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RAMANA MAHARSHI
di
T. M. P. Mahadevan
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Ramana Maharshi scrisse raramente; e quel poco che scrisse, in
prosa o in versi, nacque solo per andare incontro a richieste specifiche
dei suoi devoti. Lui stesso disse una volta: “In un certo senso, non mi
è mai venuto in mente di scrivere un libro o comporre versi. Tutti i
versi che ho scritto sono nati su richiesta di qualcuno, in relazione a
qualche evento particolare”.
La sua opera più importante è Quaranta Versi sull’Esistenza. Nel
poema Upadeshasaram è espressa la quintessenza del Vedanta. Il saggio
compose cinque inni ad Arunachala e tradusse in tamil alcune opere
di Shankara, quali il Vivekacudamani e l’Atma-bodha. La maggior parte
di ciò che scrisse è in tamil, ma scrisse anche in sanscrito, telugu e
malayalam.
La filosofia di Sri Ramana, che è la stessa dell’Advaita Vedanta, ha
per fine la realizzazione del Sé. Il sentiero principale che insegna è la
ricerca della natura del Sé, che comprende l’idea dell’ ‘io’. In genere
la sfera dell’ ‘io’ varia e comprende molteplici fattori; questi fattori
però non sono realmente l’ ‘io’. Per esempio parliamo del corpo fisico
chiamandolo ‘io’; diciamo ‘io sono grasso’, ‘io sono magro’, ecc. Non
ci vuole molto per capire che si tratta di un uso improprio del termi-
ne; infatti il corpo da sé non può dire ‘io’, perché è inerte. Anche la
persona più ignorante capisce il senso dell’espressione ‘il mio corpo’.
Certo, non è facile risolvere la falsa identificazione dell’ ‘io’ con il
senso dell’ego (ahamkara). Questo perché la mente che ricerca è l’ego,
il quale per rimuovere la falsa identificazione deve condannare a morte
se stesso; e la cosa non è affatto semplice. La più grande forma di
sacrificio è l’offerta dell’ego nel fuoco della saggezza.
Abbiamo detto che non è facile distinguere il Sé dall’ego, ma non
è impossibile. Tutti possiamo farlo se riflettiamo sulle implicazioni
dell’esperienza del sonno. Nel sonno noi siamo, anche se l’ego non è
presente. In quello stato l’ego non opera; ma c’è ancora l’ ‘Io’ che fa
da testimone all’assenza dell’ego e a quella degli oggetti. Se non ci
fosse l’ ‘Io’, al risveglio non ci sarebbe il ricordo dell’esperienza del
sonno e non si potrebbe dire: “Ho dormito felicemente, non ricordo
nulla”.
Abbiamo quindi due ‘io’: lo pseudo-’io’ che è l’ego, e il vero ‘Io’ che
è il Sé. L’identificazione dell’ ‘Io’ con l’ego è così forte che raramente
riusciamo a vedere l’ego senza la sua maschera; inoltre, tutte le nostre
esperienze relative ruotano intorno all’ego. Con il sorgere dell’ego, al
risveglio dal sonno, il mondo intero sorge con esso. Per questo l’ego
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sembra così importante e inattaccabile; ma in realtà si tratta di una
fortezza di cartone. Una volta iniziata la ricerca, essa crollerà e si
dissolverà.
Per intraprendere la ricerca, bisogna avere una mente acuta – molto
più acuta di quella che si richiede per dipanare i misteri della materia.
La verità va cercata e vista con l’intelletto concentrato (drsyate tu
agraya buddhya). È vero che prima che sorga la saggezza finale anche
l’intelletto dovrà dissolversi; ma fino ad allora esso dovrà cercare, e
cercare implacabilmente. Di certo la saggezza non è per gli indolenti!
La ricerca “Chi sono Io?” non va intesa come uno sforzo mentale
per comprendere la natura della mente. Il suo scopo principale è
“focalizzare la mente intera sulla sua sorgente”. La sorgente dello
pseudo-‘io’ è il Sé. Nella ricerca del Sé non si fa altro che andare
contro la corrente mentale, invece di scorrere insieme ad essa, e alla
fine si trascende la sfera delle modificazioni mentali. Quando si scopre
la sorgente dello pseudo-’io’, esso svanisce; allora il Sé brilla in tutto
il suo splendore, e quella luce è chiamata realizzazione e liberazione.
