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Voglio parlare della scoperta che l'io fa dell'altro. L'argomento è vastissimo. Non appena lo abbiamo
formulato nei suoi termini generali, lo vediamo subito suddividersi in molteplici categorie e
diramarsi in infinite direzioni. Possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ciascuno
di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto ciò che non coincide con l'io: l'io
è un altro. Ma anche gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono, che unicamente il mio
punto di vista - per il quale tutti sono laggiù, mentre io sono qui -separa e distingue realmente da
me. Posso concepire questi altri come un'astrazione, come un'istanza della configurazione psichica
di ciascun individuo, come l'Altro, l'altro o l'altrui in rapporto a me; oppure come un gruppo sociale
concreto al quale noi non apparteniamo. Questo gruppo a sua volta può essere interno alla società;
le donne per gli uomini, i ricchi per i poveri, i pazzi per i "normali": ovvero può esserle esterno, può
consistere in un'altra società, che sarà - a seconda dei casi - vicina o lontana: degli esseri vicinissimi
a noi sul piano culturale, morale, storico, oppure degli sconosciuti, degli estranei, di cui non
comprendiamo né la lingua né i costumi, così estranei che stentiamo, al limite, a riconoscere la nostra
comune appartenenza ad una medesima specie. Scelgo questa problematica dell’altro esterno e
lontano, un po’ arbitrariamente e perché non si può parlare di tutto in una sola volta, per cominciare
una ricerca che non potrà mai essere conclusa. Ma come parlarne? " (p.5)
Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie (1542)
Tutte queste universe e infinite genti, di ogni genere, Dio le ha create semplici, senza malvagità né
doppiezze, obbedientissime e fedelissime ai loro signori naturali e ai cristiani che servono; e più di
ogni altre al mondo umili, pazienti, pacifiche e tranquille, aliene da risse e da baruffe, da liti e da
maldicenze, senza rancori, odi né desideri di vendetta. E sono di costituzione tanto gracile, debole e
delicata, che sopportano difficilmente i lavori faticosi e facilmente muoiono di qualsiasi malattia:
persino quelli di condizione contadina sono di salute più delicata dei figli di principi e signori
allevati tra noi in mezzo agli agi e alle comodità della vita. È poi gente poverissima, che assai poco
possiede e ancor meno desidera possedere beni temporali: per questo non sono superbi, né avidi o
ambiziosi. Il loro nutrimento è tale che quello dei Santi Padri nel deserto non dovette essere più
scarso, né più ingrato né povero. Vanno in generale nudi, coperte soltanto le lor parti vergognose:
solo taluni portano sulle spalle un panno di cotone quadrato, di un braccio e mezzo o due per ogni
lato. Hanno per letti delle stuoie, o al più dormono su certe reti appese, che nella lingua dell'isola
Spagnola si chiamano amache. Sono d'intendimento chiaro, libero e vivace, capaci di apprendere
docilmente ogni buon insegnamento. Hanno dunque grandissima attitudine a ricevere la nostra
santa fede cattolica e ad acquisire costumi virtuosi: nessun popolo creato da Dio nel mondo ha meno
impedimenti a percorrere questa via. Non appena cominciano ad avere notizia delle cose della fede
si fanno così importuni per saperne di più e per praticare i sacramenti della Chiesa e il culto divino,
che a dire il vero occorre che i religiosi, per sopportarli, sian stati segnatamente provvisti da Dio del
dono della pazienza. Infine, in tanti anni ho sentito dire più volte da vari spagnoli, laici, i quali non
potevano negare la bontà che in quelle genti si manifesta: «Veramente questo sarebbe stato il popolo
più felice del mondo, se solo avesse conosciuto Dio». […]
Quanto sto per dire corrisponde a verità, ché ne son stato testimone e l'ho visto per tutti quegli anni:
E han considerati non dico alla stregua delle bestie (piacesse a Dio che come tali li avessero trattati e
rispettati), ma dello sterco che si trova in mezzo alle strade, e ancora peggio. È così che hanno avuto
cura delle loro vite e delle loro anime, e per questa ragione creature innumerevoli sono morte senza
fede e senza sacramenti. Ed è ancora verità notoria e accertata, riconosciuta e ammessa da tutti,
perfino dai tiranni e dagli assassini, che mai, in tutta la vastità delle Indie, gli indiani han recato il
minor danno ai cristiani. Li ritenevano anzi discesi dal Cielo, finché non han cominciato e poi
continuato a subirne, un giorno dopo l'altro, ogni sorta di ribalderie, di rapine, di assassinii, di
vessazioni e di violenze.
Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro
punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del
paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto
di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura
ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio
abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli
sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo
imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto […] Non c’è ragione
che l’arte guadagni il punto d’onore sulla nostra grande e potente madre natura. Abbiamo tanto
sovraccaricato la bellezza e la ricchezza delle sue opere con le nostre invenzioni, che l’abbiamo
soffocata del tutto. Tant’è vero che dovunque riluce la sua purezza, essa fa straordinariamente
vergognare le nostre vane e frivole imprese […] Quei popoli sono stati in scarsa misura modellati
dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre
le leggi naturali, non ancora imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace
che non se ne sia avuto nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne
meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra
che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con
cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro […] ma anche la concezione e il desiderio medesimo della
filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo per
esperienza; né poterono credere che la nostra società potesse mantenersi con così pochi artifici e
legami umani. E’ un popolo, direi a Platone, nel quale non esiste nessuna sorta di traffici; nessuna
conoscenza delle lettere; nessuna scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di gerarchia
politica, nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione;
nessuna spartizione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre a
quello ordinario; nessun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo; nessun uso di vino o di grano.
Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, perdono, non si sono mai
udite. Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica da lui immaginata: «Viri a
diis recentes». «Hos natura modos primum dedit»