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FISICA TECNICA

A. Piccolo

Dipartimento di Ingegneria
UNIVERSITA’ DI MESSINA
Anno Accademico 2018/19
CAPITOLO 1

CONCETTI E DEFINIZIONI DI BASE


1.1 Introduzione
Fino al 18 secolo le macchine preposte alla produzione di lavoro meccanico erano
azionate dal vento, dall’acqua e dagli animali. L’uso del carbone era limitato solo alla
generazione di calore ai fini del riscaldamento e la potenzialità del fuoco nel generare
moto ed azionare macchine era rimasta ignota.
La scienza del 19 secolo si concentrò però su un singolo fatto molto semplice: la
combustione (il fuoco) produce calore ed il calore può provocare un incremento di
volume (espansione); di conseguenza la combustione produce lavoro. Nel 1769 James
Watt (1736-1819) ottenne un brevetto per la sua versione della “macchina a vapore”.
Questo nuovo tipo di macchina (la macchina termica) che convertiva calore in moto
meccanico costituiva una enorme innovazione tecnologica che avrebbe dato luogo alla
Rivoluzione Industriale. Con essa nasceva inoltre la scienza nota come “termodinamica”.
A differenza della meccanica Newtoniana, pertanto, che traeva le sue origini nelle teorie
del moto dei corpi celesti, la termodinamica nasceva dallo studio di questioni tecniche
contingenti e da un interesse molto più pratico: la possibilità che il calore generi moto
meccanico. Tali origini sono racchiuse nella parola “termodinamica” che deriva dalle
parole greche “therme” (calore) e “dynamics” (moto).
Col tempo la termodinamica progredì in una teoria che descrive leggi universali
applicabili a qualunque sistema fisico sia esso semplice come un punto materiale o
complesso come una galassia, il moto generato dal calore essendo una conseguenza di
particolari trasformazioni. Essa è fondata su due principi fondamentali di significato
estremamente generale, uno concernente l’energia ed uno concernente l’entropia. La
formulazione dei due principi di Rudolf Clausius (1822-1888) nel 1865 recita:

– 1° PRINCIPIO: “L’energia dell’universo è costante”


– 2° PRINCIPIO: “L’entropia dell’universo tende ad un massimo”

Il primo principio è essenzialmente un principio di conservazione per la grandezza fisica


energia. L’energia può assumere un numero di forme differenti (energia termica,
energia meccanica, energia chimica, etc.) e può trasformarsi da una forma all’altra. Per
un sistema isolato, tuttavia, il contenuto totale di energia, inteso come somma dei
contributi delle differenti forme, si deve mantenere costante.
Per quanto riguardo il significato fisico dell’ energia, esso può
essere individuato nell’etimologia stessa della parola energia
(dal greco  = “capacità di compiere lavoro”). In
questo senso l’energia rappresenta il “prezzo” che occorre
pagare per apportare modificazioni ad un sistema. Per
sollevare una massa è necessario conferirle energia potenziale,
per accelerare un veicolo è necessario conferirgli energia
cinetica, per fondere un metallo è necessario conferirgli
energia termica, etc. Appare evidente come una disponibilità
di energia sia il requisito essenziale per ogni tipo di trasformazione.
Il secondo principio costituisce un’affermazione di carattere rivoluzionario rispetto
alle teorie classiche della meccanica o dell’elettromagnetismo (come pure della
relatività e della meccanica quantistica). Esso afferma che tutti i processi naturali sono
irreversibili (avvengono spontaneamente solo in verso e mai nel verso opposto) e
comportano produzione della grandezza fisica “entropia”. Esiste, cioè, una direzione

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privilegiata del tempo (freccia del tempo); esso scorre nel verso in cui l’entropia
dell’universo aumenta. Ciò è in contrasto con le leggi della meccanica newtoniana o
dell’elettromagnetismo in cui il passato ed il futuro giocano lo stesso ruolo essendo esse
invarianti rispetto alla inversione temporale t → −t .
Va rimarcato come l’approccio operato dalla termodinamica classica sia di tipo
macroscopico. In un tale approccio si è interessati al comportamento complessivo,
globale o medio del sistema e non a quello dei singoli costituenti microscopici. Ciò ha
come diretta conseguenza che i due principi, non essendo stati formulati sulla base di
specifiche ipotesi sulla struttura della materia (né atomico né subatomico) e sul
meccanismo di trasmissione della energia, mantengono la loro validità universale
prescindendo dalle continue evoluzioni e dai perfezionamenti delle teorie sulla struttura
della materia. A questa descrizione è contrapposto un approccio microscopico noto
come “termodinamica statistica”, in cui partendo da specifiche teorie atomico-
molecolari ed applicando metodi statistici si ricavano le proprietà globali di un sistema a
partire dallo studio dei singoli costituenti elementari.

1.2 Equilibrio termodinamico e trasformazioni


Un’importante fase di qualsiasi analisi termodinamica è quella di descrivere
precisamente ciò che si sta studiando. In termini rigorosi si definisce sistema
termodinamico una qualsiasi porzione dell’universo che sia oggettivamente
individuabile nel senso che deve essere sempre possibile distinguere fra sistema, da una
parte, e tutto ciò che è esterno al sistema − resto dell’universo (o ambiente) −, dall’altra,
mediante una opportuna superficie di separazione detta contorno o parete, sia essa reale
o ideale. Poiché un sistema può interagire con l’ambiente mediante scambi di materia
e/o energia si è soliti effettuare la seguente classificazione:

− SISTEMI ISOLATI: non scambiano né materia né energia con l’ambiente esterno;


− SISTEMI CHIUSI: Scambiano energia ma non materia con l’ambiente esterno;
− SISTEMI APERTI: Scambiano sia materia che energia con l’ambiente esterno.

In termodinamica gli stati dei sistemi vengono descritti in termini di un certo numero di
grandezze fisiche che rappresentano proprietà macroscopiche della materia. Tali
grandezze prendono il nome di variabili osservabili o parametri macroscopici. Esempi
rappresentativi sono il volume, V , la pressione, P , la temperatura, T , il numero di
moli N i (o, equivalentemente, la massa mi ) dei costituenti chimici, etc. (1 mole è la
quantità di materia contenente un numero di Avogadro di molecole
N A = 6.02217 1023 ; 1 kmol di una sostanza di peso molecolare Mol ha una massa di
Mol kg ).
L’esperienza insegna che se un sistema fisico è isolato esso evolverà
inesorabilmente verso situazioni fisiche (stati) in cui le proprietà macroscopiche
diventano uniformi e costanti in tutti i punti del sistema e non variano più nel corso del
tempo. Questi semplici stati finali vengono denominati stati di equilibrio.
La possibilità che le variabili macroscopiche vengano definite e misurate
sperimentalmente implica che la termodinamica possa descrive solo stati di equilibrio di
sistemi macroscopici. Consideriamo, ad esempio, un gas in cui la pressione varia da

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punto a punto. E’ ovvio che nessun valore unico di P potrà descrivere lo stato di
pressione di un tale sistema. Se la pressione non è uniforme, però, nel sistema si
desteranno flussi di materia finché la pressione si sarà uniformata in tutto il sistema e
risulterà
P
=0 P = 0
t

L’equilibrio sarà stato raggiunto ed unico valore di P , che non varierà più nel corso del
tempo, sarà attribuibile a tutto il gas. Una tale situazione viene descritta dicendo che il
sistema è in equilibrio meccanico.
Lo stesso ragionamento si può ripetere per la grandezza fisica temperatura T . Se la
temperatura non è uniforme, nel sistema si desteranno flussi di calore finché l’intero
sistema raggiunge uno stato di temperatura uniforme e quest’ultima non varierà più nel
corso del tempo:
T
=0 T = 0
t

Si dice in tal caso che il sistema è in equilibrio termico.


Analogamente, sussistono condizioni di equilibrio elettrico quando il potenziale
elettrico assume valore uniforme in tutta l’estensione del sistema cosicché non vi è
flusso di carica elettrica. L’equilibrio chimico è caratterizzato dal valore uniforme del
potenziale chimico di ciascuna specie presente. All’interno del sistema non hanno luogo
reazioni chimiche o migrazioni di specie chimiche da una regione all’altra.
Quando per un sistema sussistono contemporaneamente tutte le condizioni di
equilibrio sopra descritte (e le analoghe relative ad altre eventuali coordinate
macroscopiche) si dice che il sistema è in equilibrio termodinamico.
Si osservi come le grandezze pressione e temperatura, usate per definire
rispettivamente le condizioni di equilibrio meccanico e termico, specifichino qualità
(proprietà locali) del sistema e come tali non dipendano dalla sua estensione (massa).
Esse prendono il nome di variabili intensive Yi . Il valore che una variabile intensiva
assume è lo stesso se riferito all’intero sistema o ad una sola parte di esso. Al contrario,
le grandezze X i proporzionali alla massa o estensione del corpo prendono il nome di
variabili estensive. Il valore assunto da una variabile estensiva riferita ad un sistema
composto è pari alla somma dei valori assunti nei singoli subsistemi componenti
(proprietà additiva per la variabili estensive). Ne segue che le variabili estensive
possono essere normalizzate rispetto alla massa (o al peso) del sistema ottenendo delle
grandezza specifiche. Una variabile estensiva specifica indica l’ammontare di quella
variabile associato alla unità di massa del sistema. Ad esempio:

v = V / m = volume specifico [m3 / kg p ] 1/ v =  = densità [kg / m3 ]

Una grandezza estensiva specifica va considerata una variabile intensiva dal momento
che non dipende dalla estensione del sistema (fissata per definizione ad 1 kg ).
Siamo ora in grado di definire rigorosamente le condizioni di equilibrio
termodinamico dei sistemi: un sistema è in equilibrio termodinamico se tutte le sue
variabili intensive non dipendono dal tempo ed assumono un valore costante ed

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uniforme in tutto il sistema:
Yi
=0 Yi = 0
t

Va osservato come l’evoluzione di un sistema verso lo stato di equilibrio è dovuto a


processi irreversibili (che avvengono in una sola direzione). Una volta raggiunto
l’equilibrio termodinamico questi processi svaniscono. Pertanto, uno stato di non
equilibrio può essere definito come uno stato in cui sono attivi processi irreversibili che
“guidano” il sistema verso lo stato di equilibrio. Si definisce trasformazione il processo
di non equilibrio con il quale un sistema termodinamico passa da uno stato di equilibrio
ad un altro. Ricordando che il formalismo termodinamico permette di descrivere solo
stati di equilibrio, ne segue che lo studio di una
trasformazione può essere effettuata solo a patto
di considerarla come una successione ideale di
infiniti stati di equilibrio (trasformazione quasi-
statica). Ovviamente si tratta di una
trasformazione ideale che richiede un tempo
teoricamente infinito. E’ importante sottolineare
come solo nel caso di trasformazioni quasi
statiche è possibile tracciare il “percorso” seguito
dal sistema nel passare dallo stato iniziale allo
stato finale di equilibrio. Ad esempio se la
trasformazione è rappresentata graficamente nel
piano P,V (piano di Clapeyron) indicare tale
“percorso” significa tracciare una linea continua avente per estremi lo stato iniziale A e
lo stato finale B . Tracciare una siffatta linea equivale ad affermare di conoscere tutti gli
stati intermedi percorsi dal sistema nel passare da A a B . Ciò comporta per le
trasformazioni quasi-statiche un’altra importante proprietà: quella di essere invertibili.
E’ cioè possibile far tornare il sistema dallo stato finale, B , allo stato iniziale, A ,
facendolo ripassare per tutti e soli gli stati intermedi percorsi nella trasformazione
diretta da A a B . Ovviamente, anche nel caso di trasformazioni di non equilibrio è
possibile riportare il sistema nello stato iniziale, ma non per lo stesso percorso seguito
nel processo diretto dato quest’ultimo non è definito.
Le trasformazioni vengono realizzate operando in maniera opportuna sulle pareti
(contorno) che separano il sistema da tutto ciò che lo circonda (resto dell’universo). Una
parete non ha solo lo scopo di delimitare il sistema dall’ambiente ma costituisce anche
la realizzazione di uno o più tipi di vincoli che limitano le possibili configurazioni del
sistema nonché gli scambi di energia che esso può realizzare. Ad esempio, l’uso di
pareti rigide vincola il volume del sistema a rimanere costante. La trasformazione
corrispondente viene definita isocora o isometrica (a volume costante). Questo vincolo
preclude scambi di energia meccanica con l’ambiente esterno per effetto di
espansioni/compressioni di volume. L’uso di pareti adiabatiche impedisce scambi di
calore con l’ambiente. La trasformazione corrispondente viene definita adiabatica. Un
sistema rinchiuso in pareti adiabatiche viene definito termicamente isolato. A questo
tipo di trasformazioni si aggiungono poi quelle che avvengono sotto il vincolo che una o
più variabili intensive siano fissate e costanti. Una trasformazione isoterma (T = cost) è
una trasformazione che avviene senza variazioni di temperatura. Una trasformazione

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isobara ( P = cost) è una trasformazione che avviene senza variazioni di pressione.

1.3 Le variabili di stato


La descrizione degli stati di equilibrio di un sistema viene effettuata specificando il
valore numerico di un opportuno insieme di parametri macroscopici che prendono il
nome di variabili di stato. Fissare il valore di ciascuna variabile di stato, cioè, equivale
a definire completamente la situazione
fisica (stato) in cui si trova il sistema.
Attraverso le variabili di stato, però,
deve essere anche possibile descrivere
qualsiasi tipo di interazione tra il sistema e
l’ambiente. Ciò suggerisce come approccio
per la scelta e la determinazione del numero
minimo di variabili lo studio dei diversi
modi in cui il sistema è in grado di scambiare energia con l’ambiente esterno.
Ad un trasferimento di energia associato ad una variabile macroscopica si da il
nome di lavoro. Per calcolare l’espressione del lavoro di espansione (o compressione)
di un fluido è sufficiente considerare il caso generale di un cilindro chiuso da un pistone
mobile senza attrito al cui interno è contenuto un fluido alla pressione P . In condizioni
di equilibrio (pitone fermo) l’azione dalla pressione è tale da bilanciare esattamente la
forza − Fext che l’ambiente esercita dall’esterno sulla superficie A del pistone. Tale
forza può immaginarsi originata dall’attrito, da molle, dalla pressione esterna, etc. In
ogni caso, se il gas viene fatto espandere ed al pistone è consentito di spostarsi di una
quantità infinitesima dx , la forza esterna compirà un lavoro pari a

Lext = − Fext dx (1.3.1)

Supponiamo ora che l’espansione venga compiuta con estrema lentezza (teoricamente in
un tempo infinito) in maniera tale che il sistema si trovi in condizioni prossime a quelle
di equilibrio termodinamico durante tutto il processo ossia realizzi una trasformazione
quasi-statica. In questo caso la forza originantesi dalla pressione del gas bilancerà in
ogni istante di tempo la forza esterna
Fext = PA (1.3.2)
e la (1.3.1) si potrà scrivere come
Lext = − PAdx = − PdV ( 0) (1.3.3)

Nel caso di trasformazione quasi statiche quindi, il lavoro esterno (1.3.1) può essere
messo in relazione con i parametri interni che caratterizzano il fluido (la pressione in
questo caso) e vale l’espressione (1.3.3). Il segno negativo deriva dal fatto che
dell’energia viene trasferita verso l’esterno quando il gas si espande. Se anziché far
espandere il gas lo avessimo compresso si sarebbe avuto un trasferimento di energia
dall’esterno nel sistema. Nella pratica ingegneristica, tuttavia, viene adottata la
convenzione egoistica del segno secondo cui i segni vanno invertiti. Si considererà cioè
positivo il lavoro compiuto dal sistema (lavoro utilizzabile per noi) mentre si
considererà negativo un lavoro compiuto sul sistema (cioè un lavoro che noi abbiamo

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dovuto spendere). Secondo questa convenzione, dunque, il lavoro prodotto dai motori e
dalle turbine è positivo mentre il lavoro consumato da compressori e pompe è negativo
e si scriverà in luogo della (1.3.3)
L = P dV (1.3.4)

Per una trasformazione finita in cui il


volume varia da V1 a V2 l’espressione per il
lavoro assume la forma
V2

L =  P dV (1.3.5)
V1

il cui calcolo presuppone la conoscenza della


relazione esistente tra P e V nel processo
considerato e cioè della funzione P = P(V ) . Ovviamente, l’area sottesa alla linea della
trasformazione nel piano P,V (piano di Clapeyron) corrisponde al lavoro L . Da ciò
segue, inoltre, che il lavoro netto prodotto in un ciclo diretto (percorso in senso orario),
differenza tra il lavoro compiuto dal sistema ed il lavoro compiuto sul sistema, è
positivo. Il contrario avviene in un ciclo inverso (percorso in senso antiorario). Da
quanto detto possiamo concludere che affinché vi sia scambio di lavoro meccanico tra
un sistema e l’ambiente occorre che (1) vi sia una forza esterna agente sul contorno e (2)

il contorno sia mobile. Quindi, la presenza di forze esterne sul contorno senza alcuno
spostamento dello stesso non comporta scambio di lavoro. Analogamente, lo
spostamento del contorno senza alcuna forza esterna che si opponga o favorisca tale
movimento (come l’espansione di un gas in uno spazio vuoto) non comporta scambio di
lavoro.
Ad una rotazione d di un corpo rigido prodotta da una coppia di forze di
momento  è associato il lavoro
Lq =  d (1.3.6)

Ad un trasferimento di carica elettrica dq attraverso una differenza di potenziale  è


associato il lavoro:
Lq =  dq (1.3.7)

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Ad una variazione del momento di dipolo elettrico dP in presenza di un campo elettrico
E è associato il lavoro
LE = −E dP (1.3.8)

Ad una variazione del momento di dipolo magnetico dM in presenza di un campo


magnetico B è associato il lavoro
LB = −B  dM (1.3.9)

Alla variazione del numero di moli dN di un componente chimico per effetto


dell’aggiunta di materia (a causa, ad esempio, di migrazioni di specie chimiche, reazioni
chimiche, cambiamenti di fase, etc.) è associata una variazione di energia quantificata
dal “lavoro chimico”
L = dN (1.3.10)

 essendo il potenziale chimico.


Ad un trasferimento di energia dovuto esclusivamente ad una differenza di
temperatura si da il nome di calore. Il 2 principio della termodinamica (vedi Cap. III)
consente di esprimere la quantità infinitesima di
calore Q scambiato dal sistema con l’ambiente
nella forma
Q = TdS (1.3.11)

dove le variabili T ed S prendono il nome


rispettivamente di temperatura ed entropia. Si
conviene di considerare positive le quantità di
calore assorbite dal sistema, che aumentano la
sua entropia (dS  0) , e negative quelle cedute
dal sistema, che diminuiscono la sua entropia
(dS  0) . Per una trasformazione finita in cui
l’entropia varia da S1 ad S 2 l’espressione per il calore scambiato assume la forma

2 S2

Q =  Q =  T dS (1.3.12)
1 S1

il cui calcolo presuppone la conoscenza della relazione esistente tra T ed S nel


processo considerato e cioè della funzione T = T (S ) . Ovviamente, l’area sottesa alla
linea della trasformazione nel piano T , S (piano di Gibbs) corrisponde al calore
scambiato Q . Nel caso di trasformazioni cicliche valgono considerazioni analoghe a
quelle fatte per il lavoro meccanico.
Dall’analisi delle relazioni scritte si evince come ad ogni forma di scambio
energetico corrispondono due grandezze fisiche, una estensiva ( X ) ed una intensiva
(Y ) , tali che la variazione infinitesima di energia del sistema connessa con tale scambio
sia data dal prodotto
Y dX (1.3.13)

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Se n sono le diverse forme di scambio energetico che il sistema è in grado di realizzare,
si definiscono variabili di stato n variabili, indifferentemente intensive od estensive,
una per ciascun tipo di scambio. La ragione per cui il numero minimo di variabili di
stato è n e non 2n sta nel fatto che ciascuna coppia di variabili associata ad un
assegnato scambio energetico (coppia di
variabili coniugate) è collegata da una
relazione che prende il nome di equazione di
stato (vedi Cap. II). Lo stato di un sistema
termodinamico rimane completamente
definito specificando il valore numerico delle
variabili di stato.
Va sottolineato come calore e lavoro
rappresentino energie in transito o di
scambio ma non proprietà di un sistema.
Essi, cioè, non possono essere “posseduti” da
un sistema ma costituiscono piuttosto gli enti
con cui l’energia può attraversare il contorno di un sistema chiuso. La relazione che lega
L e Q alle variazioni di energia è, inoltre, una relazione di tipo “causale”, ossia calore
e lavoro giocano il ruolo di causa delle variazioni di energia di un sistema. Infine,
l’analisi dell’ultima fa vedere come l’area sottesa alle curve, che rappresenta il lavoro,
(analogamente per il calore) dipende non solo dagli stati iniziale e finali del processo ma
anche dalla trasformazione (linea) seguita dal sistema. Una tale circostanza si esprime
dicendo che calore e lavoro non sono funzioni di stato, da cui il simbolo  adottato per
indicare come gli scambi elementari o infinitesimi di calore e lavoro non sono
differenziali esatti.
In generale, si definisce funzione di stato una grandezza F , funzione delle variabili
di stato, le cui variazioni F , relative ad una trasformazione finita, dipendono solo
dagli stati iniziali e finali della trasformazione ma non dal percorso che li unisce. Si dice
in tal caso che le variazioni elementari F della grandezza sono infinitesimi
differenziali o differenziali esatti
F  dF

Se, ad esempio, si considera una trasformazione finita da uno stato iniziale 1 ad uno
stato finale 2 si avrà:
2
F =  F =  dF = F (2) − F (1)
l 1

indipendentemente dal percorso l seguito per andare da A a B . Da ciò deriva che in


una trasformazione ciclica in cui lo stato iniziale e finale coincidono deve risultare:

F =  F =  dF = 0

1.4 La temperatura e le scale termometriche


La quotidiana osservazione di un enorme numero di fatti empirici porta a postulare

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l’esistenza nei corpi di una proprietà che chiameremo stato termico che produce le
impressioni sensoriali legate al “caldo” ed al “freddo”.
Come fatti sperimentali fondamentali che possono permettere di descrivere
oggettivamente lo stato termico di un corpo notiamo i seguenti:
a) Le proprietà fisiche di un qualunque corpo dipendono dallo stato termico in cui il
corpo si trova: stato di aggregazione, volume, pressione, resistenza elettrica, etc.;
b) Quando due corpi aventi stato termico diverso vengono posti in contatto, ben
presto lo stato termico di ciascuno di essi varia, come viene rilevato per i mutamenti che
avvengono nelle proprietà macroscopiche di ciascuno dei sistemi a contatto. Quando
non è più percepibile alcun mutamento, ma viceversa la situazione di ciascun sistema
rimane stazionaria nel tempo, si dice che si è raggiunto l’equilibrio termico. I due corpi,
cioè, si trovano nel medesimo stato che risulta essere intermedio fra gli stati termici
iniziali dei due singoli corpi. Si osservi come questa idea non fu facilmente accettata
poiché sembrava contraddire l’ordinaria esperienza sensoriale secondo cui un pezzo di
metallo sembra più freddo di un pezzo di legno anche dopo che sono stati posti in
contatto per molto tempo. I dubbi vennero fugati con la costruzione del termometro
(Galileo Galilei 1564-1642) e cioè dello strumento che consente di misurare
oggettivamente la temperatura dei corpi.
Il concetto di temperatura viene precisato in base al principio zero della
termodinamica. Tale principio codifica tutta la fenomenologia che è alla base del
concetto di temperatura. Esso afferma che: “se due sistemi sono in equilibrio termico
con un terzo, sono anche in equilibrio termico fra loro”. In base al principio zero
possiamo stabilire se due corpi siano o meno in equilibrio termico tra loro senza metterli
direttamente in contatto ma utilizzando un terzo sistema (che potremo chiamare
termometro). Effettuata la scelta del termometro la temperatura di qualunque corpo sarà
definita attraverso le condizioni in cui si verrà a trovare il termometro posto in
equilibrio termico con esso.
Per costruire un termometro e definire una scala di temperature possiamo, in base a
quanto affermato nel punto a), considerare un ben preciso corpo o sostanza
termometrica (ad esempio una sbarretta di platino) ed una sua ben precisa proprietà
fisica o grandezza termometrica (ad esempio la sua lunghezza) Stabiliremo che la
lunghezza della sbarretta costituisca una misura dello stato termico della sbarretta
stessa. In virtù del principio zero, poi, tale lunghezza misurerà lo stato termico di
qualsiasi altro corpo con cui la sbarretta sia stata posta in contatto per un tempo
sufficiente.
L’affermazione della esistenza di una corrispondenza biunivoca tra lunghezza l
della sbarretta e stato termico significa che indicando con T il parametro numerico che
misurerà lo stato termico (temperatura) esiste una relazione funzionale o funzione
termometrica del tipo
l = f (T )

con f funzione ad un sol valore di T . Tale funzione può sempre assumersi di forma
lineare ossia può sempre porsi lineare per costruzione

l = l0 (1 + T )

dove l0 è la lunghezza corrispondente ad un particolare stato termico cui si vuole fare

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corrispondere il valore numerico T = 0 ed  è una costante arbitraria la cui scelta
dipenderà esclusivamente dalla ampiezza della unità di misura che si vuole adottare per
la misura di T (grado). Quest’ultima può stabilirsi solo definendo l’intera scala
termometrica. Basterà fissare due particolari stati termici (facilmente riproducibili) cui
far corrispondere due valori arbitrari di T (punti fissi) e suddividere l’intervallo
risultante in un numero conveniente di parti uguali. Ad esempio, si potrà usare lo stato
termico corrispondente al ghiaccio fondente e fargli corrispondere il valore T = 0 e lo
stato termico corrispondente all’acqua in ebollizione e fargli corrispondere il valore
T = 100 cosicché:
l −l
 = 100 0
100 l0

Una scala termometrica così definita, tuttavia, è arbitraria poiché dipende dalla sostanza
prescelta e dalla proprietà particolare su cui si fissa l’attenzione. Le diverse sostanze,
infatti, rispondono diversamente alle variazioni di temperatura e ciò comporta valori di
 del tutto differenti tra di loro. Questa stretta dipendenza della scala termometrica
dalla sostanza prescelta ed anche dalla proprietà particolare su ci si fissa l’attenzione
giustifica il nome di temperatura empirica alla temperatura così definita.
Come verrà dimostrato nel Cap. 3, il II principio della termodinamica elimina
completamente l’arbitrio nella costruzione della scala di temperatura e permette di
stabilire la cosiddetta scala della temperatura termodinamica assoluta che non dipende
in linea di principio dalle proprietà delle sostanze termometriche impiegate. In tal modo
la funzione termometrica relativa ad un particolare corpo termometrico non va postulata
ma ricavata per confronto con tale scala. Si vuole dire cioè che ogni termometro può
essere adoperato a condizione di tararlo con un termometro campione che misuri
temperature assolute.
Nella pratica vengono adoperate diverse scale termometriche che differiscono tra
loro per la scelte della temperatura cui si assegna il valore zero e per l’ampiezza
dell’unità di misura che adottano. Elenchiamo di seguito le più comuni:

Scala Celsius (o centigrada)


SIMBOLO:  C
PUNTO FISSO 1 (ghiaccio fondente a P = 1 atm ): T = 0  C
PUNTO FISSO 2 (acqua in ebollizione a P = 1 atm ): T = 100  C .

Scala Farhenheit
SIMBOLO:  F
PUNTO FISSO 1 (ghiaccio fondente a P = 1 atm ): T = 32  F
PUNTO FISSO 2 (acqua in ebollizione a P = 1 atm ): T = 212  F .
CONVERSIONE: T ( F) = 9 / 5 T ( C) + 32

Si osservi come l’intervallo tra i punti fissi viene suddiviso in 180 gradi e che 1 grado
 F corrisponde a 5/9 di 1  C ; la scala Farhenheit ha dunque una precisione circa
doppia di quella centigrada.
Nel SI la scala della temperatura termodinamica è la scala Kelvin

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Scala Kelvin
SIMBOLO: K
PUNTO FISSO (punto triplo dell’acqua): T = 273.16 K
CONVERSIONE: T ( C) = T (K) − 273.15

Dalla legge di conversione si può dedurre come il grado celsius abbia la stessa ampiezza
del grado kelvin e, pertanto, che le differenze di temperatura siano identiche nelle due
scale. Inoltre, 0 K corrispondono a − 273.15  C mentre il punto triplo dell’acqua (stato
di coesistenza acqua ghiaccio vapore) vale 0.01  C .
Un’altra scala termodinamica assoluta è la scala Rankine

Scala Rankine
SIMBOLO:  R
PUNTO FISSO (punto triplo dell’acqua): T = 491.688  R
CONVERSIONE: T ( R) = 9 / 5 T (K)

Dalla legge di conversione si può dedurre come il grado Rankine abbia la stessa
ampiezza del grado Farhenheit (la differenza tra la temperature del ghiaccio fondente e
quella dell’acqua in ebollizione è pari a 180  R ) e lo zero assoluto coincida con quello
della scala Kelvin.

