
senso di speranza tende a svanire nel momento in cui l’interesse dei media e della
politica va scemando e gli abitanti si rendono conto che le norme e le procedure per
la ricostruzione sono complesse e richiedono tempo;
• Fase della disillusione (compresa tra due mesi e i due anni): prevalgono i sentimenti
di rabbia, risentimento e amarezza conseguenti alla mancata soddisfazione delle
promesse di aiuto. Nella comunità prende vita un senso diffuso di abbandono da
parte dell’esterno. Contribuisce a questa fase la graduale perdita del senso di
“condivisione comunitaria”, giustificata dal concentrarsi delle persone sulle
problematiche personali da affrontare per ritornare alla normalità e ricostruire i
punti di riferimento della propria esistenza. In questo clima di disillusione fanno la
loro comparsa i segni di stress cronico come ansia, depressione, irritabilità. La
riduzione delle aspettative che si osserva in questo periodo, in qualche modo, può
essere funzionale, poiché permette alla persona di capire che l’attività di
ricostruzione sarà lunga e faticosa e di apprezzare ogni piccolo passa realizzato in
questo senso;
• Fase della ricostruzione: a una gamma di emozioni negative si sostituisce
gradualmente la consapevolezza di doversi fare carico in prima persona della
risoluzione dei problemi. Le basi gettate nei mesi precedenti cominciano a produrre
cambiamenti osservabili. È la fase in cui la comunità si organizza a livello locale con
programmi di priorità per le famiglie e i gruppi a rischio. Si attiva una vera
ricostruzione a livello finanziario, sociale, emotivo ed economico.
La comprensione delle dinamiche emotive sottostanti ai diversi comportamenti
messi in atto da vittime e soccorritori è centrale.

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Le emozioni maggiormente rilevanti in questo ambito sono: paura, senso di colpa e
rabbia.
La paura è un’emozione fondamentale in tema di disastri, che colpisce in modo
indiscriminato. Essa rappresenta una risorsa preziosa per sopravvivere nel mondo fisico e
sociale (Ciceri, 2001). La paura talvolta può rendere difficili anche le più semplici attività
quotidiane. Ma la paura non è solo disorganizzante e dannosa, anzi è un’emozione
indispensabile per la sopravvivenza; infatti, permette di interpretare determinati stimoli
come potenzialmente pericolosi e quindi di reagire, attaccando o di sottrarci al pericolo che
ci minaccia.
Paura e ansia, pur appartenendo alla medesima area emozionale, sono diverse e si
distinguono nettamente l’una dall’altra. La paura è generalmente considerata una risposta a
determinati stimoli esterni o interni reali, per cui si prevedono reazioni di fuga o di difesa
attiva. L’ansia è invece considerata uno stato emotivo diffuso e fluttuante, privo di un
obiettivo ben definito e originato da stimoli apparentemente neutri (Ferraris, 1998). La
perdita dell’onnipotenza e la paura dell’ignoto sono forse le paure principali con le quali
l’uomo, e in particolare modo chi opera in emergenza, si deve confrontare (Zuliani, 2006):
accettare la fallibilità del proprio operato, l’incapacità di far fronte a tutte le situazioni e
l’impossibilità di uscire sempre vincitore da ogni confronto. Il sentirsi affidata la vita di altre
persone acutizza ancora di più questa ferita onnipotente: la paura di sbagliare è costante, ma
la paura di non poter più fare niente è ancora più pressante. A questo si somma la paura
dell’ignoto, in altre parole di un avvenimento improvviso che possa spiazzare tutti, un
fenomeno incontrollabile, un esito imprevisto. L’ignoto è anche ciò che l’altro rappresenta,
con le sue reazioni ingovernabili, con la paura che lui stesso porta con sé e con la minaccia
di annientamento che suscita.
Dopo essere stata vittima di un evento critico, la persona può manifestare una
rabbia molto intensa verso gli altri specie verso i veri o presunti responsabili, ma anche
verso lo stesso personale che è intervenuto in soccorso (ibidem). Le vittime utilizzano la loro
rabbia per difendersi dall’immensa tristezza e disperazione che può coglierle, arrivando,
così, a proteggersi dall’idea di avere perduto definitivamente qualche persona cara
(Guccione, Lavanco, 2006.)
La colpa è generalmente considerata un’emozione sociale e autoconsapevole; sociale
in quanto il suo effetto e la sua presenza sono collegati ai legami che si esplicano tra le
persone, e auto-consapevole nel senso che richiede il contributo dell’introspezione e della

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coscienza. Per sperimentare il senso di colpa dobbiamo essere coscienti della nostra identità
e del ruolo degli altri nella nostra vita. La colpa è un’emozione che spinge gli individui a
decentrarsi e a mettersi nei panni degli altri, ed è considerata un’emozione “morale”, perché
coinvolge il sistema di valori e motivazioni proprie dell’individuo. Di fronte ad un evento
critico ci si attenderebbe che la colpa sorgesse solamente come effetto di un danno arrecato
ad altri sia esso reale o presunto. Le cose non stanno sempre così; infatti, è possibile che si
sviluppi un senso di colpa per i propri comportamenti o addirittura per essere sopravvissuto
(Zuliani, 2006). Nel primo caso il soggetto può manifestare un senso di colpa legato al
timore di aver fatto qualcosa di sbagliato o di non aver fatto abbastanza per salvare
qualcuno. In genere si tratta di situazioni passeggere, ma nei casi più gravi e quando la
persona trova conferma negli altri delle sue preoccupazioni, si può giungere a condotte
autodistruttive. La colpa da sopravvivenza si sviluppa quando un soggetto assiste alla morte
o al grave incidente di una persona amata, rimanendo illeso (Di Blasio, Vitali, 2001):
persone che assistono alla morte di un componente della famiglia, veterani di guerra,
sopravvissuti all’Olocausto, individui scampati a incidenti mortali o a disastri naturali. In
queste circostanze diverse l’elemento comune è la forte sensazione di essere oggetto di una
punizione. Accade così che tra tante cause indipendenti da sé se ne trovi una devastante da
ricondurre a qualcosa che si sarebbe potuto fare, ma che si è omesso di fare. Ecco allora che
la convinzione che si sarebbe potuto cambiare o controllare il corso degli eventi diviene il
fondamento di un senso di colpa paralizzante. Il rimorso può a questo punto assumere
caratteristiche eccessive e diventare fortemente disfunzionale per l’individuo, che si sente
invaso da disperazione, incapacità di affrontare la situazione e vissuti di tradimento per aver
abbandonato o lasciato morire l’altro.

4.1.1. Il modello di Frijda

Le emozioni sono un aspetto fondamentale da considerare nei contesti d’emergenza,


per tale motivo è utili analizzare un modello che metta in evidenzia la loro formazione e le
loro caratteristiche.
Il modello di Frijda (Frijda, 1990), evidenzia come ogni emozione si definisca in
relazione ad un cambiamento, a una modificazione di stato.

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Le emozioni sono processi psichici complessi che insorgono rapidamente, si
sviluppano, decrescono e scompaiono, coinvolgendo nel loro dispiegarsi temporale molti
differenti componenti (Anolli. Ciceri, 1992)
La forza emotigena di un evento non sta nell’avvenimento in sé, ma nell’intreccio di
vari fattori; è un insieme di atti percettivi e cognitivi che definiscono la connotazione di un
accadimento, ed anche la possibilità che l’evento stesso sia registrato dalla nostra mente.
Una componente fondamentale delle emozioni è, dunque, quella cognitiva. Si tratta
di percepire l’evento, di valutarne la pertinenza rispetto ai propri scopi, la pericolosità o
novità, la possibilità di farvi fronte con le risorse di cui si dispone.
Il sistema di valutazione si occupa anche di monitorare il contesto sociale, di
valutare la possibilità di esprimere i propri stati interni, in relazione alle regole sociali di
esibizione e in base all’opportunità di farlo o no (Castelli, Sbattella, 2003.)
Emozione significa anche variazione fisiologica (Anolli, Ciceri 1992). Il sistema
nervoso autonomo, il sistema endocrino ed immunitario sono pienamente coinvolti nelle
manifestazioni di ogni emozione, con risultati a volte appariscenti (lacrimazione, caduta del
tono muscolare, aumento della sudorazione), altre volte percepibili solo dal soggetto
(alterazione della frequenza cardiaca e respiratoria).
Completano il quadro delle componenti, la percezione interna e la risposta motoria
(Sbattella, 2009). La prima si identifica con la consapevolezza che qualcosa attinente a un
processo emotivo è accaduto; essa si esprime, nei soggetti più consapevoli, nella descrizione
e categorizzazione del moto emotivo di cui si è protagonisti. La seconda attiene ai tentativi
di risposta visibile che il soggetto mette in atto sostanzialmente per allontanarsi e difendersi
dall’evento emotigeno connotato negativamente o, all’opposto, per avvicinarsi all’evento
emotigeno positivo.
Ogni processo emotivo comporta, quindi (Castelli, Sbattella, 2003):
• Un evento elicitante;
• Un cambiamento fisiologico;
• Una serie di operazioni di valutazione cognitiva;
• Un comportamento manifesto.
Per evento elicitante si intende l’avvenimento che può essere riconosciuto come ciò che
ha innescato l’emozione, intesa come processo; non sempre esso è evidente, né è lo stesso
per tutti. Tutto ciò che sollecita i sensi ha, in realtà, una potenza emotigena. Esistono anche

38
stimoli sottili, non facilmente individuabili o riconoscibili a livello consapevole, in grado
comunque di elicitare forti emozioni (odori).
In riferimento al cambiamento fisiologico il termine arousal (attivazione fisiologica
diffusa, non specifica) sta a indicare che ogni emozione coinvolge sempre il corpo,
trasformandone in qualche modo i ritmi e i processi di attivazione. Si può quindi affermare
che ogni emozione è in qualche modo sempre profondamente corporea, oltre che psichica,
poiché il cambiamento del livello di attivazione non precede, ma costituisce una
componente essenziale del processo emotivo stesso. Dal punto di vista corporeo, sono
molti i sistemi coinvolti, ma riveste particolare interesse il sistema ipotalamico-pituitario-
adrenocorticale, che realizza cambiamenti sia a livello neurologico che ormonale. Tale
sistema è costituito da un asse che permette di scambiare informazioni tra la parte più
profonda del cervello (ipotalamo) e l’ipofisi (centrale di controllo del sistema ormonale)
(Axia, 2006). È, infatti, l’ipofisi che manda informazioni per stimolare la corteccia del
surrene in caso di necessità. Questa, quando stimolata, è responsabile del rilascio di
cortisolo (chiamato l’ormone del coping, perché facilita la capacità di far fronte agli eventi).
Per descrivere e comprendere le implicazioni corporee delle esperienze emotive è necessario
anche considerare il ruolo giocato dal sistema nervoso autonomo. Esso è costituito da una
serie di gangli che scorrono a fianco della colonna vertebrale, e in caso di attivazione
interviene creando netti cambiamenti in tutti i distretti corporei: aumento della sudorazione,
accelerazione del battito cardiaco e della pressione sanguigna, accelerazione del ritmo
respiratorio, ecc. Evidentemente, questi cambiamenti fisiologici hanno la funzione di
preparare il corpo a reagire alla situazione, ma costituiscono anche parte dell’esperienza
vissuta dal soggetto, che può percepire, in parte consapevolmente, la presenza di uno stato
di allarme anche in assenza di riconoscibili segni di pericolo o novità.
Vi sono delle modalità d’intervento che mirano alle emozioni lavorando attraverso il
corpo, tra cui:
• La prescrizione di farmaci: possono alzare o abbassare l’arousal, così come tutte le
sostanze psicoattive, quali l’alcol e la caffeina; per questo il loro uso deve essere
valutato molto attentamente nei contesti di emergenza.
• L’attività fisica: può modificare l’arousal. Infatti, un’intensa attivazione fisica
modifica molti parametri fisiologici, aumentando la possibilità di intrecciare tali
cambiamenti con quelli presenti in ogni processo emotivo.