La cessazione o la non-cessazione del corpo non ha nulla a che fare
con la liberazione. Il corpo può continuare ad esistere, ed il mondo
può continuare ad apparire, come nel caso del Maharshi. Ciò non fa
alcuna differenza per il Sé che è stato realizzato. In verità, per il saggio
non vi è né il corpo né il mondo; vi è solo il Sé, l’eterna Esistenza
(sat), l’Intelligenza (cit) e l’incomparabile Beatitudine (ananda). Tale
esperienza non ci è completamente estranea, perché l’abbiamo nel
sonno, durante il quale non abbiamo coscienza né del mondo delle
cose esterne né del mondo interno dei sogni. Solo che quell’esperienza
rimane coperta dal manto dell’ignoranza, e così ritorniamo alle fan-
tasie del sogno e del mondo di veglia. Il non-ritorno alla dualità è
possibile solo quando si rimuove la nescienza; e lo scopo del Vedanta
è rendere possibile ciò. Il significato supremo della venuta d’illustri
personaggi, come il Maharshi, è quello d’infondere speranza a tutti,
anche alle persone meno evolute, e di aiutarci a venir fuori dalla
palude dello scoraggiamento.
T. M. P. Mahadevan
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Riflessioni su
Ramana Maharshi
di
T. M. P. Mahadevan
1 – Il Saggio di Arunachala
Tiruvannamalai (in sanscrito Arunachala) è uno dei luoghi di
pellegrinaggio maggiormente sacri agli Indù, poiché vi si adora Dio
in forma di Luce. Una volta all’anno sulla cima della montagna viene
acceso un fuoco sacro, e migliaia di persone vi si recano per vedere la
luce e adorarla. Il sito è ora diventato un luogo di continuo richiamo
spirituale internazionale, perché Ramana Maharshi vi ha vissuto per
più di mezzo secolo diffondendo la fiamma della realizzazione di Dio.
Ramana giunse ad Arunachala ancora adolescente, e da allora vi
rimase per tutta la vita. Lo stesso nome Arunachala agì come un
imperioso richiamo del Divino. Egli obbedì semplicemente alla chia-
mata, e pervenne allo stato elevato di assenza di ego, che una volta
acquisito non va più perso. Per essere precisi, non è uno stato d’espe-
rienza come gli altri; non viene né si presenta in un dato momento:
è lo status eterno (sahaja-sthiti). A causa dell’avidya (nescienza), non
lo si riconosce; ma quando questa scompare risplende la natura auto-
luminosa dello Spirito. Questo è ciò che nel Vedanta si chiama moksha.
Non è un’esperienza che si ha dopo la morte. La presenza del corpo
non è incompatibile con la liberazione. Il solo ostacolo alla realiz-
zazione è l’identificazione del Sé con l’ego, ma una volta rimosso
questo ostacolo si diventa un jivanmukta, liberato mentre si è in vita.
Nelle nostre scritture leggiamo di tante grandi anime simili, ma nel
Maharshi abbiamo un jivanmukta contemporaneo, una testimonianza
vivente dei più sublimi testi vedantici. Molte affermazioni delle sacre
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scritture, come quella della Bhagavad Gita di vedere l’inazione nel-
l’azione e l’azione nell’inazione, rimangono oscure e inintelligibili,
fino a quando non incontriamo saggi come il Maharshi. Apparente-
mente, Sri Ramana sembrava interessato alle cose che accadevano
intorno a lui; riconosceva le persone e a volte ci parlava. Anche le
creature appartenenti alle specie animali attiravano la sua attenzione;
ed era solito dare una mano anche in cucina, pulendo e preparando
le verdure per la cottura. Egli compiva tutte queste forme d’azione
senza il minimo attaccamento; e in realtà non erano affatto azioni,
poiché non vi era senso dell’ego. Il centro dell’attività era stato rimos-
so, rimaneva solo il guscio, ed anche quello solo per noi spettatori.
Nulla sembrava toccarlo; egli rimaneva il testimone di tutti i fenome-
ni. La distinzione tra alto e basso non aveva significato per lui. Gli
stranieri e tutti quelli che andavano a trovarlo, anche la prima volta,
si sentivano completamente in pace e liberi. Si può essere estranei ad
altri o vederli in maniera strana, ma come si può essere estranei a se
stessi?
Il Maharshi, che con naturalezza e senza sforzo aveva attraversato
i confini dell’individualità, si sentiva – se possiamo usare un così
povero linguaggio – una sola cosa con tutto. Come il saggio della
Gita, egli guardava tutti allo stesso modo – la persona d’alta casta e
quella di bassa nascita, la mucca e l’elefante, il cane e il mangiatore
di cani. Queste differenziazioni possono avere significato per noi, che
siamo intrappolati nella rete delle differenze; ma per lui che vedeva il
Brahman non-duale, che è sama (uguale), non vi era pluralità né
differenza.