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CAPITOLO 2

IL I PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA


2.1 Energia interna e calore
Il primo riconoscimento di un principio di conservazione, Leibniz (1693), si riferiva
semplicemente alla somma della energia cinetica e della energia potenziale di un punto
materiale di massa m che si muove nel campo gravitazionale terrestre con velocità v

1 2
mv + mgz (2.1.1)
2

g essendo la accelerazione di gravità e z la quota del grave. Tale legge di


conservazione è una conseguenza diretta delle leggi di Newton.
Lo studio di sistemi non-puntiformi portò ad associare ad un corpo rotante una
energia cinetica
1 2
I
2

dove I è il momento d’inerzia del corpo rispetto all’asse di rotazione ed  è la velocità


angolare.
Man mano che sistemi più complessi venivano presi in considerazione la forma
precedentemente formulata per il principio di conservazione falliva ripetutamente ma, in
ciascun caso, fu sempre possibile ripristinarlo grazie all’aggiunta di un nuovo termine
matematico, un nuovo “tipo di energia”. Ad esempio, lo studio di sistemi elettricamente
carichi portò all’aggiunta della energia di interazione coulombiana

Q1 Q2
r

ed eventualmente dell’energia del campo elettromagnetico.


Einstein estese il principio alla regione relativistica aggiungendo il termine della
energia della massa a riposo:
E = mc2

dove c è la velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche nel vuoto.


Enrico Fermi postulò l’esistenza del neutrino semplicemente estendendo il
principio di conservazione della energia alle reazioni nucleari.
Da quanto detto è evidente come la validità generale del principio di conservazione
dell’energia è strettamente legata all’aver considerato correttamente tutti i gradi di
libertà del sistema. Alcuni di questi hanno carattere macroscopico, come ad esempio i
tre gradi di libertà di traslazione del centro di massa, ma vi sarà comunque un numero
enorme di gradi di libertà “interni”, associati cioè a moti che avvengono su scala
microscopica (per esempio rotazioni e vibrazioni di singoli atomi o molecole), che
sfuggono ad ogni indagine macroscopica. Per quanto raffinata, infatti, una misura
macroscopica è estremamente “lenta” rispetto alla scala dei tempi dei moti atomici o
molecolari (10−15 s) e del tutto imprecisa sulla scala delle distanze atomiche. In tal
modo, effettuare una descrizione macroscopica equivale a sostituire l’enorme numero di
gradi di libertà del sistema con un numero molto ridotto di nuovi gradi di libertà che

12
sono, in qualche modo, medie statistiche operate sui precedenti. Tali variabili medie
“residue” costituiscono le variabili osservabili (o coordinate termodinamiche) del
sistema. D’altra parte, l’energia può sempre fluire in tutti i gradi di libertà e, dal punto
di vista di una descrizione macroscopica (media) che non tiene conto della maggior
parte di essi, sembra non conservarsi come conseguenza del fatto che una parte di essa è
fluita nei gradi di libertà non considerati. L’effetto sarà per un osservatore macroscopico
una presunta violazione del principio di conservazione della energia.
Se si vogliono dunque giustificare apparenti eccezioni al principio di conservazione
della energia occorre introdurre:
− una nuova forma di energia, l’energia interna U , intesa come energia di un sistema
associata ai gradi di libertà interni (microscopici, non osservabili) e tale che sommata
alla energia connessa coi gradi di libertà macroscopici (l’energia cioè che il sistema
possiede nel suo complesso rispetto ad un qualche sistema di riferimento esterno)
fornisca l’energia totale del sistema (ovviamente, per un sistema chiuso è in quiete
macroscopica, l’energia totale coincide con l’energia interna).
− una nuova forma di energia in transito, il calore Q , inteso come trasferimento di
energia (canale di scambio) attraverso i gradi di libertà interni del sistema.

2.2 Equivalenza calore lavoro


L’esistenza delle grandezze energia interna e calore è stata dedotta in base alla legge di
conservazione della energia ed alla concezione atomistica della materia. In questo
schema, inoltre, si è pervenuti naturalmente alla equivalenza fra calore e lavoro. Come il
lavoro, il calore è il mezzo col quale l’energia può essere scambiata fra sistemi o può

trasformarsi da una forma ad un’altra. Il calore è “energia in transito” associata ai gradi


di libertà microscopici del sistema.
L’affermazione dell’equivalenza fra calore e lavoro, tuttavia, risale a molto prima
che l’ipotesi atomistica della materia fosse accettata. La sua formulazione si deve infatti
a Joule che nel 1843 la dimostrò mediante mezzi puramente macroscopici. Joule prese
in considerazione un dispositivo consistente in un recipiente (a pareti rigide ed
adiabatiche) contenente un fluido. La quantità di energia meccanica entrante nel sistema
è direttamente misurata dal lavoro eseguito dalla forza di gravità nell’abbassare una
massa m di un tratto z :
L = mgz

Tale lavoro viene dissipato tutto in energia interna per mezzo dell’agitatore a palette. La

13
trasformazione eseguita dal sistema è rilevabile in un innalzamento di temperatura del
fluido. Rimovendo ora l’isolamento termico ed immergendo il sistema in un calorimetro
è possibile calcolare la quantità di calore Q trasmessa al calorimetro affinché il fluido
torni alla sua temperatura iniziale.
Ripetendo l’esperienza con diversi valori del lavoro L compiuto dai pesi fu trovato
ogni volta che il rapporto fra il lavoro meccanico ed il calore scambiato era una costante
che dipendeva solo dalla scelta delle unità di misura. Usando, per esempio, Joule per L
e calorie per Q si aveva
Q calorie 
= 4.186
L  joule 

Veniva in tal modo inequivocabilmente dimostrato che nei processi di conversione e


trasferimento di energia il calore è del tutto equivalente al lavoro meccanico. Esso è
effettivamente una forma di energia e, misurandolo in Joule, si sarebbe ottenuto
Q / L = 1 : il lavoro somministrato dall’esterno è pari al calore ceduto all’acqua.
Poiché nell’esperimento di Joule gli stati iniziali e finali della trasformazione
complessiva coincidono, il sistema percorre un ciclo chiuso e la precedentemente
affermazione si può scrivere come:
 Q =  L
che costituisce l’espressione del primo principio della termodinamica per un sistema che
compie una trasformazione ciclica.

2.3 Il I Principio della termodinamica


Per formulare il I principio della termodinamica è necessario fare alcune considerazioni
sulla misurabilità della funzione energia interna U . Innanzitutto, solo differenze di
energia, piuttosto che valori assoluti, hanno significato fisico sia a livello macroscopico
che atomico. Si può pensare solo di assegnare arbitrariamente il valore zero all’energia
interna di un sistema in un conveniente stato di riferimento e calcolare qualsiasi
variazione di energia a partire da quello stato. In secondo luogo, possiamo sicuramente
misurare la differenza di energia interna tra due stati di equilibrio qualsiasi 1 e 2
ammesso che uno stato sia raggiungibile dall’altro mediante un processo in cui il
sistema è rinchiuso in pareti adiabatiche. In questo caso, infatti, il solo tipo di
trasferimento di energia possibile è nella forma di lavoro e le teorie della fisica
macroscopica forniscono formule quantitative per la sua misura.
Il lavoro non è, in generale, una funzione di stato, ossia, esso non dipende solo
dagli stati iniziali e finali della trasformazione ma anche dal particolare percorso
seguito. Mediante una serie di esperimenti Joule dimostrò, tuttavia, che nel caso di
trasformazioni adiabatiche, il lavoro si comporta come una funzione di stato. Se il
sistema evolve da uno stato iniziale 1 ad uno stato finale 2 , il lavoro adiabatico
( ad )
L12 sarà sempre lo stesso indipendente dalla trasformazione, essendo determinato
unicamente dagli stati 1 e 2 . Dal momento che abbiamo precluso al sistema possibili
scambi di calore, si ha che l’ammontare di lavoro scambiato adiabaticamente deve

14
corrispondere alle variazioni di energia interna del sistema che, dunque, costituisce una
funzione di stato del sistema:
U 2 − U1 = − L12
( ad )
(2.3.1)

dove si è tenuto conto della convenzione egoistica del segno per il lavoro.
Se ora si rimuove l’adiabaticità delle pareti che racchiudono il sistema consentendo
così scambi di calore, si trova che il lavoro non si comporta più come una funzione di
stato; non solo esso risulterà diverso dal corrispondente lavoro adiabatico ma dipenderà
dal particolare tipo di trasformazione eseguita dal sistema oltre che dagli stati iniziale e
finale. Ciò è dovuto al fatto che la maniera in cui un dato ammontare di energia si
ripartisce come calore o lavoro quando viene scambiato con l’ambiente dipende dal tipo
di trasformazione. In uno specifico processo, allora, il calore scambiato è
semplicemente la differenza tra il generico lavoro ed il corrispondente lavoro
adiabatico:
Q12 = L12 − L12
( ad )

Se si fa uso della (2.3.1) che definisce l’energia interna si potrà anche scrivere

U 2 − U1 = Q12 − L12 o dU = Q − L (2.3.3)

dove la seconda relazione vale per trasformazioni infinitesime. Le ultime due


espressioni scritte costituiscono formulazioni equivalenti del I principio della
termodinamica ed hanno il seguente significato: l’ammontare di calore e lavoro
associati con differenti processi possono essere diversi, anche se ogni processo inizia
nel medesimo stato 1 e termina nel medesimo stato 2 . La loro somma, tuttavia,
corrisponde alla variazione di energia interna (U 2 − U1 ) ed è la stessa per ciascuno dei
processi, dal momento che l’energia non può essere né creata né distrutta. Se ci si
riferisce pertanto alla energia interna U , è sufficiente specificare solo gli stati di
equilibrio iniziali e finali, ma, se ci si riferisce al calore e al lavoro scambiati è
necessario specificare in dettaglio il processo considerato. Il significato del I principio
diviene ancora più chiaro se nella seconda delle (2.3.3) vengono esplicitate le
espressioni quantitative degli scambi energetici collegati al lavoro (sezione 1.3):

dU = Q − P dV + d +  de − E  dP − B  dM + 1dN1 + 2dN2 +   

La variazione di energia interna di un sistema nel passare da uno stato di equilibrio ad


un altro è una funzione di stato che dipende solo da questi due stati estremi. La maniera
però con cui tale variazione si ripartisce secondo i vari possibili scambi energetici,
dipende dalla particolare trasformazione, oltre che dagli stati iniziali e finali (i singoli
scambi non sono differenziali esatti). Il I principio della termodinamica costituisce
dunque la più generale espressione del principio di conservazione della energia.

2.4 Le relazioni di Eulero e di Gibbs-Duhem


L’energia interna, in quanto funzione di stato, deve dipendere dalle variabili di stato del

15
sistema. Per trovare la relazione funzionale che lega U alle variabili di stato
consideriamo l’espressione del I principio della termodinamica per un sistema semplice
ossia un sistema omogeneo, isotropo, non elettricamente carico e che non risente
dell’azione di campi elettrici, magnetici o gravitazionali. Per semplicità, supponiamo
inoltre che il sistema sia costituito da un solo componente chimico (di numero di moli
N ). Per un tale sistema il I principio assume la seguente forma

dU = TdS − P dV +  dN (2.4.1)

La (2.4.1) suggerisce di scegliere come variabili di stato le variabili estensive e di


esprimere l’energia interna solo in funzione di queste ultime

U = U ( S ,V , N ) (2.4.2)
di modo che il differenziale totale

 U   U   U 
dU =   dS +   dV +   dN
 S V , N  V  S , N  N V ,S

confrontato con la (2.4.1) fornisce

 U   U   U 
T =  , P = −  ,  =  (2.4.4)
 S V , N  V  S , N  N  S ,V

e cioè le variabili intensive sono le derivate parziali della funzione (2.4.2) (denominata
relazione fondamentale per l’energia interna) fatte rispetto alle variabili estensive. Nota
la relazione fondamentale (2.4.2), dunque, è possibile ottenere, tramite le (2.4.4), le
variabili intensive come funzioni delle variabili estensive

T = T ( S ,V , N ) P = P(S ,V , N )  =  ( S ,V , N )

Tali equazioni prendono il nome di equazioni di stato del sistema.


Poiché l’energia interna è una grandezza estensiva, facendo variare l’estensione del
sistema di un fattore  , anche U deve risultare moltiplicata per  :

U (S , V , N ) =  U (S ,V , N ) (2.4.5)

che mostra come U sia una funzione omogenea di primo grado. In particolare,
scegliendo come fattore di scala l’inverso della massa del sistema ( = 1/ m) si ottiene

 S V N  U ( S ,V , N )
U , ,  =
m m m m

Il primo membro corrisponde all’energia interna dell’unità di massa del sistema, e cioè
all’energia interna specifica u .Ne consegue che le proprietà termodinamiche di un
sistema di massa m (=N Mol) possono essere ricavate da quelle riferite all’unità di
massa dello stesso sistema:

16
U ( S ,V , N ) = mu(s, v, Mol−1 ) = mu(s, v)

Dalla (2.4.5) segue poi immediatamente che le equazioni di stato sono funzioni
omogenee di grado zero:

T = T (S , V , N ) P = P(S , V , N )  =  (S , V , N )

le variabili intensive, cioè, non dipendono dalla estensione del sistema. Se tutte le
variabili estensive vengono fatte variare per uno stesso fattore (considerando cioè un
sistema che differisce dal precedente solo per l’estensione, ad es., la massa) le variabili
intensive devono rimanere immutate.
Se ora si derivano rispetto a  ambo i membri della (2.4.5) si ottiene

U d (S ) U d (V ) U d (N ) 


+ + = (U )
(S ) d (V ) d (N ) d 
cioè
U U U
S+ V+ N =U
(S ) (V ) (N )

Questa relazione deve essere verificata per qualsiasi  ed in particolare per  = 1 , nel
qual caso assume la forma:
U = TS − PV + N (2.4.11)

che costituisce la relazione di Eulero. Se si conoscono tutte le equazioni di stato di un


sistema esse possono essere sostituite nella relazione di Eulero per ricostruire la
funzione analitica (2.4.2). La conoscenza della totalità delle equazioni di stato è
equivalente alla conoscenza della relazione fondamentale.
Differenziano la relazione di Eulero si ottiene

dU = (TdS − PdV + dN ) + (SdT − VdP + Nd )

Sottraendo membro a membro questa relazione con la (2.4.1) si ottiene la relazione di


Gibbs-Duhem:
SdT − VdP + Nd = 0 (2.4.13)

che mostra come le variabili intensive di un sistema semplice (omogeneo) non siano
tutte indipendenti, le loro variazioni dovendo soddisfare la (2.4.13). Il potenziale
chimico, in particolare, è una funzione di T e P: =(T, P). Il numero di parametri
intensivi indipendenti di un sistema prende il nome di numero di gradi di libertà. Si noti
come la relazione di Gibbs-Duhem sia una conseguenza della proprietà di omogeneità
del primo ordine della relazione fondamentale.

2.5 L’equazione di stato dei gas perfetti


Consideriamo un sistema semplice ad un solo componente chimico. Per quanto detto nel

17
paragrafo precedente tale sistema è caratterizzato da una relazione fondamentale

u = u(s, v)
e da due equazioni di stato

 u   u 
T =   = T ( s , v) P = −   = P ( s , v)
 s  v  v s

che limitano a due il numero di variabili di stato indipendenti. Ne consegue che deve
sicuramente esistere una relazione funzionale (equazione di stato) che collega i tre
parametri (misurabili) P,V , T
f ( P,V , T ) = 0 (2.5.4)

in cui la forma della funzione f è in generale diversa da sistema a sistema.


Il prototipo di sistema semplice è il gas perfetto
che può essere pensato costituito da particelle che
sono: (a) prive di dimensioni (puntiformi); (b) non
interagenti (assenza di forze attrattive); (c) collidenti
tra esse e con le pareti del recipiente in urti
perfettamente elastici. Tali condizioni implicano che,
per qualunque valore della temperatura il volume
debba ridursi a zero per P →  .
Boyle nel 1662 e Mariotte nel 1676 osservarono
indipendentemente che a temperatura costante il
volume di un gas perfetto (gas in condizione di grande rarefazione) varia in modo
inversamente proporzionale alla pressione secondo la legge (legge di Boyle-Mariotte):

PV = cost (2.5.5)

dove la costante dipendente solo dalla temperatura. Se si usa la stessa scala per P e V
le isoterme sono delle iperboli equilatere.

La legge di Charles (1787) afferma che, a pressione costante, il volume di un gas


perfetto varia proporzionalmente alla temperatura (misurata sulla scala Celsius) secondo
la legge
V = V0 (1 +  T ) ( P = cost) (2.5.6)

Analogamente, la legge di Gay-Lussac afferma che, a volume costante, la pressione di

18
una gas perfetto è una funzione lineare della temperatura

P = P0 (1 +  T ) (V = cost) (2.5.7)

Nelle equazioni (2.5.6) e (2.5.7) P0 = 1 atm e T0 = 0  C sono le coordinate dello stato


termodinamico di riferimento detto delle condizioni normali (c.n.). Per la legge di
Avogadro, in tali condizioni il volume di 1 kmol di qualsiasi gas è lo stesso,
indipendentemente dalla natura chimica del gas considerato, e vale
v0 = 22.414 m3/ kmol . Le costanti  e  sono indipendenti dal gas considerato e
coincidono numericamente. Nell’intorno dello stato di riferimento valgono:

1
 = =  C−1 = 0.00366  C−1
273.15

Tale valore comune implica che la famiglia di rette corrispondenti alle equazioni (2.5.6)
e (2.5.7) tendano a riunirsi in un solo punto a T = −273.15  C . Poiché per temperature
inferiori a questo valore le pressioni ed i volumi divengono negativi (e ciò non ha
significato fisico) ne consegue che la temperatura più bassa che possa essere raggiunta
da un gas perfetto è di − 273.15  C .
Il fatto che il comportamento termico di un gas perfetto non dipende, come detto,
dalla specie chimica che lo costituisce ma appare piuttosto come una caratteristica
generale dello stato gassoso suggerisce la possibilità di costruire una scala di
temperature, la scala assoluta del gas perfetto, così definita:
− sostanza termometrica: gas perfetto;
− grandezza termometrica: il volume o la pressione;
− funzione termometrica: relazione (2.5.6) o (2.5.7);
− zero della scala: − 273.15  C ;
− campione del grado: quello della scala centigrada.
La temperatura in questa scala viene misurata in gradi kelvin (K) e sussiste la seguente
relazione di conversione:
T (K) = T ( C) + 273.15

essendo T0 = 0  C = 273.15 K . Per dedurre l’equazione di stato di un gas perfetto


riscriviamo l’equazione (2.5.4) esplicitando la variabile V

V = V (T , P)
Differenziando si ottiene
 V   V 
dV =   dT +   dP (2.5.11)
 T  P  P T

Per la legge di Boyle-Mariotte e di Charles risulta

 V  V V  V  V
  =  V0 = 0 =   =−
 T  P T0 T  P T P

19
per cui la (2.5.11) diventa
V V
dV = dT − dP
T P

Separando le variabili ed integrando si perviene infine alla relazione

PV
=C (2.5.14)
T

C essendo una costante il cui valore si può determinare calcolando il prodotto ( PV / T )


nello stato delle c.n.:
PV Pv
C= 0 0 =N 0 0 (2.5.15)
T0 T0
Per la legge di Avogadro la quantità
Pv
R= 0 0 (2.5.16)
T0

riferentesi ad 1 kmol di gas in c.n. è una quantità costante, indipendente dalla natura
chimica del gas considerato, e per questo motivo denominata costante universale dei
gas. Sostituendo i valori P0 = 101325 N/ m2 , v0 = 22.414 m3 / kmol , T0 = 273.15 K si
ottiene:
R = 8.314 kJ/(K kmol) = 1.98 kcal/(K kmol) = 848 kg p m/(K kmol)

In base alla (2.5.15) ed alla (2.5.16) la (2.5.14) si può scrivere come

PV = N R T (2.5.17)

dove la temperatura T è espressa in gradi Kelvin. La (2.5.17) costituisce l’equazione di


stato dei gas perfetti riferita ad N kmol di gas.
Nelle applicazioni pratiche risulta più utile riferire l’equazione di stato dei gas
perfetti alla massa m del gas. Se quest’ultimo è costituito da N kmol ed ha massa
atomica o molecolare Mol (kg/ kmol) , risulta: N = m / Mol . Sostituendo questa
relazione nella (2.5.17) si ottiene
PV = m RT (2.5.18)

dove R = R / Mol kJ/ (Kkg) è il valore numerico della costante universale dei gas
riferita ad 1 kg del gas in esame (costante specifica del gas). Dividendo infine ambo i
membri della (2.5.18) per m si ottiene l’equazione di stato dei gas perfetti riferita
all’unità di massa di gas:
P v = RT

La deviazione del comportamento dei gas reali da quello del gas perfetto viene
quantificata introducendo il fattore di compressibilità Z definito come

20
Pv
Z=
R T

che è identicamente uguale ad 1 per un gas perfetto. Se è noto il coefficiente di


compressibilità di un gas reale allora la
sua equazione di stato può essere scritta
in una forma simile a quella del gas
perfetto
P v = ZRT

In figura è riportato il coefficiente Z di


diversi gas in funzione della “pressione
ridotta” e della “temperatura ridotta” e
cioè rispetto alla pressione ed alla
temperatura normalizzate rispetto ai
valori del punto critico (PK, TK) (vedi
Cap. 5). Com’è evidente, il coefficiente
di compressibilità di differenti gas è
praticamente coincidente (legge degli
stati corrispondenti). Inoltre, il
comportamento da gas perfetto è ben
approssimato ( Z  1) a basse pressioni
e/o alte temperature mentre le maggiori
deviazioni si riscontrano in
corrispondenza del punto critico.

2.6 Coefficienti elastici e calorimetrici di una sostanza.


Si tratta di grandezze che descrivono proprietà materiali di un sistema e ne
caratterizzano il comportamento in risposta ad una sollecitazione meccanica o termica.
L’interesse verso questi coefficienti risiede nel fatto che, essendo sperimentalmente
misurabili, consentono una determinazione indiretta delle equazioni di stato del sistema.
Per un sistema semplice i principali coefficienti materiali sono:

1 − Coefficiente di dilatazione isobaro


Quantifica le variazioni di volume (a pressione costante) di una sostanza in risposta ad
una variazione di temperatura
1  V  1  v 
=   =   (K −1 )
V  T  P v  T  P

Nel caso di un gas perfetto usando l’equazione di stato P v = RT si ottiene  = 1/ T .


L’acqua tra 0 e 4  C ha un comportamento anomalo (   0) .

2 − Coefficiente di tensione isometrico


Quantifica le variazioni di pressione (a volume costante) di una sostanza in risposta ad

21
una variazione di temperatura
1  P 
=   (K −1 )
P  T V

Nel caso di un gas perfetto usando l’equazione di stato P v = RT si ottiene  = 1/ T .

3 − Coefficiente di comprimibilità isoterma


Quantifica le variazioni di volume (a temperatura costante) di una sostanza in risposta
ad una variazione di pressione
1  V  1  v 
T = −   = −   (Pa −1 )
V  P T v  P T

Il coefficiente  T è sempre positivo. Nel caso di un gas perfetto usando l’equazione di


stato P v = RT si ottiene T = 1/ P .

4 − Coefficiente di comprimibilità isoentropico


Quantifica le variazioni di volume (a entropia costante) di una sostanza in risposta ad
una variazione di pressione
1  V  1  v 
S = −   = −   (Pa −1 )
V  P  S v  P  S

Il coefficiente  S è sempre positivo e determina la velocità del suono vs nei materiali


( vs = 1/   s ) .

5 − Calore specifico e calore molare a pressione costante


E’ la quantità di calore necessaria per elevare di un grado la temperatura dell’unità di
massa di una sostanza a pressione costante.

1  Q  T  S   s 
cP =   =   = T  (kJ/kg C)
m  dT  P m  T  P  T  P

Ricordando che N = m / Mol la quantità di calore necessaria per elevare 1 kmol di


sostanza di 1  C (calore molare) è pari a

1  Q  Mol  S 
CP =   =   = Mol cP (kJ/ kmol  C)
N  dT  P m  T  P

6 − Calore specifico e calore molare a volume costante


E’ la quantità di calore necessaria per elevare di un grado la temperatura dell’unità di
massa di una sostanza a volume costante.

1  Q  T  S   s 
cV =   =   = T  (kJ/kg C)
m  dT V m  T V  T V

22
La caloria è la quantità di calore necessaria ad elevare di 1  C (da 14.5  C a 15.5  C )
1 g di acqua. Ricordando che N = m / Mol la quantità di calore necessaria per elevare
1 kmol di sostanza di 1  C (calore molare) è pari a

1  Q  Mol  S 
CV =   =   = Mol cV (kJ/ kmol  C)
N  dT V m  T V

I coefficienti elastici e calorimetrici sono funzioni, in generale, della temperatura e della


pressione:  =  (T , P) ,  =  (T , P) , etc. E’ possibile dimostrare che dei sei coefficienti
materiali definiti solo tre sono indipendenti, essendo collegati dalle seguenti tre
relazioni
vT 2  T cP
 = P T cP − cV = = =k
T  S cV

Sostituendo l’ultima nella penultima si ottiene anche la relazione T −  S = (vT 2 ) / cP .


Si noti come, poiché T  0 , risulti sempre cP  cV ovvero k = cP / cV  1 .
I calori specifici cP e cV sono solo due dei possibili calori specifici pertinenti ad un
sistema. Come è già stato detto, in generale il calore scambiato da un sistema non è una
funzione di stato ( Q non è un differenziale esatto). Esso dipenderà dalla particolare
trasformazione che il sistema sta seguendo. Di conseguenza, ogni possibile
trasformazione in cui il sistema scambia calore con l’ambiente è caratterizzata da un
differente valore del calore specifico.
Dato un corpo omogeneo di massa m e di calore specifico c il prodotto cm prende
il nome di capacità termica (kJ/ C) . La capacità termica di un corpo è dunque la
quantità di calore necessaria per elevarne di un grado la temperatura. Un corpo di
capacità termica infinita prende il nome di sorgente termica (o serbatoio di calore). Una
sorgente termica ha la proprietà di cedere o assorbire quantità illimitate di calore senza
che la sua temperatura subisca variazioni. In pratica, una grande massa di una sostanza
di elevato calore specifico può approssimare un serbatoio termico (ad esempio, una
grande massa d’acqua che è tra le sostanze che hanno un elevato calore specifico).