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• Le tecniche di rilassamento corporeo: abbassano i livelli di arousal. Nei contesti
d’emergenza è molto importante una forte attenzione all’igiene del sonno che
permette di intervenire sulle dinamiche emotive attraverso l’abbassamento dei livelli
di attivazione fisiologica.
Come detto in precedenza la componente di valutazione cognitiva risulta
fondamentale nel processo emozionale: essa viene tecnicamente definita appraisal; ciò indica
un vero e proprio sistema di valutazione dell’evento da parte della mente umana: il sistema
suddetto implica una stretta connessione tra percezione, valutazione e memoria del
soggetto; l’avvio di tale processo può ingenerarsi mediante una rapida successione di
valutazioni che a sua volta inizia con una ben esplicita domanda: “Cosa sta bruciando ?”
“Cosa è questo tremore ?” “Che cosa accade ?”. Le valutazioni seguenti evolvono secondo
il sistema che potremmo definire (Castelli, Sbattella, 2003) come “analizzatore-comparatore-
diagnosticatore”. In sostanza, affinché si crei un’emozione è necessario che l’analizzatore
esamini lo stimolo elicitante, che il comparatore lo confronti e che il diagnosticatore lo
identifichi. Su tale insieme di processi cognitivi si può intervenire efficacemente per
controllare la giusta percezione del pericolo e per ottimizzare la fase di valutazione delle
capacità di far fronte all’evento, al fine di poter fronteggiare efficacemente la situazione. E’
interessante rimarcare che queste strategie vengono anche indirettamente realizzate nella
vita quotidiana.
Altre due componenti importanti per descrivere la complessità di ogni processo
emotivo sono: l’autopercezione (il vissuto, il sentimento della persona che coglie il suo stesso
cambiamento emotivo) e il comportamento manifesto. Senza autopercezione, l’emozione stessa
non esiste per il soggetto né esiste la possibilità di attribuirle un nome e calibrarla.
Attraverso opportuni training, o anche grazie a precise scelte educative, le abilità di
autoascolto possono essere molto accresciute, al punto da permettere ai soggetti di cogliere,
fin dai primi segni, l’emergere di processi emotivi complessi.
L’emozione è anche azione. I comportamenti di fuga, i vocalizzi, l’avvicinamento, il
ridere e il piangere, sono un tutt’uno con l’emozione. Il processo emotivo ha la funzione
essenziale di sostenere le risposte all’ambiente di tipo adattativo. Anche irrigidirsi, tacere,
abbassare lo sguardo, rannicchiarsi sono azioni, per quanto a volte meno clamorose; in
alcune situazioni, infatti, i comportamenti di inibizione possono risultare fortemente
adattativi.

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Complessivamente, dunque, il processo emotivo costituisce una vera e propria molla
per l’azione che ha bisogno di essere orientata da una componente cognitiva che funga da
suggeritore delle azioni. Davanti ad uno stimolo elicitante, infatti, è necessario stabilire
rapidamente che fare, cercando all’interno del repertorio comportamentale di cui si dispone
le azioni più idonee e realizzabili (Frijda, 1990).
La complessità dei processi emotivi deve essere ben conosciuta per sviluppare
interventi in contesti di emergenza. Le emozioni sono una realtà cruciale a diversi livelli:
esse sono esperienze corporee, che incidono sia positivamente sia negativamente sulla
salute. Le emozioni sono anche una realtà fondamentale dal punto di vista esistenziale: sono
il punto di incontro tra mente e corpo e tra socialità ed individualità.
Non va poi trascurato il fatto che le emozioni costituiscono forti molle motivazionali:
sono dimensioni psichiche che spingono all’azione e possono quindi essere usate, in bene e
in male, per suscitare comportamenti.
Le emozioni sono anche, in parte, dei processi cognitivi, sono fenomeni propri della
mente, che sostengono le capacità adattive dell’uomo. La memoria è carica di emozioni e
ciò permette, a volte, di sostenere il ricordo positivamente, in altri casi ostacola l’oblio
desiderato. Interventi tempestivi, a livello emotivo, possono dunque incidere sulle
possibilità di cancellare le immagini più angoscianti delle situazioni traumatiche, così come
rivalorizzare, nei ricordi, gli elementi positivi.
Nella figura (immagine 6) sottostante viene rappresentata una sintesi nel modello.

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Valutazione Valutazione Valutazione
pertinenza e contesto: compatibilità:
rilevanza urgenza, norme sociali e
rispetto bisogni necessità, immagini di
e scopi, novità, capacita di far regole
qualità edonica fronte. esibizione

Rilevazioni,
categorizzazione e
codifica dello
stimolo
Evento Percezione Regolazione
Emotigeno interna motoria

Attivazione
fisiologica

Fonte: Adattato da Frijda (1990)

4.2. Le reazioni psicologiche

Durante un disastro e nel periodo successivo, le persone coinvolte possono


manifestare comportamenti diversi da quelli abituali. Il loro significato e la valutazione che
se ne dà devono essere rapportati al contesto e alla situazione. Così, un certo grado di
eccitamento psicologico può essere facilmente comprensibile e una fuga precipitosa può
essere in certi casi il comportamento più adeguato. Comportamenti talvolta violenti, volti
esclusivamente alla salvaguardia della propria vita, moralmente reprensibili e patologici se
interpretati con i criteri di comportamento applicabili in condizioni normali, possono
apparire tollerabili e adeguati in una situazione di emergenza qual è una catastrofe. Alcune

42
reazioni, però presentano queste caratteristiche di intensità, durata e inadeguatezza da
cadere nel campo della psicopatologia.

4.2.1. Le reazioni psicologiche collettive

Croq et al. (1987) individuano tre tipologie di reazioni collettive ai disastri.


I tre comportamenti collettivi identificati permettono di riflettere sugli effetti che il
disastro può generare a livello di comunità e sulla possibilità che essi compromettano
l’intera organizzazione sociale del sistema. Questi comportamenti sono:
• Commozione-inibizione-stupore: è sicuramente la reazione più tipica. Si sviluppa
solitamente nella “zona di impatto” dei disastri. I sopravvissuti in preda allo shock
sono privi di iniziativa e completamente inebetiti. Ha una durata limitata nel tempo
(circa 2 ore) che può essere ridotta attraverso l’attivazione sul luogo di un soccorso
veloce ed efficiente.
• Esodo di massa: è un comportamento collettivo che si sviluppa principalmente
come conseguenza di un evento bellico, e in determinati contesti. Prevalgono i
sentimenti di paura, confusione e turbamento con comportamenti di imitazione che
conducono a flussi di popolazioni in movimento e abbandono del luogo del disastro
per propria iniziativa.
• Panico: è una “paura collettiva”, caratterizzata dalla regressione della coscienza a un
livello arcaico, che si manifesta con reazioni primitive di fuga, di agitazione
disordinata e di violenza.
Quest’ultima reazione si sviluppa solo in casi eccezionali e in presenza di quattro
fattori scatenanti (Santoianni, 1996):
• Un’ansietà diffusa precedente al disastro;
• La mancanza di una leadership riconosciuta e in grado di orientare i comportamenti
mediante poche e chiare istruzioni;
• La percezione di rimanere intrappolati, da lì a poco, per lo sbarramento dell’unica
via di fuga;
• Il verificarsi di un fattore di precipitazione dell’ansia.
Solo nei momenti in cui si presentano queste condizioni si verifica un
comportamento collettivo disadattivo, e si può parlare di panico di massa.

43
La convinzione che le persone durante i disastri esibiscano primariamente panico di
massa è molto diffusa, ma sono stati proposti anche altri modelli che rispetto a quelli sopra
citati, vanno a confutare questa concezione.
Il modello affiliativo o dell’attaccamento sociale di Mawson (2005) si basa su una
concezione fondamentalmente gregaria e affiliativa dell’essere umano. Secondo questo
modello la presenza di persone familiari influenza la percezione e la risposta del pericolo, in
quanto la paura è ridotta dalla prossimità di figure di attaccamento. Mawson ha elaborato
quattro tipologie di comportamento collettivo nelle situazioni di minaccia che tiene conto
sia del livello di pericolo fisico percepito che del livello di sostegno familiare/sociale:
• Quando il pericolo è basso e gli individui sono prossimi a figure, luoghi o oggetti
familiari prevale una risposta affiliativa. Gli individui tendono a contattare parenti e
amici a rimanere insieme a casa;
• Quando il pericolo è medio - basso ma le persone sono da sole o con sconosciuti, si
verifica invece un’evacuazione ordinata senza manifestazioni di competizione e
opposizione.
• Quando i livelli di pericolo sono alti e le persone vicine a figure, luoghi o oggetti
familiari, i soggetti vivono una situazione di ansia ma tendono ad allontanarsi dal
pericolo in gruppo, mantenendo la vicinanza di familiari e amici.
• Quando i livelli di pericolo sono elevati e gli individui da soli o con sconosciuti,
domina un comportamenti individualistico e competitivo. Questo scenario è quello
più simile a quello etichettabile come “panico di massa”.
Un ulteriore modello teorico del comportamento di folla nelle emergenze,
alternativo al panico di massa, è quello proposto da Drury e Cocking (2007) che si collega
alle teorie della categorizzazione di sé e dell’identità sociale ed enfatizza fortemente la
componente sociale, soffermandosi sul ruolo dell’appartenenza di gruppo e sull’identità
generata nel contesto d’emergenza. Da questo punto di vista i disastri possono creare
un’identità sulla base del destino comune e, paradossalmente, l’aumento della percezione di
minaccia potrebbe generare una categorizzazione sovraordinata tra le persone sconosciute
coinvolte e questo senso di appartenenza sarebbe alla base di comportamenti solidaristici
anche verso sconosciuti e di una fuga composta e ordinata.

