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PRIMA LEZIONE DI DIRITTO P.

GROSSI
CHE COS’È IL DIRITTO?
Il diritto si affida a dei segni sensibili per una efficace comunicazione, ma anche senza di essi il
mio fondo rustico, la sede di una ambasciata, il territorio di uno Stato sono e restano realtà
caratterizzate e differenziate dal marchio immateriale del diritto. Questa immaterialità ne fa una
dimensione misteriosa per l’uomo comune, e nasce da qui il primo dei motivi per cui il diritto è
circondato da un fitto tessuto di incomprensioni. Ma v’è di più: dimensione misteriosa e anche
assai sgradevole.
Sì, sgradevole, perché all’uomo comune di oggi il diritto appare sotto due aspetti: gli piove dall’alto
e da lontano, gli sa di potere, di comando, di comando autoritario. Tutto ciò rende il diritto per
l’uomo della strada una realtà ostile; in ogni caso, una realtà estranea. Con un risultato che è
doppiamente negativo per il cittadino e per il diritto: il rischio probabile di una separazione fra diritto
e società, con un cittadino più povero perché gli sfugge di mano uno strumento prezioso del vivere
civile, con il diritto sostanzialmente esiliato dalla coscienza comune, con il giurista relegato in un
cantuccio e assai poco partecipe della complessiva circolazione culturale. Il potere politico,
divenuto sempre più uno Stato, cioè una entità totalizzante tendente a controllare ogni
manifestazione del sociale, ha mostrato un crescente interesse per il diritto, riconoscendovi con
estrema lucidità un prezioso cemento della sua stessa struttura; interesse tanto crescente da
arrivare alla fine del Settecento, con una decisa smentita di secolari atteggiamenti conservatisi fino
all’esito dell’antico regime1, alla piena monopolizzazione della dimensione giuridica.
Infatti, è proprio in quegli anni che, fra le molte mitologie laiche inaugurate dalla Rivoluzione del
1789, si staglia nettissima quella legislativa: la legge, cioè l’espressione di volontà del potere
sovrano, è assiomaticamente identificata nella espressione della volontà generale, rendendola in
tal modo l’unico strumento produttivo del diritto meritevole di rispetto e di ossequio, oggetto di culto
in quanto legge e non per la rispettabilità dei suoi contenuti. Identificata nella legge la volontà
generale, ne conseguiva l’identificazione del diritto nella legge e ne conseguiva la sua completa
statalizzazione.
Ma lo Stato è soltanto, una cristallizzazione della società, lo Stato è sempre – anche il cosiddetto
Stato democratico – un apparato di potere, una organizzazione autoritaria, una fucina di comandi,
e il diritto ne è rimasto ovviamente contrassegnato. Solidissima grazie al basamento forte del mito
della volontà generale, la credenza nella virtù della legge si è trascinata quasi intatta fino ad oggi.
Il processo di involuzione del diritto moderno è stato inarrestabile: la legge è un comando, un
comando autorevole e autoritario, un comando generale, un comando indiscutibile. Oggi si impone
un recupero per il diritto si avrà, se si riuscirà a ritrovare al di sotto delle recenti deformazioni
moderne una dimensione più obiettiva, come si è avuta nel passato in altri paesaggi storici, come
si ha nel presente in paesaggi contemporanei al di là dell’Europa continentale, come si comincia
ad avere almeno nella consapevolezza dei giuristi più sensibili e aperti. Il diritto non è scritto in un
paesaggio fisico che attende ancora un inserimento umano, è scritto nella storia, grande o minuta,
che, dai primordi ad oggi, gli uomini hanno costantemente tessuto con la loro intelligenza e i loro
sentimenti, con le loro idealità e i loro interessi, con i loro amori e i loro odi. È all’interno di questa
storia costruita dagli uomini che si colloca il diritto.
Ogni agglomerato sociale può, di per sé, considerarsi anche giuridico? La risposta esplicita è
conseguente: dovunque c’è l’incontro fra più uomini, ci può essere diritto. Ci può essere, ma
quando c’è? È infatti chiaro che il sociale è la nicchia imprescindibile del diritto, ma non ogni
manifestazione sociale è di per sé giuridica. Se così fosse, il diritto si confonderebbe e si
spegnerebbe nella sociologia, ossia nella scienza che studia la società come realtà globale e che
assume a proprio oggetto ogni fatto sociale. I fattori diversificanti sono due: il fatto
dell’organizzazione – o, per meglio dire, della auto-organizzazione –; il fatto
dell’osservanza spontanea delle regole organizzative. Il diritto non è necessariamente collegato ad
una entità socialmente e politicamente autorevole, non ha per referente lo Stato moderno. Il
referente necessario del diritto è soltanto la società.
Organizzazione: il diritto organizza il sociale, mette ordine nella rissa incomposta che ribolle in
seno alla società, è innanzi tutto ordinamento.
