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Il massacro di Katyń

Pubblicato su Archeologia & Cultura del 25 settembre 2011

di Vito Foschi

La località di Katyń è attualmente nota al grande pubblico per l’incidente aereo in cui hanno perso
la vita il presidente della Polonia insieme a ministri e parlamentari, ma pochi sanno il motivo per
cui il cospicuo gruppo di politici si recava in tale luogo.
Katyń è una foresta nei pressi di Smolensk, in Russia, scenario di un cruento fatto di sangue: qui
all’inizio del 1940 furono uccisi e seppelliti circa 22000 militari polacchi, prigionieri sovietici dopo
la spartizione della Polonia fra Germania nazista e Unione Sovietica. La Polonia, fu il classico vaso
di coccio in mezzo a vasi di ferro. I sovietici con il massacro speravano di eliminare in un colpo
solo la classe dirigente polacca, la gran parte erano ufficiali della riserva che nella vita erano
professionisti, dirigenti, intellettuali, attuando una sorta di pulizia di classe. Ma al di là della
crudeltà del massacro, si istituì una squadra di massacratori professionisti addestrata per uccidere le
persone con un singolo colpo di pistola in una precisa zona della nuca, quello da raccontare è il velo
di oblio che calò sulla tragedia in seguito al ritrovamento delle fosse comuni.
Nel 1941 in seguito all’attacco tedesco all’Unione Sovietica, polacchi e russi non erano più nemici,
ma alleati e in questo nuovo quadro il generale Anders cercò di informarsi dei suoi commilitoni
prigionieri in Russia, anche nell’ottica di formare un esercito polacco da affiancare agli alleati. Le
risposte di Mosca furono evasive, non potendo ammettere il massacro. Nel 1943, i tedeschi, in
seguito all’invasione dell’Urss scoprirono le fossi comuni; fino ad allora non si conosceva il destino
dei militari polacchi prigionieri in Russia. Da quel momento si tentò di insabbiare tutto.
I tedeschi cercarono di formare una commissione d’inchiesta internazionale, ma gli alleati per non
irritare l’alleato sovietico si opposero. Allora i nazisti formarono una commissione come poterono,
coinvolgendo la Croce Rossa ed appurarono le colpe dell’Urss. Gli alleati continuarono a negare
l’evidenza.
Al di là del fatto contingente di non irritare un alleato, la faccenda si colorì di sfumature
ideologiche. Per motivare l’opinione pubblica si era dipinto il nazismo come il male assoluto; cosa
sarebbe successo se si fosse scoperto che l’alleato sovietico agiva come né più né meno dei nazisti?
Indubbiamente era necessario mantenere l’alleanza per sconfiggere i tedeschi, ma come era
necessaria l’Unione Sovietica per gli Alleati, altrettanto importante erano per i sovietici gli Alleati
in particolare per la fornitura di viveri e di armi. Forse un qualche spazio di manovra poteva esserci,
però gli Alleati preferirono tacere.
Il comportamento di Churchill fu dettato da semplice pragmatismo, anche se dopo la guerra non
essendo più primo ministro ed iniziata la guerra fredda poteva sicuramente in una delle sue tante
conferenze parlarne. Forse il silenzio fu dettato dal voler nascondere un episodio di cui sicuramente
non era fiero, mentre merita particolare attenzione il comportamento di Roosevelt.
Il presidente statunitense ebbe un atteggiamento di accondiscendenza verso Stalin, perché
immaginava l’Unione Sovietica avviata verso un’evoluzione democratica in ciò influenzato da
molti suoi collaboratori di area liberal che nutrivano simpatia per il comunismo. Inoltre,
immaginava un dopoguerra bipolare in cui l’egemonia sarebbe stata spartita fra Stati Uniti e Unione
Sovietica con il Regno Unito relegato fra i le nazioni di second’ordine. Il massacro di Katyń in
questa ottica diventava un incidente di percorso che non influiva sull’apparente traiettoria
democratica intrapresa dalla Russia, che nasceva da una rivoluzione come gli USA al contrario
degli altri stati europei. Questo abbaglio ideologico finì per convincere gli statunitensi a tacere sul
massacro.
Addirittura, ci fu un tentativo da parte dei sovietici, nel processo di Norimberga, di addossarne le
colpe ai nazisti, ma di fronte all’evidenza furono costretti a ritirare le accuse. Negli Stati Uniti ci fu
un inchiesta del Congresso negli anni ’50, ma il tutto si arenò per motivi di politica internazionale,
quando si doveva firmare l’armistizio della guerra di Corea e non era il caso di inasprire gli animi.
L’Unione Sovietica ha continuato a negare l’evidenza anche in seguito fino alla svolta di pochi anni
fa con Gorbaciov e Eltsin che hanno ammesso la responsabilità sovietiche a distanza di 50 anni.
C’è anche un risvolto italiano, a dir poco disdicevole della faccenda. Della commissione
internazionale istituita dai nazisti faceva parte un italiano, il professor Vincenzo Palmieri, direttore
dell’istituto di medicina legale dell'Università di Napoli, che non poté che appurare le evidenti
responsabilità sovietiche. Nell’immediato dopoguerra fu perseguitato dal Partito Comunista Italiano
che agiva, consentitemi l’espressione di sapore giuridico, in nome e per conto dell’Unione
Sovietica. Il professore Palmieri veniva contestato a lezione, accusato di essere un nazista e
addirittura alcuni colleghi giunsero a chiederne l’allontanamento.

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