4.2.2. Le reazioni psicologiche individuali

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Le reazioni psicologiche nelle situazioni di crisi possono essere differenziate
seguendo il modello di Cusano (2002): la prima categoria di risposte a eventi critici è quella
delle reazioni di tolleranza, che riguarda il 10/20% delle persone coinvolte, le quali
mantengono una buona qualità di autocontrollo, lucidità e adeguatezza dei comportamenti e
delle reazioni emotive; ciò implica che i meccanismi di difesa del soggetto hanno funzionato
in modo adeguato, anche se in questa percentuale di persone occorre includere anche un
piccolo numero di soggetti che, pur risultando subito dopo l’evento capaci di gestire la
situazione, con il trascorrere del tempo cominciano a mostrare reazioni più inadeguate
collegate all’evento subito. Per queste si parla di reazioni differite, cioè reazioni inizialmente
adeguate che evolvono in senso patologico con il trascorrere del tempo.
La seconda categoria è quella delle reazioni iperemotive brevi, che riguardano il 75/80%
della popolazione, e si caratterizzano per la presenza di shock, depressione, smarrimento,
ansia, nausea, ecc… Queste reazioni insorgono immediatamente dopo l’evento e
condizionano la vittima nei giorni successivi. Tale sintomatologia si dissolve se non
sopraggiungono altri eventi traumatici, se sono presenti condizioni predisponenti di
personalità e se non vene a mancare il supporto sociale.
La terza categoria comprende le risposte gravemente inadeguate, ossia delle risposte a
carattere dissociativo che riguardano il 10/15% delle persone coinvolte, contraddistinte da
stato confusionale, momenti deliranti, comportamenti aggressivi ed autolesivi, ecc. Questi
tipi di disturbi persistono per un tempo limitato e tendono a recedere progressivamente
(Cuzzolato, Frighi, 1998).
Relativamente alle reazioni individuali vanno prese in considerazione anche
(Lavanco, Novara, 2003):
• La sindrome da disastro: si può manifestare sia nel periodo dell’impatto che
immediatamente dopo. La vittima è immobile oppure vaga senza meta e appare
frastornata, apatica, passiva. Tale sindrome che di solito è di breve durata e consente
ben presto alla vittima di riprendere padronanza della situazione e di impegnarsi in
attività adeguate, è identificabile, sia pure con caratteri accentuati, con quella “fase di
shock” che è, entro certi limiti, una normale risposta psicologica dell’evento
catastrofico. In alcuni casi, i disturbi descritti possono durare più a lungo: i
soccorritori dovrebbero essere in grado di fornire un adeguato trattamento e
supporto psicologico. Talvolta l’individuo, prima di tornare alla piena
consapevolezza della situazione, attraversa una fase caratterizzata da euforia,

45
eccitamento, iperattività, altruismo, gratitudine, e forte identificazione di gruppo
(Cuzzolaro, Frighi, 1991).
• Sindrome da lutto: si manifesta nei familiari dei defunti costretti a vivere, insieme
alla deprivazione affettiva dei loro cari, una situazione di precarietà materiale. Le
perdite umane che il disastro comporta sono accompagnate da peculiari circostanze
che aumentano il rischio di sindrome da lutto nei familiari dei defunti. Si tratta,
infatti, di morti inaspettate; spesso i corpi dei defunti recano i segni di una morte
violenta, talvolta non vi è l’opportunità di vedere il defunto e di salutarlo per l’ultima
volta. Inoltre i parenti dei defunti devono contemporaneamente far fronte, dopo il
disastro, a una situazione di vita particolarmente gravosa, e il più delle volte senza
alcun supporto psicologico alla loro sofferenza. Essa è caratterizzata dalla presenza
di sentimenti di incredulità e resistenza ad accettare la realtà del decesso, emozioni
dolorose intense e persistenti, un desiderio ardente nei confronti del defunto,
immagini e pensieri intrusivi riguardanti il decesso, il defunto e il rapporto con esso
(Cassano, Tundo, 2008). Il “dolore cronico” e la “sindrome del sopravvissuto” sono
le sindromi da lutto più note e gravi.
• Sindrome del dolore cronico: è probabilmente la più tipica sindrome da lutto
conseguente ai disastri. È caratterizzata da un dolore profondo che resta inalterato
nei mesi. Sono frequenti il pianto, le visite alla tomba, pensieri e conversazioni
immaginarie con il defunto, che portano il soggetto a chiudersi in una relazione con
la persona scomparsa a sfavore delle altre relazioni, affettive, sociali e lavorative.
• Sindrome del sopravvissuto: è caratterizzata da un forte senso di colpa per essere
rimasti in vita, mentre altri non sono stati risparmiati dalla tragedia. Fu descritta
soprattutto tra i sopravvissuti ai campi di concentramento. Nell’insorgere di questa
sindrome è particolarmente rilevante il numero dei morti e la coscienza di
appartenenza al gruppo. Generalmente questa sindrome fa la sua comparsa dopo un
intervallo di tempo dall’evento catastrofico, durante il quale la vita dell’individuo
sembrava avere ripreso il suo corso normale.
• Sindrome da inibizione del dolore: si manifesta attraverso un blocco psicologico con
controllo su tutti i sentimenti relativi alla morte e al disastro. Il soggetto non sembra
particolarmente addolorato o affranto e affronta la vita con atteggiamento molto
attivo. In ogni caso è possibile che l’inibizione del dolore sfoci in un vero e proprio
disturbo psicopatologico.

46
• Sindrome da deformazione del dolore: il soggetto manifesta una notevole rabbia
nelle relazioni con gli altri. È alla ricerca di un capro espiatorio. L’individuo
sviluppando questa sensazione di rabbia, si difende dalla tristezza e dalla
disperazione. Si attiva un modo per proteggersi dall’idea di perdita definitiva.
• Sindrome da Buffalo Creek: caratterizzata da depressione, disturbi somatici,
atteggiamenti polemici, isolamento dal contesto sociale, cambiamenti delle abitudini
e dell’uso del tempo libero, disturbi del sonno, sentimenti di colpa e di vergogna,
senso di inutilità e di impotenza, rabbia.
Le sindromi post-disastri descritte non rivelano una specificità tale per essere
considerate categorie nosografiche.
Naturalmente la reazione delle persone all’esposizione a un evento traumatico è il
risultato di una complessa interazione di variabili (Pietrantoni, Prati, 2009):
• Tipo di evento stressante;
• Variabili della vittima;
• Risposta soggettiva all’evento stressante;
• Il supporto e le risorse sociali.

5. Il Disturbo Post Traumatico da Stress


5.1. Le radici del PTSD

“Quando sei stato morso da un serpente fai


attenzione anche ad un
rotolo di corda”
Il Dalai Lama

Le guerre del Novecento costituiscono le radici delle teorizzazioni sul concetto di


trauma che hanno portato all’attuale definizione di “Disturbo Post Traumatico da Stress”
(PTSD).

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Lo studio e la comprensione delle reazioni allo stress fecero passi da gigante durante
la Prima Guerra Mondiale, quando i medici militari furono costretti a confrontarsi con
migliaia di soldati sotto shock. Ci si rese conto che l’esposizione prolungata ai
bombardamenti e alla vita da trincea provocava nei soldati gravi reazioni psicologiche, le cui
manifestazioni vennero raggruppate con il termine shock da granata. In un primo momento si
pensò che la sintomatologia presentata dai combattenti dipendesse da un danno al sistema
nervoso dovuto agli scontri a fuoco, ma in seguito si osservarono sintomi analoghi anche in
soldati che non erano stati coinvolti in un’esplosione e ai bombardamenti.
L’evoluzione degli studi sulle reazioni allo stress proseguì durante il secondo
conflitto Mondiale portando allo sviluppo di concetti quali: nevrosi da guerra, shock da proiettile
e fatica da battaglia.
Le osservazioni cliniche sui soldati della Seconda Guerra Mondiale influenzarono i
membri dell’APA (American Psychiatric Association) che inserirono le reazioni acute da
stress nella prima edizione del DSM nel 1952. In seguito l’attenzione degli studiosi nei
confronti delle reazioni da stress declinò, e nella seconda edizione del DSM del 1968 non
furono nemmeno accennate (De Felice, Colaninno, 2003).
Dopo la fine della guerra del Vietnam venne inclusa nella terza edizione la sindrome
del Disturbo Post Traumatico da Stress quale categoria diagnostica autonoma, nel novero
dei disturbi d’ansia.
Il concetto di PSTD ha così preso il posto di quello di nevrosi traumatica o post
traumatica (Barbato, Puliatti, Micucci, 2006.)
Il riconoscimento internazionale del PTSD lo si ha nei primi anni Novanta quando
anche l’ICD-10 (Classificazione Internazionale delle malattie dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità) definì il PTSD con criteri simili a quelli proposti dal DSM.