2.7 La funzione di stato entalpia


Nelle applicazioni ingegneristiche risulta particolarmente conveniente far riferimento ad
una funzione di stato che prende il nome di entalpia. Per definire l’entalpia di un
generico sistema termodinamico consideriamo il primo principio della termodinamica

dU = Q − PdV (2.7.1)

Se il sistema compie una trasformazione finita da uno stato iniziale 1 ad uno stato finale
2 il calore scambiato varrà
2 2
Q =  dU +  PdV (2.7.2)
1 1

23
Se, in particolare, la trasformazione è a pressione costante la relazione precedente
diventa
(Q) P = (U 2 − U1 ) + P(V2 − V1 ) = (U 2 + P2V2 ) − (U1 + P1V1 ) (2.7.3)

Dal momento che le variabili U , P e V sono specificate dallo stato del sistema e sono
indipendenti dal modo (trasformazione) in cui il sistema perviene nello stato considerato
la quantità U + PV è una funzione di stato. Essa prende il nome di entalpia e viene
indicata con il simbolo H :
H = U + PV (2.7.4)

La (2.7.3) ci dice allora che il calore scambiato dal sistema in una trasformazione
isobara ( P = cost) eguaglia la sua variazione di entalpia

H 2 − H1 = (Q) P o dH = (Q) P (2.7.5)

Da questa relazione e dall’analoga per l’energia interna relativa a trasformazioni isocore

dU = (Q + PdV )V = (Q)V


segue
1  H   h  1  U   u 
cP =   =  cV =   =  (2.7.7)
m  T  P  T  P m  T V  T V

Per una sostanza incompressibile e cioè per una sostanza di volume specifico v (o
densità  ) costante (liquidi e solidi) si assume che l’energia interna dipenda solo dalla
temperatura. Dalla seconda delle (2.7.7) segue allora che per questo tipo di sostanze cV
dipende solo dalla temperatura
 u  du
cV (T ) =   
 T V dT

Per quanto riguarda l’entalpia, la relazione di definizione (2.7.4) indica che, pur essendo
u = u(T ) e v = cost , l’entalpia dipende da T e P :

h(T , P) = u(T ) + P v (2.7.9)

Per i solidi ed i liquidi risulta con buona approssimazione cP = cV = c . Infatti,


differenziando la (2.7.9) rispetto a T (a P = cost ) e tenendo conto delle (2.7.7) e (2.7.8)
si ottiene:
 h   du + Pdv + vdP  du
cP =   =  = = cV
 T  P  dT  P dT

2.8 Energia interna ed entalpia di un gas perfetto


L’energia interna (e l’entalpia) di un gas perfetto dipende solo dalla temperatura. Una

24
brillante verifica sperimentale di ciò fu eseguita da Joule nella celebre esperienza della
espansione libera di un gas.
Del gas è contenuto in un recipiente di volume V1 , collegato mediante un rubinetto
ad un altro recipiente di volume V2 ( 2V1 ) .
La pressione del gas nel primo recipiente è
P1 mentre il secondo recipiente è vuoto. Il
sistema dei due recipienti è immerso in un
calorimetro ad acqua (isolato termicamente)
fornito di un termometro.
All’apertura del rubinetto il gas si
diffonde, espandendosi, fino ad occupare
entrambi i recipienti. La trasformazione
avviene senza scambio di energia
meccanica in quanto non esiste alcuna
pressione esterna che compie lavoro opponendosi all’espansione del gas. Inoltre durante
il processo la temperatura dell’acqua non subisce variazioni ad indicare che non si
verifica alcuno scambio di calore tra il gas e l’acqua. Applicando allora il primo
principio della termodinamica al gas in espansione libera si ottiene, essendo L = Q = 0 :

U = 0

La variazione di energia interna del gas è pertanto nulla. Poiché nel processo di
diffusione non si registra alcuna variazione di temperatura, mentre sono notevoli le
variazioni di volume e di pressione, se ne conclude che l’energia interna di un gas
perfetto non dipende né dal volume né dalla pressione ma è funzione solo della
temperatura
dU
U = U (T ) con dU = dT (2.8.1)
dT

Per determinare la forma di questa funzione osserviamo che dalla seconda delle (2.7.7)
segue che per un gas perfetto cV dipende solo dalla temperatura

 u  du
cV (T ) =   
 T V dT
cosicché
du = cV (T )dT o dU = m cV (T ) dT (2.8.2)
o, in termini finiti
2
u2 − u1 =  cV (T )dT  cV (T2 − T1 )
1

dove l’ultima uguaglianza sulla destra () vale solo se il calore specifico cV si mantiene
costante sull’intervallo di temperatura considerato (oppure se è il valore medio
sull’intervallo). L’energia interna di un gas perfetto dipende dunque, solo dalla
temperatura attraverso il calore specifico a volume costante (analogamente a quanto
trovato per le sostanze incompressibili).

25
Per quanto riguarda l’entalpia di un gas perfetto, usando l’equazione di stato
Pv = R'T si ha
h = u + Pv = u + R'T

poiché R' è costante ed u = u(T ) ne consegue che al pari della energia interna, anche
l’entalpia di un gas perfetto è funzione solo della temperatura h = h(T ) . Per determinare
la forma di questa funzione osserviamo che dalla prima delle (2.7.7) segue che per un
gas perfetto cP dipende solo dalla temperatura

 h  dh
cP (T ) =   
 T  P dT
cosicché
dh = cP (T )dT o dH = m cP (T ) dT (2.8.2)
o, in termini finiti
2
h2 − h1 =  cP (T )dT  cP (T2 − T1 )
1

Dove l’ultima uguaglianza sulla destra () vale solo se il calore specifico cP si
mantiene costante sull’intervallo di temperatura considerato (oppure se è il valore medio
sull’intervallo). L’entalpia di un gas perfetto dipende dunque, solo dalla temperatura
attraverso il calore specifico a pressione costante.

2.9 Calori specifici del gas perfetto


Nel caso dei gas perfetti è possibile dedurre in modo immediato la relazione che lega i
calori molari a pressione costante C p (T ) ed a volume costante Cv (T ) . L’entalpia di
1 kmol di gas perfetto è
H = U + PV = U + RT
Differenziando si ottiene
dH = dU + RdT

cioè, tenendo conto che per un gas perfetto dH = CP dT e dU = CV dT

C P dT = CV dT + RdT
da cui
CP − CV = R (2.9.1)

nota come relazione di Mayer. Da essa si evince come risulti sempre CP  CV .


Dividendo ambo i membri per il peso molecolare Mol del gas si ottiene la relazione
analoga per i calori specifici
c P − cV = R' (2.9.2)

Determiniamo adesso il valore numerico dei calori specifici per gas perfetto. Poiché tra

26
le molecole di un gas perfetto non esiste alcun tipo di interazione l’energia totale di una
molecola coincide con la sua energia cinetica di traslazione

1 1 1 1 
E= m | v |2 =  mvx2 + mvy2 + mvz2 
2 2 2 2 

L’espressione scritta mostra come molto spesso l’energia sia esprimibile in forma
quadratica rispetto a determinate variabili. Ad esempio, l’energia di rotazione è del tipo
(1/ 2) I 2 , quella potenziale di un oscillatore armonico (1/ 2) k 2 , etc. Ora, un
importante risultato della meccanica statistica, il teorema di equipartizione dell’energia,
afferma che, dato un sistema costituito da un numero elevatissimo di particelle (al limite
infinito), ad ogni termine quadratico dell’energia corrisponde in media lo stesso valore
pari a (1/ 2) kBT dove k B è la costante di Boltzmann (kB = 1.3805 10−23 J/K) . Nel
nostro caso
1 2 1 1 2 1 1 2 1
mvx = k BT mv y = k BT mvz = k BT
2 2 2 2 2 2

dove il trattino indica il valor medio della variabile. A ciascuna particella corrisponde
dunque in media l’energia
3
E = k BT (2.9.3)
2

La temperatura si può considerare dunque una grandezza proporzionale all’energia


cinetica media traslazionale delle molecole. Il fattore 3 che compare in questa
equazione corrisponde al fatto che ogni particella, considerata puntiforme, ha solo tre
gradi di libertà, quelli di traslazione. Nella realtà, però, le molecole hanno un struttura
fisica e possono, in generale, anche ruotare od oscillare. Se allora sono f i gradi di
libertà di una singola particella, la (2.9.3) va generalizzata come

f
E= k BT
2

Nel caso di una mole di gas (contenente un numero di Avogadro N A di molecole) si


avrà evidentemente
f f
U = N A E = N Ak BT = RT
2 2

dal momento che risulta N AkB = R = 8.314 J/(Kmol) . Questa espressione mostra come
l’ energia interna di un gas perfetto dipenda solo dalla temperatura (risultato già dedotto
da Joule mediante argomentazioni di carattere macroscopico). Da essa è possibile
ottenere facilmente il valore di CV
 U  f
CV =   = R (2.9.4)
 T V 2
e di C P

27
f  f +2
CP = CV + R = R+R = R
2  2 

Le espressioni scritte mostrano come i calori molari dei gas perfetti dovrebbero essere
indipendenti dalla temperatura. In effetti, questo risultato risulta verificato
sperimentalmente solo dai gas monoatomici. Per quanto riguarda gli altri gas si rileva
che i calori specifici aumentano lentamente con la temperatura fino a mantenersi
costanti a temperature molto alte. Questo comportamento può essere spiegato solo
tenendo conto del fatto che l’energia di un sistema microscopico può assumere solo
valori discreti (è quantizzata) e questo comporta la non validità del principio di
equipartizione della energia.
Ciò spiega, ad esempio, l’andamento sperimentale del calore specifico di un gas
biatomico, che è del tipo indicato in figura. Una molecola biatomica possiede 7 gradi di
libertà di cui 3 di traslazione (del
baricentro) 2 di rotazione (attorno ad
assi ortogonali fra loro ed al segmento
congiungente i due atomi) e 2 di
vibrazione (cinetica e potenziale).
Secondo la (2.9.4) il calore molare
CV dovrebbe essere indipendente da
T e pari a (7 / 2) R . In realtà, a basse
temperature l’energia termica media
non è sufficiente per eccitare anche al
più basso valore possibile né le
rotazioni né le vibrazioni. La
molecola si comporta come una particella puntiforme (solo 3 gradi di libertà
traslazionali) ed il calore molare vale (3 / 2) R . Al crescere di T si raggiungerà un
valore TR tale che l’energia media è sufficiente per eccitare le rotazioni ma non le
vibrazioni. La molecola si comporterà allora come se avesse 5 gradi di libertà e CV
varrà (5 / 2) R (questa è la situazione per la maggior parte dei gas biatomici a
temperature ordinarie). Infine, a temperature ancora più alte si raggiungerà un valore TV
(che può essere dell’ordine di 1000 K ) tale che l’energia media è sufficiente ad eccitare
(negli urti violenti) anche le vibrazioni e CV raggiungerà il valore classico (7 / 2) R .

Gas monoatomici Gas biatomici Gas poliatomici


Ar, He, Ne, etc. Aria, CO, H2 , etc. CO2 , NH3 , etc.
f 3 5 (a T ordinarie) 6 (a T ordinarie)
CV 3 / 2 R = 12.5 kJ/kmol K 5 / 2 R = 20.8 kJ/kmol K 6 / 2 R = 24.1 kJ/kmol K
CP 5 / 2 R = 20.8 kJ/kmol K 7 / 2 R = 29.1 kJ/kmol K 8 / 2 R = 33.3 kJ/kmol K
k 1.67 1.40 1.33

Si noti come più elevato è il peso molecolare del gas (più complessa è la molecola) più
k diventa prossimo a 1 . Per i freon, ad esempio, Mol  100 kg/ kmol e k  1.2 .
Un analogo ragionamento si può fare per i solidi i cui atomi, potendo solo vibrare in

28
3 direzioni, possiedono 6 gradi di libertà. Il calore molare CV dovrebbe avere il valore
costante (6 / 2) R (legge di Dulong e Petit). In effetti il valore dedotto è in ottimo
accordo con i valori sperimentali solo ad alte temperature mentre decresce a basse
temperature.

2.10 Le trasformazioni politropiche di un gas perfetto


Le equazioni delle politropiche descrivono le trasformazioni di un gas perfetto che
avvengono a calore specifico costante e che vengono definite trasformazioni
politropiche. L’equazione di una politropica può essere ottenuta dal primo principio
della termodinamica per un gas perfetto che riscriviamo riferendolo a 1 kg di sostanza

q = cV dT + Pdv (2.10.1)

Questa equazione può essere scritta in una forma equivalente in cui compare il calore
specifico a pressione costante cP . Tenendo conto, infatti, della relazione di definizione
dell’entalpia
h = u + Pv
si ha
dh = du + Pdv + vdP
o, nel caso di un gas perfetto
cP dT = q − Pdv + Pdv + vdP
e cioè
q = cP dT − vdP (2.10.2)

Il calore scambiato lungo un tratto infinitesimo della politropica vale

q = cn dT

dove cn è il calore specifico assegnato e costante della politropica. Inserendo tale


espressione nelle (2.10.1) e (2.10.2) queste assumono la forma

cn dT = cP dT − vdP
cn dT = cV dT + Pdv
ossia
(cn − cP )dT = − vdP
(cn − cV )dT = Pdv
Dividendo membro a membro
(cn − cP ) vdP
=−
(cn − cV ) Pdv
e separando le variabili si ottiene
dP dv
= −n (2.10.3)
P v

29
avendo posto
cn − cP
n= (2.10.4)
cn − cV

che prende il nome di indice (o esponente) della politropica. L’integrazione della


(2.10.3) è immediata e fornisce
Pvn = cost (2.10.5)

che è l’equazione cercata per la politropica. Questa equazione può essere espressa anche
in funzione delle coppie di variabili (T ,V ) e ( P, T ) applicando l’equazione di stato dei
gas perfetti:
 n 
 
Tv n−1 = cost PT  1−n  = cost

Dalla (2.10.5) si può dedurre facilmente l’espressione corrispondente per il lavoro


(specifico) di espansione o compressione del gas:

2
2 2
 v1−n  P1v1n 1−n
l12 =  Pdv = P v  v dv = P v 
n −n n
 = ( v1 − v12−n ) =
1 − n 1 n − 1
1 1 1 1
1 1

1 1 R'
= ( P1v1n v11−n − P2 v2n v12−n ) = ( P1v1 − P2 v2 ) = (T1 − T2 ) (2.10.6)
n −1 n −1 n −1

Una ulteriore espressione di l12 può essere ricavata a partire dal primo principio come
segue
l12 = q12 − (u2 − u1 ) = cn (T2 − T1 ) − cV (T2 − T1 ) = (cn − cV )(T2 − T1 ) (2.10.7)

L’indice n della politropica può variare tra 0 e   a seconda del valore di cn in


conformità alla (2.10.4). Esaminiamo i casi più significativi.

− (cn = 0) . Questo valore del calore specifico caratterizza le trasformazioni adiabatiche


che avvengono, cioè, senza scambio di calore. In tal caso la (2.10.4) fornisce

cP
n= = k 1
cV
e la (2.10.5) diventa
Pvk = cost

che è, per l’appunto, l’equazione delle adiabatiche per un gas perfetto. Le espressioni
(2.10.6) e (2.10.7) del lavoro di espansione diventano in questo caso (tenendo conto che
cn = 0 )
1 R'
l12 = ( P1v1 − P2 v2 ) = (T1 − T2 ) l12 = −cV (T2 − T1 ) = −du
k −1 k −1

L’ultima relazione mostra che il lavoro è uguale e di segno contrario alla variazione di

30
energia interna, dal momento che in una trasformazione adiabatica non vi è scambio di
calore con l’ambiente.

− (cn  ) . Questo valore del calore specifico caratterizza le trasformazioni isoterme (il
sistema scambia calore con l’ambiente ma non varia la propria temperatura). Dalla
(2.10.4) si ottiene in tal caso
 c − cP 
n = lim  n  =1
cn → cn − cv 
 
e la (2.10.5) diventa
Pv = cost

che è l’equazione delle isoterme per un gas perfetto (legge di Boyle). Il lavoro di
espansione del gas non si può dedurre in questo caso dalla (2.10.6), dal momento che
quest’ultima presenta una singolarità per n = 1 , ma va calcolato come

v2 v
2 2
P
l12 =  Pdv = P1v1  v −−1dv = P1v1 ln = R'T1 ln 2 = R'T1 ln 1
1 1
v1 v1 P2
Risulta inoltre
q − l = du = cv dT = 0

In una trasformazione isoterma, cioè, il lavoro e il calore scambiati sono uguali.

− (cn = cP ) . Questo valore del calore specifico caratterizza le trasformazioni isobare.


Dalla (2.10.4) si ottiene in tal caso
n=0
e la (2.10.5) diventa:
P = cost

In questo caso il lavoro di espansione e il calore scambiato valgono

2 2
l12 =  Pdv = P1  dv = P1 ( v2 − v1 ) = P2 ( v2 − v1 ) q12 = cP (T2 − T1 )
1 1

− (cn = cV ) Questo valore del calore specifico caratterizza le trasformazioni isocore.


Dalla (2.10.4) si ottiene in tal caso
n=

Per ricavare l’equazione della trasformazione estraiamo la radice n -esima di ambo i


membri della (2.10.5):
P1/ n v = cost
Il limite per n →  fornisce:
P0 v = v = cost

Il lavoro di espansione è ovviamente nullo in questo caso (dv = 0) mentre il calore

31
scambiato lungo la trasformazione eguaglia la variazione di energia interna

q12 = cV (T2 − T1 ) = u2 − u1

Nei quadranti I e III del grafico sottostante sono tracciate le curve rappresentative delle
quattro trasformazioni descritte caratterizzate da n  0 . Dalla (2.10.4) scritta nella
forma
n−k
c n = cV
n −1

si può dedurre come nel settore a , comprendente le trasformazioni con 0  n  1 , risulti


cn  0 . Nel settore b , invece, in cui per 1  n  k si ha cn  0 . Nel settore c , infine,
dove n  k si ha ancora cn  0 . Negli altri due quadranti, relativi a valori negativi
dell’esponente n , cadono trasformazioni estremamente improbabili in quanto

richiedono che P e V aumentino oppure diminuiscano contemporaneamente.


Nel diagramma T , S (piano di Gibbs) si ha che le isoterme e le adiabatiche
corrispondono ovviamente a rette parallele agli assi. Per individuare le altre
trasformazioni osserviamo che è possibile scrivere

q dT
ds = = cn
T T

Separando le variabili ed integrando tra due generici stati si ottiene

T
dT
s
ds  s − s0 
T T = s c n ovvero T = T0 exp 
 cn 

0 0

Nel piano di Gibbs, dunque, le trasformazioni politropiche sono rappresentate da curve


esponenziali. In particolare, poiché risulta sempre cP  cV , la pendenza delle isocore
sarà maggiore di quella delle isobare.

32
CAPITOLO 3

IL II PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA


3.1 Enunciati storici del II principio della termodinamica
Il primo principio della termodinamica stabilisce la validità generale del principio di
conservazione dell’energia. In esso viene posta in evidenza la natura energetica del
calore e la sua equivalenza al lavoro meccanico. Tuttavia, a causa della sua generalità,
l’informazione che il I principio fornisce non è completa. Sebbene ci dica che l’energia
si conserva in ogni processo (non può essere creata né distrutta), non è in grado di
affermare se quest’ultimo possa o meno verificarsi spontaneamente. Il I principio, cioè,
non è in grado di stabilire la direzione in cui evolvono i processi naturali ossia di
individuare la cosiddetta “freccia” del tempo”.
La nostra esperienza ci suggerisce, invero, che i processi fisici evolvono tutti
spontaneamente in una direzione ben definita e mai in direzione opposta: il calore passa
da un corpo caldo ad uno freddo, un fluido scorre da una regione di alta pressione ad
una di bassa pressione, etc. Il tempo sembra scorrere, cioè, in una direzione privilegiata.
Viene naturale allora considerare il caso limite di trasformazioni che possono
indifferentemente evolvere spontaneamente in entrambe le direzioni. Tali
trasformazioni ideali verranno definite reversibili per differenziarle dai processi reali
che, conseguentemente, verranno definiti irreversibili. Per individuare quali condizioni
definiscono una trasformazione reversibile 1 → 2 è sufficiente riflettere sul fatto che
quando idealmente si inverte la direzione del tempo (e cioè si osserva il processo
evolvere spontaneamente in direzione opposta) si rileverà che:
(a) il sistema e l’ambiente ritornano dai rispettivi stati finali ai rispettivi stati iniziali
ripercorrendo in senso inverso tutti gli stati (di equilibrio e/o non-equilibrio) percorsi
nella trasformazione diretta.
(b) non è possibile rilevare alcuna “traccia “ della duplice trasformazione 1 → 2 e
2 → 1 né nel sistema né nell’ambiente. In altre parole, se nella trasformazione diretta
1 → 2 il sistema scambia con l’ambiente una quantità di lavoro L ed una quantità di
calore Q , nella trasformazione inversa 2 → 1 esso scambia con l’ambiente una quantità
di lavoro − L ed una quantità di calore − Q .
Se un processo può essere invertito in modo da soddisfare i requisiti (a) e (b)
allora esso è detto reversibile. In generale, le condizioni iniziali di un sistema possono
essere sempre ripristinate, ma con processi non-spontanei che comportano
modificazioni permanenti nell’ambiente (che non ritorna nello stato iniziale).
Il I principio non è in grado di stabilire se una trasformazione sia reversibile o
meno. Esso informa solo che in qualunque processo fisico l’energia si conserva. Ma, ed
è questo il punto fondamentale, se l’energia non può essere né creata ne distrutta, essa
può trasformarsi da una forma ad un'altra e trasferirsi da un sistema ad un altro. E
l’osservazione dei fenomeni naturali rivela che, sebbene le varie forme di energia siano
quantitativamente equivalenti ( 1 joule di energia elettrica è quantitativamente
equivalente a 1 joule di energia meccanica, termica, etc.) esse non lo sono dal punto di
vista della disponibilità ad essere convertite da una forma all’altra. Esistono, cioè, forme
di energia che possono essere trasformate integralmente in altre forme, come l’energia
meccanica, ma esistono forme di energia per cui tale possibilità illimitata non esiste,
come l’energia interna. Ne consegue che un processo in cui energia del primo tipo viene
convertita in energia del secondo tipo è un processo irreversibile. In un tale processo,
infatti, l’energia viene degradata in una forma che non è più totalmente disponibile (o
utilizzabile) per essere ritrasformata in energia del primo tipo.

33
Il principio fisico che precisa le limitazioni delle trasformazioni dell’ energia nei
processi termodinamici stabilendo, in particolare, le restrizioni nella utilizzazione della
energia degradata, è il II principio della termodinamica. Così come il I principio, con lo
stabilire in forma generale la conservazione della energia, esclude la possibilità di un
moto perpetuo di prima specie, in cui, cioè, energia verrebbe creata dal nulla, il II
principio, con lo stabilire l’irreversibilità di alcune forme di conversione energetica,
esclude la possibilità di un moto perpetuo di seconda specie, col quale le enormi riserve
di energia interna dei sistemi potrebbero essere integralmente utilizzate.
Esistono differenti modi equivalenti di formulare un tale principio. Essenzialmente,
si tratta di postulare un’irreversibilità in specifici processi fisici. Gli enunciati storici del
II principio sono l’enunciato di Kelvin/Planck e l’enunciato di Clausius.

− Enunciato di Kelvin-Planck. “E’ impossibile realizzare una trasformazione ciclica il


cui unico risultato sia quello di convertire in lavoro tutto il calore sottratto da un’unica
sorgente termica”.
Benchè l’enunciato di Kelvin-Planck vieti il moto perpetuo di seconda specie esso
non esclude la possibilità che un sistema produca un lavoro netto positivo assorbendo
calore da un’unica sorgente. Esso esclude, però, che ciò possa avvenire con una
trasformazione ciclica (il lavoro netto può essere al più negativo o nullo).
Questo enunciato può essere utilizzato per mettere in rilievo la irreversibilità del
processo di conversione di energia meccanica (lavoro) in energia interna (calore) per il
tramite di effetti dissipativi quali attrito, viscosità, diffusione, miscelazione,
deformazione anelastica, reazione chimica spontanea, espansione libera di un gas,
passaggio di corrente in resistori, isteresi magnetica, etc. Consideriamo, ad esempio, un
sistema costituito da una massa m e da un piano inclinato. Immaginiamo che la massa
scivoli giù a partire dalla sommità fino ad arrestarsi alla base. Un semplice bilancio
energetico informa che l’energia potenziale della massa è stata trasformata a causa
dell’attrito in energia interna della massa e del piano (U 2 − U1 = mgh) , che si
ritroveranno ad una temperatura più elevata di quella di partenza. Immaginiamo, per
assurdo, che questo processo sia reversibile, e cioè, che l’energia interna guadagnata dal
sistema massa-piano possa essere riconvertita integralmente in energia potenziale della

massa che si ritroverà alla fine del processo inverso sulla sommità del piano. Se
disponiamo di una sorgente termica e di una puleggia la reversibilità del processo può
essere sfruttata per costruire una macchina termica che produce lavoro scambiando
calore con un’unica sorgente. La macchina opera secondo le seguenti 3 fasi: (1) Nella
fase iniziale il blocco, partendo dalla quota inferiore, si porta spontaneamente alla quota
superiore cosicché alla fine del processo l’energia interna del sistema massa-piano vale
U 1 . (2) Viene impiegata una puleggia per abbassare la massa alla quota inferiore e
sollevare una seconda massa situata nell’ambiente. Il lavoro fatto dal sistema sulla

34
seconda massa è pari al decremento di energia potenziale della prima massa: L = mgh .
(3) Si pone ora il problema di riportare il sistema nelle condizioni iniziali al fine di
realizzare una trasformazione ciclica. Si può pensare allora di trasferire una quantità di
calore Q = U 2 − U1 = mgh al sistema massa-piano mediante una sorgente termica per
incrementarne l’energia interna al valore iniziale U 2 . Il risultato complessivo di questo
ciclo è di assorbire calore da un’unica sorgente termica e di produrre un ammontare
equivalente di lavoro, violando così l’enunciato di Kelvin-Planck. Resta dimostrata così
l’irreversibilità della conversione di energia meccanica in calore ad opera di processi
dissipativi quali attrito, viscosità, etc.

− Enunciato di Clausius. “E’ impossibile realizzare una trasformazione il cui unico


risultato consista nel passaggio spontaneo di calore da un corpo a temperatura minore ad
uno a temperatura maggiore”.
La formulazione dovuta a Clausius, dunque, asserisce la irreversibilità del flusso di
calore da corpi più caldi a corpi più freddi. Il flusso di calore, cioè, è un processo che
avviene spontaneamente da livelli di temperatura più alti a livelli di temperatura più
bassi. Tale processo è irreversibile ed è necessario modificare in maniera permanente
l’ambiente esterno (compiere del lavoro) per invertirne le direzione.

I due enunciati sono perfettamente equivalenti e si può facilmente dimostrare che la


violazione dell’uno comporta la violazione anche dell’altro e viceversa. Essi ci aiutano
ad individuare le cause di irreversibilità delle trasformazioni.
Per quel che concerne i processi di scambio termico la formulazione dovuta a
Clausius implica che questi ultimi, per essere reversibili, devono essere isotermi, le
differenze di temperatura essendo causa di irreversibilità. Le temperature del sistema e
dell’ambiente, pertanto, devono essere uguali o al più differire per un infinitesimo dT
in ogni istante della trasformazione (equilibrio termico). Sotto queste condizioni, gli
scambi termici divengono infinitamente lenti ed approcciano processi quasi-statici.
Per quel che concerne gli scambi di energia di tipo lavoro la formulazione dovuta a
Kelvin/Planck implica che questi processi, per essere reversibili, devono avvenire in
assenza di attrito, diffusione, viscosità, etc. che, dissipando lavoro in calore,
“degradano” l’energia rendendola meno utilizzabile. Inoltre, le variabili intensive del
sistema devono differire per non più di un infinitesimo da quelle dell’ambiente. Si può
dimostrare, ad esempio, che pur in assenza di attrito, l’espansione di un gas può essere
resa reversibile solo se la pressione del gas differisce per non più di un infinitesimo da
quella dell’ambiente (equilibrio meccanico) in ogni istante della trasformazione che, di
conseguenza, deve essere quasi-statica. D’altro canto, solo nel caso di trasformazioni
quasi-statiche è possibile riportare il sistema e l’ambiente nei rispettivi stati iniziali
lungo il percorso seguito nella trasformazione diretta. In conclusione, un processo è
reversibile se è quasi-statico ed avviene in assenza di effetti dissipativi.
Una trasformazione viene definita internamente reversibile se nessuna
irreversibilità si verifica all’interno del suo contorno (pur potendosi verificare
nell’ambiente). Una trasformazione quasi-statica è anche internamente reversibile dal
momento che, non potendo verificarsi squilibri delle proprietà intensive all’interno del
sistema (causa di irreversibilità), queste devono rimanere uniformi in ogni istante della
trasformazione, che procede, dunque, attraverso stati di equilibrio. Non tutti i processi
quasi-statici, però, sono reversibili.

