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TZVETAN TODOROV, La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, Einaudi, Torino, p.

Voglio parlare della scoperta che l'io fa dell'altro. L'argomento è vastissimo. Non appena lo abbiamo
formulato nei suoi termini generali, lo vediamo subito suddividersi in molteplici categorie e
diramarsi in infinite direzioni. Possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ciascuno
di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto ciò che non coincide con l'io: l'io
è un altro. Ma anche gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono, che unicamente il mio
punto di vista - per il quale tutti sono laggiù, mentre io sono qui -separa e distingue realmente da
me. Posso concepire questi altri come un'astrazione, come un'istanza della configurazione psichica
di ciascun individuo, come l'Altro, l'altro o l'altrui in rapporto a me; oppure come un gruppo sociale
concreto al quale noi non apparteniamo. Questo gruppo a sua volta può essere interno alla società;
le donne per gli uomini, i ricchi per i poveri, i pazzi per i "normali": ovvero può esserle esterno, può
consistere in un'altra società, che sarà - a seconda dei casi - vicina o lontana: degli esseri vicinissimi
a noi sul piano culturale, morale, storico, oppure degli sconosciuti, degli estranei, di cui non
comprendiamo né la lingua né i costumi, così estranei che stentiamo, al limite, a riconoscere la nostra
comune appartenenza ad una medesima specie. Scelgo questa problematica dell’altro esterno e
lontano, un po’ arbitrariamente e perché non si può parlare di tutto in una sola volta, per cominciare
una ricerca che non potrà mai essere conclusa. Ma come parlarne? " (p.5)

Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie (1542)

Tutte queste universe e infinite genti, di ogni genere, Dio le ha create semplici, senza malvagità né
doppiezze, obbedientissime e fedelissime ai loro signori naturali e ai cristiani che servono; e più di
ogni altre al mondo umili, pazienti, pacifiche e tranquille, aliene da risse e da baruffe, da liti e da
maldicenze, senza rancori, odi né desideri di vendetta. E sono di costituzione tanto gracile, debole e
delicata, che sopportano difficilmente i lavori faticosi e facilmente muoiono di qualsiasi malattia:
persino quelli di condizione contadina sono di salute più delicata dei figli di principi e signori
allevati tra noi in mezzo agli agi e alle comodità della vita. È poi gente poverissima, che assai poco
possiede e ancor meno desidera possedere beni temporali: per questo non sono superbi, né avidi o
ambiziosi. Il loro nutrimento è tale che quello dei Santi Padri nel deserto non dovette essere più
scarso, né più ingrato né povero. Vanno in generale nudi, coperte soltanto le lor parti vergognose:
solo taluni portano sulle spalle un panno di cotone quadrato, di un braccio e mezzo o due per ogni
lato. Hanno per letti delle stuoie, o al più dormono su certe reti appese, che nella lingua dell'isola
Spagnola si chiamano amache. Sono d'intendimento chiaro, libero e vivace, capaci di apprendere
docilmente ogni buon insegnamento. Hanno dunque grandissima attitudine a ricevere la nostra
santa fede cattolica e ad acquisire costumi virtuosi: nessun popolo creato da Dio nel mondo ha meno
impedimenti a percorrere questa via. Non appena cominciano ad avere notizia delle cose della fede
si fanno così importuni per saperne di più e per praticare i sacramenti della Chiesa e il culto divino,
che a dire il vero occorre che i religiosi, per sopportarli, sian stati segnatamente provvisti da Dio del
dono della pazienza. Infine, in tanti anni ho sentito dire più volte da vari spagnoli, laici, i quali non
potevano negare la bontà che in quelle genti si manifesta: «Veramente questo sarebbe stato il popolo
più felice del mondo, se solo avesse conosciuto Dio». […]

Quanto sto per dire corrisponde a verità, ché ne son stato testimone e l'ho visto per tutti quegli anni:
E han considerati non dico alla stregua delle bestie (piacesse a Dio che come tali li avessero trattati e
rispettati), ma dello sterco che si trova in mezzo alle strade, e ancora peggio. È così che hanno avuto
cura delle loro vite e delle loro anime, e per questa ragione creature innumerevoli sono morte senza
fede e senza sacramenti. Ed è ancora verità notoria e accertata, riconosciuta e ammessa da tutti,
perfino dai tiranni e dagli assassini, che mai, in tutta la vastità delle Indie, gli indiani han recato il
minor danno ai cristiani. Li ritenevano anzi discesi dal Cielo, finché non han cominciato e poi
continuato a subirne, un giorno dopo l'altro, ogni sorta di ribalderie, di rapine, di assassinii, di
vessazioni e di violenze.