5.2. Diagnosi e Descrizioni clinica

Il Disturbo Post Traumatico da Stress è il più importante, caratteristico e meglio


studiato disturbo connesso all’esperienza di eventi traumatici. Il PSTD è una reazione post
traumatica protratta; la sua diagnosi richiede che la persona abbia assistito o si sia
confrontata con eventi implicanti morte, rischio di morte, minacci dell’integrità fisica

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propria o altrui, e che abbia reagito ad essi con paura intensa e senso di impotenza (Yule,
2000).
Nel DSM-VI TR, i sintomi che caratterizzano questa psicopatologia sono
raggruppati in tre categorie:
1. Reviviscenza dell’evento: l’evento traumatico viene rivissuto persistentemente
attraverso ricordi spiacevoli, pensieri, percezioni ed incubi ricorrenti. Il ricordo
intrusivo, nelle sue varie manifestazioni, è una condizione psicologica che provoca
un’acuta sofferenza, sia per gli effetti dell’intrusione in sé, ma anche per il
perpetuarsi del sentimento di perdita di controllo (su di sé) e di impotenza. Il
ricordo traumatico sembra essere un vero e proprio ricordo muto; le vittime non
sono in grado di integrare l’esperienza affettiva immediata nella strutturazione
cognitiva dell’esperienza. La mancanza di integrazione provoca una reattività
estrema all’ambiente senza l’intervento della riflessione (van der Kolk, van der Hart,
Marmar, 1996).
2. Evitamento degli stimoli associati al trauma: le persone cercano di non incontrare
tutto ciò che possa ricordare loro il trauma per evitare l’insorgere di spiacevoli
ricordi. La vittima sfugge consapevolmente da pensieri o conversazioni, ma anche
da persone o situazioni che possono riportare alla memoria emotiva dell’evento.
Tutto questo sviluppa conseguenze negative nelle relazioni sociali, riducendo la
possibilità di avere supporto per far fronte alla situazione. Tale atteggiamento e i
comportamenti pratici in cui si traduce, inoltre, possono portare alla perdita di
importanti parti di sé; infatti la vittima spesso evita di svolgere attività creative o
sportive, che da sempre la caratterizzano (Demichelis O., Coletti M., Toffolo G.,
2004). Anche le amnesie relative ad aspetti del trauma sono da considerarsi forme di
evitamento, pure se inconsapevoli. Queste forme, oltre a colpire la memoria,
intaccano anche la sfera emotiva. La vittima sviluppa una sorta di amnesia emotiva
che provoca la perdita di interesse per le attività e le relazioni che prima dell’evento
traumatico erano molto significative. Questa condizione può causare gravi danni;
infatti la persona cercando di “sentire” qualcosa, può sviluppare comportamenti
pericolosi per sé o per gli altri. Tali comportamenti possono andare dall’uso di
sostanze che attenuano le inibizioni, all’uso di allucinogeni, a pratiche pericolose di
varia natura, incluso l’autoferimento o l’automutilazione, che danno alla persona
gravemente sofferente l’illusione di sentire qualcosa (Axia, 2006). Un aspetto

49
interessante dei fenomeni di evitamento è che sembrano più tipici nelle persone che
vivono nelle società occidentali rispetto a quelle che vivono in società con minore
complessità culturale e maggiore coesione comunitaria (McCall, Resick, 2003).
3. Sintomi di aumentato arousal: in persone traumatizzate si assiste ad un costante
innalzamento dell’attività psicofisiologica dell’organismo, che determina
conseguenze molto spiacevoli. Il loro sonno è spesso disturbato e la concentrazione
faticosa; inoltre sono costantemente in allerta e reagiscono scattando ad ogni
rumore improvviso. I soggetti che soffrono di PTSD presentano un’alterata
produzione ormonale, in particolare degli ormoni che regolano la reazione fisica
dello stress. Per esempio gli ormoni tiroidei, l’epinefrina e la noraepinefrina
aumentano notevolmente. Il cortisolo, al contrario, diminuisce come se non si
innescassero più gli ormoni protettivi antistress (Bear, Connor, Paradiso, 2007).
A seconda della durata dei sintomi, si possono distinguere tre forme di PTSD:
• Acuto: i sintomi durano da uno a tre mesi;
• Cronico: i sintomi durano tre mesi o più;
• Ad insorgenza tardiva: l’esordio dei sintomi avviene almeno sei mesi dopo l’evento
stressante.
L’insorgenza dei sintomi può essere temporalmente ravvicinata rispetto all’evento
traumatico, ma anche molto lontana; in questo caso sarebbe un evento successivo, anche di
minore importanza, a fare affiorare gli effetti psicologici del trauma precedente (Favaro,
1999). Nelle vittime di disastri il PTSD raramente è ad esordio ritardato; generalmente le
prime manifestazioni insorgono immediatamente dopo il trauma (McFarlane, Yehuda 2004).
I criteri diagnostici proposti dal DSM-VI TR (APA, 2000) per la diagnosi di PTSD
sono i seguenti:
A) La persona è stata esposta a un evento traumatico in cui erano presenti entrambe le
caratteristiche seguenti:
• La persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con uno o più eventi che
hanno comportato la morte o una minaccia per la vita, oppure una grave lesione, o
una minaccia all’integrità fisica propria o altrui;
• La risposta della persona comprendeva intensa paura, sentimenti di impotenza o di
orrore (Nota: nei bambini tale comportamento può essere espresso con
comportamento disorganizzato o agitato).
B) L’evento traumatico viene persistentemente rivissuto in uno (o più) dei seguenti modi:

50
• Ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini,
pensieri o percezioni (Nota: nei bambini piccoli si possono avere giochi ripetitivi in
cui vengono espressi temi riguardanti il trauma);
• Ricorrenti sogni spiacevoli dell’evento (Nota: nei bambini possono essere presenti
sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile);
• Agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò comprende
un senso di rivivere l’esperienza, illusione, allucinazione ed episodi dissociativi di
flashback), (nota; nei bambini piccoli si possono avere rappresentazioni ripetitive e
specifiche del trauma);
• Intenso disagio psicologico all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che
simbolizzano o assomigliano a un aspetto dell’evento traumatico;
• Reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che
simbolizzano o assomigliano a un aspetto dell’evento traumatico.
C) Evitamento degli stimoli associati al trauma e attenuazione della reattività generale (non
presenti prima del trauma) come indicato da tre ( o più) dei seguenti elementi:
• Sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate al trauma;
• Sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma;
• Incapacità di ricordare un importante aspetto del trauma;
• Riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative;
• Sensazione di distacco o estraniamento dagli altri;
• Affettività ridotta (Es: incapacità di provare sentimenti d’amore);
• Senso di diminuzione delle prospettive future (Es: aspettarsi di non poter avere una
carriera, un matrimonio, dei figli o una normale durata della vita).
D) Sintomi persistenti di aumento di arousal (non presenti prima del dramma) come
indicato da due o più delle seguenti manifestazioni:
• Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno;
• Irritabilità o scoppi di collera;
• Difficoltà di concentrazione;
• Ipervigilanza;
• Esagerate risposte di allarme.
E) La durata del disturbo (sintomi ai criteri A, B, C) è superiore a un mese.
F) Il disturbo causa un disagio clinico significativo, o un’alterazione del funzionamento
sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

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Specificare se:
• Acuto: se la durata dei sintomi è inferiore a tre mesi.
• Cronico: se la durata dei sintomi è tre mesi o più.
• Ad esordio ritardato: se l’esordio dei sintomi avviene almeno sei mesi dopo l’evento
stressante.

Accanto al PTSD è giusto menzionare i Disturbi dell’Adattamento e il Disturbo


Acuto da Stress, quali ulteriori forme di psicopatologia connesse ad eventi catastrofici.
I disturbi dell’adattamento sono disturbi significativi ma transitori, di lieve gravità con
sintomi di tipo ansioso o depressivo, che compaiono in seguito ad uno o più eventi e
situazioni di stress psicosociale oggettivamente identificabile. In genere insorgono entro tre
mesi dall’inizio dell’evento stressante e non durano più di sei mesi. II fattore stressante può
essere costituito da un singolo evento, oppure possono esservi fattori stressanti multipli.
Tali fattori possono essere ricorrenti o continui; questi possono interessare un singolo
individuo, un'intera famiglia, oppure un gruppo più ampio o la comunità. I Disturbi
dell'Adattamento vengono classificati in base al sottotipo che definisce i sintomi
predominanti:
• Con Umore Depresso: le manifestazioni cliniche predominanti sono umore
depresso, facilità al pianto, o sentimenti di perdita di speranza.
• Con Ansia: caratterizzato da sintomi come irritabilità, preoccupazione o
irrequietezza, oppure, nei bambini, timori di essere separati dalle figure a cui sono
principalmente attaccati.
• Con Ansia e Umore Depresso Misti: la manifestazione predominante è una
connotazione di depressione e di ansia.
• Con Alterazione della Condotta: tipica è un'alterazione della condotta in cui si
verifica una violazione dei diritti degli altri o delle regole della società appropriate
per l'età adulta (ES: assenze ingiustificate da scuola, guida spericolata, risse,
inadempienza verso responsabilità legali).
• Con Alterazione Mista dell'Emotività e della Condotta: le manifestazioni
predominanti sono sia sintomi emotivi (Es: depressione, ansia) che un’anomalia
della condotta.

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• Non Specificato; caratterizzato da reazioni maladattive (Es: lamentele fisiche, ritiro
sociale, o inibizioni sul lavoro a scuola) a fattori stressanti che non sono classificabili
come dei sottotipi specifici di Disturbo dell'Adattamento.
Per quanto riguarda il Disturbo Acuto da Stress il suo quadro clinico si compone dei
seguenti criteri diagnostici (DSM-IV-TR):
• La persona è stata esposta ad un evento traumatico in cui erano presenti entrambi e
seguenti elementi:
1. La persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con uno o più eventi
che hanno comportato la morte o una minaccia per la vita, oppure una grave
lesione, o una minaccia per l’integrità fisica propria o altrui;
2. La risposta della persona comprendeva intensa paura, sentimenti di
impotenza o di orrore.
• Durante o dopo l’esperienza dell’evento stressante, l’individuo presenta tre (o più)
dei seguenti sintomi dissociativi:
1. Sensazione soggettiva di insensibilità, distacco o assenza di reattività
emozionale;
2. Riduzione della consapevolezza dell’ambiente circostante (es: rimanere
storditi);
3. Derealizzazione;
4. Amnesia dissociativa (cioè incapacità di ricordare qualche aspetto
importante del trauma);
• L’evento traumatico viene persistentemente rivissuto in uno (o più) dei seguenti
modi: immagini, pensieri, illusioni, flashback persistenti o sensazioni di rivivere
l’esperienza; oppure disagio all’esposizione a ciò che ricorda l’evento traumatico.
• Marcato evitamento degli stimoli che evocano ricordi del trauma (es: pensieri,
sensazioni, conversazioni, attività, luoghi, persone).
• Sintomi marcati di ansia o di aumentato arousal (es: difficoltà a dormire, irritabilità,
scarsa capacità di concentrazione, risposte di allarme esagerate, irrequietezza
motoria).
• Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione del
funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti, oppure compromette la
capacità dell’individuo di eseguire compiti fondamentali, come ottenere l’assistenza

53
necessaria o mobilitare le risorse personali riferendo ai familiari l’esperienza
traumatica.
• Il disturbo dura al minimo due giorni e al massimo quattro settimane e si manifesta
entro quattro settimane dall’evento traumatico.
• Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (es: abuso di
droghe o di farmaci).
La caratteristica di questo disturbo è che i sintomi si manifestano entro un mese
dall’evento, nel caso in cui i sintomi persistano dovrebbe essere presa in considerazione la
diagnosi di PTSD. Gli studi avvalorano l’idea che il Disturbo Acuto da Stress sia un
predittore del PTSD (van der Kolk, McFarlane, Weiseath, 2004).