35
3.2 Il ciclo di Carnot
E’ possibile dimostrare che la direzione spontanea o naturale di qualsiasi cambiamento
di stato è quella che conduce all’incremento massimo di una speciale funzione di stato
del sistema che prende il nome di entropia.
Nella genesi storica del concetto di entropia un ruolo di importanza critica fu
giocato da una particolare macchina termica ideale che prende il nome di macchina di
Carnot, dal nome del suo ideatore, l’ingegnere francese Sadi
Carnot (1824). Carnot riflettè sui principi che governano il
funzionamento delle macchine a vapore e cioè di quelle macchine
che, mediante trasformazioni cicliche di un fluido (fluido di
lavoro) e scambi di calore con sorgenti termiche, realizza con
continuità una conversione di calore in lavoro. Carnot identificò il
“flusso di calore” come il processo fisico fondamentale richiesto
per la generazione di “potenza motrice” o “lavoro” nella
terminologia attuale. Egli analizzò l’ammontare di lavoro generato
da tali macchine termiche e concluse che doveva esistere un limite
fondamentale al lavoro massimo che poteva essere ottenuto dal
flusso di un determinato ammontare di calore. Il grande merito di
Carnot fu di aver intuito che tale limite era indipendente dalla
macchina e dalla maniera in cui il lavoro era ottenuto; esso
dipendeva solo dalle temperature delle sorgenti termiche tra cui
aveva luogo il flusso di calore.
L’analisi di Carnot procede come segue. Poiché un flusso di calore può aver luogo
solo se esiste una differenza di temperatura, qualunque macchina termica che produca
lavoro deve funzionare con l’ausilio di almeno due sorgenti termiche (macchina
bitermica) a differenti temperature T1 e T2 (T1  T2 ) secondo lo schema simbolico
riportato in figura. In ogni ciclo il sistema riceve dalla sorgente a temperatura T1
(serbatoio “caldo”) la quantità di calore | Q1 | , cede alla sorgente a temperatura T2
(serbatoio “freddo”) la quantità di calore | Q2 | e produce un certo lavoro netto positivo
| L | . Per il I principio applicato alla trasformazione ciclica deve risultare:

 dU =  Q − L = 0 (3.2.1)

essendo l’energia interna funzione di stato. Tenendo conto delle quantità di lavoro e
calore complessivamente scambiate, la (3.2.1) assume la forma

L = | Q1 | − | Q2 |

L’efficacia della macchina termica nel convertire calore in lavoro viene caratterizzata
definendo il rendimento  come rapporto tra il lavoro netto prodotto L ed il calore
| Q1 | assorbito in un ciclo
L | Q | − | Q2 | |Q |
= = 1 = 1− 2
| Q1 | | Q1 | | Q1 |

36
Questa relazione rappresenta l’espressione generale del rendimento di una macchina
bitermica. L’eneunciato di Kelvin/Planck equivale ad affermare l’impossibilità del
funzionamento di una macchina monotermica, cioè, di una macchina che scambia calore
con un’unica sorgente. Poiché deve necessariamente essere | Q2 | 0 , ne consegue che
una formulazione equivalente dell’enunciato di Kelvin/Planck è che il rendimento di
una macchina termica deve essere sempre inferiore alla unità.

Il secondo passo fu determinare che tipo di trasformazioni termodinamiche dovessero


essere realizzate dal fluido di lavoro della macchina per massimizzarne il rendimento
ossia per convertire in lavoro la massima frazione possibile del calore | Q1 | assorbito dal
serbatoio caldo. Carnot ideò una particolare macchina bitermica ideale (la macchina di
Carnot) che funzionava eseguendo un ciclo termodinamico costituito da quattro
trasformazioni reversibili: il ciclo di Carnot. Schematizzando la macchina con un
sistema cilindro-pistone contenente un gas perfetto, nell’ordine le trasformazioni sono:

1. Espansione isoterma reversibile. Posto il cilindro in contatto termico con la sorgente


calda a temperatura T1 si consente al fluido di compiere quella che Carnot definì una
“espansione reversibile infinitamente lenta” dal volume iniziale V1 fino al volume V2 .
Nell’espandersi il fluido assorbe dal serbatoio caldo la quantità di calore Q1 ( 0) e
compie un certo lavoro di espansione L1 ( 0) verso l’esterno. Applicando il primo
principio ad una trasformazione isoterma di un gas perfetto si ottiene:
V2 V2
dV V
| Q1 |=| L1 |=  PdV = mR'T1  = mR'T1 ln 2
V1 V1
V V1

2. Espansione adiabatica reversibile. Il fluido, rinchiuso in pareti adiabatiche, continua


ad espandersi producendo un lavoro L23 ( 0) verso l’esterno a spese della propria
energia interna. Ciò determina una diminuzione della temperatura del fluido la cui
espansione viene arrestata quando raggiunge la temperatura T2 del serbatoio freddo. Il
bilancio energetico impone che U 23 = − L23

3. Compressione isoterma reversibile. Il fluido, in contatto con il serbatoio freddo a


temperatua T2 , viene compresso isotermicamente fino al punto 4 (incrocio fra
l’isoterma a T2 e l’adiabatica passante per 1 ). Durante questa trasformazione il sistema

37
riceve dall’esterno un lavoro L2 ( 0) e cede del calore Q2 ( 0) al serbatoio freddo. Il
primo principio impone che:
V
| Q2 |=| L2 |= mR'T2 ln 3
V4

4. Compressione adiabatica reversibile. Il sistema viene compresso adiabaticamente


fino a farlo tornare allo stato iniziale 1 . Durante questa fase il sistema riceve un certo
ammontare di lavoro L41( 0) accrescendo la propria energia interna di U 41 = | L41 | .
Pertanto
Q T ln(V3 / V4 )
 = 1− 2 = 1− 2 (3.2.2)
Q1 T1 ln(V2 / V1 )

Si osservi ora che lungo le trasformazioni adiabatiche 1 - 4 e 2 - 3 risulta

T1V1K −1 = T4V4K −1 T2V2K −1 = T3V3K −1


da cui
V 2 V3
= (3.2.3)
V1 V4

Questo risultato è del tutto generale ed afferma nei cicli simmetrici (in cui le coppie di
trasformazioni opposte sono politropiche con lo stresso indice), vale l’uguaglianza del
prodotto incrociato delle variabili termodinamiche P,V , T :

P1 P3 = P2 P4 V1V3 = V2V4 T1T3 = T2T4

Applicando la (3.2.3) la (3.2.2) diventa


T2
 = 1− (3.2.4)
T1

e cioè, il rendimento della macchina di Carnot utilizzante un gas ideale risulta


indipendente dalle proprietà termofisiche del particolare gas impiegato (peso
molecolare, massa, etc.) e dagli altri parametri che identificano il ciclo (volumi
specifici, pressioni, etc.) ma è funzione esclusivamente delle temperature delle sorgenti
con cui avvengono gli scambi di calore. In particolare, il rendimento cresce
all’aumentare della temperatura T1 del serbatoio caldo ed al diminuire della temperatura
T2 del serbatoio freddo. In accordo con il II principio, il rendimento è comunque
inferiore ad 1 , valore che è il limite teorico per T1 →  oppure per T2 → 0 .
Poiché il lavoro netto è espresso graficamente dall’area racchiusa dal ciclo ne
consegue che tale lavoro è positivo ed è dato da

 T 
| L |=  | Q1 |= 1 − 2  | Q1 |
 T1 

38
Un ciclo di Carnot è sicuramente reversibile in quanto composto da trasformazioni tutte
reversibili; esso, pertanto, può essere invertito e funzionare da ciclo frigorifero
(frigorifero di Carnot). In questo caso esso trasferisce lo stesso ammontare di calore dal
serbatoio freddo a quello caldo assorbendo la medesima quantità di lavoro
Si può osservare, infine, come la macchina di Carnot sia l’unica macchina bitermica
reversibile che sia possibile concepire. Infatti, un ciclo per il quale l’introduzione e
l’estrazione di calore non avviene in modo isotermo non può essere reversibile se esso
lavora solo tra due serbatoi, mentre avrebbe bisogno, affinché sia possibile la
reversibilità, di un numero infinito di serbatoi. Per lo stesso motivo (solo due serbatoi
disponibili) le altre trasformazioni devono avvenire senza scambio di calore con
l’esterno e cioè devono essere delle trasformazioni adiabatiche.

3.3 Il teorema di Carnot


Il teorema di Carnot afferma che tra tutte le macchine bitermiche operanti tra due
sorgenti assegnate, il valore massimo del rendimento compete a quella che opera
reversibilmente e cioè alla macchina di Carnot.
Consideriamo una macchina di Carnot C ed
una macchina bitermica qualunque M entrambe
funzionanti tra due sorgenti aventi
rispettivamente temperature T1 e T2 con T1  T2 .
La macchina M lavora a ciclo diretto ricevendo
il calore Q1M dal serbatoio caldo, cedendo il
calore Q2M al serbatoio freddo e compiendo il
lavoro netto L . La macchina di Carnot lavora
invece a ciclo inverso (ciò è sempre possibile dal
momento che il ciclo di Carnot è reversibile)
ricevendo il lavoro L prodotto da M , sottraendo
il calore Q2 dal serbatoio freddo e cedendo il calore Q1C al serbatoio caldo. Detti  M e
C

C rispettivamente i rendimenti della macchina M e della macchina di Carnot,


ipotizziamo per assurdo che risulti M  C e cioè

L L
M = M
 C = C
| Q1 | | Q1 |
Ne consegue
| Q1M || Q1C | o | Q1C | − | Q1M | 0

Il sistema formato dalle due macchine M e C , pertanto, trasferisce ciclicamente una


quantità di calore pari a | Q1C | − | Q1M | dal serbatoio freddo a quello caldo. L’assunto
M  C contraddice dunque il II principio nella formulazione di Clausius, mentre
risulta vera la proposizione contraria:
C   M

Con lo stesso procedimento si può dimostrare il corollario del teorema di Carnot

39
affermante che tutte le macchine bitermiche reversibili operanti tra le stesse sorgenti
hanno lo stesso rendimento termico
Basta considerare due macchine di Carnot A e B caratterizzate da differenti fluidi
di lavoro, dimensioni, etc. Se si fa funzionare a ciclo invertito B facendola pilotare da
A e si ripete il ragionamento precedente si ottiene
 A  B

Se invece si inverte A , facendola pilotare da


B , si ottiene
 A  B

Le due relazioni sono soddisfatte


contemporaneamente solo se

 A = B

Resta così dimostrato che tutte la macchine


bitermiche reversibili (ossia tutte le macchine di Carnot) che funzionano tra due
temperature assegnate hanno lo stesso rendimento, indipendentemente dalle dimensioni
della macchina e dal fluido di lavoro impiegato.
Il rendimento del ciclo di Carnot è anche superiore a quello di qualsiasi ciclo
politermico reversibile operante tra una certa temperatura massima T1max e una certa
temperatura minima T2min . Possiamo suddividere infatti il ciclo politermico in piccoli
cicli di Carnot e valutare il rendimento di ognuno di essi. Si vede facilmente che
l’efficienza di ciascuno dei piccoli cicli è inferiore a quello di un ciclo di Carnot
operante tra T1max e T2min . Da ciò segue che il grado di perfezione di qualsiasi macchina
termica che lavori su un ciclo arbitrario si può stabilire confrontando il suo rendimento
termico con quello di un ciclo di Carnot realizzato tra le due temperature estreme del
ciclo arbitrario. Le attuali tecnologie consentono di raggiungere efficienze di
conversione paria a circa il 40-50% dell’efficienza di Carnot.

3.4 La scala termodinamica assoluta


Si è visto come il rendimento di una macchina di Carnot sia una funzione universale che
dipende unicamente dalle temperature delle sorgenti fra cui opera la macchina. Questo
fatto può essere usato per definire una scala di temperature assoluta indipendente da
qualunque proprietà materiale (la scala del gas perfetto, non costituisce ancora una scala
assoluta in quanto legata ad una particolare sostanza, appunto il gas perfetto).
Consideriamo allora tre macchine di Carnot che lavorano tra le stesse adiabatiche e
tre diverse isoterme a temperatura T0 , T1 e T2 . Poiché il rendimento è funzione delle
sole temperature si può scrivere

| Q1 | | Q2 | | Q2 |
01 = 1 − = 1 − f (T0 , T1 ) 02 = 1 − = 1 − f (T0 , T2 ) 12 = 1 − = 1 − f (T1 , T2 )
| Q0 | | Q0 | | Q1 |

40
cosicché
| Q2 | | Q2 | / | Q0 | f (T0 , T2 )
f (T1 , T2 ) = = = (3.4.1)
| Q1 | | Q1 | / | Q0 | f (T0 , T1 )

Al secondo membro di questa equazione compaiono tre temperature mentre al primo


membro ne compaiono solo due e cioè non compare T0 . Ciò implica che la forma
funzionale di f deve essere del tipo

 (TB )
f (TA ,TB ) =
 (TA )

così che scompaia la dipendenza da T0 a


secondo membro della (3.4.1) che, di
conseguenza, assume la forma:

| Q2 |  (T2 )
=
| Q1 |  (T1 )

Non rimane che stabilire la forma matematica della funzione  per disporre di una
scala termometrica basata, invece che sulla misura delle proprietà di una sostanza, sulla
misura di quantità di calore e cioè di energia, laddove il termometro è costituito dalla
macchina di Carnot. Una scala di temperature così definita è denominata scala
termodinamica assoluta. La scala di temperatura termodinamica più comunemente
usata è la scala Kelvin e corrisponde alla scelta T =  (T ) . In tal modo il rapporto tra le
quantità di calore scambiato fornisce direttamente il rapporto tra le temperature
termodinamiche assolute (temperature Kelvin) delle sorgenti:

| Q2 | T2( K )
= (3.4.2)
| Q1 | T1( K )

Il confronto di questa relazione con la (3.2.4) fornisce

T2 T2( K )
=
T1 T1( K )

Quindi, sebbene definite in modo concettualmente diverso, la scala termodinamica


assoluta e la scala del gas perfetto coincidono a meno di un fattore costante di
proporzionalità. Tale fattore può essere posto uguale a 1 scegliendo per entrambe le
scale la stessa origine. In pratica, la temperatura del punto triplo dell’acqua viene scelta
come temperatura di riferimento necessaria per completare la definizione della scala
Kelvin. Si sceglie cioè l’isoterma di riferimento in corrispondenza con la temperatura
del punto triplo dell’acqua e si attribuisce arbitrariamente a questa temperatura il valore
T0 = 273.16 K . In tal modo la scala del gas perfetto e la scala termodinamica assoluta
sono perfettamente coincidenti.

41
Per la misura di una temperatura T qualsiasi basterà quindi realizzare un ciclo di
Carnot che lavori tra T0 = 273.16 K e T e misurare per esso il rapporto | Q | / | Q0 | . In
base alla (3.4.2) risulterà allora
|Q|
T = 273.16 (3.4.3)
| Q0 |

La scala termodinamica assoluta è così completamente definita. Va osservato come in


base alla (3.4.3) lo zero assoluto implica Q = 0 e cioè  = 1 . Ne deriva
l’irraggiungibilità dello zero assoluto come conseguenza del II principio della
termodinamica.

3.5 Le relazioni di Clausius e Poitier-Pellat


Consideriamo un generico ciclo politermico reversibile in cui il sistema scambia calore
con l’ambiente a tutte le temperature comprese tra due temperature estreme. Tracciando
sul diagramma un fascio di adiabatiche reversibili sarà possibile scomporre il ciclo in

tanti cicli elementari costituiti ognuno da due trasformazioni adiabatiche e da due tratti
del ciclo originario. Sostituiamo poi i due tratti del ciclo originario con due tratti di
trasformazione isoterma in maniera tale da non modificare gli scambi energetici. Ciò si
ottiene tracciando il tratto di isoterma in maniera tale che l’area del triangoloide I sia
uguale all’area del triangoloide II . Il ciclo intrecciato OABOBCDO , infatti, è
caratterizzato da lavoro netto nullo essendo costituito a sua volta dai due cicli OABO e
BCDO di uguale area ma percorsi in senso opposto. Per il I principio, allora, deve
essere nulla anche la somma algebrica delle quantità di calore scambiate; poiché lungo i
tratti di adiabatica AB e CD non viene scambiato calore ne segue che il calore
scambiato lungo la trasformazione reale AD coincide con quello scambiato lungo
l’isoterma fittizia BC . In base a ciò è ora possibile sostituire i tratti della trasformazione
ciclica compresi tra due adiabatiche successive con altrettanti tratti di isoterma,
mantenendo inalterati tutti gli scambi di energia del ciclo. Quest’ultimo risulta così
sostituito a tutti gli effetti con un certo numero di cicli di Carnot.
Per ciascuno dei cicli di Carnot vale la relazione di proporzionalità tra calore
scambiato e temperatura termodinamica assoluta

Q1 Q2
+ =0 (3.5.1)
T1 T2

42
dove si è tenuto conto della convenzione dei segni per il calore (Q1  0, Q2  0) .
Sommando allora tutte le relazioni del tipo (3.5.1) associate a ciascuno dei cicli di
Carnot in cui è stato scomposto il ciclo originario si ottiene

Qi
Ti
=0
i

che si può anche scrivere in forma integrale immaginando di suddividere il ciclo


originario in un numero elevato (teoricamente infinito) di cicli di Carnot in ognuno dei
quali le quantità di calore scambiato sono infinitesime:

Q

( rev )
T
=0 (3.5.2)

L’integrale che compare al primo membro di questa relazione prende il nome di


integrale di Clausius. Il risultato espresso dalla (3.5.2) (relazione di Clausius) può
quindi commentarsi dicendo che l’integrale di Clausius esteso ad un ciclo politermico
reversibile è nullo.
Supponiamo ora che il sistema compia un ciclo politermico irreversibile e cioè un
ciclo in cui siano coinvolti processi irreversibili quali il trasferimento di calore sotto una
differenza finita di temperatura. Scomponiamo come prima il ciclo con un fascio di
adiabatiche e fissiamo l’attenzione su un ciclo elementare. Indichiamo con Q1 ( 0) e
Q2 ( 0) i calori infinitesimi scambiati e con T1 e T2 la temperatura delle sorgenti con
cui il sistema scambia le suddette quantità di calore. Poiché, a causa delle irreversibilità,
l’efficienza di una macchina termica che lavora secondo tale ciclo elementare deve
essere inferiore a quella di una macchina di Carnot che lavora tra le stesse sorgenti deve
risultare
| Q2 | T | Q2 | T2
1−  1− 2 cioè 
| Q1 | T1 | Q1 | T1
da cui
Q1 Q2
+ 0
T1 T2

Integrando allora a tutti gli infiniti cicli elementari si ottiene

Q

( irr )
T
0 (3.5.3)

La (3.5.3) prende il nome di disuguaglianza di Poitier-Pellat e può commentarsi


dicendo che l’integrale di Clausius esteso ad un ciclo politermico irreversibile è
negativo.
Nell’applicare la (3.5.2) e la (3.5.3) è importante notare che:
− Q rappresenta il calore scambiato dal sistema lungo un tratto infinitesimo di
trasformazione “visto” dal sistema col segno del sistema;
− se la trasformazione ciclica è irreversibile vale la (3.5.3) e la temperatura deve essere

43
quella delle sorgenti (T )
− se la trasformazione ciclica è reversibile vale la (3.5.2) e la temperatura è
indifferentemente quella del sistema o quella delle sorgenti (tra di esse coincidenti).

3.6 La funzione di stato entropia ed il principio di massima entropia.


Nella sezione precedente si è visto come per tutti i cicli reversibili valga la relazione di
Clausius
Q

( rev )
T
=0

Da essa si trae l’informazione che la forma infinitesima sotto il segno di integrale


(Q / T ) è un differenziale esatto. Deve esistere dunque una funzione di stato S tale
che, data una qualunque trasformazione reversibile congiungente due generici stati 1 e
2 , risulti
Q  Q 
2
S 2 − S1 =  dS =   (3.6.1)
1
T  T  rev
( rev )

dove la seconda delle (3.6.1) si applica ad un tratto infinitesimo della trasformazione. La


funzione S prende il nome di entropia (J/K) ed è una proprietà estensiva del sistema.
Consideriamo ora due trasformazioni che
abbiano gli stessi stati iniziali e finali, una
reversibile, rev , ed una irreversibile, irr . Poiché
la trasformazione rev è sicuramente invertibile è
lecito considerare la trasformazione ciclica
1irr 2rev1 . Tale trasformazione è nel complesso
irreversibile per cui ad essa si applica la
disuguaglianza di Poitier-Pellat

Q

( irr )
T
0

D’altro canto è possibile scrivere

Q 2
Q 1
Q 2
Q 1
Q 2
Q

( irr )
T
= 1
T
+ 2
T
0 cioè 1
T
− 2
T
= 
1
T
( irr ) ( rev ) ( irr ) ( rev ) ( rev )

ossia, tenendo conto della (3.6.1)

Q  Q 
2
( S 2 − S1 )  1
T
dS   
 T  irr
(3.6.2)
( irr )

44
dove la seconda delle (3.6.2) si applica ad un tratto infinitesimo della trasformazione.
Dunque, la variazione di entropia associata ad una trasformazione irreversibile è
maggiore dell’integrale di Clausius valutato lungo la trasformazione stessa.
Al fine del calcolo delle variazioni di entropia questo risultato, insieme a quelli
precedenti, va interpretato nel seguente modo: se un sistema evolve da uno stato di
equilibrio iniziale 1 ad uno stato di equilibrio finale 2 , la sua variazione di entropia è
sempre la stessa sia nel caso di trasformazione reversibile che nel caso di
trasformazione irreversibile (essendo S una funzione di stato). Nel primo caso, però, è
possibile applicare le (3.6.1) mentre nel secondo caso le (3.6.2) informano che, se la
trasformazione è irreversibile, la variazione di entropia di un sistema è sempre maggiore
di quella causata dagli scambi termici con l’ambiente. Ciò implica che durante una
trasformazione irreversibile debba esserci creazione (generazione) di entropia entro il
sistema a causa di processi irreversibili interni. Indicando con dSint l’ammontare di
entropia generata a causa di tali processi è possibile scrivere la relazione (3.6.2) sotto
forma di uguaglianza
 Q 
dS =   + dSint (3.6.3)
 T  irr

dove dSint è sempre positiva per tutti i processi reali irreversibili, nulla per i processi
reversibili e non è mai negativa ( dSint non può mai essere “distrutta”). L’entropia di un
sistema può dunque variare per effetto di scambi termici e/o per effetto di irreversibilità
interne. Poiché dSint è sempre positivo o nullo ne consegue che l’unico modo per
diminuire l’entropia di un sistema è attraverso scambi (sottrazione) di calore.
Da quanto detto (e ricordando S è una funzione di stato) si evince che il calcolo
delle variazioni di entropia di un sistema va effettuato applicando le (3.6.1) lungo una
qualsiasi trasformazione ideale reversibile che abbia gli stessi stati iniziali e finali di
quella reale irreversibile. Ai fini del calcolo va osservato che si possono ritenere sempre
trascurabili le irreversibilità interne che si destano in un serbatoio di calore per effetto di
scambi termici con altri sistemi. La capacità termica infinita della sorgente, infatti,
implica che l’insorgenza di gradienti termici interni sia nulla e pertanto è lecito
assumere dSint  0 . Dalla (3.6.3) consegue allora che le variazioni di entropia di un
serbatoio termico vanno sempre calcolate (sia nel caso di processi reversibili che nel
caso di processi irreversibili) come:
Q
S SET =
T

Appare chiaro, a questo punto, come le variazioni di entropia siano legate alla
irreversibilità delle trasformazioni. La (3.6.1) e la (3.6.2) consentono di affermare,
infatti, che una trasformazione adiabatica (Q = 0) è anche isoentropica (S = 0) se e
solo se è reversibile. Tenendo conto allora che l’entropia è una grandezza estensiva e
che il sistema più il suo ambiente costituiscono un sistema isolato (U = cost) ed, in
particolare, adiabatico, la (3.6.1) e la (3.6.2) assumono la forma sintetica

STOT = S AMB + S SIST  0 (3.6.4)

45
dove il segno di uguaglianza vale per trasformazioni reversibili e quello di
disuguaglianza per trasformazioni irreversibili. La (3.6.4) costituisce un’ espressione
equivalente del II principio ed afferma che la
variazione di entropia dell’universo
(sistema+ambiente) associata alle trasformazioni
irreversibili deve essere sempre positiva. Nel caso
di un sistema isolato, cioè, l’entropia può solo
crescere e il suo incremento misura il grado di
irreversibilità delle trasformazioni. Tale relazione
implica, inoltre, che l’entropia non è una grandezza
conservata; essa cioè non soddisfa ad un principio
di conservazione come fanno l’energia o la massa,
potendo essere “creata” all’interno di un sistema
isolato.
Poiché lo stato finale di equilibrio deve essere
uno stato stabile ne consegue poi che tale stato deve essere un massimo per l’entropia.
Consideriamo, ad esempio, un sistema isolato (U = cost) che si trovi in uno stato di
equilibrio A . Supponiamo ora che, per effetto della rimozione di qualche vincolo
interno, il sistema possa accedere a tutti gli stati di equilibrio rappresentati dalla linea
passante per i punti A , B e C . Il secondo principio afferma allora che il sistema
isolato procederà verso B e non verso C poiché l’entropia dello strato B è maggiore
di quella di C e massima tra tutti i nuovi stati accessibili. La trasformazione, cioè, ha
una unica direzione. Essa conduce dalla stato A di più bassa entropia allo stato B di
maggiore entropia ma non in verso opposto: la trasformazione è irreversibile. Giunto in
B il sistema avrà massimizzato la propria entropia raggiungendo uno stato di equilibrio
da cui non si potrà più allontanare spontaneamente (stato stabile). Nessuna
trasformazione irreversibile è compatibile, infatti, con una diminuzione di entropia.

3.7 Calcolo delle variazioni di entropia


Nella sezione precedente si è detto che le variazioni di entropia di un sistema vanno
calcolate applicando relazione (3.6.1) lungo una qualsiasi trasformazione ideale
reversibile che abbia gli stessi stati iniziali e finali di quella reale irreversibile.
Nel caso di un gas perfetto, tenendo conto della equazione di stato e delle relazioni
che definiscono le variazioni di energia interna ed entalpia, possiamo scrivere

2
q 2
 du Pdv 
2
 dT dv  T2 v2
s2 − s1 = 
1
T
= 
1
 +
T T 
= 
1
cV (T ) T + R v  = cV ln T + R ln v
1 1
( rev ) ( rev ) ( rev )

oppure
2
q 2
 dh vdP 
2
 dT dP  T2 P2
s2 − s1 = 
1
T
= 
1
 −
T T 
= 
1
c P (T )
T
− R
P 
= c P ln
T1
− R ln
P1
( rev ) ( rev ) ( rev )

dove le ultime uguaglianze sulla destra valgono solo nel caso di calori specifici costanti.
Nel caso di una sostanza incompressibile, essendo dv = 0 e cP = cV = c , si ha

46
2
q 2
 du Pdv 
2
dT T
s2 − s1 = 
1
T
= 1
 +
T T 
= 
1
c(T )
T
= c ln 2
T1
( rev ) ( rev ) ( rev )

dove l’ultima uguaglianza sulla destra vale solo nel caso di calore specifico costante.