Juan Ginés de Sepúlveda, De iustis belli causis (1547)

Confronta le doti di prudenza, ingegno, magnanimità, temperanza, umanità, religione di questi


uomini (gli spagnoli) con quella di quegli omuncoli (humunculi), nei quali a stento potrai riscontrare
qualche traccia di umanità, e che non solo sono totalmente privi di cultura, ma non conoscono l’uso
delle lettere, non conservano alcun documento della loro storia (escluso qualche tenue ed oscuro
ricordo di alcuni avvenimenti affidato a certe pitture), non hanno alcuna legge scritta, ma soltanto
istituzioni e costumi barbari. E se, a proposito della loro virtù, vuoi sapere della loro temperanza e
mansuetudine, che cosa potresti aspettarti da uomini abbandonati ad ogni genere di intemperanza
e di nefanda libidine, molti dei quali si nutrivano di carne umana? Non credere che prima della
venuta dei cristiani vivessero in ozio, nello stato di pace dell’età di Saturno cantata dai poeti, che al
contrario si facevano guerra quasi in continuazione, con tanta rabbia da non considerarsi vittoriosi
se non riuscivano a saziare con le carni dei loro nemici la loro fame; crudeltà che in loro stessi è tanto
più straordinaria quanto più distano dalla invincibile fierezza degli Sciti, anch’essi mangiatori di
corpi umani; infatti sono così ignavi e timidi che a malapena possono sopportare la presenza ostile
dei nostri, e spesso sono dispersi a migliaia e fuggono come donnette, sbaragliati da un numero così
esiguo di spagnoli che non arrivano neppure al centinaio. [...] Così Cortez, all’inizio, per molti giorni
tenne oppressa e terrorizzata, con l’aiuto di un piccolo numero di spagnoli e di pochi indigeni,
un’immensa moltitudine, che dava l’impressione di mancare non soltanto di abilità e di prudenza
ma anche di senso comune. Non sarebbe stato possibile esibire una prova più decisiva o convincente
per dimostrare che alcuni uomini sono superiori ad altri per ingegno, abilità, fortezza d’animo e
virtù e che i secondi sono servi per natura. Il fatto poi che alcuni di loro sembrino avere dell’ingegno
per via di certe opere di costruzione, non è prova di umana perizia, dal momento che vediamo certi
animaletti, come le api e i ragni, costruire opere che nessuna attività umana saprebbe imitare. Per
quanto concerne la vita sociale degli abitanti della nuova Spagna e della provincia del Messico, già
si è detto che sono considerati i più civili di tutti, e loro stessi si vantano delle loro istituzioni
pubbliche, quasi fosse non piccola prova della loro industria e civiltà il fatto di avere città edificate
razionalmente e re nominati non secondo un diritto ereditario e basato sull’età, ma per suffragio
popolare, e di esercitare il commercio come i popoli civilizzati. Pensa quanto si sbagliano costoro e
quanto la mia opinione dista dalla loro: giacché secondo me la maggior prova della loro rozzezza,
barbarie e innata servitù è costituita proprio dalle loro istituzioni pubbliche, che sono per la maggior
parte servili e barbare. Infatti che abbiano case e alcuni modi razionali di vita in comune e commerci
ai quali induce la necessità naturale, che cosa altro prova se non che costoro non sono orsi o scimmie
del tutto privi di ragione? Ho parlato dei caratteri e dei costumi di questi barbari che dire ora
dell’empia religione e nefandi sacrifici di tale gente, che venerando il demonio come Dio, non trova
di meglio per placarlo che offrirgli in sacrificio cuori umani?
MONTAIGNE, Saggi, Libro I, Cap. XXXI

Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro
punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del
paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto
di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura
ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio
abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli
sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo
imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto […] Non c’è ragione
che l’arte guadagni il punto d’onore sulla nostra grande e potente madre natura. Abbiamo tanto
sovraccaricato la bellezza e la ricchezza delle sue opere con le nostre invenzioni, che l’abbiamo
soffocata del tutto. Tant’è vero che dovunque riluce la sua purezza, essa fa straordinariamente
vergognare le nostre vane e frivole imprese […] Quei popoli sono stati in scarsa misura modellati
dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre
le leggi naturali, non ancora imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace
che non se ne sia avuto nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne
meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra
che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con
cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro […] ma anche la concezione e il desiderio medesimo della
filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo per
esperienza; né poterono credere che la nostra società potesse mantenersi con così pochi artifici e
legami umani. E’ un popolo, direi a Platone, nel quale non esiste nessuna sorta di traffici; nessuna
conoscenza delle lettere; nessuna scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di gerarchia
politica, nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione;
nessuna spartizione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre a
quello ordinario; nessun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo; nessun uso di vino o di grano.
Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, perdono, non si sono mai
udite. Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica da lui immaginata: «Viri a
diis recentes». «Hos natura modos primum dedit»

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