5.3. Disturbi associati al PTSD

Il PTSD presenta un altro livello di comorbilità con disturbi dell’umore, con quelli
dissociativi, con i disturbi d’ansia e con patologie del carattere (van der Kolk, McFarlane,
2004).
Nei soggetti con PTSD si assiste spesso ad un incremento dell’uso di sostanze quali
alcool o cannabis. In particolare tra i giovani è frequente un aumento dei comportamenti a
rischio sessuale, del consumo di sigarette o comunque una minor propensione a voler
smettere di fumare (Chiasson, 2005). In generale, la salute fisica è spesso pregiudicata;
difatti, si assiste ad un generale declino della valutazione soggettiva della salute, ed
un’aumentata incidenza di cefalee, disturbi al torace ed un indebolimento del sistema
immunitario.
Anche le relazioni sociali possono risultare compromesse: le vittime di disastri
risultano spesso molto irritabili e litigiose.
In soggetti che hanno vissuto un’esperienza traumatica si assiste anche ad un
deterioramento cognitivo: sono state riportate difficoltà di concentrazione e disturbi
mnestici nei sopravvissuti al crollo di un hotel.
Altri problemi che si associano spesso a questo disturbo sono rabbia, senso di colpa,
problemi coniugali e sul lavoro. Sono comuni anche pensieri di suicidio ed episodi di
violenza (Krug, 1998).

5.4. Incidenza e fattori di vulnerabilità

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L’incidenza del PTSD non è molto elevata, infatti, solo una minoranza delle persone
che hanno subito traumi (anche gravi) sviluppa questa psicopatologia.
Alcuni studi (Davidson, 1991), indicano che l’occorrenza del PSTD nell’arco della
vita è molto bassa, al massimo raggiunge l’1,5% della popolazione generale. Tuttavia,
quando si esaminano solo gruppi di persone che hanno subito un trauma, le percentuali si
alzano di molto, arrivando fino al 9,2%, (sei - sette volte di più della popolazione generale).
A conferma dei dati sopra riportati e riferito alla popolazione degli Stati Uniti è stato
condotto un ampio studio epidemiologico su un campione di 8098 americani
rappresentativi della popolazione tra i 15 e i 54 anni (Kassler, 1996). I risultati hanno
rilevato che avere vissuto eventi traumatici è un fatto piuttosto comune. Il 60% degli uomini
e il 52,1% delle donne americane ha subito almeno un trauma, anche se la maggior parte
degli intervistati ha riportato duo o più traumi nell’arco della vita. A fronte della larga
esposizione ad eventi traumatici, solo il 7,8% della popolazione ha sofferto di PSTD nel
corso della vita. Le donne (10,4%), nonostante un’esposizione mediamente inferiore,
soffrono di PTSD circa il doppio degli uomini (5%).
Diversi sono i risultati quando si esaminano veterani di guerra, come viene
confermata da un importante studio su 3016 reduci del Vietnam (Kulka, 1996). Il 53,4% dei
reduci ha avuto il PTSD in forma completa; questo significa che il combattimento e
l’esposizione alla guerra danneggia seriamente circa una su due persone esposte.
Come si può osservare non tutte le persone che hanno vissuto un evento traumatico
sviluppano il PTSD. L’incidenza dei disturbi patologici post-disastro dipende sia dalle
caratteristiche della catastrofe sia da quelle della popolazione colpita (Cuzzolaro, Frighi,
1998).
Studi sui fattori di vulnerabilità e di rischio per il PTSD si sono focalizzati sulle tre
fasi: pre-trauma, peri-trauma e post-trauma (Barbato, Puliatti, Micucci, 2006.)
In riferimento ai fattori di vulnerabilità pre-trauma, nonostante siano emerse poche
tendenze chiare, alcune sembrano dimostrare un rischio maggiore di PSTD nelle persone
con un basso livello socioeconomico e di istruzione, sposate, di sesso femminile, con
difficoltà relazionali, e con una storia di pregressi disturbi psichiatrici e/o di personalità.
Le variabili relative all’ambiente sociale che possono incidere sulla capacità della
persona di affrontare uno stressor traumatico sono: il livello di violenza, la trascuratezza, la

55
presenza di disturbi mentali nelle figure di accudimento, una storia familiare di
comportamento antisociale, la precoce separazione dai genitori. (Carlson, 2005).
La fase peritraumatica riguarda il periodo di tempo che comprende la situazione al
momento del trauma e immediatamente dopo. La maggior parte degli studi ha evidenziato
che i migliori predittori dell’insorgenza di un PSTD sono la gravità del trauma (Es: un
elevato livello di minaccia per la vita), la sua durata e la prossimità dell’individuo all’evento
traumatico (Andrews et al. 2003). Svolgono un ruolo importante anche la prevedibilità e la
controllabilità: è più probabile che le persone si adattino meglio ad alti livelli di stress se
questi sono almeno in parte attesi. Le impressioni e percezioni soggettive della persona
possono quindi influire sulla natura e intensità percepite del trauma (Carlson 2005).
Riguardo ai fattori di vulnerabilità post-trauma, un buon sostegno sociale e le abilità
di gestione dello stress possono modulare lo sviluppo del disturbo e facilitare il processo di
guarigione (Fullerton e Ursano 2001). Il sostegno sociale, infatti, può contribuire a ristabilire
il senso di controllo della persona e a ridurre la valenza negativa dell’esperienza.
Riassumendo, i fattori di rischio più importanti sono:
• Età: bambini e anziani sembrano le categorie più a rischio;
• Malattie e invalidità preesistenti;
• Eventi stressanti preesistenti;
• Autoefficacia, le strategie di coping, il locus of control;
• Situazione familiare;
• Personalità: alcuni studi hanno ipotizzato che tratti di personalità come il
nevroticismo e l’introversione, possano predisporre allo sviluppo del PSTD
• Supporto sociale,
• Caratteristiche dell’evento.

5.5 Teorie cognitive e PTSD

Nel presente paragrafo verrà esaminata una selezione dei differenti approcci teorici
al PTSD, partendo dal presupposto che una buona teoria debba soddisfare per lo meno i
seguenti requisiti (Yule, 2000):
• Requisito 1: trovare una spiegazione dei tre ordini di problemi del PTSD
(l’esperienza di rivivere l’evento traumatico, i sintomi di evitamento e i sintomi di
iperarousal).

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• Requisito 2: spiegare tutta la gamma di reazioni individuali al trauma (l’apparente
assenza di conseguenze emozionali, il PTSD acuto, il PTSD cronico, il PTSD a
insorgenza tardiva e così via).
• Requisito 3: spiegare gli effetti della variabilità degli eventi, della storia promorbosa
di problemi psicologici, del supporto sociale, della tendenza ad attribuire significati
particolari agli eventi e a esprimere le proprie emozioni.
• Requisito 4: considerare l’efficacia dei trattamenti basati sull’esposizione nel PTSD.
• Requisito 5: fornire un coerente modello psicologico nel quale le quattro condizioni
precedenti possano realizzarsi.
I modelli psicologici che cercano di soddisfare questi cinque requisiti sono: quello
psicodinamico (Freud, 1919; Ferenczi, 1919; Fenichel, 1945), quello psicobiologico (van der
Kolk, 1988) e quelle cognitivo (Horowitz, 1986; Janoff-Bulman, 1992, Foa et al, 1989;
Brewin et al, 1996).
Tutti questi approcci offrono interessanti visioni sulla natura del disturbo, ma
l’approccio cognitivo è quasi certamente quello maggiormente sviluppato e che propone i
tentativi più coerenti e meglio riusciti per spiegare la vasta gamma di aspetti coinvolti nel
PTSD.
Le teorie cognitive partono dal presupposto che i soggetti creino un proprio sistema
di conoscenze, ed affrontino le situazioni, utilizzando schemi e costrutti cognitivi personali,
che sono sia espressione che fondamento di atteggiamenti ed aspettative riguardo se stessi,
gli altri e il mondo. Un’improvvisa esperienza traumatica mette di fronte le persone ad una
situazione che contrasta rispetto alle convinzioni contenute nei sui schemi mentali,
mettendola in allarme.
Le diverse teorie cognitive, partendo da presupposti comuni, sono concordi
nell’intendere i vari aspetti e fenomeni correlati al PTSD come il risultato dei tentativi
adottati dagli individui di integrare l’informazione relativa al trauma con i lori schemi. In
quest’ottica, l’evento traumatico veicolerebbe un’informazione significativa, quindi non
ignorabile ma incompatibile con le idee dell’individuo relative a se stesso, agli altri e al
mondo. Così, a differenza di un’informazione non significativa, che il sistema cognitivo può
facilmente assimilare, quella correlata al trauma, essendo altamente significativa e
incompatibile, non può essere ignorata e deve essere integrata per evitate un “caos”
psicologico. Questo tentativo di integrare l’informazione correlata al trauma all’interno di
assunti precostruiti porterebbe, secondo quanto sostenuto dalle diverse teorie cognitive

57
(Horowitz, 1986; Janoff-Bulman, 1992, Foa et al, 1989; Brewin et al, 1996), ai differenti
fenomeni che contraddistinguono le reazioni post-traumatiche. La risoluzione negativa ha
luogo quando i soggetti non riescono a trovare un equilibrio tra le nuove informazioni
correlate al trauma e le preesistenti concezioni su sé stessi e sul mondo.
Le differenti teorie cognitive focalizzano l’attenzione sui diversi aspetti di questa
discrepanza; naturalmente questo significa che una data teoria ha un potere esplicativo
maggiore in alcune aree rispetto ad altre.
Di seguito ne verrà proposta una selezione delle più importanti e conosciute.