3.8 Lavoro massimo e degradazione dell’energia

L’aumento di entropia di un sistema isolato in cui si verificano trasformazioni


irreversibili è una misura quantitativa della perdita di capacità di produrre lavoro del
sistema stesso. Per evidenziare questo fatto immaginiamo che un sistema compia due
trasformazioni elementari che abbiano lo stesso stato iniziale (1) e finale (2) , una
reversibile, rev , ed una irreversibile, irr . Se nella trasformazione irreversibile il
sistema riceve calore Q e compie lavoro L , la variazione di energia interna del
sistema sarà
dU = Q − L (3.8.1)

mentre per il processo reversibile si potrà scrivere

dU = TdS − Lrev (3.8.2)

Poiché per ipotesi le due trasformazioni hanno gli stessi stati estremi esse comportano la
medesima variazione di energia interna del sistema. Uguagliando allora i secondi
membri si perviene a
Q − L = TdS − Lrev (3.8.3)

La variazione di entropia del sistema è dunque

Q (Lrev − L)
dS = + (3.8.4)
T T

Poiché il secondo principio della termodinamica impone che dS  Q / T ne consegue


che la quantità in parentesi a secondo membro è positiva (o al più nulla nel caso di
trasformazioni reversibili):
Lrev − L  0

In un processo irreversibile si ottiene dunque meno lavoro che in un processo


reversibile. Il lavoro fatto da un sistema durante un processo reversibile è il massimo
lavoro che si possa ottenere. La differenza

Llost = Lrev − L

rappresenta il lavoro che il sistema avrebbe potuto compiere ma che non si è potuto
ottenere a causa della irreversibilità della trasformazione e prende il nome di “lavoro

47
perso” o “dissipazione”. In termini di questa quantità la (3.8.4) si può scrivere come

Q Llost
dS = + (3.8.5)
T T
che confrontata con la (3.6.3) fornisce
Llost
dSint 
T

Questo risultato si può commentare affermando che ogni qual volta ha luogo
nell’universo (sistema isolato) una trasformazione irreversibile tutto va come se una
certa quantità di energia venisse convertita da una forma completamente utilizzabile per
compiere del lavoro ad una completamente inutilizzabile. Questa quantità di energia
(Llost ) è pari a T volte la variazione di entropia dell’universo dSint provocata dalla
trasformazione irreversibile:
Llost = TdSint

relazione nota come equazione di Gouy-Stodola. Di conseguenza, l’entropia può essere


considerata come un parametro il cui incremento è una misura quantitativa della perdita
di capacità di compiere lavoro di un sistema soggetto a trasformazioni irreversibili.
Analogo ragionamento può essere fatto nel caso di trasformazioni cicliche.
Poniamoci il problema di determinare qual è il lavoro massimo che si può ottenere
avendo a disposizione una quantità di calore Q1 estraibile da un serbatoio “caldo” a
temperatura T1 , quando il serbatoio freddo si trovi a temperatura T2 . Supponiamo, ad
esempio, di avere a disposizione una macchina termica che, lavorando su un qualunque
ciclo, estragga il calore | Q1 | dal serbatoio caldo, produca il lavoro | L | e ceda il calore
| Q2 |=| Q1 | − | L | al serbatoio freddo. Applicando il II principio si ha

| Q1 | − | L | | Q1 | T2
STOT = − 0 cioè | L || Q1 | − | Q1 |
T2 T1 T1

Il II principio informa quindi che il lavoro massimo ottenibile è

 T 
| Lmax | 1 − 2  | Q1 |
 T1 

Poiché la quantità in parentesi coincide con l’espressione del rendimento di una


macchina di Carnot, questo risultato significa che tra tutte le macchine che lavorano tra
due serbatoi l’efficienza massima compete ad una macchina di Carnot e cioè ad una
macchina che compie un processo ciclico reversibile. Inoltre, la suddetta conversione è
tanto più grande quanto più elevata e T1 e quanto più bassa è T2 . L’energia disponibile
sotto forma di calore, cioè, è tanto più pregiata (ossia convertibile in lavoro meccanico)
tanto più elevato è il valore della temperatura alla quale è disponibile. Si è ritrovato in
definitiva il risultato del teorema di Carnot.

48
CAPITOLO 4

I SISTEMI APERTI
4.1 Il I e II principio della termodinamica per i sistemi aperti

La maggior parte dei sistemi termotecnici preposti alla conversione ed alla trasmissione
dell’energia scambiano con continuità materia con l’ambiente esterno e pertanto vanno
schematizzati come sistemi aperti. I principi della termodinamica dedotti nei capitoli
precedenti per un sistema chiuso devono essere allora riformulati adeguatamente al fine
di applicare il bilancio dell’energia e dell’entropia a sistemi di questo tipo.
Un sistema aperto va pensato come limitato da una superficie di confine (superficie
di controllo) permeabile al flusso di materia in una o più parti della sua estensione. Il
caso più generale è quello in cui la superficie di contorno non è fissa ma mobile in
modo da permettere una espansione o una contrazione del volume da essa limitata
(volume di controllo); una tale circostanza corrisponde alla possibilità di accumulo e
diminuzione di massa all’interno del volume di controllo. Le sezioni dove avviene il
passaggio di materia vengono generalmente collocate in posizioni esterne
all’apparecchiatura, laddove è possibile definire lo stato termodinamico della corrente
fluida con sufficiente precisione. Ciò implica che in tali sezioni il fluido deve transitare
in condizioni molto prossime a quelle di equilibrio. Le quantità termiche e meccaniche
che interessano ai fini del bilancio energetico sono:

Potenza termica [Watt]. Detto Q il calore scambiato dal sistema aperto con
l’ambiente attraverso la superficie di controllo tra gli istanti t e t + dt , si definisce
potenza termica trasmessa (calore scambiato nella unità di tempo) la quantità:

. Q
Q(t ) = (4.1.1)
dt

Potenza meccanica [Watt]. Il lavoro scambiato dal fluido con l’ambiente può essere
distinto in due termini: 1) il lavoro compiuto dalle forze di pressione che mantengono il
fluido in moto (tale lavoro non è utilizzabile per gli usi tecnici e prende il nome lavoro
di pulsione); 2) il lavoro di qualsiasi specie scambiato dal sistema aperto con l’ambiente
esterno attraverso la superficie di controllo (ad esempio, per mezzo di una turbina che
muove un albero rotante). Questo secondo termine viene denominato lavoro tecnico ed
è il lavoro che interessa considerare in pratica. Indicando con LT la quantità di lavoro
tecnico scambiata dal sistema tra gli istanti t e t + dt , si definisce potenza meccanica la
quantità:
L
WT (t ) = T (4.1.2)
dt

Portata massica [kg/s] . Se dm j indica la massa di fluido entrante o uscente attraverso


la sezione aperta j-esima del sistema tra gli istanti t e t + dt , si definisce portata
massica la quantità
dm j
M j (t ) = (4.1.3)
dt

dove vale la regola di considerare positive le portate entranti nel sistema e negative

49
quelle uscenti. Poiché la massa, come l’energia, è una grandezza conservata (non può
essere né creata né distrutta) per essa deve valere una equazione di continuità

dmVC
| M (t ) | − | M
i
i
u
u (t ) | =
dt

avendo contrassegnato con il pedice i le grandezze relative alle sezioni di ingresso e


con il pedice u quelle relative alle sezioni di uscita. Tale relazione afferma che il flusso
totale di massa entrante nel volume di controllo diminuito del flusso totale uscente è
pari alla velocità di variazione della massa mVC contenuta nel volume di controllo.
Nella ipotesi di regime stazionario (in cui nessuna grandezza dipende
esplicitamente dal tempo) e che l’apparecchiatura abbia una sola sezione di ingresso (1)
ed una sola sezione di uscita (2) , l’equazione precedente diviene:

| M 1 |=| M 2 |=| M |

e cioè la portata massica entrante è uguale a quella uscente (è una costante).

Flusso o portata volumetrica [m3 /s] . Dette v1 (t ) e v2 (t ) le velocità medie del fluido
sulle sezioni di ingresso e di uscita (rispettivamente di area A1 e A2 ) all’istante di
tempo t , i flussi volumetrici di fluido (volume di fluido che transita nell’unità di tempo)
entrante ed uscente attraverso le sezioni 1 e 2 rimangono definiti come:

V1 (t ) = v1 (t ) A1 V2 (t ) = v2 (t ) A2 (4.1.4)

La relazione tra portate massiche e portate volumetriche è

M (t ) =  (t )V (t ) =  (t )v(t ) A (4.1.5)

Tale equazione mostra, inoltre, come nel caso di fluido incomprimibile (  = cost) ed in
condizioni di regime stazionario oltre a M anche V si mantiene costante. Ciò ha come
conseguenza che laddove la sezione del condotto si restringe la velocità media del
fluido deve aumentare e, viceversa, laddove la sezione del tubo aumenta la velocità
media del fluido deve diminuire, conformemente alla relazione

v1 A1 = v2 A2
nota come teorema di Leonardo.
Per dedurre l’espressione del primo principio della termodinamica per un sistema
aperto consideriamo il caso semplificato di un sistema che ha una sola sezione
d’ingresso (1) ed una sola sezione d’uscita (2) . Facendo riferimento alla figura
osserviamo che la materia dm1 che è entrata all’interno del volume di controllo tra gli
istanti t e t + dt , è quella che all’istante di tempo t si trovava a monte della sezione di
ingresso nella regione I compresa tra la sezione 1 e la sezione 1 posta ad una distanza
dx1 = v1dt da 1 . Analogamente, la materia dm2 uscita dal volume di controllo nello

50
stesso intervallo di tempo è quella che all’istante t + dt si trova a valle della sezione di
uscita nella regione I I compresa tra la sezione 2 e la sezione 2 posta ad una distanza
dx2 = v2dt da 2 . Pertanto, il sistema fluido contenuto all’istante di tempo t nel
sottinsieme I e nel sistema aperto A ed all’istante di tempo t + dt nel sottinsieme I I e
nel sistema aperto A , pur essendo a volume variabile, è sicuramente a massa costante.
Ad esso è quindi possibile applicare il primo principio per i sistemi chiusi

dE = E(t + dt ) − E(t ) = Q − L (4.1.6)


dove E è l’energia totale
E = U + Ecin + E pot +   
e dove, per quanto detto sopra

E (t ) = EVC (t ) + E ( I ) = EVC (t ) + dm1e1 = EVC (t ) + e1 | M 1 | dt

E (t + dt ) = EVC (t + dt ) + E ( II ) = EVC (t + dt ) + dm2e2 = EVC (t + dt ) + e2 | M 2 | dt

avendo indicato con e1 ed e2 le energie totali specifiche del fluido entrante e uscente.
Sostituendo tali espressioni nella (4.1.6) si ottiene:

Q − L = EVC (t + dt ) − EVC (t ) + e2 | M 2 | dt − e1 | M 1 | dt (4.1.7)

Il termine L comprende tutte le forme di lavoro eseguite dal (o sul) sistema. In


particolare occorrerà considerare accanto al lavoro tecnico LT = WT (t )dt i lavori di
pulsione L1 e L2 che le forze di pressione P1 A1 e P2 A2 compiono nello spostare la
massa fluida dei tratti dx1 e dx2 :
L = WT dt − | L1 | + | L2 | (4.1.8)

dove, in accordo con la convenzione dei segni per il lavoro, il termine in ingresso ha
segno negativo dal momento che rappresenta energia entrante nel volume di controllo
(lavoro fatto dall’ambiente sul sistema per immettere il fluido) mentre il termine in
uscita ha segno positivo dal momento che rappresenta energia uscente dal volume
(lavoro fatto dal sistema sull’ambiente per espellere il fluido). Essendo inoltre

| L1 |= P1 A1dx1 = P1dV1 = P1v1dm1 = P1v1 | M 1 | dt

51
| L2 |= P2 A2dx2 = P2dV2 = P2 v2dm2 = P2 v2 | M 2 | dt
la (4.1.8) diventa
L = WT dt − P1v1 | M 1 | dt + P2 v2 | M 2 | dt

che, sostituita nella (4.1.7), fornisce

E (t + dt ) − EVC (t )
Q − WT = VC + | M 2 | (e2 + P2 v2 )− | M 1 | (e1 + P1v1 ) (4.1.9)
dt

Facendo tendere dt → 0 e considerando fluidi semplici relativamente a cui

v2 v2
e + Pv = u + Pv + + gz = h + + gz
2 2

si ottiene l’equazione che esprime la conservazione dell’energia per un sistema aperto in


regime vario (regime in cui tutte le grandezze possono dipendere esplicitamente dal
tempo)
E (t )  v 2 (t )   v 2 (t ) 
Q (t ) − WT (t ) = VC + | M 2 (t ) | h2 (t ) + 2 + gz2 (t ) − | M 1 (t ) | h1 (t ) + 1 + gz1 (t )
t  2   2 

Questa equazione afferma che la variazione nell’unità di tempo dell’energia totale del
volume di controllo deve uguagliare la somma della potenza termica e della potenza
meccanica scambiate dal sistema aperto con l’ambiente attraverso la superficie di
controllo aumentata dell’energia introdotta per unità di tempo nel volume di controllo
dalla corrente in ingresso e diminuita dell’energia espulsa per unità di tempo dal volume
di controllo dalla corrente in uscita.
La maggior parte delle apparecchiature schematizzabili come sistemi aperti,
tuttavia, opera in condizioni di regime stazionario relativamente a cui risulta

EVC
=0 | M 1 |=| M 2 |=| M |
t
cosicché la (4.1.10) diventa:

  v2 − v2  
Q − WT =| M | (h2 − h1 ) +  2 1  + g (z2 − z1 ) (4.1.11)
  2  

che, al pari della (4.1.10), è riferita all’unità di tempo. Dividendo ambo i membri di
questa equazione per la portata massica ed indicando con q e lT le quantità di calore e
lavoro tecnico scambiate per unità di massa di fluido in transito

Q Q dt Q WT l dt lT
q= = = lT = = T =

| M | dt dm dm 
| M | dt dm dm

si ottiene un’equazione di bilancio energetico riferita all’ unità di massa:

52
 v2 − v2 
q − lT = (h2 − h1 ) +  2 1  + g (z2 − z1 ) (4.1.12)
 2 

con il seguente significato: la variazione dell’energia totale della corrente fluida


(entalpia + energia cinetica + energia potenziale) tra le sezioni di ingresso e uscita
deve uguagliare la somma del calore e del lavoro tecnico scambiati con l’ambiente.
La generalizzazione della (4.1.12), per un sistema con più di due sezioni di
ingresso/uscita è:
 v2   v2 
Q − WT = | M u |  hu + u + gzu  −| M i |  hi + i + gzi  (4.1.13)
u  2  i  2 

L’espressione del II principio per un sistema aperto si ottiene imponendo che la somma
del flusso totale di entropia entrante nel volume di controllo e di quella in esso creata
per unità di tempo diminuita del flusso totale di entropia uscente dal volume di controllo
deve uguagliare la velocità di variazione dell’entropia contenuta nel volume di
controllo. Considerando allora che:
− il flusso totale di entropia entrante si compone del contributo dovuto allo scambio
termico con sorgenti esterne, e di quello associato alla massa fluida entrante;
− il flusso totale di entropia uscente si compone del contributo dovuto allo scambio
termico con sorgenti esterne e del contributo associato alla massa fluida uscente;
si ha
dSVC  | Q i |   | Q | 
=   +  | M i | si + Sint  −   u +  | M u | su 
dt  i Ti i   u Tu u 

dove si ed su sono le entropie specifiche delle masse fluide entranti e uscenti e dove la
potenza di entropia creata ( S ) è sempre positiva (o nulla per processi reversibili nel
int

volume di controllo). Nel caso in cui esista una sola sezione d’ingresso ed una sola
sezione d’uscita e sussistano condizioni di regime stazionario la relazione precedente si
semplifica nella
Q j
j T  + | M | (s1 − s2 ) + Sint = 0
j

oppure, dividendo per | M |
qj
 T  + (s
j
1 − s2 ) + sint = 0 (4.1.14)
j

dove le varie grandezze sono definite per unità di massa di fluido.

4.2 Dispositivi schematizzabili come sistemi aperti


Caldaie. La caldaia, dispositivo preposto alla generazione di vapore, si compone
schematicamente di: (1) un serbatoio d’acqua (contenitore metallico cilindrico); (2)
un’apertura inferiore per permettere l’ingresso dell’acqua di alimentazione nel

53
serbatoio; (3) un’apertura superiore da cui viene prelevato il vapore prodotto alla
pressione prestabilita; (4) una camera di combustione che riscalda il liquido fino alla
vaporizzazione con la fiamma ed i relativi fumi caldi.
Trascurando le variazioni di energia cinetica e
potenziale e poiché in tali apparecchiature non si
ha scambio di lavoro con l’esterno (lT = 0) ,
l’equazione dei sistemi aperti si riduce a

Q =| M | (h2 − h1 )

che esprime l’uguaglianza tra il flusso termico


trasmesso al fluido e l’incremento di entalpia (per
secondo) del fluido stesso. Non tutto il calore
generato con la combustione viene però trasferito all’acqua a causa di inevitabili
dispersioni termiche (essenzialmente il calore contenuto nei fumi). Si definisce allora
rendimento termico di una caldaia il rapporto tra la potenza termica trasmessa all’acqua
e la potenza immessa col combustibile
Q
=
WC

Un metodo per aumentare il rendimento è quello di avviare i fumi caldi, che hanno già
fornito il calore all’acqua, in uno scambiatore di calore per preriscaldare l’acqua stessa
in ingresso prima di essere scaricati nell’atmosfera. Il rendimento termico delle caldaie
ha un valore compreso generalmente tra 0.7 e 0.9 .

Scambiatori di calore. Negli scambiatori di calore si realizza un trasferimento di calore


tra due fluidi in moto a temperatura differente separati da una parete solida.
Poiché il dispositivo è generalmente
isolato termicamente dall’ambiente esterno, il
calore ceduto dal fluido “caldo” (C ) è
assorbito interamente dal fluido ”freddo”
(F ) . Trascurando le variazioni di energia
cinetica e potenziale e poiché in tali
apparecchiature non si ha scambio di energia
meccanica con l’esterno, l’equazione dei
sistemi aperti applicata ai volumi di controllo
separati fornisce

Q =| M F | (hFu − hFi ) − Q =| M C | (hCu − hCi )

Assumendo trascurabile la caduta di pressione attraverso il dispositivo ( P  cost) ed in


assenza di cambiamenti di fase le relazioni precedenti si possono anche scrivere come

Q =| M F | cF (TFu − TFi ) − Q =| M C | cC (TCu − TCi )

54
Due particolari tipi di scambiatori di calore sono i surriscaldatori ed i condensatori.
L’impiego dei surriscaldatori è necessario perché una caldaia non consente di ottenere
vapore surriscaldato (per questo dovrebbe infatti consumarsi la fase liquida nella caldaia
con pericolo di bruciatura della lamiera). Se si desidera produrre vapore surriscaldato, il
vapore prelevato dalla caldaia deve essere trattato in un surriscaldatore ossia uno
scambiatore di calore appositamente progettato per somministrare calore all’aeriforme
(vapore surriscaldato) fino alla temperatura desiderata. Il sistema caldaia-surriscaldatore
prende il nome di generatore di vapore.
I condensatori sono dispositivi che assolvono al compito di riportare allo stato
liquido il vapore uscente dalle turbine o da altre apparecchiature. La condensazione
dell’aeriforme viene realizzata trasferendo calore ad un fluido refrigerante.

Turbine. Una turbina è un dispositivo che produce lavoro (lT  0) sfruttando il


passaggio di un fluido (gas o liquido) su un apparato di pale rotanti collegate ad un
albero motore. Come risultato si ha un’espansione del fluido che raggiunge una
pressione di uscita inferiore a quella d’ingresso. Le turbine sono organi presenti nelle
centrali elettriche e, come motori, negli aerei. Assumendo, in prima approssimazione,
che gli scambi di calore siano trascurabili come pure le variazioni di energia cinetica e
potenziale, l’equazione dell’energia per i sistemi aperti assume la forma

lT = (h1 − h2 )

che esprime l’uguaglianza tra il lavoro tecnico svolto per unità di massa di fluido e il
decremento dell’entalpia specifica del fluido stesso (la potenza prodotta dalla turbina

essendo WT =| M |lT ). Si osservi come il lavoro tecnico prodotto sia proporzionale al


salto entalpico ed, essendo h1 fissato dalle condizioni di ingresso, aumenta al decrescere
di h2 . Per trovare il valore minimo ammissibile di h2 è sufficiente studiare il processo
di espansione in turbina nel diagramma entropico osservando che, essendo nulla la
variazione di entropia associata a scambi termici, l’entropia dello stato finale è
maggiore di quella dello stato iniziale a causa delle irreversibilità interne (attriti, etc.).
Dal grafico è facile verificare allora come per un assegnato stato iniziale 1 (di pressione
P1 ) ed un’assegnata pressione finale P2 , lo stato in uscita cui compete il maggior lavoro
tecnico è lo stato 2 che ha la sessa entropia dello stato 1. Ciò perché qualsiasi stato 2 (a
destra di 2 ) ha un’entalpia maggiore di quella che compete a 2 di una quantità pari a
c p (T2 − T2 ) . Il lavoro massimo ottenibile in turbina corrisponde dunque ad una
espansione ideale isoentropica e vale lS = (h1 − h2 ) . Per caratterizzare lo scostamento

55
del comportamento di una turbina reale da quello di una turbina ideale si introduce
allora il rendimento isoentropico della turbina come

lT
S =
lS
Tipicamente S  0.7, 0.9 .

Ugelli e diffusori. Un ugello è un condotto a sezione trasversale variabile in cui la


velocità del fluido aumenta nella direzione del flusso (con decremento della pressione).
In un diffusore, al contrario, ha luogo una diminuzione della velocità del fluido (ed un
incremento della pressione). L’area della
sezione trasversale di un ugello diminuisce
nella direzione del flusso per flussi subsonici
e aumenta per flussi supersonici; il contrario
si verifica nei diffusori
Ugelli e diffusori sono organi presenti nei
motori turbogetto, nei razzi e nei veicoli
spaziali. Trascurando in prima
approssimazione gli scambi di calore (tempo
di transito del fluido molto breve) e le
variazioni di energia potenziale e poiché in tali apparecchiature non si ha scambio di
lavoro con l’esterno (lT = 0) , l’equazione dell’energia per i sistemi aperti si riduce a

v22 − v12
h1 − h2 =
2

che esprime l’uguaglianza tra il salto di energia cinetica e quello entalpico del fluido.
Con argomentazioni analoghe a quelle fatte per la turbina è possibile dimostrare che
in un ugello il guadagno di energia cinetica è massimo per espansione isoentropica del
gas, a parità di stato di ingresso e pressione di uscita. Il rendimento isoentropico di un
ugello è definito allora come il rapporto tra l’energia cinetica specifica del gas in uscita
nel processo reale e quella che si otterrebbe se l’espansione avvenisse in un processo
ideale isoentropico (reversibile)
v22 / 2
S = 2
(v2 / 2) S

Il rendimento  S raggiunge usualmente valori pari a 0.95 .

4.3 Compressori e pompe


I compressori (pompe) sono dispositivi preposti, compiendo lavoro di compressione, ad
incrementare la pressione di un fluido (gas o liquido) dal valore di ingresso, P1 , fino ad
un valore prestabilito P2 ( P1 ) . Il più semplice tipo di compressore è il compressore
alternativo a pistone costituito schematicamente da un cilindro entro cui scorre a tenuta

56
un pistone. Il diametro del cilindro prende il nome di alesaggio mentre viene
denominata corsa la distanza totale percorsa dal pistone in una direzione. Il volume
minimo del cilindro che si ha in corrispondenza di una estremità dell’escursione del
pistone − il punto morto superiore (PMS) −, prende il nome di spazio nocivo. La
posizione del pistone all’altra estremità della sua escursione cui corrisponde il volume
massimo del cilindro viene denominata punto morto inferiore (PMI). Il volume
descritto dal pistone nel passaggio dal PMI al PMS prende il nome di
cilindrata. Sul fondo del cilindro (testa) si trovano due aperture chiuse da
due valvole: la valvola di aspirazione attraverso cui il fluido da
comprimere viene prelevato da un serbatoio a pressione P1 e temperatura
T1 e la valvola di espulsione che permette di avviare il gas compresso nel
serbatoio a pressione P2 ( P1 ) e temperatura T2 .
Il funzionamento di un compressore viene generalmente
rappresentato su un diagramma “dinamico − il diagramma di Watt o
diagramma indicatore − che reca sull’asse delle ordinate la pressione del
gas contenuto nel cilindro e sull’asse delle ascisse il volume del cilindro
occupato via via da quantità di fluido variabili nel tempo.
Nel caso ideale in cui tutti i processi sono quasi-statici ed avvengono
in assenza di attrito, viscosità, etc. il calcolo del lavoro tecnico può essere eseguito
come segue:

1a Fase. Aspirazione (o immissione). La valvola a di aspirazione viene aperta ed il


pistone, che si trova inizialmente al PMS, indietreggia consentendo l’immissione di gas

dal serbatoio nel cilindro. Questa fase si arresta quando lo stantuffo arriva al PM I ed il
volume della camera è massimo: v = v1 . Nella ipotesi che sia entrato 1 kg di gas, v1
corrisponde ad un volume specifico. Durante tutta questa fase il gas esercita sul pistone
la forza costante F1 = P1 A ( A essendo la superficie del pistone). Se x1 è pertanto la
massima escursione del pistone il lavoro compiuto da questa forza è
x1

l1 =  F1dx = P1 A x1 = P1v1 ( 0) (4.3.1)


0

Tale lavoro è positivo in quanto eseguito dal gas contenuto nel volume di controllo sul
pistone per entrare nel cilindro (espansione del volume di controllo)

57
2a Fase. Compressione. A valvole chiuse lo stantuffo avanza comprimendo il gas fino
alla pressione prestabilita P2 . Poiché questa trasformazione interessa una quantità
costante di gas (sistema chiuso) il lavoro corrispondente è
2
l12 =  P dv ( 0) (4.3.2)
1

Tale lavoro è negativo essendo eseguito dall’esterno sul fluido contenuto nel volume di
controllo.

3a Fase. Espulsione (o scarico). Si apre la valvola di scarico b mentre lo stantuffo


continua ad avanzare fino al PMSspingendo il gas nel serbatoio 2 . Durante tutta questa
fase la forza agente sul pistone è F2 = P2 A . Se x2 è l’escursione del pistone il lavoro
compiuto da questa forza è:
0
l2 =  F2 dx = P2 A (0 − x2 ) = − P2 v2 ( 0) (4.3.3)
x2

Tale lavoro è negativo, essendo eseguito dal pistone sul fluido contenuto nel volume di
controllo per evacuarlo dal cilindro.
Il lavoro tecnico totale di compressione è la somma dei contributi (4.3.1), (4.3.2) e
(4.3.3):
2
lT = l1 + l12 + l2 = P1v1 +  Pdv − P2 v2
1
ossia
2 2 2 2 2 2
lT = −( P2 v 2 − P1 v1 ) +  P dv = −  d ( Pv) +  P dv = −  Pdv − vdP +  P dv
1 1 1 1 1 1
cioè
2
lT = −  vdP (4.3.4)
1

e corrisponde all’area del diagramma di Watt presa con segno negativo (la potenza
assorbita dal compressore essendo WT =| M |lT ). L’espressione dedotta è valida
nell’ipotesi che le trasformazioni siano internamente reversibili.
Poiché durante la fase di compressione il gas tende a riscaldarsi il cilindro è
generalmente provvisto di una camicia (intercapedine) in cui circola acqua di
raffreddamento. A seconda della quantità di calore sottratta dall’acqua il fluido subisce
differenti tipi di trasformazione. Ammettendo che il fluido si comporti da gas ideale e
che subisca nel tratto 1− 2 una trasformazione politropica di indice n la (4.3.4) assume
la forma
2 2
n
lT = −  vdP = − v1P11 / n  P −1 / n dP = ( P1v1 − P2 v2 ) (4.3.5)
1 1
n − 1

che mostra come il lavoro del compressore sia n volte maggiore del lavoro di

58
compressione di un sistema chiuso. E’ ovvio che le politropiche con n  1 sono le più
vantaggiose dal momento che comportano un minore lavoro di compressione per ciclo.
Tali trasformazioni necessitano, tuttavia, di una grande portate di acqua di
raffreddamento. Inoltre, poiché il gas viene raffreddato per effetto della trasformazione
esso dovrebbe essere poi riscaldato. Le politropiche con n  1 , invece, sono
svantaggiose in quanto comportano un lavoro di compressione maggiore. Inoltre, poiché
il gas si riscalda per effetto della
trasformazione esso dovrebbe essere poi
raffreddato.
Nella pratica, lo scambio termico del gas
con l’ambiente è trascurabile e la
trasformazione può approssimarsi con una
adiabatica. Il gas, dunque, si riscalda nel
processo di compressione. Le compressioni
con n  k sono difficili da realizzare perché
lo scambio di calore gas-acqua è un fenomeno
lento rispetto alla durata del processo di
compressione che deve essere breve per
garantire portate adeguate.
Per comprimere un gas a pressioni elevate evitando il raggiungimento di
temperature troppo alte vengono utilizzati allora dei compressori a più stadi con
raffreddamento intermedio del gas dopo ogni stadio. In questo caso si fa di solito tutto il
possibile perché la temperatura del gas all’uscita refrigeratore intermedio sia la stessa
dello stadio precedente. Ciò garantisce che la compressione globale sia vicina a quella
isoterma (compressione paraisoterma). L’area grigia del diagramma rappresenta il
guadagno in energia per comprimere il gas al secondo stadio. Questo vantaggio è
dovuto al raffreddamento intermedio.
E’ possibile dedurre la (4.3.4) dal primo principio per i sistemi aperti. Se le
variazioni di energia cinetica e potenziale
possono ritenersi trascurabili si ha infatti:

lT = q − (h2 − h1 ) (4.3.6)

La (4.3.6), scritta in forma differenziale


(considerando due sezioni infinitamente
vicine), assume la forma

 lT = q − dh (4.3.7)

Nel caso di trasformazioni internamente reversibili ( sint = 0 ) la (4.1.14) diventa


q = Tds (dove T è indifferentemente la temperatura del fluido o delle sorgenti, gli
scambi di calore dovendo essere isotermi). In questo caso, inoltre, d h = Tds + vdP
cosicché la (4.3.7) assume la forma
 lT = −vdP

che corrisponde alla (4.3.4) scritta in forma differenziale. Questa stessa equazione è
applicabile anche alle turbine in assenza di irreversibilità interne.