È questo un termine frequentemente usato nelle pagine dei giuristi soprattutto da quando un
grande giuspubblicista italiano, Santi Romano, ne fece – nel 1918 – il titolo e l’emblema di un suo
felice e fortunato e innovativo saggio scientifico; ed è termine evocativo di una nozione corretta e
ricuperatrice del fenomeno giuridico. Che l’essenza del diritto non sia in un comando ma nell’atto
di ordinare opera un benefico spostamento dal soggetto produttore (o preteso tale) all’oggetto -
bisognoso di organizzazione. Ordinare significa sempre rispettare la complessità sociale, la quale
costituirà un vero e proprio limite per la volontà ordinante impedendo che questa degeneri in
valutazione meramente soggettiva e quindi in arbitrio. Ordinare significa sempre rispettare la
complessità sociale, la quale costituirà un vero e proprio limite per la volontà ordinante impedendo
che questa degeneri in valutazione meramente soggettiva e quindi in arbitrio. Un diritto concepito
come una serie di comandi autorevoli, o, secondo quanto si è ripetutamente sostenuto, una
tecnica per garantire un pieno controllo sociale, corre sempre il rischio di separarsi da quella storia
vivente che è la società. Il diritto non è soltanto ordinamento ma ordinamento osservato. L’ordine
giuridico autentico attinge allo strato dei valori di una comunità per trarne quella forza vitale che
nasce unicamente da una convinzione sentita, per trarne quella solidità che non ha bisogno della
coazione poliziesca per mantenersi stabile. Il valore è un principio o un comportamento che la
coscienza collettiva ritiene di sottolineare isolandolo e selezionandolo dal fascio indistinto dei tanti
principii e comportamenti; isolandolo e selezionandolo lo sottrae alla relatività che è propria del
fascio indistinto, gli conferisce senza dubbio una qualche assolutezza, lo costituisce come modello.
E certamente, se il terreno tipico dei valori è quello religioso e morale, anche il regno della storia,
che è il terreno percorso da venti relativizzanti, ne è ben spesso fertilizzato.
Lo strato dei valori storici è quello delle radici d’una società, è il frutto di sedimentazioni lunghe, è
l’acquisizione di certezze faticosamente conquistate e diventate, dopo secolari fatiche, patrimonio
d’una comunità storica. È quell’ethos ampio e aperto che suol chiamarsi costume e che riesce a
caratterizzare un ethnos12. Con due precisazioni basilari: vive nella storia e dalla storia trae la sua
vitalità, non è mai scritto né nella natura fisica né tanto meno in pretese cifre biologiche
differenzianti (un esempio atroce: la razza); rappresenta un modello, altrimenti non sarebbe
osservato, ma con una sua disponibilità ad arricchirsi delle maturità dei tempi, a lasciarsene
segnare, sia pure nel lento incedere dei tempi lunghi che sono i soli a formare una coscienza
collettiva. i valori sono sempre realtà radicale, cioè di radici, e radicale è la dimensione giuridica
che vi attinge e se ne nutre. Si è detto talora che il diritto è forma che riveste una sostanza sociale.
Verità parzialissima, perché la forma è soltanto la manifestazione estrema di un ordinarsi della
società, che, al contrario, pésca nel profondo, ha propaggini alla superficie della quotidianità ma
porta alla superficie quei valori riposti dai quali resta intriso. Il diritto è forse il modo più significativo
che ha una comunità di vivere la sua storia. Non abbiam parlato di obbedienza per la passività
psicologica che essa sempre esprime; obbedire, infatti, significa sempre inchinarsi passivamente a
una ingiunzione autoritaria; all’atto dell’obbedienza corrisponde sempre un atto di comando. Ma il
diritto non è un universo di comandi. il diritto non è immediatamente e direttamente un comando,
perché risiede in quel mondo oggettivo di posizioni relazioni coordinazioni stretto in sé da un
valore. Il diritto nasce prima della regola, il diritto è già nella società auto-ordinantesi.
Non si tratta di rinnegare la sua dimensione normativa, ma di ridurne il ruolo e la portata.
Ordine vuol dire, infatti, costruzione superindividuale, che ha la sua base nella totalità e
complessità dell’organismo sociale, nella costanza d’una tradizione, nella ripetizione e tipicità di
azioni umane, dove non c’è spazio per arbitrarietà e non c’è spazio per frazionismi individualistici,
dal momento che quel nodo oggettivo di posizioni relazioni coordinazioni non ha un’indole
potestativa scandendosi brutalmente in superiorità e inferiorità e generando situazioni di comando
(da un lato) e di obbedienza passiva (dall’altro).
Il diritto diventa regola imperativa quando si inserisce in un apparato di potere, per esempio nello
Stato, dove la dimensione stricto sensu politica ha il sopravvento su quella sociale e dove l’ordine
sociale fa i conti con i problemi connessi all’esercizio della sovranità trasformandosi spesso nel
cosiddetto ordine pubblico, cioè in un ordine governato dall’alto e dal carattere ferreamente
potestativo.