5.5.1. La teoria di Horowitz sulle sindromi di risposta allo stress

Secondo Horowitz (1986), che può essere considerato uno dei maggiori esponenti
del modello Cognitivo - sociale, la comprensione dei meccanismi psicologici sottesi al
PTSD è riconducibile sia ai processi che presiedono l’elaborazione delle informazioni che ai
processi psicodinamici dell’individuo.
Con l'espressione "sindromi di risposta allo stress", Horowitz intende abbracciare
tutte le manifestazioni psicopatologiche comparse a seguito di esperienze traumatiche,
anche quando esse vengono ricondotte a diagnosi descrittive differenti dalla specifica
diagnosi di PTSD.
Secondo l’autore, l’individuo, nell’elaborazione delle informazioni, manifesterebbe
una tendenza al completamento (“il bisogno psicologico di far corrispondere le nuove informazioni con i
modelli interni basati su informazioni precedenti, e la revisione di entrambi, fino al punto di trovare un
accordo” (Horowitz, 1986, pag. 92); infatti, sembrerebbe muoversi nella direzione di un
compromesso tra le nuove informazioni in entrata e i modelli interni basati su quelle
elaborate in precedenza. Questo è il requisito basilare per un buon adattamento alla realtà
Dopo aver subito un trauma si verifica un iniziale “crying out” (reazione di
stordimento), seguita da un periodo di sovraccarico informativo, durante il quale i pensieri, i
ricordi e le immagini del trauma non riescono a conciliarsi con gli schemi cognitivi
preesistenti. Si potrebbe dire che c’è un’iniziale difficoltà di completamento.
Per l’autore un certo numero di difese psicologiche entrano in gioco nel mantenere
l’informazione traumatica a livello inconscio, facendo vivere al soggetto un periodo
caratterizzato da anestesia affettiva e negazione nei confronti dell’evento. In ogni caso, la
tendenza al completamento conserva le informazioni correlate al trauma in quella che

58
Horowitz definisce memoria attiva, la quale permette che le informazioni passino attraverso
le difese e irrompano nella coscienza sottoforma di flashback, incubi, pensieri intrusivi,
quando il soggetto cerca di fondere le nuove informazioni con quelle preesistenti. Questo
scontro tra la tendenza al completamento, e i meccanismi psicologici di difesa fa sì che le
persone oscillino tra periodi caratterizzati da intrusività, negazione e anestesia affettiva, nel
momento in cui cercano di integrare a lungo termine il materiale traumatico con le
rappresentazioni. L’impossibilità di questa elaborazione dimostra che le informazioni
traumatiche parzialmente elaborate restano nella memoria attiva senza essere
completamente assimilate, portando alla comparsa di reazioni post-traumatiche.
Questo modello possiede una considerevole capacità esplicativa riguardo alla
fenomenologia del PTSD (requisito 1) e affronta in modo esaustivo il ruolo e gli effetti del
trattamento (requisito 4); inoltre vengono indicate chiaramente le modalità attraverso le
quali reazioni normali al trauma possono diventare croniche (requisito 2).
La proposta di Horowitz, comunque, è caratterizzata da una serie di limiti. Prima di
tutto non vengono approfondite le motivazioni per cui alcuni individui sviluppano il PTSD
mentre altri, in seguito ad esperienze analoghe, no (requisito 2). In secondo luogo, questo
modello fornisce una chiara descrizione del decorso temporale delle reazioni post-
traumatiche, ma non vi è la certezza che tutti i soggetti sperimentino effettivamente un
momento iniziale di negazione dell’evento, o successive oscillazioni tra negazione e
intrusività. Infine, anche se viene fatto cenno a fattori quali supporto sociale e attribuzioni si
chiarisce solo parzialmente il modo in cui tali fattori operano e interagiscono con processi
come il completamento (requisito 3). Lo schema (immagine 7) sottostante fornisce un breve
riepilogo del modello di Horowitz

Risoluzion
e positiva
Periodo di
Evento Crying out o
Sovraccarico oscillazione tra
traumatico reazione di
informativo intrusività ed Risoluzione
stordimento parziale e
evitamento
cronicizzata
del PSTD

Fonte: Yule (2000)

59
5.5.2 La teoria della valutazione cognitiva o della frantumazione degli assunti
fondamentali di Janoff-Bulman

La teoria della frantumazione degli assunti fondamentali di Janoff-Bulmann (1992)


sostiene che il PTSD sia il prodotto della “frantumazione” di alcuni assunti fondamentali
riguardo a sé stessi e al mondo.
Gli assunti a cui si riferisce l’autore sono:
• Il concetto della propria invulnerabilità
• La percezione del mondo come carico di significati e comprensibile
• La visione di se stessi sotto una luce positiva
Tali assunti forniscono struttura e significato alla vita di una persona e la loro
frantumazione causa estremo disagio. Di fronte ad un’esperienza traumatica, è possibile che
questi assunti si scompongano, causando lo comparsa nell’individuo di una combinazione di
sintomi caratterizzati da intrusività, evitamento e iperarousal.
Gli schemi di base dell’individuo, ovvero quelle rappresentazioni o credenze su di
sé, sugli altri e sul mondo che ci si forma fin dall’infanzia per effetto delle influenze
culturali, sociali, familiari ed esperienze profonde, quindi, hanno un ruolo fondamentale
nello sviluppo e nel mantenimento del PTSD.
La “Ricostruzione del Significato” è un aspetto centrale per il recupero terapeutico
degli individui traumatizzati. Le immagini intrusive di per sé non causano dolore, ma è il
significato ascritto all’immagine che dà origine al disagio psicologico.
Il modello di Janoff-Bulman appare importante in quanto espone le differenti
modalità attraverso le quali le informazioni correlate al trauma risultano inconciliabili con
idee e concezioni riguardo al sé e al mondo che ciascuno possiede. Si possono ritrovare,
però, solo limitati tentativi di spiegazione del modo in cui tali modelli vengono rappresentati
o di quali processi siano coinvolti quando questi vanno in frantumi (requisito 5).

5.5.3. Il “fear network” di Foa

Foa et al (1992) hanno presentato una teoria dell’elaborazione dell’informazione per


il PTSD che si basa sulla formazione di un cosi detto fear network (rete della paura) nella
memoria a lungo termine.
Questa rete comprende:

60
• Lo stimolo informazionale relativo all’evento traumatico (es: luci, suoni, odori),
• L’informazione circa le reazioni cognitive, comportamentali e psicologiche
dell’evento,
• L’informazione che tiene insieme questi elementi stimolo-risposta.
Secondo gli ideatori del modello un evento potenzialmente traumatico determina un
tipo di rappresentazione in memoria qualitativamente differente da quello di un evento
ordinario. L’attivazione di uno di questi fear network, tramite la stimolazione di qualche
elemento associato al trauma, fa entrare l’informazione nella consapevolezza cosciente. I
sintomi di evitamento che caratterizzano il disturbo sono prodotti dal tentativo di ridurre
tale tipo di attivazione.
Per gli autori di questo modello una risoluzione positiva del trauma può avere luogo
solo integrando l’informazione all’interno del fear network con strutture mnemoniche
preesistenti. Questa integrazione necessita che il network venga attivato per poterlo
modificare e che siano disponibili informazioni incompatibili con quelle contenute nel fear
network, così che l’intera struttura mnemonica possa venir modificata. Quindi, risulta utile
l’attivazione di tali strutture, per esempio tramite l’esposizione, allo scopo di modificare e
allentarne la forza associativa: in questo modo le altre strutture mnemoniche associate agli
stimoli (suoni, odori…) possono essere accessibili e non sottostare a quello predominante.
Secondo Foa et al (1992) sono numerosi i fattori che mediano il decorso di questa
integrazione: ad esempio, eventi particolarmente imprevedibili e incontrollabili sono meno
facilmente assimilabili nei modelli preesistenti di eventi maggiormente prevedibili. Ancora,
la particolare gravità dell’evento può portare alla genesi di un fear network particolarmente
“smembrato e frammentato”, e pertanto difficilmente integrabile con i modelli preesistenti,
a causa della demolizione dei processi cognitivi sviluppatasi al momento del trauma.
Questo modello rappresenta un passo in avanti nelle teorizzazioni sul PTSD, infatti
per la prima volta vengono messi in evidenzia aspetti quali la prevedibilità e la controllabilità
del trauma, riconoscendo un ruolo importante alle attribuzioni e alle interpretazioni
riguardo all’evento traumatico da parte dell’individuo (requisito 3). Inoltre, il concetto che la
disponibilità di informazioni incompatibili con il trauma sia necessaria per un’elaborazione
ben riuscita fornisce uno schema per comprendere quale sia il ruolo del supporto sociale,
inteso come veicolo per la trasmissione di tali informazioni incompatibili (requisito 3).

61
In ogni caso la teoria del fear network di Foa et al. non riesce a dare una spiegazione
esaustiva dell’ampia fenomenologia del PTSD, concependo un network con un unico livello
di rappresentazione.

5.5.4. La teoria dell’elaborazione della “doppia rappresentazione” di Brewin

La teoria dell’elaborazione della “doppia rappresentazione” di Brewin cerca di


rimuovere i difetti delle teorie a singolo livello come quella di Foa, suggerendo l’esistenza
nella memoria di due livelli attraverso cui le informazioni correlate al trauma possono venire
rappresentate.
I livelli presi in considerazione nel modello sono:
• Il primo livello è quello dell’esperienza cosciente chiamato “Verbally Accessible
Memories” (VAM). I VAM contengono la memoria autobiografica che può essere
intenzionalmente richiamata e comunicata verbalmente. Le rappresentazioni dei
VAM contengono le informazioni di come l’individuo ha sentito, ha risposto e
interpretato l’evento traumatico. Le informazioni codificate in questo sistema di
memoria sono limitate in quanto dipendono da ciò cui si è prestato attenzione
durante l’evento.
• Il secondo livello, definito “situationally accessibile memory” (SAM), contiene le
informazioni dell’evento alle quali l’accesso non può essere intenzionale, ma avviene
solo quando vi sono stimoli scatenanti, esterni o interni, che simbolizzano o
richiamano un aspetto dell’evento traumatico. Le informazioni codificate in questo
sistema di memoria sono molto dettagliate, e non sono soggette a cambiamenti
dovuti a valutazioni successive dell’evento come del caso dei VAM.
La teoria della doppia rappresentazione sostiene che le rappresentazioni dei VAM e
dei SAM sono codificate contemporaneamente al momento del trauma.
Secondo l’Autore la vasta gamma di fenomeni connessi al PTSD è determinata
dall’attivazione delle rappresentazioni dei SAM e dei VAM (es: i flashback sarebbero il
risultato dell’azione dei SAM, mentre nelle situazioni in cui il trauma è rivissuto ad agire
risulterebbero i VAM).
L’elaborazione emozionale del trauma deve avvenire su entrambi i fronti per essere
realmente efficace. Da una parte, quindi, vi è la necessità di ridurre le emozioni negative
generate dalla valutazione del trauma riaffermando il proprio controllo sulla situazione.