59
Nel caso generale di trasformazioni irreversibili (in presenza di effetti dissipativi) si
dovrà usare la (4.3.6) che, se il compressore è adiabatico (q = 0) , si semplifica nella

lT = h1 − h2 (4.3.8)

e cioè, il lavoro di un compressore adiabatico eguaglia il salto entalpico del fluido.


E’ importante osservare come, pur nel caso in cui il compressore sia adiabatico,
l’entropia dello stato finale del gas è
maggiore di quella dello stato iniziale a causa
di irreversibilità interne. Tenendo conto di
ciò, dal grafico è facile verificare come per
un assegnato stato iniziale 1 (di pressione P1 )
ed una assegnata pressione finale P2 , lo stato
compresso cui compete il minor lavoro
tecnico di compressione è lo stato 2 che ha
la sessa entropia dello stato 1. Ciò perché
qualsiasi stato compresso 2 (a destra di 2 )
ha una entalpia maggiore di quella che
compete a 2 di una quantità pari a
c p (T2 − T2 ) . Il lavoro minimo di
compressione di un compressore adiabatico vale dunque lS = (h1 − h2 ) e compete ad un
compressore isoentropico. Per caratterizzare lo scostamento di un compressore reale da
un compressore ideale isoentropico si definisce allora il rendimento isoentropico come

lS
S =
lT
 S vale tipicamente 0.75 − 0.85 .

4.4 Valvole di laminazione: il processo Joule-Thomson (Kelvin)


Una significativa riduzione della pressione di un fluido in moto in un condotto può
essere prodotta costringendolo ad attraversare una valvola di laminazione e cioè una
sezione del condotto in cui è presente un filtro serrato (o una strozzatura o un setto
poroso, etc.) Si rileva che,
in dipendenza dello stato
termodinamico del fluido a
monte della valvola
( P1 , T1 ) , l’espansione del
gas attraverso di essa
(espansione non libera in
quanto ostacolata dal filtro
serrato) può essere accompagnata, in aggiunta alla riduzione di pressione, da un
affreddamento o da un riscaldamento. Tale fenomeno prende il nome di effetto Joule-
Thomson.

60
Applicando l’equazione dei sistemi aperti tra le sezioni 1 e 2 (rispettivamente a
monte e a valle della valvola), nell’ipotesi che il processo sia adiabatico e cioè che il
tubo sia isolato termicamente dall’ambiente esterno (q = 0) , che non vi siano motori e/o
propulsori tra le sezioni 1 e 2 (lT = 0) e che le variazioni di energia cinetica e
potenziale siano trascurabili, si ottiene:
h2 − h1 = 0 (4.4.1)

e cioè l’entalpia specifica del fluido riamane costante in un processo di laminazione.


Tale processo, tuttavia, è irreversibile e comporta un incremento dell’entropia specifica
del fluido nell’attraversamento della valvola. Nel caso di un gas perfetto, ad esempio,
effettuando il calcolo della variazione di entropia lungo una isoentalpica reversibile si
ha
dh = T ds + vdP = 0
da cui
v
2 2
dP P
s2 − s1 =  − dP = − R'  = − R' ln 2 ( 0 essendo P2  P1 )
1
T 1
P P1

Per quanto concerne la variazione di temperatura subita dal fluido, sperimentalmente si


osserva che:
− un liquido sottoposto a laminazione si riscalda sempre;
− un gas sottoposto a laminazione può riscaldarsi o raffreddarsi;
− un gas perfetto sottoposto a laminazione non varia la propria temperatura.

1. Caso dei gas reali. Il processo Joule-Thomson nel caso dei gas reali può essere
convenientemente descritto procedendo alla costruzione della cosiddetta curva di
inversione. Un gas, inizialmente nelle condizioni ( P1 , T1 ) , viene fatto espandere
ripetutamente attraverso una serie di filtri serrati in cascata, misurandone a valle di ogni
filtro la pressione e la temperatura. Tali valori possono essere riportati su di un
diagramma P, T ottenendo così una serie di punti rappresentativi di stati fisici diversi
caratterizzati dallo stesso valore dell’entalpia. Ripetendo l’esperimento partendo da
differenti condizioni iniziali ( P1 , T1 ) si ottiene una serie di curve “isoentalpiche” che

rappresentano il legame tra T e P in un processo di laminazione.


La tangente trigonometrica ad una curva isoentalpica prende il nome di coefficiente
di Joule-Thomson:
 T 
 = 
 P  h

61
Il valore del coefficiente di Joule-Thomson in un determinato stato termodinamico
determina se un fluido, sottoposto a laminazione a partire da quello stato, si raffredderà
o si riscalderà. Infatti, essendo dP sempre negativo (la pressione del gas si riduce
sempre), un valore positivo di  implica dT  0 e cioè raffreddamento. Mentre, un
valore negativo di  implica dT  0 e cioè riscaldamento.
Tutte le curve presentano un punto di massimo in cui  = 0 ed in cui il gas non
modificherà la propria temperatura nel processo di laminazione. La linea congiungente
tali punti (linea di inversione) divide il campo del diagramma in due zone: quella a
destra della linea di inversione in cui   0 (zona del riscaldamento) e quella a sinistra
in cui   0 (zona del raffreddamento).
Per stabilire quali parametri termofisici determinano il comportamento di un fluido
in relazione ai processi di laminazione scriviamo la (4.4.1) in forma differenziale per un
processo quasi-statico che abbia gli stessi stati iniziale e finale (essendo h funzione di
stato)
dh = Tds + vdP = 0 (4.4.2)

Assumendo s = s(T , P) risulta


 s   s 
ds =   dT +   dP (4.4.3)
 T  P  P T

che, ricordando poi la definizione di calore specifico e la IV equazione di Maxwell

 s  1  q  c  s   v 
  =   = P   = −  = − v
 T  P T  dT  P T  P T  T  P
diventa
cP
ds = dT − v TdP (4.4.4)
T
che sostituita nella (4.4.2) dà
cP dT + v(1 − T ) dP = 0
da cui
 T  v
 =  = ( T − 1) (4.4.5)
 P h cP

che mostra come  risulti positivo o negativo a seconda che sia T  1 o T  1 .


Le temperature per cui  = 0 prendono il nome di temperature di inversione. Esse
sono determinate dalla condizione:
Tinv = 1

e corrispondono alle temperature della curva di inversione. Pertanto, in un processo di


laminazione un fluido non modificherà la propria temperatura per T = Tinv mentre si
raffredderà per T  Tinv e si riscalderà per T  Tinv . Inoltre, per temperature superiori al
max
valore massimo delle temperature di inversione (Tinv ) si può avere solo riscaldamento.
La temperatura di inversione della maggior parte dei gas, tranne che per l’idrogeno

62
e l’elio, è abbastanza grande a pressione atmosferica: Tinv (N2 )  600 K ,
Tinv (aria)  659 K , Tinv (O2 )  764 K , Tinv (H2 )  220 K . A temperatura ambiente essi
hanno coefficienti di Joule-Thomson positivi ed i processi di laminazione avvengono di
solito con una diminuzione di temperatura. L’utilizzazione più importante del processo
di laminazione si ha nel campo della liquefazione dei gas e della criogenia (fino a 1 K ).
Ovviamente, per poter sfruttare l’effetto di raffreddamento associato alla laminazione è
max
necessario che il gas si trovi ad una temperatura inferiore a Tinv .

2. Caso dei gas perfetti. Per un gas perfetto ( = 1/ T ) la (4.4.5) fornisce

 =0

Un gas perfetto, dunque, non subisce alcuna variazione di temperatura se sottoposto a


laminazione. Da ciò si evince, inoltre, come il comportamento di un gas reale
approssimi quello di un gas perfetto in prossimità della curva di inversione. Risultando
poi
du = dh − d ( pv) = dh − d ( R'T ) = dh − R' dT = 0

(in quanto nel processo di laminazione dT = dh = 0 ) ne consegue che l’energia interna


e l’entalpia di un gas perfetto dipendono solo dalla temperatura.

3. Caso dei liquidi. Essendo per i liquidi  molto piccolo (  10−3 K −1 ) ne consegue
che in ogni stato risulta
T  1  =0

Un liquido, dunque, si riscalda sempre in un processo di laminazione.

63
CAPITOLO 5

LE TRANSIZIONI DI FASE
5.1 Generalità sulle transizioni di fase
Il sistema termodinamico più semplice è quello costituito da una sostanza pura e cioè
da una sostanza di composizione chimica uniforme e invariabile. Una sostanza pura può
essere costituita da uno o più elementi/composi chimici (elio, aria, miscela acqua-
ghiaccio, etc.). Si definisce fase di una sostanza pura uno stato omogeneo della sostanza
e cioè uno stato in cui le sue proprietà microscopiche (stato di aggregazione) e
macroscopiche (densità, calore specifico, etc.) sono spazialmente omogenee (uniformi)
e variano in maniera regolare e continua al variare dello stato termodinamico. Ogni fase
è inoltre caratterizzata da una ben precisa
equazione di stato f ( P,V , T ) = 0 .
E’ noto, però, come una stessa sostanza
possa esistere sotto diverse fasi e che assume
l’una o l’altra al variare dello stato
termodinamico. Ad esempio, a P = 1 atm
l’acqua è solida per T  0  C , liquida per
0  T  100  C e aeriforme per T  100  C .
Il passaggio da una fase all’altra è
generalmente accompagnato da variazioni
discontinue in tutte le proprietà
termodinamiche e prende il nome di
transizione di fase. Le transizioni di fase più
comuni sono quelle fra liquido e gas (vaporizzazione, liquefazione), solido e liquido
(fusione, solidificazione) e solido e gas (sublimazione).
Quando un sistema si trova in uno stato di transizione, la coesistenza di più fasi,
(ognuna di per sé omogenea) comporta che il sistema sia eterogeneo. Le proprietà
fisiche del sistema (compresa l’equazione di stato), cioè, divengono funzioni del posto e
variano bruscamente nell’attraversare le superfici di separazione delle diverse fasi.
In figura è riportata, a titolo di esempio, l’entalpia specifica h dell’acqua. Le
variazioni h corrispondono al calore fornito a pressione costante. La pendenza della
curva in ogni punto rappresenta il calore specifico a pressione costante cP . Come si
vede, in corrispondenza alle temperature di 0  C e 100  C la funzione presenta una
discontinuità. A tali temperature cP →  ed il calore fornito al sistema non serve ad
elevarne la temperatura (che rimane costante al pari della pressione) ma fa sì che una
certa quantità di sostanza cambi fase. La quantità di calore necessaria per fondere 1 kg
di solido prende il nome di calore latente di fusione. In maniera analoga vengono
definiti il calore latente di vaporizzazione ed il calore latente di sublimazione.
Ovviamente, poiché una transizione di fase avviene a pressione (e a temperatura)
costante, il calore latente qL è pari alla differenza tra le entalpie specifiche delle due
fasi:
h = hII − hI = qL

Analoghe discontinuità sono esibite dalle funzioni di stato u , s e dal volume specifico
v
u = uII − uI s = sII − sI = qL / T v = vII − vI

64
5.2 La regola delle fasi (o di Gibbs)

Nel paragrafo 2.4 si è visto che, come conseguenza della relazione di Gibbs-Duhem un
sistema semplice ad un solo componente chimico ha 2 gradi di libertà (essendo =(T,
P)). Per generalizzare il calcolo a sistemi multicomponenti e non-omogenei si può
osservare come la relazione di Gibbs-Duhem derivi dalla proprietà di omogeneità del
primo ordine della relazione fondamentale e sia una conseguenza diretta della
omogeneità del sistema. Ciò implica che in una transizione di fase, in cui il sistema è la
sovrapposizione di almeno due fasi ciascuna delle quali omogenea per proprio conto,
varrà separatamente una relazione di Gibbs-Duhem per ciascuna fase.
Consideriamo allora un sistema termodinamico costituito da c componenti
chimiche che si trovi in uno stato di equilibrio in cui coesistano f fasi diverse. Il
numero delle variabili termodinamiche che individuano lo stato del sistema sarà dato da
c + 2 . Ad esempio, si useranno le variabili P, T e, in aggiunta, il potenziale chimico di
ciascun componente
1 ,  2 ,..,  c , T , P

Si potranno ora scrivere f equazioni di Gibbs-Duhem, una per ciascuna fase, che
consentiranno di eliminare f delle c + 2 variabili. In definitiva, il numero l di gradi di
libertà sarà
l =c+2− f

relazione nota come regola delle fasi. In base ad essa un sistema costituito da un solo
componente (c = 1) e che si trovi in una singola fase ( f = 1) ha due soli gradi di libertà.
La relazione di Gibbs-Duhem
sdT − vdP + nd = 0

consente infatti di esprimere una delle tre variabili P,T ,  (ad esempio  ) in funzione
delle altre due
 =  (T , P)
con P e T variabili indipendenti.
Analogamente, un sistema monocomponente (c = 1) che si trovi in due fasi ( f = 2)
ha un solo grado di libertà. Scegliendo T come variabile indipendente, ad esempio, si
avrà
P = P(T )  =  (T )

Se le due fasi sono quella del vapore e quella del


liquido allora la curva P = P(T ) viene chiamata
curva della pressione del vapore. Infatti, ad ogni
temperatura, essa fornisce la pressione del vapore
Ps in equilibrio con la fase liquida; questa
pressione viene chiamata pressione di saturazione.
Analogamente, la temperatura Ts alla quale, per
ogni valore di pressione il liquido è in equilibrio
con il vapore viene chiamate temperatura di

65
saturazione. Alla transizione di fase rimangono definiti univocamente anche il volume
specifico della fase vapore, vv , ed il volume specifico della fase liquida, vl :

vv = vv (T ) vl = vl (T )

Infine, se si hanno tre fasi coesistenti ( f = 3) di un sistema monocomponente (c = 1) , la


regola delle fasi stabilisce che esso ha zero gradi di libertà. Infatti le tre equazioni di
Gibbs-Duhem, una per ciascuna fase, determinano univocamente la terna dei valori
P, T ,V in cui può esserci coesistenza delle tre fasi.
Considerando sempre una sola specie chimica e rappresentando gli stati nel piano
P, T (diagramma di stato) la regola delle fasi implica che tale piano sia suddiviso in
regioni ciascuna delle quali corrisponde ad una singola fase (due gradi di libertà)
Tali regioni sono separate da curve (dette curve di coesistenza) che individuano, per
l’appunto, stati in cui si ha coesistenza di due fasi (un grado di libertà).
Infine, punti di intersezione tra tali curve (punti tripli) corrispondono a stati in cui
tre fasi coesistono (zero gradi di libertà).

Punto critico (K) Punto triplo (0)

PK = 218 atm P0 = 0.00602 atm = 611.3 Pa


TK = 374.15  C = 647.3 K T0 = 0.01  C = 273.16 K
vK = 0.003156 m3/kg vv = 206.163 m3/kg
vl = 0.0010 m3/kg
vs = 0.0011 m3/kg

Il diagramma di stato dell’acqua è riportato in figura. La curva a - 0 corrisponde a stati


di equilibrio solido-vapore (curva si sublimazione), la curva 0 - b a stati di equilibrio
solido-liquido (curva di fusione) e la curva 0 - K a stati di equilibrio liquido-gas (curva
di ebollizione o di saturazione). Quest’ultima nella parte superiore termina nel punto K
(punto critico) che è la stato a temperatura più alta in cui possono coesistere liquido e
vapore. Per altre curve di coesistenza tali punti non esistono.
Procedendo lungo la curva di saturazione verso il punto critico le discontinuità in
u , h , s , v ed il calore latente ql divengono progressivamente più piccoli fino ad
annullarsi nel punto K . Le due fasi cioè, divengono sempre più simili finché, al termine
della curva di coesistenza, divengono indistinguibili. Ne consegue che è possibile
effettuare una trasformazione 1 - 2 (vedi figura) in cui il passaggio dalla fase liquida a
quella di vapore (e viceversa) avviene con continuità, senza passare attraverso lo stato
bifasico. E’ facile vedere, inoltre, come per T  TK con nessuna compressione isoterma
sia possibile liquefare il gas.

5.3 L’equazione di Clapeyron


Gli stati di coesistenza di più fasi di una sostanza sono stati di equilibrio termodinamico

66
e pertanto le variabili intensive P,T ,  devono essere spazialmente uniformi (Yi = 0)
su tutta l’estensione della sostanza (non devono cambiare da fase a fase). Usando questa
condizione è possibile dedurre una relazione differenziale per la curva di coesistenza tra
due fasi. Consideriamo, infatti, il diagramma di stato di una generica sostanza ed, in
particolare, un tratto della curva di coesistenza P = P(T ) tra due fasi I e I I . Per quanto
detto sopra, lungo tutta la curva di coesistenza deve valere la condizione

 I (T , P) =  II (T , P)

Differenziando questa relazione

dI (T , P) = dII (T , P)

e tenendo conto della relazione di Gibbs-


Duhem, otteniamo

− SI dT + VI dP = −SII dT + VII dP (5.3.1)

che esprime l’uguaglianza delle variazioni dei potenziali chimici delle due fasi tra due
stati infinitamente vicini. Nella (5.3.1) S I , S II , VI e VII sono entropie e volumi molari.
Dividendo ambo i membri per il peso molecolare Mol della sostanza, è possibile
riscrivere la (5.3.1) in termini di entropie e volumi specifici

− sI dT + vI dP = −sII dT + vII dP
ossia
dP sII − sI
=
dT vII − vI
E poiché
qL
sII − sI =
T

si ottiene infine la relazione differenziale cercata e cioè l’ equazione di Clapeyron

dP qL
= (5.3.2)
dT T ( vII − vI )

Per commentare la (5.3.2) osserviamo che il calore latente è sempre positivo nelle
transizioni liquido→gas (vaporizzazione) e solido→ liquido (fusione) e negativo nelle
transizioni opposte. Da ciò consegue che il segno di dP / dT è determinato dal segno di
(vII − vI ) . Se vII  vI (come accade sempre nel caso di transizioni liquido→gas),
dP / dT sarà positivo, il che significa che aumentando la temperatura aumenta la
pressione di saturazione (o di transizione). Ad esempio, la temperatura di saturazione
dell’acqua alla pressione di 1 atm è di 100  C (a P = 1 atm l’acqua vaporizza, ossia
“bolle”, a T = 100  C ). In montagna, invece, dove la pressione è inferiore a quella

67
atmosferica, l’acqua bolle a T  100  C .
Al contrario, se vII  vI (come accade in certe transizioni solido→liquido) dP / dT
sarà negativo il che significa che un aumento di pressione comporta una diminuzione
della temperatura di transizione. E’ questo il caso dell’acqua che presenta un
comportamento del tutto anomalo dal momento che il volume specifico della fase
liquida, vl , è minore del volume specifico della fase solida, v s (il ghiaccio galleggia
sull’acqua). Ciò significa che a pressioni maggiori di 1 atm la fusione ha luogo a
temperature inferiori a 0  C e viceversa. Abbassando la pressione a 0.006 atm
l’incremento della temperatura di fusione è solo di un centesimo di grado. La
temperatura del punto triplo è infatti di 0.01  C = 273.16 K . Ciò spiega anche la
pendenza negativa della curva di coesistenza solido-liquido dell’acqua mentre nei casi
normali la pendenza è positiva.
Relativamente alla transizione di fase di vaporizzazione è possibile integrare
direttamente l’equazione di Clapeyron sotto le seguenti ipotesi semplificatrici dovute a
Van der Waals:
1) Il calore di vaporizzazione qL è funzione della temperatura ma a pressioni vicine a
quelle ambiente non varia molto e può ritenersi con buona approssimazione costante;
2) Il volume specifico dell’aeriforme, vv , è assai più grande di quello del liquido, vl ,
che si può pertanto trascurare (vv − vl  vv ) ;
3) Il volume specifico dell’aeriforme, vv , si può calcolare con l’equazione di stato dei
gas perfetti: vv = R'T / P .
Sotto queste ipotesi si ha
dP 1 qL
=
dT T  R'T 
 
 P 
ossia, separando le variabili
dP qL dT
=
P R' T 2

che integrata tra due generici stati 1 e 2 fornisce

P2 qL  1 1   q  1 1 
ln =  −  o P2 = P1 exp  L  − 
P1 R'  T1 T2   R'  T1 T2 

che consentono di calcolare la pressione di saturazione dello stato 2 ( P2 , T2 ) a partire


dai dati dello stato 1 ( P1 , T1 )
Alcune relazioni empiriche utili nei calcoli sono la formula di Duperray che
fornisce la pressione di saturazione dell’acqua in funzione della temperatura

4
 T 
Ps =   (90  C  T  270  C)
 100 

(con Ps in [atm] e T in[°C]) e la formula di Regnault che fornisce il calore latente di

68
vaporizzazione dell’acqua in funzione della temperatura

qL = 606.5 − 0.695 T (50  C  T  250  C)

(con T in [ C] e q L in [kcal/kg] ).

5.4 Diagrammi di stato di un sistema ad un componente


La regola delle fasi stabilisce che un sistema ad un componente ed una fase che si trovi
in condizioni di equilibrio ha due soli gradi di libertà. Com’è noto, la relazione
funzionale che lega le (altrimenti indipendenti) variabili termodinamiche P,V , T prende
il nome di equazione di stato:
f ( P,V , T ) = 0

D’altro canto, si è detto come, quando un sistema transisce tra due fasi distinte, è la sua
stessa equazione di stato che cambia. Di conseguenza, occorrerà scrivere diverse
equazioni di stato per le diverse fasi e
fare in modo, eventualmente, che si
raccordino nei punti di transizione.
Un tale modo di procedere,
tuttavia, è praticamente irrealizzabile
dal momento che per le sostanze reali
le equazioni di stato non sono
esprimibili analiticamente se non in
forma approssimata e per domini
limitati delle variabili P,V , T . La
determinazione delle terne di valori
P,V , T che individuano gli stati di
equilibrio fisicamente possibili di una
sostanza nelle sue diverse fasi viene
perciò eseguita sperimentalmente
(facendo riferimento ad 1 kg di
sostanza). Poiché ogni fase ha due soli
gradi di libertà, ne consegue che la
rappresentazione grafica dei punti sperimentali ottenuti in un sistema di coordinate
cartesiane ortogonali P, v, T da luogo ad una superficie (vedi figura).
La proiezione di tale superficie sul piano coordinato ( P, T ) da luogo al diagramma
di stato P, T già discusso nella sezione 5.2 per il caso dell’acqua. Un analogo
diagramma si ottiene proiettando la superficie sul piano coordinato ( P, v) (diagramma
di stato P, v ). Lo studio dei cicli termodinamici seguiti dai fluidi di lavoro utilizzati
nelle macchine termiche rende conveniente pure la rappresentazione delle diverse fasi di
una sostanza nei diagrammi (T , s) , (h, s) e ( P, h) .

Diagramma ( P, v) . Allo scopo di rendere più chiara la rappresentazione del diagramma

69
la regione del liquido viene “dilatata” usando una scala logaritmica per v. Inoltre, poiché
nei problemi termotecnici non si ha a che fare di solito con la fase solida, si
rappresentano normalmente solo le regioni del vapore, del liquido e della loro
coesistenza corrispondenti a temperature superiori a quella del punto triplo.
Le curve isoterme costituiscono un elemento fondamentale del diagramma ( P, v) .
A temperature molto alte l’andamento delle isoterme è circa iperbolico ed indica che il
comportamento della sostanza è assimilabile a quella di un gas perfetto (legge di Boyle-
Mariotte). Al diminuire della
temperatura appaiono però scostamenti
da tale comportamento quasi ideale,
finché, in corrispondenza della
temperatura critica, l’isoterma presenta
un flesso a tangente orizzontale. Per
temperature inferiori a TK le curve
esibiscono un andamento che, in un
tratto sempre più esteso, diventa
rettilineo.
Seguiamo in dettaglio una isoterma
a T  TK in relazione ad una
compressione. Per v  vv il sistema è
allo stato gassoso e la pressione cresce al decrescere del volume. In corrispondenza del
volume vv la compressione produce la comparsa di una nuova fase, il liquido. Poiché il
sistema è ad un solo componente e si ha coesistenza di due fasi esso ha un solo grado di
libertà. Pertanto, essendo la temperatura assegnata, la pressione (che è quella di
saturazione alla temperatura considerata) non può più variare e, ovviamente, non
variano nemmeno i volumi specifici vv e vl rispettivamente del vapore e del liquido:

Ps = Ps (T ) = cost vl = vl (T ) = cost vv = vv (T ) = cos t.

Ciò spiega il tratto rettilineo della isoterma: esso corrisponde alla transizione di fase
vapore → liquido che, per una assegnata temperatura, avviene a P , vl e vv costanti.
Lungo tale tratto la quantità di liquido aumenta sempre più finché, per v = vl , tutto il
sistema diventa liquido. A questo punto la pressione riprende a crescere molto
rapidamente al decrescere di v (le isoterme sono quasi verticali, praticamente
coincidenti con le isocore) indicando la scarsa comprimibilità del liquido. La pendenza
di tale curva corrisponde infatti all’inverso del coefficiente di comprimibilità isoterma

 P  1
  =−
 v T vT

che è molto piccolo per i liquidi (T  10−8 m2 / kg) e molto grande per i gas. Va
osservato, inoltre, come tra vl e vv  T diventi infinito.
La curva ottenuta raccordando tutti i punti in cui inizia a presentarsi la fase liquida
prende il nome di linea del vapore saturo secco o curva limite superiore. Tale linea è il

70
luogo rappresentativo di stati fisici in cui pur potendo coesistere le fasi liquida e gassosa
è presente la sola fase gassosa.
Analogamente, la curva ottenuta raccordando tutti i punti in cui scompare la fase
vapore prende il nome di linea del liquido saturo o curva limite inferiore. Tale linea è il
luogo dei punti rappresentativi di stati fisici di equilibrio in cui pur potendo coesistere le
fasi liquida e gassosa è presente la sola fase liquida.
Le due linee si incontrano nel punto critico K dove la coesistenza liquido-vapore si
riduce ad un punto e l’isoterma critica (a T = TK ) presenta il flesso a tangente
orizzontale. Il punto critico risulta così univocamente e perfettamente definito dal
momento che, in aggiunta alla condizione Ps = Ps (TK ) = PK , i volumi specifici della fase
liquida e della fase gassosa devono coincidere: vl = vv . Il punto critico è pertanto il
punto a temperatura più alta cui può esistere del liquido in equilibrio con il suo vapore.
Oltre tale temperatura la fase liquida non esiste più.
Da quanto detto il piano ( P, v) può essere suddiviso in quattro regioni:
I. La regione compresa tra l’isoterma critica e la curva limite inferiore (regione del
liquido sottoraffrddato o compresso) in cui il fluido si trova nello stato liquido a
pressioni superiori a quella di saturazione alla temperatura considerata;
II. La regione compresa tra le due curve limite (regione o campana del vapore saturo)
in cui si ha coesistenza delle due fasi.
III. La regione compresa tra l’isoterma critica e la curva limite superiore (regione del
vapore surriscaldato) in cui il fluido si trova nello stato gassoso a temperature superiori
a quella di saturazione alla pressione considerata e può essere liquefatto per semplice
compressione;
IV. La regione al di sopra della isoterma critica (regione del gas) in cui il sistema è allo
stato gassoso ma non può essere liquefatto per semplice compressione;
A differenza del diagramma ( P, T ) , pertanto, dove i domini dello stato bifasico
sono rappresentati da curve, nel diagramma ( P, v) i domini dell’equilibrio di fase sono
rappresentati da aree. Poiché il sistema ha un solo grado di libertà, infatti, assegnata la
temperatura rimangono definiti univocamente la pressione di saturazione Ps ed i volumi
specifici delle due fasi vl e vv . La massa, tuttavia, può ripartirsi con percentuale
diversa tra le due fasi e pertanto ogni valore di v corrisponde semplicemente ad un
valore medio pesato di vl e vv e può essere calcolato solo quando sia nota la
composizione della miscela liquido-aeriforme. Quest’ultima viene fissata definendo il
titolo x come il rapporto tra la massa della fase gassosa e la massa totale del sistema:

mv mv
x= = (mv + ml = 1 kg)
mtot mv + ml

Si ha subito allora che la curva del liquido saturo è il luogo dei punti a titolo costante
x = 0 mentre la curva del vapore saturo secco è il luogo dei punti a titolo costante
x = 1 . Un punto interno alla campana con titolo x corrisponderà invece a:

x kg di vapore; (1 − x) kg di liquido

e quindi il volume specifico v x della miscela rimane definito dalla relazione

71
vx = xvl + (1 − x)vv = vl + x(vv − vl )

dove la quantità ( vv − vl ) rappresenta la variazione di volume conseguente alla


vaporizzazione completa, a pressione costante, dell’unità di massa del liquido.