Lo Stato è soltanto un accidente storico a fronte di quel recupero del diritto che è valso a restituirlo
al grembo ben più vasto della società. Negli ultimi duecento anni, almeno dai primi dell’Ottocento e
dalle intuizioni della Scuola storica16, si è tornati frequentemente a far perno sulla comparazione fra
diritto e linguaggio. Malgrado che a un osservatore frettoloso possano apparire realtà assai
distanti, diritto e linguaggio hanno una piattaforma comune18. Innanzi tutto, per la loro intima
socialità, per la loro natura di dimensioni necessariamente intersoggettive: un solo uomo vivente
su un pianeta remoto non ha bisogno, finché resta in solitudine, né dell’uno né dell’altro. In
secondo luogo, per il loro fondamentale carattere di essere strumenti che ordinano la dimensione
sociale del soggetto, il linguaggio permettendo una efficiente comunicazione, il diritto permettendo
una pacifica convivenza. È, infatti, ordinamento del sociale che, dai balbettii dell’infante, si giunga
al discorso compiuto tra adulti. È ordinamento del sociale che si disciplini la mia convivenza col
vicino o i miei accordi con altri uomini di affari. La qualità dell’osservanza e, in contrappunto,
normatività della regola19, che è di pari qualità sia per l’utente di una regola giuridica che per
l’utente di una regola linguistica.  La cosiddetta ‘sanzione’, definibile come la misura messa in atto
per assicurare l’osservanza o, il che è lo stesso, per castigare l’inosservanza, è soltanto un
espediente estraneo alla struttura del diritto, alla sua dimensione fisiologica. 
Linguisti e giuristi (o, per meglio dire, alcuni giuristi) parlano, a questo proposito, di linguaggio e
diritto come complessi istituzionali. L’accostamento fra lingua e diritto e il recupero di una
dimensione istituzionale giovano al ritrovamento di un ruolo originario. L’istituzione è al cuore
dell’ordine giuridico; l’ordinamento giuridico è un complesso di istituzioni e ci si mostra come realtà
squisitamente istituzionale, nel senso che abbiamo precisato poco sopra.
Giova però anche per acquisizioni e arricchimenti della nostra coscienza attuale: l’istituzione, al
contrario della norma che è naturalmente astratta22 e che attende il momento successivo e ad essa
esterno della applicazione per diventar concreta, è immersa nella vita sociale, è essa stessa
esperienza; l’istituzione, proprio perché tessuto superindividuale, è composizione del dualismo
separatorio fra dimensione soggettiva e oggettiva, ed è, in ogni caso, superamento di quel-
l’esasperato soggettivismo intrinseco a ogni visione potestativa e imperativa. L’istituzione, proprio
perché legata allo spontaneo assestarsi e ordinarsi della società, ha una preziosa
vocazione pluralistica, al contrario di una visione legale e legalistica del diritto che, intimamente
collegata a Stato e sovranità, è portatrice di un oggi insopportabile monismo giuridico.
L’esperienza giuridica deve conformarsi ai modelli di azione fissati dalla volontà sovrana; dovrà
svilupparsi in una dimensione ossequentemente legalitaria, sempre secundum legem. E perché il
controllo sia perfetto, la legge dovrà essere generale e rigida ma anche chiara e certa; e sarà
scritta, scritta in un testo dove ogni cittadino possa leggerla; e si potrà sancire. Lo statalismo
moderno si traduce, per il diritto e per i giuristi in un greve monismo e perpetua durante tutta la
modernità – anche dopo la fine dell’assolutismo politico – un assolutismo giuridico che convive
beatamente con il liberalismo economico.
Avendo l’ordinamento come referente la società, tutta la latitudine e tutta la complessità di questa
si rispecchieranno in esso. Soprattutto la complessità, che fa spicco a fronte della compattezza
statuale; ma anche la latitudine: la società – per esempio, la nostra società italiana – è realtà ben
più ampia dello Stato italiano, e rifugge da quel completo combaciamento che lo Stato pur
vorrebbe affermare.
Un universo sociale-politico-giuridico senza Stato, come quello che si è avuto nell’intera età
medievale e che è, in parte, continuato anche nella prima età dell’assolutismo politico moderno
sino alla fine dell’antico regime (in Francia, sino alla Rivoluzione dell’89), è il mondo storico in cui si
è pienamente realizzata la co-vigenza in uno stesso territorio di una pluralità di ordinamenti
giuridici. Ma ciò è constatabile anche nel pan-statualismo moderno di ieri e nel moderato
statalismo di oggi, per la semplicissima ragione che lo Stato, anche la più perfezionata macchina
statuale, non è in grado di soffocare una dinamica che è legata alle radici più profonde della
società e che è diventata costume.

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