62
Dall’altra parte, è necessario prevenire l’attivazione dei SAM tramite la creazione di
nuovi SAM che blocchino l’accesso a quelli iniziali.
Un’efficace elaborazione emozionale dei VAM e dei SAM riguardo al trauma può
non essere sempre possibile: vi sono situazioni in cui risulta troppo grande la discrepanza
tra la trama attuale e gli assunti precedenti.
La teoria di Brewin offre probabilmente la più chiara e completa descrizione della
fenomenologia del PTSD (requisito 1), mettendo in risalto le diverse possibili conseguenze
di un trauma (requisito 2), evidenziando il ruolo delle attribuzioni e del supporto sociale
(requisito 3) e descrivendo i vari meccanismi alla base delle terapie cognitive (requisito 4).
In ogni caso questo modello è caratterizzato da una serie di limiti riguardanti soprattutto
una spiegazione esaustiva di quali siano le funzioni dei VAM e dei SAM nell’economia
generale dei processi mnemonici.
Nella pagina seguente verrà proposta una rappresentazione grafica del modello
(immagine 8).

Immagine 8

Codificazione
nella memoria
verbalmente
accessibile
(VAM) Ricordi intrusivi ed
emozioni, richiamo
selettivo

Vissuti
Evento colpevoli
traumatico

Flashback, sogni,
Codificazione arousal situazionale
nella memoria
accessibile in
base alle
situazioni
(SAM)
63
Fonte: Yule (2000)

6. Una terapia per il PTSD: l’EMDR (Eye Movement Desensitization and


Reprocessing)

“Nel bel mezzo dell’inverno, compresi


finalmente che dentro
me c’era un’invincibile estate”
Albert Camus

L’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una terapia considerata


elettiva per il trattamento del PTSD, e in generale per tutti i disturbi di origine traumatica. È
stato sviluppato da Francine Shapiro, una psicologa/ricercatrice membro del Mental
Reserch Istitute di Palo Alto.
La “scoperta” di questa tecnica risale al 1987, e dalla stessa autrice viene descritta in questi
termini:

64
“Un giorno, passeggiando in un parco, notai che alcuni pensieri inquietanti che avevo erano
improvvisamente spariti; notai inoltre che quando ritornavo con la mente a quei pensieri essi
non erano più disturbanti e presenti come prima. L’esperienza passata mi aveva insegnato
che i pensieri disturbanti hanno un determinato “ciclo”; tendono cioè a manifestarsi
continuamente fino a quando coscientemente si fa qualcosa per fermarli o cambiarli. Ciò che
mi colpì quel giorno fu che i miei pensieri disturbanti stavano sparendo e modificandosi senza
alcuni sforzo cosciente (…). Notai che quando i pensieri disturbanti tornavano alla mente, i
miei occhi cominciavano spontaneamente a muoversi avanti e indietro in una linea diagonale.
Di nuovo i pensieri scomparvero, e quando li riportati alla mente la loro carica negativa si
era notevolmente ridotta. A quel punto cominciai a eseguire i movimenti oculari
deliberatamente mentre mi concentravo su vari pensieri e ricordi disturbanti e mi accorsi che
anche questi pensieri sparivano e perdevano la loro carica emotiva (…). Alcuni giorni dopo
cominciai a provare questo metodo con altre persone (…)”. (Shapiro, Silk Forrest, 1997
pag. 10)
Durante le sedute di EMDR l’attenzione del paziente viene focalizzata sul ricordo
traumatico che ha contribuito a sviluppare la patologia o il disagio da lui esperito. Il lavoro
terapeutico è articolato e complesso, ma l’aspetto caratterizzante questo approccio è
rappresentato dalla stimolazione bilaterale alternata (destra-sinistra) che il terapeuta effettua
mentre il paziente focalizza la sua attenzione sul ricordo dell’esperienza traumatica.
Perciò si crea un duplice focus di attenzione: il paziente si concentra sullo stimolo
interno (immagini, cognizioni, emozioni e sensazioni corporee legate al trauma) mentre
segue uno impulso esterno dato dalla stimolazione bilaterale alternata, generalmente di
breve durata (circa 30/40 secondi). Dopo ogni stimolazione il paziente riferisce quello che
ha rilevato (cambiamenti emozionali, nelle sensazioni corporee, oppure se emergono
ricordi…). Le sedute proseguono con le stimolazioni bilaterali, intervallate dai feedback del
paziente fino a quando quest’ultimo riferisce di non sentire disagio. Una delle caratteristiche
fondamentali di questo approccio è che i risultati si vedono già dopo poche sedute.
Il cambiamento di prospettiva osservabile durante le sedute di EMDR riflette
l’elaborazione del ricordo dell’esperienza traumatica. Il paziente “vede” il ricordo lontano,
distante e modifica le sue valutazioni e il suo modo di vedere il mondo (Shapiro, 2000).
Paradossalmente non vi è ancora una spiegazione esaustiva di quello che viene
provocato dai movimenti oculari.

65
La Shapiro parte dalla considerazione che in ognuno di noi vi sia un sistema di
elaborazione delle informazioni progettato per affrontare gli eventi disturbanti in modo da
poter mantenere uno stato di salute mentale. Quando ci accade qualcosa di spiacevole noi
continuiamo a pensarci, finché non si giunge a una “risoluzione adattiva”, durante la quale si
apprende quello che vi è di utile riguardo all’esperienza. Il tutto viene immagazzinato nel
cervello assieme alle emozioni appropriate (dopo aver scartato quelle negative) così che in
futuro possa servirci da guida.
Nelle situazioni in cui si vive un’esperienza fortemente traumatica, tuttavia, questo
sistema innato di elaborazione può fallire. Le sensazioni relative all’evento possono
rimanere inalterate nel sistema nervoso nella stessa forma di come sono state vissute.
Queste percezioni non elaborate possono esprimersi negli incubi, nei flashback e nei pensieri
intrusivi tipici del PTSD. Durante le sedute di EMDR si chiede alla persona di pensare
all’evento traumatico, quindi si stimola il sistema di elaborazione delle informazioni in modo
che l’esperienza possa essere adeguatamente elaborata. Pertanto l’uso dei movimenti oculari
permettendo di accedere a quello che Francine Shapiro definisce il nostro sistema di auto-
guarigione (il sistema di elaborazione delle informazioni), riuscirebbe a lenire l’ansia, il
dolore, la sofferenza e la paura. Praticamente l’EMDR aiuta il sistema di elaborazione delle
informazioni a lavorare più rapidamente, innescando il processo di auto guarigione
bloccatosi in conseguenza dell’evento traumatico.
Indubbiamente l’EMDR può essere utilizzato con successo in psicologia
dell’emergenza, favorendo la riduzione delle emozioni negative e delle sensazioni corporee
connesse ai ricordi traumatici o ansiogeni, inducendo una rivalutazione costruttiva di questi
ricordi (Fernandez, 2005.)

6.1. L’EMDR: il protocollo standard per adulti e adolescenti

La procedura tipo o algoritmo di intervento dell’EMDR è caratterizzato da otto fasi


specifiche (Barbato, Puliatti, Micucci, 2006):
1. PRIMA FASE: il terapeuta svolge un’indagine accurata sulla storia del cliente per
valutare se il trattamento possa essere adeguato alla situazione. Questa fase è
fondamentale perché l’EMDR può fare riaffiorare emozioni molto intense, e quindi
non à adatto a tutti (es: donne incinta, soggetti con problemi cardiaci o respiratori).
Una volta che il trattamento viene giudicato idoneo, il terapeuta pone al soggetto

66
delle domande specifiche riguardanti la sua storia personale ed il problema che lo ha
condotto in terapia. Con queste informazioni il terapeuta sviluppa uno specifico
programma di trattamento (Yule, 2000).Una caratteristica interessante e specifica
dell’EMDR è che le persone che intraprendono questo percorso non devono
necessariamente entrane nel dettaglio dei loro ricordi spiacevoli.
2. SECONDA FASE: viene definita della preparazione. Uno degli obiettivi primari è
quello di instaurare un rapporto di fiducia tra il paziente e il terapeuta. In questa fase
il clinico illustra la teoria soggiacente all’EMDR e chiarisce quali siano i possibili
effetti del trattamento. Inoltre, vengono insegnate al soggetto delle tecniche di
rilassamento e d’immaginazione guidata che verranno utilizzate in chiusura di seduta
e dal paziente tra una visita e l’altra (Barbato, Puliatti, Micucci, 2006).
3. TERZA FASE: avviene la pianificazione degli obiettivi. Prima di tutto il paziente
viene invitato a selezionare una particolare immagine dell’evento (discusso nella fase
1) che meglio rappresenti il ricordo spiacevole. Momento centrale di questa fase è la
scelta da parte del soggetto di un’affermazione che esprima una convinzione
negativa su di sé associata all’evento (“Mi sento impotente”; “Non valgo nulla”; “Mi
vergogno”…). Queste convinzioni negative sono verbalizzazioni delle emozioni
disturbanti che ancora esistono (Shapiro, 2000). Al soggetto verrà poi richiesto di
scegliere anche un’affermazione riguardante se stesso nella quale vorrebbe invece
credere (“Sono una brava persona”; “Posso farcela”; “Credo in me”….). In caso di
disastri naturali la cognizione negativa potrebbe essere: “Sono in pericolo”, e quella
positiva: “Adesso sono al sicuro”. Il soggetto successivamente viene invitato a
stimare quanto senta vera l’affermazione positiva usando la scala Validity of cognition
(VOC) da 1 a 7, e l’intensità di disturbo usando la scala Subjective Units of Disconfort
(SUD) da 1 a 7.
4. QUARTA FASE: la desensibilizzazione. In questi momenti l’attenzione è
focalizzata sulle emozioni e le sensazioni spiacevoli valutate dal cliente nella scala
SUD. Al paziente viene chiesto di rievocare l’immagine associata all’evento
traumatico mentre il terapeuta lo guida nella realizzazione dei movimenti oculari. È
possibile che durante il trattamento il paziente viva momenti di intenso malessere a
livello corporeo, risultato della somatizzazione del suo disagio. Al termine di ogni
serie di movimenti oculari, viene richiesto al paziente di verbalizzare le sue
sensazione e le sue percezioni. Il processo continua finché le valutazioni SUD delle