Diagramma (T , s)
Diversamente dal piano di Clapeyron ( P, v) , il piano di Gibbs consente di riportare su
scala lineare tutta la regione a campana di equilibrio liquido-vapore.
La curva limite inferiore passa per il punto triplo 0 per la convenzione sullo stato
di riferimento a partire dal quale vengono calcolati i potenziali termodinamici. Il punto
più alto della campana
corrisponde al punto critico.
Nel campo dei liquidi le
isobare hanno un andamento
con pendenza positiva, avendo
coefficiente angolare

 dT  dT dT T
  = = =
 ds  P  q  dT cP
  cP
 T P T

Integrando tale equazione tra


due generici stati si ottiene

s −s 
T2 s
dT 2 ds
T T = s c P cioè T2 = T1 exp  2 1 
 cP 
1 1

che mostra come nel liquido, finché cP può ritenersi costante, le isobare sono delle
curve esponenziali. In pratica, per pressioni inferiori alla pressione critica PK le isobare
sono vicinissime, praticamente “addossate”, le une alle altre e possono confondersi con
la curva del liquido saturo a x = 0 anche per valori della pressione molto differenti.
Si può calcolare, ad esempio, lo scarto tra l’entropia di un punto A nella regione
del liquido rispetto ad una altro punto B che si trova sulla curva del liquido saturo alla
stessa temperatura. Differenziando la funzione s = s(T , P) e facendo uso della IV
equazione di Maxwell si ha

 s   s   v 
ds =   dT +   dP = −  dP = −  vdP
 T  P  P T  T  P
da cui
B
sB − s A =  −  vl dP = −  vl ( PB − PA )
A

ed essendo   10−3 K −1 e vl  0.001 m3/ kg si ha che la differenza ( sB − s A ) è molto

72
piccola a meno che ( PB − PA ) non sia eccessivamente grande.
Solo per pressioni vicine a quella critica o superiori, invece, le isobare sono ben
distanziate le une dalle altre e l’identificazione con
la curva del liquido saturo non è più lecita.
Poiché le transizioni di fase avvengono a
temperatura e pressione costante, nel campo dei
vapori saturi le isobare hanno andamento rettilineo
parallelo all’asse delle entropie.
Nel campo del vapore surriscaldato e del gas le
isobare sono ancora delle curve esponenziali, in
accordo con l’andamento delle isobare in un gas
perfetto al cui comportamento può assimilarsi
quello del vapore surriscaldato. Per lo stesso
motivo anche le isocore sono nella stessa regione
curve esponenziali ma risultano maggiormente inclinate rispetto alle isobare. Nella
regione del vapore saturo le isocore hanno andamento crescente del tipo illustrato in
figura.
Dalle relazioni
s x = sl + x(sv − sl )
e
s − sl
x= x
s v − sl

si deduce che è possibile costruire le curve a titolo costante dividendo in parti uguali i
segmenti di isoterma che vanno dalla curva limite inferiore alla curva limite superiore.
Per quel che concerne le isoentalpiche, infine, nel campo dei vapori surriscaldati si
rileva che allontanandosi dalla curva di saturazione esse tendono a divenire rette
orizzontali; in questa zona, infatti, il comportamento del vapore è assimilabile a quello
di un gas perfetto per il quale l’entalpia dipende esclusivamente dalla temperatura.

Diagramma (h, s) (diagramma entalpico o di Mollier).


Nello studio dei sistemi aperti quali scambiatori di calore, compressori, pompe, etc. gli
scambi energetici (variazioni dell’entalpia del fluido tra l’ingresso e l’uscita del
dispositivo) sono direttamente leggibili sull’asse delle ordinate del piano entaplico.
La curva limite inferiore passa per l’origine delle coordinate (punto triplo) in
quanto per definizione h0 = s0 = 0 mentre il massimo della curva di saturazione non è in
questa rappresentazione il punto critico bensì il punto di massima entalpia sulla curva
limite superiore (circa 240  C) .
Nel dominio della fase liquida le isobare sono molto vicine alla curva limite
inferiore e, per pressioni inferiori a quella critica, possono essere confuse con essa.
Nel dominio dei vapori saturi le isobare sono delle rette inclinate di coefficiente
angolare Ts . Nel diagramma (h, s) il coefficiente angolare delle isobare è infatti

 h  (q) P + vdP
  = = Ts = cost
 s  P (q) P
Ts

73
avendo tenuto conto del fatto che le
transizioni di fase avvengono a
temperatura e pressione costante
(dP = 0) . Poiché nel dominio dei
vapori saturi le isoterme coincidono
con le isobare tali rette forniscono
anche l’andamento delle isoterme.
Le rette intercettano la curva limite
in due punti le cui coordinate
differiscono di una quantità paria al
calore latente di vaporizzazione:
hv − hl = qL (T ) .
Nel dominio dei vapori
surriscaldati le isobare e le isoterme
divergono. In particolare, le
isoterme tendono a disporsi
parallelamente all’asse s man mano che ci si allontana dalla curva limite e ci si
avvicina al comportamento dei gas perfetti per i quali, com’è noto, le isoterme
coincidono con le isoentalpiche. Le isobare, invece, crescono come curve esponenziali.

Diagramma ( P, h) . Questo diagramma offre l’opportunità di rappresentare


contemporaneamente le proprietà termodinamiche sia della fase liquida che della fase
vapore Una utile proprietà di tale diagramma è che le trasformazioni isobare e le
trasformazioni isoentalpiche vi
vengono rappresentate come segmenti
di retta. Esso si rivela particolarmente
utile per lo studio del campo delle
basse temperature. Per questo motivo
usualmente vengono riportati in
ordinata i valori delle pressioni in
scala logaritmica onde poter appunto
dilatare la zona che interessa i bassi
valori ella pressione.
Nel campo dei vapori saturi,
dovendo le isoterme coincidere con le
isobare, si ha che queste ultime sono
rappresentate da segmenti di retta
paralleli all’asse h . Nel campo dei vapori surriscaldati la pendenza dell’isoterma risulta
negativa. Allontanandosi dalla curva del vapore saturo secco l’isoterma tende a seguire
l’andamento del gas ideale. Al diminuire della pressione la curva tende perciò a disporsi
perpendicolarmente all’asse delle h . Le isoentropiche, infine, sono rappresentate da
curve con pendenza positiva.

5.5 Calcolo delle proprietà termodinamiche u, s, h e v


La valutazione delle proprietà termodinamiche del sistema va fatta tenendo conto che

74
l’energia interna, l’entropia e l’entalpia specifiche sono grandezze definite a meno di
una costante additiva arbitraria. Pertanto, per l’entropia s e per uno delle altre due
funzioni di stato (legate tra loro dalla relazione h = u + Pv è possibile assegnare
arbitrariamente il valore zero in corrispondenza di un determinato stato fisico di
riferimento.
Nel caso dell’acqua si è scelto
come stato di riferimento standard il
punto triplo 0 sulla curva limite
inferiore cui si è posto u0 = 0 e s0 = 0 .
Risultando d’altro canto
−4
h0 = u0 + P0 v0 = 1.5 10 kcal/kg è
lecito assumere anche h0  0 .
Non tutti i fluidi, però, trovano
pratico impiego in condizioni prossime
a quelle del punto triplo. In particolare,
per i refrigeranti, utilizzati nelle
macchine frigorifere, lo stato standard
viene talvolta fissato sulla curva del liquido saturo alla temperatura T = −40  C .

1 Caso . Valutiamo le grandezze v , u , h ed s in un generico stato 1 appartenente alla


curva del liquido saturo. Poiché le grandezze u , h ed s sono funzioni di stato possono
essere valutate lungo una qualsiasi trasformazione che porti il sistema dallo stato di
riferimento, 0 , allo stato 1 . Se la trasformazione viene eseguita lungo la curva limite
inferiore (di calore specifico costante cl = 1 kcal/ kg K ) si ottiene facilmente

v1 = cost (= 0.001 m3/kg)


1 1 1 1
h1 = h0 +  dh =  (q + vdP) =  cl dT +vl  dP = cl (T1 − T0 ) + vl ( P1 − P0 )  cl (T1 − T0 )
0 0 0 0

u1 = h1 − P1v1  cl (T1 − T0 )  h1
1 1
q 1
dT T
s1 = s0 +  ds =   cl  = cl ln 1
0 0
T 0
T T0

avendo considerato cl = cost ed avendo trascurato i prodotti vl ( P1 − P0 ) e Pv 1 l dal

momento che per pressioni P1 non troppo elevate ( 2 / 3 PK ) risultano molto piccoli.

2 Caso . Lo stato 2 appartenga alla curva del vapore saturo secco. Considerando la
trasformazione a pressione costante 1 - 2 e tenendo conto che lungo tale trasformazione
le variazioni di entalpia coincidono con il calore latente di vaporizzazione si ha

v2 = RT2 / P2
2 2
h2 = h1 +  dh = cl (T1 − T0 ) +  q = cl (T1 − T0 ) + qL (T1 )
1 1

75
u2 = h2 − P2 v2  cl (T1 − T0 ) + qL (T1 ) − RT2
2 2
q T1 qL (T1 )
s2 = s1 +  ds = s1 +  = cl ln +
1 1
T T0 T1

avendo considerato il vapore saturo secco alla stregua di un gas perfetto.

3 Caso . Per uno stato all’interno della campana di titolo x avremo semplicemente

RT2
v x = v1 + x( v2 − v1 )  v1 + x v2 = v1 + x
P2
hx = h1 + x(h2 − h1 ) = cl (T1 − T0 ) + xqL (T1 )
 RT2 
u x = hx − Px vx = cl (T1 − T0 ) + x qL (T1 ) − P2  v1 + x 
 P2 
T q (T )
sx = s1 + x( s2 − s1 ) = cl ln 1 + x L 1
T0 T1

4 Caso . Per uno stato 3 nella regione del gas avremo, considerando la trasformazione
a pressione costante 2 - 3

v3 = RT3 / P3
3 3
h3 = h2 +  dh = cl (T1 − T0 ) + qL (T1 ) +  q = cl (T1 − T0 ) + qL (T1 ) + cP (T3 − T2 )
2 2

u3 = h3 − P3v3  cl (T1 − T0 ) + qL (T1 ) + cP (T3 − T2 ) − RT3


3 3
q T1 qL (T1 ) T
s3 = s2 +  ds = s2 +  = cl ln + + cP ln 3
2 2
T T0 T1 T2

76
CAPITOLO 6

ANALISI DEI CICLI DELLE MACCHINE


TERMICHE
6.1 Generalità sulle macchine termiche
Vengono denominate macchine termiche o motori termici tutti i dispositivi e gli
impianti che, operando secondo un ciclo diretto, producono lavoro (potenza meccanica
all’albero rotante di un motore) prelevando calore da una sorgente termica. Esse
vengono distinte in macchine a combustione esterna e macchine a combustione interna
a seconda che il calore di alimentazione provenga da una sorgente esterna alla macchina
(bruciatore, fonte geotermica, reattore nucleare, sole, etc.) o invece derivi da un
processo di combustione che ha luogo all’interno della macchina stessa.
Per determinare la forma più opportuna da dare al ciclo termodinamico della
macchina si potrebbe far riferimento al ciclo che presenta il massimo valore del
rendimento termodinamico: il ciclo di Carnot. In un ciclo a gas, ad esempio, in cui il
fluido di lavoro rimane sempre in fase aeriforme durante l’intero ciclo, le trasformazioni
adiabatiche sono sempre realizzabili con buona approssimazione. E’ sufficiente che
l’espansione (o la compressione) avvenga molto rapidamente in modo da limitare al
massimo gli scambi di calore con
l’esterno (essenzialmente per conduzione
attraverso le pareti della camera). Le
trasformazioni isoterme, invece, sono
tecnicamente difficili da realizzare. Esse,
infatti, devono avvenire in maniera
reversibile e ciò implica l’utilizzo di
scambiatori di calore con superfici di
scambio molto grandi ed una durata del
ciclo molto lunga (teoricamente infinita).
Nella realtà, per ottenere valori elevati
della potenza erogata da una macchina è
necessario che vengano completati
parecchi cicli per unità di tempo. D’altro
canto, l’area racchiusa all’interno di un ciclo di Carnot (e quindi il lavoro prodotto per
ciclo) è assai modesta (vedi figura) dal momento che l’indice di politropica
dell’isoterma (n = 1) non differisce molto da quello dell’adiabatica ( n = 1.6667 al
massimo per un gas monoatomico). Si potrebbe pensare anche di aumentare il lavoro
prodotto per ciclo ( L = cQ1 ) aumentando la quantità di gas contenuta nella macchina,
ma ciò comporta un eccessivo aumento delle dimensioni e quindi del peso della
macchina stessa. Queste ragioni precludono la realizzazione pratica di una macchina di
Carnot.
Ad ogni modo, l’utilità del ciclo di Carnot deriva dall’essere il ciclo teorico di
riferimento con il quale confrontare le prestazioni di tutti gli altri cicli reali. Dal suo
studio derivano le seguenti importanti informazioni applicabili a tutti i cicli: (a) per
avvicinare il rendimento di una macchina a quello teorico di Carnot (c = 1 − T2 / T1 ) è
necessario limitare quanto più possibile l’insorgere di irreversibilità; (b) il rendimento
termico di una macchina aumenta all’aumentare della temperatura media T 1 delle
sorgenti “calde” e al diminuire della temperatura media T 2 delle sorgenti “fredde”.
Tuttavia, le temperature delle sorgenti e dei pozzi che possono essere utilizzati nella
pratica non sono prive di limitazioni. La temperatura più alta in un ciclo è limitata dalla
massima temperatura che i componenti dei motori termici, come i pistoni di un motore

77
alternativo o le pale di una turbina, possono tollerare senza perdere la necessaria
resistenza meccanica. La temperatura più bassa, invece, è limitata dalla temperatura dei
pozzi termici disponibili come laghi, fiumi o l’atmosfera.

6.2 Ciclo dei motori a gas


Per semplificare lo studio dei motori che funzionano con cicli a gas si fa riferimento a
cicli ad aria standard per cui valgono le seguenti approssimazioni e idealizzazioni:
(a) il fluido di lavoro è schematizzabile come gas perfetto a calori specifici costanti;
(b) La combustione e l’espulsione sono rappresentate con scambi termici con sorgenti
esterne di una massa costante di gas (pari a 1 kg ) di composizione chimica invariabile;
(c) tutti i processi sono quasi-statici (internamente reversibili) e si trascurano gli effetti
dell’attrito, della viscosità (ad es. le perdite di carico nelle tubazioni etc.), etc.
(d) si trascurano le variazioni di energia cinetica e potenziale del fluido di lavoro.

Ciclo Stirling.
Lo stesso rendimento del ciclo di Carnot può essere ottenuto, in linea di principio, da
una macchina a combustione esterna che esegua il ciclo Stirling a rigenerazione
completa. Consideriamo, ad esempio, un ciclo di Carnot delimitato dalle due
trasformazioni isoterme 2 - 3 (a T1 ) e 4 - 1 (a T2 ) ed un altro ciclo formato dalle
stesse isoterme e dalle due trasformazioni isocore 1 - 2 e 3 - 4 (ciclo Stirling). Un ciclo
di questi tipo può avere lo stesso rendimento del ciclo di Carnot purché gli scambi di

calore con l’esterno avvengano solo lungo le isoterme mentre il calore ceduto dal fluido
motore nella trasformazione 3 - 4 non venga scaricato nell’ambiente esterno, ma venga
restituito (mediante apparecchi ausiliari detti rigeneratori) al fluido motore nella
trasformazione 1 - 2 , dovendo risultare inoltre | Q12 |=| Q34 | . Da un punto di vista
termodinamico, quindi, i cicli a rigenerazione sono quanto di meglio si possa concepire
dopo il ciclo di Carnot. I rendimenti pratici che si ottengono sono abbastanza elevati
( 0.4) .
Lo schema semplificato di una macchina funzionante secondo il ciclo Stirling
prevede due cilindri in cui scorrono a tenuta due pistoni separati da un rigeneratore R .

78
Il funzionamento può essere schematizzato secondo le seguenti quattro fasi.

1a Fase (1-2). Il fluido è contenuto tutto nel cilindro di destra. Il pistone di sinistra è
fermo mentre l’altro si allontana dal rigeneratore espandendo il fluido che assorbe
calore dalla sorgente calda a temperatura costante (T1 ) e producendo lavoro.

2a Fase (2-3). I pistoni si muovono insieme verso sinistra (a volume totale costante)
sospingendo il fluido dal cilindro di destra in quello di sinistra attraverso il rigeneratore.
Durante il processo il fluido deposita calore nel rigeneratore raffreddandosi da T1 a T2 .

3a Fase (3-4). Il fluido è contenuto tutto nel cilindro di sinistra. Il pistone di destra è
fermo mentre l’altro avanza verso il rigeneratore comprimendo il fluido che cede calore
alla sorgente fredda a temperatura costante (T2 ) assorbendo lavoro.

4a Fase (4-1). I pistoni si muovono insieme verso destra (a volume totale costante)
sospingendo il fluido dal cilindro di sinistra in quello di destra attraverso il rigeneratore.
Durante il processo il fluido preleva dal rigeneratore il calore precedentemente
depositato riscaldandosi da T2 a T1 .

I principali vantaggi di questo tipo di macchine sono (a) l’utilizzo di un fluido di lavoro
permanente; (b) l’impiego di sorgenti di calore esterne diversificate (solare,
combustione, etc.); (c) la somministrazione di calore in maniera continua; (d) l’assenza
di valvole. Per contro, le trasformazioni isoterme richiedono l’utilizzo di scambiatori di
calore con superfici di scambio molto estese.

Ciclo Otto (1876).


E’ il ciclo termodinamico ideale del motore a scoppio (a combustione interna) che può
essere schematizzato come un dispositivo cilindro-pistone collegato ad un albero rotante
(albero motore) mediante un dispositivo biella-manovella.
Questi propulsori (utilizzati nella stragrande maggioranza delle automobili,
autocarri, aeroplani leggeri etc. con potenze di esercizio inferiori a circa 225 kW )
vengono definiti motori a quattro tempi in quanto il ciclo termodinamico si compie
mentre il pistone esegue quattro corse complete all’interno del cilindro e, cioè, mentre
l’albero motore compie due giri (benché esistano anche versioni di motore a due tempi).
Riportando le trasformazioni in un diagramma di Watt si possono individuare,
schematicamente, le seguenti fasi:

Fase di aspirazione (0-1). Con la valvola di aspirazione aperta il pistone si muove verso
il PMI aspirando così il fluido di lavoro, costituito da una miscela infiammabile di aria
e carburante (ad es. vapori di benzina), nel cilindro motore.

1a Fase (1-2). E’ la fase di compressione adiabatica che avviene per effetto


dell’avanzamento del pistone verso il punto morto superiore (PMS) (a valvole chiuse)
con aumento della pressione e della temperatura. I valori di P e T raggiunti non sono
eccessivamente alti per evitare che la miscela si accenda spontaneamente (fenomeno
della detonazione o preaccensione).

79
2a Fase (2-3). L’accensione della scintilla tra gli elettrodi della candela provoca la
combustione (scoppio) della miscela con lo sviluppo di una notevole quantità di calore
che fa innalzare ulteriormente la temperatura e la pressione dei gas combusti. Poiché
tale combustione è molto rapida ed avviene quando il pistone si trova vicino al PMS (di
inversione della velocità) la trasformazione può essere schematizzata come una isocora
in cui l’aria assorbe calore da una serie di sorgenti esterne a temperature comprese tra
T2 e T3
| q1 |= cV (T3 − T2 )

3a Fase (3-4). E’ la fase della espansione adiabatica dei gas combusti che, a causa della
elevata pressione, producono lavoro sul pistone spingendolo verso il punto morto
inferiore (PMI) e mettendo così in rotazione l’albero motore. A causa dell’espansione
stessa la pressione e la temperatura diminuiscono. Al termine di questa fase il pistone si
trova al PMI e si è completato il ciclo meccanico.

4a Fase (4-1). Si ha l’espulsione dal cilindro motore di una parte dei gas combusti
(valvola di espulsione aperta) finché la pressione non scende al valore atmosferico;
durante questa fase il pistone non si muove ed il volume della camera è costante. Questa
fase viene schematizzata con una isocora in cui il gas cede calore a una serie di sorgenti
a temperature comprese tra T4 e T1 .
| q2 |= cV (T4 − T1 )

Fase di espulsione (1-0). E’ la fase di scarico in cui il pistone, movendosi verso il


PMS, spinge i gas residui al di fuori del cilindro motore.

Per una analisi semplificata del ciclo basta osservare che

| l | | q1 | − | q2 | |q | c (T − T )
Otto = = = 1− 2 = 1− V 4 1
| q1 | | q1 | | q1 | cV (T3 − T2 )

ossia (tenendo conto che nei cicli simmetrici risulta T1T3 = T2T4 )

80
(T4 − T1 ) T (T / T − 1) T
Otto = 1 − = 1− 1 4 1 = 1− 1 (6.3.1)
(T3 − T2 ) T2 (T3 / T2 − 1) T2

Osservando ora che la trasformazione 1-2 è una adiabatica si ha

k −1
T1  v2 
= 
T2  v1 

che, sostituita nella (6.3.1), fornisce la seguente espressione per il rendimento del ciclo
Otto
T 1 1
Otto = 1 − 1 = 1 − = 1 − k −1
T2  v1 
k −1
V
 
 v2 

V = v1 / v2 essendo il rapporto volumetrico di compressione (rapporto tra il volume al


PMI ed il volume al PM S ).
Il rendimento del ciclo cresce dunque al crescere di V e di k . Da qui la tendenza a
costruire motori con alti rapporti di compressione. Tuttavia, il valore di V non può
essere troppo elevato per evitare il pericolo della preaccensione (al crescere di V
cresce infatti T2 ). Poiché k diminuisce all’aumentare delle dimensioni delle molecole,
si ha che un ciclo Otto ideale che utilizzi un gas monoatomico (come l’argon o l’elio per
i quali k = 1.667 ) come fluido di lavoro ha il rendimento termico più elevato.
Nei motori per la propulsione stradale oggi sono adottati rapporti di compressione
fino a 10  12 . A questi valori e per k = 1.4 corrisponde, in base al diagramma, un
rendimento termodinamico ideale di 0.6  0.63 . Nella realtà, a causa delle irreversibilità
(attriti, turbolenze, gradienti termici, etc.) e poiché il fluido evolvente contiene molecole
più grandi rispetto a quelle dell’aria, (come ad esempio le molecole di biossido di
carbonio) il rendimento dei motori a combustione interna a ciclo Otto non supera
0.25  0.3 .

Ciclo Diesel (1890).


Il ciclo Diesel si distingue dal ciclo Otto sostanzialmente solo per il modo in cui avviene
l’accensione del combustibile.
In pratica, non si comprime lungo la trasformazione 1-2 aria carburata (cioè una
miscela di aria e combustibile) bensì aria pura. In tal modo, poiché non esiste pericolo
di detonazione, possono essere raggiunti valori di V molto più elevati (12  24) con un
effetto benefico su rendimento. Per lo stesso motivo possono essere usati combustibili
meno pregiati. Alla fine della compressione l’aria raggiunge una temperatura
(500, 600  C) più elevata di quella di autoaccensione del combustibile cosicché quando
quest’ultimo viene iniettato nel cilindro si accende spontaneamente. L’immissione
dell’olio è dosata in modo da avere una combustione “lenta” (più lenta di quella dei
motori a benzina) approssimativamente isobara, durante la quale il pistone si muove
verso l’esterno producendo lavoro utile sull’albero motore. Questa è l’unica
trasformazione in cui il ciclo Otto ed il ciclo Diesel differiscono, le rimanenti tre

81
trasformazioni essendo invece le stesse.
Procedendo in maniera del tutto analoga a quanto fatto per il ciclo Otto si perviene

alla seguente espressione approssimata per il rendimento del ciclo Diesel

| q2 | c (T − T ) 1 T1 (T4 / T1 − 1) 1 1 (T4 / T1 − 1)
 Diesel = 1 − = 1− V 4 1 = 1− = 1−
| q1 | cP (T3 − T2 ) k T2 (T3 / T2 − 1) k Vk −1 (T3 / T2 − 1)
e cioè
1  1  rck − 1 
 Diesel = 1 −   
Vk −1  k  rc − 1 

rc = v3 / v2 essendo il rapporto di cutoff. Tale espressione mostra come il rendimento


del ciclo Diesel aumenti, come nel caso del ciclo Otto, all’aumentare del rapporto di
compressione. L’espressione di  Diesel differisce tuttavia da quello del ciclo Otto per il
termine in parentesi quadra che è pari a 1 per rc = 1 , essendo una funzione crescente di
rc . Pertanto, a parità di rapporto volumetrico di compressione risulta Diesel  Otto e, per
un fissato V ,  Diesel diminuisce all’aumentare di rc . I motori Diesel, tuttavia,
funzionano con rapporti volumetrici di compressione molto più elevati rispetto ai motori
a benzina e perciò, di solito, hanno un rendimento termico più elevato che risulta essere
circa 0.35, 0.4 .
Per il rendimento termico più elevato e per il minor costo del combustibile, i motori
Diesel risultano particolarmente adatti nelle applicazioni che richiedono potenze
relativamente elevate come locomotive, generatori elettrici di emergenza, grandi navi ed
autocarri pesanti.

Ciclo Brayton-Joule (1870).


Il moto rettilineo alternato del pistone nei motori Otto e Diesel non permette di costruire
motori a pistoni di grande potenza e di piccole dimensioni. Nelle turbine a gas il moto
rettilineo alternato del pistone è sostituito dal moto rotatorio di una turbina sotto
l’azione del getto di gas. Il ciclo teorico realizzato in questi dispositivi è quello di
Brayton-Joule che schematicamente si compone delle seguenti fasi:

82
1a Fase (1-2). E’ la fase di compressione adiabatica che avviene nel turbocompressore
con aumento della pressione e della temperatura dell’aria.

2a Fase (2-3). L’aria ad alta pressione viene immessa in camera di combustione dove
viene bruciato del combustibile a pressione costante. Il calore | q1 | sviluppato nel
processo di combustione corrisponde approssimativamente a:

| q1 |= cP (T3 − T2 )

3a Fase (3-4). I gas combusti ad alta temperatura e pressione entrano in turbina dove
producono lavoro espandendosi adiabaticamente fino alla pressione atmosferica (il che
garantisce un guadagno supplementare in lavoro rappresentato dall’area 441 rispetto ai
cicli Otto e Diesel).