67
persone scendono a 0 oppure, se appropriato, a 1. Si ritiene che durante questi
movimenti il paziente riesca a riattivare il sistema di elaborazione delle informazioni,
iniziando così a percepire in modo diverso la situazione. L’obiettivo non è quello di
cancellare le emozioni che una persona ha sperimentato, ma è invece quello di
assicurarsi che la reazione diventi sana e normale (Shapiro, 1997).
5. QUINTA FASE: l’installazione. L’obiettivo consiste nell’installare la cognizione
positiva che la persona ha identificato come “sostituto” della credenza originaria
negativa. Si chiede al paziente di descrivere la percezione così come si presenta al
momento attuale, anche in base alla valutazione sulla scala VOC. Gli si domanda poi
di pensare all’evento traumatico e di tenere in mente la percezione positiva, mentre
viene effettuato un set di movimenti oculari, al cui termine si somministrerà
nuovamente la scala VOC. Si procede così fino a quando si ottiene un punteggio
VOC pari a 7. Se il paziente non raggiunge tale punteggio, ciò può essere dovuto a
quello che la Shapiro (2000) chiama “pensiero bloccante disfunzionale” (es: non
merito di guarire).
6. SESTA FASE: il controllo corporeo. Dopo che la cognizione positiva è stata
rafforzata e installata viene valutata a livello corporeo la tensione residua del
paziente. Al soggetto viene chiesto di stimare la sua tensione, e
contemporaneamente viene effettuato un ulteriore set di movimenti oculari. Una
seduta di EMDR non si considera completa fino a quando il cliente non è in grado
di riportare alla mente l’immagine-obiettivo originale senza provare alcuna tensione
corporea. Le convinzioni positive su di sé sono importanti, ma vi si deve credere a
un livello che non è solo cognitivo. Anche questo punto evidenzia la profonda
convinzione di indivisibilità, e di influenza reciproca tra mente e corpo (Yule, 2000).
7. SETTIMA FASE: conclusione. In questa fase il terapeuta si assicura che le
condizioni del cliente siano migliorate. Se l’obiettivo immaginato non si dovesse
raggiungere in una singola seduta, il clinico guida la persona nell’utilizzo di una
gamma di tecniche di rilassamento in modo da riacquistare un senso di equilibrio.
Inoltre, il cliente viene anche informato su cosa aspettarsi tra una seduta e l’altra
(Shapiro, 1997).
8. OTTAVA FASE: la verifica. Si compie all’inizio di ogni seduta dopo la prima. Il
terapeuta si assicura che i risultati positivi ottenuti (bassa valutazione SUD, alta

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valutazione VOC, assenza di tensione corporea) si siano mantenuti. Inoltre indaga
eventuali nuove aree che necessitino di trattamento (Shapiro, 2000).
Nonostante il cliente possa provare con l’EMDR un sollievo quasi immediato, il
portare a termine le otto fasi del trattamento è fondamentale.

6.2. L’utilizzo dell’EMDR nella terapia di bambini con traumi psichici

La psiche relativamente instabile di un bambino può essere compromessa da


situazioni particolarmente traumatiche. Le esperienze sensoriali derivanti da situazioni
traumatiche che ritornano sottoforma di flashback, i pensieri che si originano dalla situazione
traumatica possono diventare convinzioni negative riferite alla propria persona; le emozioni
e le sensazioni corporee che al momento del trauma erano adeguate all’evento possono
creare sconcerto se all’improvviso si ripetono in ogni possibile situazione del presente, per
questo risulta fondamentale intervenire.
La terapia che si progetta per questa tipologia di pazienti presuppone una serie di
condizioni (Barbato, Puliatti, Micucci, 2006):
• Proteggere il bambino: una psicoterapia efficace deve innanzitutto mirare a
proteggere il bambino da ogni ulteriore evento traumatizzante.
• Valutare i tempi del confronto: è sempre necessario rispettare i tempi di confronto
con i contenuti traumatici perché i bambini, rispetto agli adulti, hanno meno difese.
Il terapeuta deve prestare attenzione alle caratteristiche del bambino per essere in
grado di gestire con precisione questo confronto.
• Collaborare e dare fiducia: per elaborare un’esperienza traumatica è fondamentale
che il bambino abbia di fronte un punto di riferimento con il quale ha da tempo
instaurato uno stabile rapporto di fiducia. Indubbiamente i partner ideali sono
senz’altro i genitori (Schubbe, 2003.)
Lovett (1996) fu la prima a parlare della possibilità di associare l’EMDR alla
narrazione di una favola terapeutica. Secondo l’autrice con bambini molto piccoli è inadatto
fare immaginare l’evento traumatico, è meglio chiedere loro di disegnare la situazione e il
loro supereroe preferito. La prima serie di stimolazioni verrà utilizzata mentre osservano
l’immagine dell’evento e la seconda mentre guardano il disegno del supereroe e riferiscono
come lui si sarebbe comportato.

69
Con bambini non ancora in età scolare è utile la stimolazione ottenuta premendo
leggermente e alternativamente le mani: questa manovra può essere effettuata dai genitori o
dal bambino stesso (Yule, 2000). I movimenti oculari sono più adatti ai bambini grandi o
agli adolescenti.
Il terapeuta può tenere in mano un oggetto con un valore simbolico per il bambino
mentre guida il movimento (Giusti, Montanari, 2000). Ai bambini può essere detto di
segnalare il livello di disturbo emotivo tenendo la mano all’altezza del pavimento (grado
minimo), e spostandola verso l’altro fino al punto raggiungibile sollevando il braccio (grado
massimo di disturbo). Questa strategia è l’autoregistrazione del livello di ansia usato
nell’EMDR per gli adulti.
Ai più piccoli non verranno posti i quesiti formulati per gli adulti al fine di ottenere
una cognizione negativa su sé stessi. Se i bambini sono in grado di farlo possono formulare
cognizioni positive su loro stessi; in minori al di sotto dei 6 anni tali convinzioni possono
essere suggerite dal terapeuta (Shapiro, 2000).
La terapia si può dividere nelle seguenti fasi (Barbato, Puliatti, Micucci, 2006):
1. L’anamnesi che si effettua solo in presenza dei genitori. Vengono analizzati una
serie di aspetti tra cui:
• Problemi del rapporto tra genitori e bambino;
• Rete familiare e sociale;
• Valutazione dell’attaccamento;
• Funzionalità dei meccanismi di coping;
• Valutazione dei fenomeni intrusivi e della tendenza all’evitamento;
• Riflessione rispetto alla considerazione se l’EMDR sia il trattamento più
indicato per la situazione specifica che si sta analizzando;
2. Pianificazione del trattamento:
• Il trattamento viene proposto e spiegato;
• Spiegazione su come scrivere la favola terapeutica;
3. Seduta con il bambino (in presenza dei genitori) e favola terapeutica:
• Il bambino viene accolto;
• Vengono spiegate le regole;
• Il bambino sceglie il gioco;
4. Colloquio con i genitori
• Andamento dei sintomi;

70
• Colloquio a proposito di come procedere in seguito.
5. Ulteriori trattamenti, se necessario.
6. Valutazione conclusiva e congedo.

6.3 L’EMDR in pratica. Trattamento con i sopravvissuti del terremoto del Molise

L’EMDR è stato utilizzato per supportare i bambini della scuola di San Giuliano
(Molise) che sono rimasti sotto le macerie per ore dopo il terremoto del 31 ottobre 2002.
Questo terremoto ha causato la morte di 27 bambini.
L’intervento si è svolto con la partecipazione dell’Associazione EMDR Italia, in
contesti di fortuna.
Ogni terapeuta ha svolto una breve anamnesi con i genitori dei bambini e poi sono
state svolte due o tre sedute da un’ora per ciascun bambino.
I bambini avevano vissuto una situazione fortemente traumatica, nella quale persero
amici e parenti. Inoltre tutti rimasero intrappolati per ore sotto le macerie in attesa dei
soccorsi, fra cadaveri e feriti. La gran parte presentava una diagnosi di PTSD.
L’obiettivo del lavoro non era quello di fare terapia per problematiche precedenti al
trauma, ma aiutare i bambini a ridurre i sintomi di PTSD (o prevenirlo) ed elaborare il lutto
per la morte delle loro persone care.
Le attività realizzate dell’Associazione hanno avuto luogo in tre cicli con l’EMDR:
• Ad un mese dal terremoto. Rivolto ai bambini della scuola materna, elementare e
media.
• A tre mesi dal terremoto. Diretto agli alunni delle elementari e delle medie.
• Ad un anno dal terremoto. Rivolto esclusivamente agli alunni delle elementari.
L’EMDR non è stato l’unico intervento. Gli insegnanti e il personale scolastico
hanno avuto anche un supporto psicologico mirato attraverso del colloquio con i terapeuti e
degli incontri formativi sulle reazioni da stress dei bambini. Una parte fondamentale
dell’intervento sono stati gli incontri formati con i genitori sia nei quali si è discusso sia sulle
reazioni da stress che suoi comportamenti da tenere con i bambini per dare loro un
supporto ancora più efficace e per ridurre e normalizzare alcune reazioni.

71
6.4. CONCLUSIONI
“Un giorno senza sorriso è un
giorno perso”
C. Chaplin

“Vivere e' la cosa più rara del mondo: i


più, esistono solamente”
O. Wilde (L'anima dell'uomo sotto il socialismo)

Nel presente lavoro di prova finale ho cercato di analizzare e meglio comprendere


la Psicologia dell’Emergenza - intesa come uno dei tanti ambiti in cui si integrano sapere
psicologico e prassi operative in contesti altamente difficili ed attivanti - tracciandone uno
stato dell’arte. Non è stata opera semplice, in quanto la Psicologia dell’Emergenza -

72
nonostante in Italia sia considerata relativamente “giovane”- appare oggi notevolmente
sfaccettata, sia a livello nazionale che internazionale.
L’obiettivo che mi ha guidato nella stesura dell’elaborato è stato, più che
sottolineare la consapevolezza dell’importanza di un supporto psicologico alle vittime di
disastri o calamità (aspetto per altro ampiamente riconosciuto anche a livello del senso
comune), offrire uno sguardo d’insieme della Psicologia dell’Emergenza, indirizzando poi il
focus d’attenzione sulle conseguenze psicologiche e psicopatologiche delle vittime di disastri
o calamità. Rispetto a quest’ultimo punto ho insistito sul PTSD, essendo la forma
psicopatologica maggiormente presente nelle vittime di catastrofi. Della Psicologia
dell’Emergenza viene quindi offerto un punto di vista prevalentemente clinico, senza
tralasciare le prospettive teoriche che fanno da sfondo agli aspetti eminentemente pratici ed
applicativi della disciplina; punto di vista che mi auspico possa stimolare nel lettore il
desiderio di ulteriori letture ed approfondimenti.

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