4a Fase (4-1). Si ha l’espulsione dalla turbina dei gas caldi che, miscelandosi con l’aria
esterna, si raffreddano tornando alle condizioni iniziali 1 . Il calore scambiato dai gas
combusti vale approssimativamente
| q2 |= cP (T4 − T1 )

Il rendimento del ciclo Brayton ideale è espresso quindi dalla relazione:

|l | |q | c (T − T ) T (T / T − 1) T
 BJ = = 1− 2 = 1− P 4 1 = 1− 1 4 1 = 1− 1
| q1 | | q1 | cP (T3 − T2 ) T2 (T3 / T2 − 1) T2

dove si è usata la proprietà sul prodotto incrociato delle variabili termodinamiche nei

83
cicli simmetrici. Tenendo conto che la trasformazione di compressione 1 - 2 è una
adiabatica si può scrivere
(1− k )
T1  P2  k
= 
T2  P1 
per cui
T1 1 1
 BJ = 1 − = 1− ( k −1)
= 1− ( k −1)
T2
 P2  k
 k
  P

 P1 

 P = P2 / P1 essendo il rapporto monometrico di compressione. Il rendimento del ciclo


aumenta dunque all’aumentare di  P e k (l’aumento con  P si spiega osservando che
maggiore è  P più alta è la temperatura media di apporto del calore).
Nel ciclo Brayon-Joule la temperatura più alta viene raggiunta alla fine del processo
di combustione (stato 3 ) ed è limitata dalla massima temperatura che le pale della

turbina possono sopportare. Questa limitazione pone una soglia anche al rapporto
manometrico di compressione che può essere utilizzato nel ciclo e, conseguentemente,
al rendimento termico del ciclo stesso. Il rivestimento delle pale della turbina con strati
ceramici ed il loro raffreddamento con aria prelevata dal compressore permettono alle
turbine odierne di operare con rapporti manometrici di compressione compresi tra 11 e
16 , tollerare temperature d’ingresso di  1400  C e ottenere rendimenti ben oltre 0.3 .
Per una data temperatura massima di ingresso in turbina (T3 ) il valore ottimale di
 P si potrebbe determinare massimizzando l’efficienza. Dalla figura si vede, tuttavia,
che aumentando P2 (al fine di incrementare  P e quindi  ) la temperatura di uscita dal
compressore, T2 , approccia la temperatura massima operativa T3 . Ma così facendo,
l’area racchiusa dal ciclo tende a divenire nulla e con essa il lavoro netto prodotto. Si
potrebbe aumentare il lavoro incrementando la portata di fluido ma ciò comporterebbe

84
motori di maggiori dimensioni e più pesanti. Un criterio più utile è quello di
massimizzare il lavoro netto per unità di massa che è dato da

l =| q1 | − | q2 |= cP [(T3 − T2 ) − (T4 − T1 )]

Per trovare il valore di T2 che massimizza l differenziamo la relazione precedente


rispetto a T2
l  dT dT dT 
= cP  3 − 1 − 4 + 1 
T2  dT2 dT2 dT2 

Il primo è il quarto termine a secondo membro di questa equazione sono nulli in quanto
T3 (la temperatura d’ingresso della turbina) e T1 (la temperatura atmosferica) sono
fissate e costanti. Il valore massimo di l si ha in corrispondenza di quel valore di T2 che
annulla la derivata
l dT
= −1 − 4 = 0
T2 dT2

Per trovare la relazione tra T4 e T2 usiamo la proprietà sul prodotto incrociato delle
variabili termodinamiche nei cicli simmetrici

T1T3
T1T3 = T2T4 o T4 =
T2
da cui
dT4 TT
= − 1 23
dT2 T2

che sostituita nell’espressione della derivata l / T2 fornisce

T1 T
T2 = T1T3 e = 1
T2 T3

Un metodo comunemente impiegato per aumentare il rendimento dei motori è quello di


utilizzare un rigeneratore per preriscaldare l’aria calda in uscita dal turbocompressore
mediante scambio termico con i gas combusti caldi in uscita dalla turbina (generalmente
a temperatura più elevata). In tal modo si riduce la quantità di calore (e quindi di
combustibile) che deve essere fornito al fluido evolvente per produrre lo stesso lavoro
netto e il rendimento aumenta.
E’ importante rilevare come negli impianti motori a turbina a gas il rapporto tra il
lavoro di compressione ed il lavoro fornito dalla turbina è molto levato. Di solito più di
metà del lavoro fornito dalla turbina viene utilizzato per muovere il compressore.
I motori a turbina a gas trovano applicazione essenzialmente nella propulsione
aerea ed in maniera limitata nella propulsione navale e nella produzione di energia
elettrica. La loro diffusa utilizzazione nella propulsione aerea è dovuta al fatto che sono
leggeri, compatti ed hanno un elevato rapporto potenza/peso. In genere, il fluido, prima

85
di entrare nel compressore passa attraverso un diffusore dove viene decelerato con
conseguente aumento della pressione. I gas in turbina, inoltre, non si espandono fino
alla pressione atmosferica ma fino ad una pressione tale che la potenza prodotta dalla
turbina sia quella sufficiente per muovere il compressore ed i dispositivi ausiliari
(essenzialmente un piccolo generatore di energia elettrica ed alcune pompe idrauliche).
Pertanto, il lavoro netto prodotto è zero e la spinta propulsiva per l’aeromobile viene
ottenuta accelerando in un ugello i gas ad pressione che escono dalla turbina.

6.3 Ciclo degli impianti termomotori a vapore


La maggior parte dell’energia elettrica utilizzata in tutto il mondo viene prodotta con
macchine termomotrici a vapore. In questi impianti il fluido di lavoro evolve
ciclicamente tra la fase liquida (in una parte del circuito) e quella vapore (nella parte
rimanente del circuito). Il fluido evolvente più comunemente utilizzato è l’acqua per il
suo basso costo, la grande disponibilità,
l’elevata entalpia di vaporizzazione.
Il ciclo teorico seguito è il ciclo di
Rankine la cui forma risponde alla
considerazione del fatto che in teoria è
possibile realizzare un ciclo di Carnot
utilizzando un vapore saturo. E’ possibile
infatti realizzare la trasformazione isoterma
( 2 - 3 ) ad alta temperatura (T1 ) con una
vaporizzazione in caldaia. Analogamente, è
possibile realizzare la trasformazione
isoterma ( 4 - 1 ) a bassa temperatura (T2 )
mediante una condensazione in uno
scambiatore di calore (condensatore). Le due trasformazioni adiabatiche ( 1 - 2 e 3 - 4 ) si
possono realizzare poi facendo passare il fluido da un valore all’altro della pressione
rispettivamente entro compressori ed espansori (turbine) termicamente isolati.
Lo schema descritto è però praticamente irrealizzabile a causa dei seguenti
problemi tecnici.
(a) nella compressione adiabatica 1 - 2 il compressore lavora con un vapore saturo ed è
quindi soggetto a notevoli corrosioni chimiche ed erosioni meccaniche. Esso, inoltre,
viene a comprimere un vapore saturo d’acqua che ha un volume relativamente grande.
Ciò implicherebbe dimensioni eccessive per il cilindro, se si vogliono mantenere portate
di fluido adeguate, e un lavoro di compressione abbastanza elevato. D’altro canto,
l’eventuale presenza di liquido nel cilindro può far nascere il pericolo che al PMS il
pistone si trovi a comprimere un volume pieno di liquido (incomprimibile) subendo così
dei colpi che possono danneggiarlo (colpi di liquido). Il velo di liquido sulle pareti del
compressore, infine, aumenterebbe gli scambi termici con l’esterno ed allontanerebbe la
trasformazione dalla adiabatica teorica.
(b) nell’espansione adiabatica in turbina 3 - 4 il titolo del vapore diminuisce man mano
che l’espansione procede e cioè aumenta il contenuto di acqua. Poiché la velocità che il
vapore può raggiungere in una turbina è molto grande, l’eventuale presenza di gocce di
liquido nella corrente che investe le palette potrebbe portare ad una rapida erosione o

86
alla rottura di queste.
(c) nella condensazione 4 - 1 non è non è facile arrestare il processo al titolo x1 .
Per risolvere questi problemi tecnici, senza peraltro rinunciare ad utilizzare elevati
valori del salto di pressione, il ciclo originario viene modificato nel seguente modo:
(1) si fa avvenire la condensazione completa del vapore d’acqua nel condensatore
( x1 = 0) così da effettuare la compressione nella regione del liquido mediante una
pompa;
(2) si introduce tra la caldaia e la turbina uno scambiatore di calore (surriscaldatore)
all’interno del quale il vapore saturo secco a T1 viene portato nello stato di vapore
surriscaldato all’ingresso della turbina. La temperatura di surriscaldamento T3 viene
scelta in modo che al termine dell’espansione in turbina il titolo del vapore saturo sia
molto prossimo all’unità ( x  0.9) . In tal modo la turbina lavora essenzialmente con un
fluido in fase aeriforme.
In definitiva, il funzionamento della macchina a vapore avviene mediante la
successione delle seguenti trasformazioni (con l’avvertenza che si tratta di
trasformazioni ideali che non tengono conto, cioè, di irreversibilità quali la caduta di
pressione nei condotti dovuta all’attrito viscoso o delle irreversibilità associate alla
espansione in turbina che allontanano dall’isoentropica teorica):

Trasformazione 1-2. Il liquido saturo (punto 1 ), viene compresso dalla pompa di


alimentazione dalla pressione P2 fino alla pressione P1 di funzionamento della caldaia
(punto 2 ). La trasformazione può essere considerata approssimativamente isoentropica

ed avviene con un leggero riscaldamento dell’acqua (dovuto alla compressione). Ai fini


della valutazione del rendimento il lavoro speso nella compressione del liquido è
trascurabile. Per una pompa che lavori, ad esempio, tra P2 = 0.5 atm e P1 = 5 atm si ha:

P1

lP = (h1 − h2 )  −  vdP = vl ( P2 − P1 ) = 0.001 (0.5 − 5) 101325 = −0.456 kJ


P2

Trasformazione 2-3. L’acqua entra in caldaia (punto 2 ) dove viene riscaldata a


pressione costante dalla temperatura T2 alla temperatura di saturazione T1 (punto 2 ).

87
Quì comincia a vaporizzare fino a divenire vapore saturo secco (punto 2 ). A questo
punto il vapore viene immesso nel surriscaldatore e portato, sempre a pressione
costante, fino alla temperatura di ingresso in turbina T3 . Poiché le variazioni di energia
cinetica e potenziale del vapor d’acqua sono di solito trascurabili rispetto alle quantità di
calore scambiato, il primo principio per i sistemi aperti in regime stazionario fornisce
per la quantità di calore assorbita dall’unità di massa di fluido

q1 = (h3 − h2 )  (h3 − h1 ) ( 0)

Trasformazione 3-4. Il vapore in uscita dal surriscaldatore, (punto 3 ), entra in turbina


dove opera una espansione adiabatica (isoentropica) con abbassamento della pressione e
della temperatura ai valori che competono al punto 4 . Il lavoro specifico prodotto

lT = (h3 − h4 ) ( 0)

viene utilizzato per mettere in rotazione un albero che spesso è collegato ad un


generatore elettrico

Trasformazione 4-1. Al termine dell’espansione (punto 4 ) l’acqua si ritrova nello stato


di vapore saturo secco o vapore umido di titolo molto elevato. Il vapore entra quindi nel
condensatore dove condensa (a T2 = cost ) fino a divenire liquido saturo (punto 1 ). La
quantità di calore ceduta dall’unità di massa di fluido all’acqua di raffreddamento è

q2 = (h1 − h4 ) ( 0)

Tale calore viene disperso nell’ambiente inviando l’acqua di raffreddamento in uscita


dal condensatore in torri di raffreddamento.

Il rendimento del ciclo è

| l | lP + lT (h1 − h2 ) + (h3 − h4 ) (h3 − h4 )


= = = 
| q1 | | q1 | (h3 − h1 ) (h3 − h1 )

dove si è trascurato il lavoro speso per l’azionamento della pompa.


I principali metodi per aumentare il rendimento del ciclo sono i seguenti:
(1). L’aumento della temperatura di vaporizzazione T1 (mantenendo T3 costante)
incrementa il rendimento del ciclo. All’aumentare di T1 , infatti, aumenta la temperatura
media cui avviene l’assorbimento di calore sicché il salto di temperatura ( (T 1 − T 2 )
cresce ed il rendimento aumenta. Valori di T1 molto alti comportano però pressioni assai
elevate in caldaia ( 30 MPa negli impianti attuali). Volendo rimanere nel campo dei
vapori saturi il massimo valore che può assumere T1 è quello della temperatura critica
TK = 374  C . Così facendo, però, il ciclo originario si distorce (si sposta verso sinistra)
e ciò determina, a sua volta, la diminuzione del titolo della miscela in uscita dalla
turbina.

88
(2). Il salto di temperatura (T1 − T2 ) , e quindi il rendimento, aumenta abbassando la
temperatura di condensazione T2 . E’ questo il motivo per cui il vapore uscente dalla
turbina non viene scaricato direttamente in atmosfera ma viene immesso in un
condensatore operante ad una pressione inferiore a quella atmosferica. La temperatura
di condensazione T2 , tuttavia, non può essere inferiore a quella dei pozzi termici
disponibili (generalmente Tamb ) dal momento che il flusso termico ceduto dal fluido di

lavoro nel condensatore è causato dal salto termico T2 − Tamb . Per questi valori di T2 ,
inoltre, il condensatore lavora a pressioni assai basse (0.047 bar a 40  C) e quindi il suo
funzionamento è legato al mantenimento di un vuoto abbastanza spinto con relativi
problemi di tenuta, estrazione d’aria e dimensione (spessore) degli scambiatori. D’altro
canto, va tenuto presente che un abbassamento di T2 una diminuzione del titolo della
miscela in uscita dalla turbina.
(3). L’aumento della temperatura di
surriscaldamento T3 (mantenendo
costante la pressione in caldaia)
aumenta il rendimento della macchina
dal momento che determina un
incremento della temperatura media cui
avviene l’assorbimento di calore.
Inoltre, determina come ulteriore effetto
positivo un aumento del titolo
dell’acqua in uscita dalla turbina
(benché sia da evitare che il vapore in
uscita dalla turbina sia surriscaldato dal
momento che ciò determina un aumento
della temperatura media T2 cui ha luogo
la sottrazione di calore). Per evitare il raggiungimento di temperature T3 troppo elevate
e, in particolare, superiori al limite imposto dalle caratteristiche termofisiche dei
materiali usati per la turbina (circa 620  C ), si usa il metodo del surriscaldamento in
più stadi. L’espansione nella turbina non viene spinta fino alla pressione di
condensazione P2 , ma, raggiunta una pressione intermedia, il vapore viene sottoposto
ad un nuovo processo di surriscaldamento (generalmente fino alla stessa temperatura
d’ingresso del primo stadio) dopo il quale è avviato ad una seconda turbina dove si

89
espande fino alla pressione P2 . In questo caso le turbine vengono distinte in turbina ad
alta pressione e turbina a bassa pressione. Questa soluzione aumenta ulteriormente T 1
e quindi determina un ulteriore aumento del rendimento termico del ciclo.
(4). Un’altra tecnica per accrescere il rendimento del ciclo Rankine e quella dei
prelevamenti (o “spillamenti”) di piccole quantità di vapore surriscaldato che vengono
utilizzate per preriscaldare l’acqua di alimentazione prima che entri in caldaia (ciclo a
rigenerazione).
Una moderna centrale termoelettrica da 1000 MW ha valori del rendimento
tipicamente di 0.34 (centrali nucleari) o 0.4 (centrali a carbone).

6.4 Le macchine frigorifere


Le macchine frigorifere sono macchine termiche che funzionano secondo cicli
termodinamici inversi in cui il fluido di lavoro prende il nome di fluido refrigerante. Le
macchine frigorifere vengono distinte in frigoriferi e pompe di calore.
Un frigorifero è preposto al trasferimento di calore da un ambiente isolato a bassa
temperatura, denominato cella frigorifera, ad un ambiente a temperatura più alta che
può essere l’ambiente esterno: per il II principio tale risultato è possibile solo a mezzo
di lavoro esterno.
Le pompe di calore sono della macchine frigorifere usate per scaldare un ambiente
prelevando calore da un ambiente più freddo e, per così dire, “pompandolo” al livello
termico superiore.
Un frigorifero ed una pompa di calore
sono fondamentalmente la stessa macchina
poiché differiscono soltanto in ciò che viene
considerato come “effetto utile” laddove per
effetto utile si intende:
− il calore sottratto alla cella o “frigorie
prodotte” nel caso del frigorifero;
− il calore fornito all’ambiente isolato o
“calorie prodotte” nel caso della pompa di
calore.
Le prestazioni di un frigorifero o di una
pompa di calore vengono valutate definendo
il coefficiente di performance (COP) come
il rapporto tra l’effetto utile ottenuto ed il
lavoro speso. Avremo pertanto

| Q2 | | Q2 | | Q1 | | Q1 |
COPR = = COPH = =
| L | | Q1 | − | Q2 | | L | Q1 − | Q2 |

dove i pedici R ed H stanno rispettivamente per refrigerator e heat pump.


Poiché il ciclo di Carnot è costituito da trasformazioni tutte reversibili esso può
essere invertito. Una macchina termica che funziona secondo il ciclo inverso di Carnot
prende il nome di frigorifero di Carnot o pompa di calore di Carnot. I rispettivi

90
coefficienti di performance sono:

| Q2 | / | Q1 | (T2 / T1 ) T2 1 − C 1
COPR = = = = = −1
1− | Q2 | / | Q1 | 1 − (T2 / T1 ) T1 − T2 C C

1 1 T1 1
COPH = = = =
1− | Q2 | / | Q1 | 1 − (T2 / T1 ) T1 − T2 C

Entrambi i coefficienti di performance possono essere maggiori 1 e dalle relazioni


scritte risulta
COPH = COPR + 1

In entrambi i casi il COP ha un valore tanto più elevato quanto minore è la


differenza di temperatura (T1 − T2 ) . Teoricamente COP →  per T1 → T2 .
Contrariamente a quanto accade per  , quindi, è opportuno operare con piccoli valori
della differenza di temperatura tra i due ambienti. Poiché, inoltre, COPH è sempre
maggiore di 1 ciò significa che teoricamente una pompa di calore funziona al peggio
come una stufa elettrica, fornendo all’ambiente da riscaldare una quantità di energia
uguale a quella che richiede per funzionare.
E’ possibile dimostrare che, se operando direttamente la macchina di Carnot è
quella che produce la massima conversione di calore in lavoro, quando viene fatta
funzionare a ciclo invertito essa assorbe il quantitativo minimo di lavoro a parità di
frigorie Q2 prodotte. Assegnati due serbatoi di calore a temperatura T1 e T2 , cioè, il
frigorifero di Carnot è quello che ha il massimo COP tra tutti i frigoriferi funzionanti
tra le medesime sorgenti.
Supponiamo, ad esempio, di avere a disposizione una macchina frigorifera che,
lavorando su un qualunque ciclo, estragga il calore | Q2 | da una sorgente a temperatura
T2 , assorba il lavoro | L | e ceda il calore | Q1 |=| Q2 | + | L | alla sorgente a temperatura
T1 ( T2 ) . Applicando il II principio si ha

| Q2 | + | L | | Q2 |
Stot = − 0
T1 T2
cioè
 T 
| Q2 |  | L |  2 
 T1 − T2 

Il II principio informa quindi che l’ammontare massimo di frigorie prodotte è

 T 
| Q2 |max = | L |  2 
 T1 − T2 

Poiché la quantità in parentesi coincide con l’espressione del COPR di un frigorifero di


Carnot, questo risultato significa che tra tutti i frigoriferi funzionanti tra due serbatoi

91
assegnati il COPR massimo compete ad un frigorifero di Carnot e cioè ad una macchina
che compie un processo ciclico reversibile.

Frigoriferi a compressione di vapore saturo. Nei frigoriferi a compressione di vapore


saturo si sfruttano le transizioni di fase di un fluido per realizzare con semplicità
trasformazioni isoterme ed avvicinarsi, almeno parzialmente, al ciclo inverso di Carnot.
Nel ciclo ideale è possibile infatti realizzare la trasformazione isoterma ( 2 - 3 ) ad alta
temperatura (T1 ) mediante condensazione del fluido in uno scambiatore di calore
(condensatore). Analogamente, è
possibile realizzare la trasformazione
isoterma ( 4 - 1 ) a bassa temperatura (T2 )
mediante vaporizzazione del fluido in
uno scambiatore di calore (evaporatore).
Le due trasformazioni adiabatiche si
possono realizzare poi facendo passare il
fluido da un valore all’altro della
pressione rispettivamente entro
compressori (trasformazione 1 - 2 ) ed
espansori (trasformazione (3-4 )
termicamente isolati. Il calore sottratto
alla cella per ciclo, | q2 | , corrisponde
all’area sottesa alla linea di trasformazione 4 - 1 .
Lo schema ideale descritto è però praticamente irrealizzabile a causa dei seguenti
problemi tecnici.
(a) Nella compressione adiabatica 1 - 2 il compressore lavora con un vapore saturo e
ciò comporta gli stessi problemi già discussi nel ciclo Rankine. Per poter funzionare
correttamente il compressore deve trattare un vapore secco o al massimo con tracce di
liquido.
(b) Nell’espansione 3 - 4 si hanno i problemi relativi all’espansione del refrigerante in
presenza di un elevato contenuto di fase liquida.
(c) Nell’ evaporazione 4 - 1 non è facile arrestare il processo al titolo x1 .
Per risolvere questi problemi tecnici si introducono le seguenti modifiche:
(1). La vaporizzazione (trasformazione 4 - 1 ) viene spinta fino alla curva limite
superiore ( x = 1) facendo lavorare così il compressore con vapore saturo secco e
surriscaldato. Inoltre, per evitare pericolosi ritorni di liquido al compressore viene
inserito all’ingresso di quest’ultimo un “separatore di liquido” che, per effetto
gravimetrico, separa il liquido dalla miscela liquido-vapore (la colonna di liquido che va
dal separatore all’evaporatore ha sicuramente una maggiore densità della colonna di
vapore e liquido che va dall’evaporatore al separatore).
(2). Poiché il lavoro prodotto dal cilindro espansore a stantuffo nell’espansione 3 - 4

P2

lT = (h3 − h4 )  −  vdP ( 0)
P1

è trascurabile rispetto a quello richiesto dal compressore nella trasformazione 1 - 2 , si

92
preferisce sostituire il cilindro a stantuffo con una valvola di laminazione (e cioè un
riduttore di pressione privo di organi meccanici in movimento soggetti a usura,
manutenzione, etc.).
In definitiva, il funzionamento della macchina frigorifera avviene attraverso la
successione delle seguenti trasformazioni (con l’avvertenza che si tratta di
trasformazioni ideali che non tengono conto, cioè, di irreversibilità quali la caduta di
pressione nei condotti dovuta all’attrito viscoso o delle irreversibilità associate alla
compressione adiabatica che allontanano dall’isoentropica teorica):

Trasformazione 1-2. Mediante un compressore il vapore saturo secco (o leggermente


surriscaldato) uscente dal separatore di liquido posto a valle dell’evaporatore viene
compresso adiabaticamente dalla pressione P2 alla pressione P1 dove esce nello stato di
vapore surriscaldato.

Trasformazione 2-3. Il vapore surriscaldato viene raffreddato a pressione costante nel


condensatore fino alla temperatura di saturazione T1 (tratto 2 - 2 ), quindi viene fatto
condensare totalmente ( x = 0) fino allo stato di liquido saturo (tratto 2 - 2 ). A questo
punto entra in uno scambiatore di calore (surraffreddatore) dove viene sottoraffreddato a
pressione costante (tratto 2 - 3 ). Il processo avviene con cessione di calore | q1 |
all’ambiente esterno. In un frigorifero domestico il condensatore è costituito da una
serpentina posta nella parte retrostante del frigorifero. Ovviamente, perché avvenga lo
scambio termico richiesto con l’ambiente, è necessario che la temperatura di
condensazione T1 sia parecchi gradi superiore alla temperatura dell’ambiente (circa
5, 10  C ).

Trasformazione 3-4. Il liquido entra nella valvola di laminazione dove si espande


isoentalpicamente fino alla pressione P2 . La trasformazione, pur essendo adiabatica, è
irreversibile perciò ad essa è associato un aumento di entropia. Inoltre, il brusco salto
(diminuzione) di pressione provoca un cambiamento di fase cosicché il fluido che arriva
all’evaporatore è una miscela bifasica di titolo x4 approssimativamente uguale a quello

93
del fluido in uscita dal cilindro espansore nel ciclo originario.
Si noti come il raffreddamento operato dal surraffreddatore nel tratto 2 - 3 abbia lo
scopo di recuperare le frigorie che verrebbero perse se, quando si sostituisce il cilindro
espansore con la valvola di laminazione, quest’ultima fosse posta direttamente a valle
del condensatore. In quest’ultimo caso, infatti, il titolo della miscela in uscita dalla
valvola, x A , è considerevolmente maggiore di x4 con conseguente perdita delle frigorie
corrispondenti all’area sottesa dalla linea 4 - A . Invece, la laminazione del fluido
sottoraffreddato (tratto 3 - 4 ) comporta rispetto alla laminazione senza
sottoraffreddamento (tratto 2 - A ) il recupero di tali frigorie. Generalmente, il
sottoraffreddamento del fluido in uscita dal condensatore (tratto 2 - 3 ) viene realizzato
nel surraffreddatore facendo scambiare calore al fluido “caldo” uscente dal
condensatore con il fluido “freddo” uscente dalla valvola di laminazione.

Trasformazione 4-1. Il vapore saturo di titolo x4 entra nell’evaporatore dove, a spese


del calore | q2 | sottratto alla cella frigorifera (area sottesa alla linea 4 - 1 ), vaporizza
totalmente fino a diventare vapore saturo secco. In un frigorifero domestico
l’evaporatore è costituito da una serpentina posta nella cella stessa. Ovviamente, perché
abbia luogo lo scambio termico richiesto, è necessario che la temperatura di
vaporizzazione, T2 , sia parecchi gradi inferiore alla temperatura della cella.

L’effetto utile (frigorie prodotte) corrisponde al calore sottratto nella trasformazione 4 -


1 realizzata nell’evaporatore. Applicando l’equazione dell’energia per i sistemi aperti si
ha
q2 = h1 − h4

Il lavoro speso nel ciclo corrisponde invece a quello richiesto dal compressore per far
compiere al fluido il salto di pressione ( P1 − P2 ) . Se il compressore è adiabatico

2
lT = −  vdP = h1 − h2
1

Il COPR può essere espresso dunque come differenze di entalpia

| q2 | h1 − h4
COPR = =
| lT | h2 − h1

Le proprietà termodinamiche essenziali dei fluidi refrigeranti possono elencarsi nelle


seguenti:
(a) I fluidi refrigeranti devono esistere allo stato di vapore saturo nel campo delle
temperature di utilizzazione ( − 20  C, + 40  C per un frigorifero di uso domestico). Ciò
implica che la temperatura critica TK debba essere ben superiore alla temperatura T1 di
condensazione e che la temperatura del punto triplo debba essere ben al di sotto della
temperatura T2 di evaporazione affinché non vi sia alcun pericolo che il fluido possa
congelare (ciò esclude l’acqua come fluido refrigerante nella maggior parte delle

94
applicazioni).
(b) Il calore latente di vaporizzazione deve essere grande allo scopo di avere una
grande sottrazione di calore per ciclo e per unità di massa di fluido circolante. Ciò può
ottenersi abbassando quanto più possibile la temperatura T2 dell’evaporatore
compatibilmente con quanto esposto al punto (a) .
(c) La differenza di pressione ( P1 − P2 ) non deve essere troppo elevata per limitare le
perdite di frigorie durante la laminazione. In particolare, la pressione P2
dell’evaporatore dovrebbe risultare sempre più elevata della pressione atmosferica in
modo da evitare infiltrazioni di aria (umida) dentro la macchina.
(d) Il calore specifico cl lungo la curva del liquido saturo ( x = 0) deve essere piccolo
per migliorare lo scambio termico nel surraffreddatore.
(e) Il volume specifico del vapore, vv , deve essere piccolo in modo da avere
dimensioni contenute per il compressore e gli scambiatori di calore (ciò esclude ancora
l’acqua come fluido refrigerante nella maggior parte delle applicazioni).
(f) l’indice k = cP / cV deve essere prossimo ad 1 , poiché al crescere di k cresce il
lavoro di compressione e la temperatura finale del fluido.
Si richiede, infine, che la sostanza non sia tossica e non sia infiammabile né
chimicamente aggressiva nei confronti dei materiali di cui sono costituiti gli organi
dell’impianto frigorifero.
Tra i fluidi più usati i più comuni sono l’ammoniaca e diversi tipi di
clorofluorocarburi. L’ammoniaca (NH3 ) presenta nel complesso ottime caratteristiche
termofisiche ma ha l’inconveniente di essere tossica per l’uomo e di presentare il
pericolo di esplosioni se mescolata con l’aria in certe proporzioni. I clorofluorocarburi
(CFC) , generalmente noti con il nome commerciale di Freon, (R 12) hanno pure ottime
caratteristiche termofisiche, seppure inferiori a quelle dell’ammoniaca. Essi sono poco
aggressivi chimicamente ed, in generale, non sono tossici nelle normali condizioni di
impiego sebbene la loro immissione nell’atmosfera distrugge lo strato di ozono. Per
questo motivo il loro impiego viene gradualmente limitato in favore di altri refrigeranti
ecologicamente più sostenibili (R13 a, HPC) .

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