Era un’esperienza unica e incantevole sedere alla presenza del
Maharshi e guardare nel pieno splendore dei suoi occhi beati. Si
poteva andare da lui con molti dubbi e domande, ma accadeva spes-
sissimo che non appena ci si sedeva davanti al Saggio, questi prodotti
della mente si placavano e venivano ridotti in cenere. Si pregustava
quello stato originario di cui parlano le Upanishad, quando viene
reciso il nodo del Cuore e tutti i dubbi sono dissipati. Si faceva un
passo indietro e si osservava come il turbolento flusso mentale venisse
acquietato e ricevesse un imperturbato riflesso dello Spirito auto-
luminoso.
Ciò che si poteva ottenere dopo una lunga e faticosa disciplina
yogica, in prossimità del Maharshi si otteneva con naturale facilità e
senza sforzo. Vero, quell’esperienza poteva non durare a lungo. Si
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doveva tornare nel mondo e sprofondare di nuovo nel fango della
mondanità, ma l’impressione di forte spiritualità che si era ricevuta
non veniva più persa. Furono rare le persone, le cui profondità del-
l’anima erano state risvegliate dallo sguardo sublime del Saggio, che
non ebbero il desiderio di tornare di nuovo da lui, per ricevere nuovi
segni dell’Eterno. A volte vi erano persone che andavano da lui nella
speranza che, con il suo darshan (col vederlo), venissero esauditi i loro
desideri terreni; ma ben presto s’accorgevano della stupidità di chie-
dere cose transitorie, quando potevano avere la beatitudine imperitura.
Invece di sentirsi deluse perché le loro brame non erano state appa-
gate, si sentivano riconoscenti perché erano state salvate da illusioni e
trappole. Nella Katha Upanishad, Yama offrì a Naciketas tutti i piaceri
dei vari mondi, in cambio della conoscenza del Sé che lui aveva
chiesto; ma da vero figlio della spiritualità qual era, il ragazzo rifiutò
di farsi tentare dal piacere. Il Maharshi, che per noi era la perso-
nificazione del Bene Supremo, trasmutava i nostri desideri e passioni
inferiori in moksha-kama, un intenso desiderio di liberazione.
Alcuni andavano da lui con la speranza di ricevere una panacea per
i mali del mondo. Erano soliti chiedergli quale soluzione avesse per
problemi quali la povertà, l’analfabetismo, le malattie, le guerre, ecc.
La loro religione era la riforma sociale, e miravano ad una riforma
della società. Le loro domande erano formulate in maniere differenti.
Quale messaggio aveva il Maharshi per i riformatori sociali? Non era
dovere di ogni cittadino illuminato sforzarsi di migliorare la sorte dei
suoi fratelli? Come può, chi ha un cuore sensibile, restare tranquillo
senza cercare di fare la propria parte per il bene del mondo, quando
vediamo dappertutto miseria e squallore? L’invariabile risposta che il
saggio dava a tutti quelli che ponevano simili domande era: “Hai per
prima cosa riformato te stesso?”.
Accade spesso che il cosiddetto servizio sociale sia soltanto una
gratificazione dell’ego. In molto di quello che si vuole far passare per
altruismo vi è un nocciolo d’egoismo. Tale servizio non benedice il
servitore né il servito, ma accresce l’orgoglio del primo e rende totale
lo scoraggiamento del secondo. Soltanto il servizio che contribuisce a
ridurre l’ego è araldo del bene. L’influenza dell’ego non può essere
diminuita a meno che non si sappia, anche solo remotamente, che
l’ego non è il Sé; che il responsabile del male e del dolore nel mondo
è solo lo pseudo-sé, e che la felicità finale e permanente si potrà
realizzare solo quando sarà eliminata la causa prima dell’ego, cioè
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l’ignoranza. Per questo non si può offrire un concreto servizio sociale
alla società se prima non si cerca di conoscere il vero Sé. La riforma
deve iniziare da se stessi. Chi è sul sentiero rende un servizio agli esseri
umani purificando il suo ego, facendolo diminuire e preparandosi ad
abbandonarlo: e chi ha realizzato la meta ed è diventato un jivanmukta
compie opere – o meglio, a noi sembra compiere opere – affinché il
mondo possa essere salvato (loka-sangraha). La ricerca del Sé è dunque
la base del vero servizio, e la conoscenza del Sé ne è il culmine.
Il Saggio di Arunachala non aveva un nuovo messaggio per l’uma-
nità. Ciò che insegnava, più con il silenzio che con le parole, era
l’eterno vangelo del Vedanta. Nel Sutra-bhasya, Shankara cita un testo
della Smrti in cui si racconta che quando il saggio Baskali fu avvici-
nato da Badhva per istruzioni rimase in silenzio, e dopo essere stato
interrogato ripetutamente disse: “Ti ho già esposto la verità, ma tu
non hai compreso. Il Sé è pace, silenzio (upashanta)”. L’insegnamento
del Maharshi era esattamente lo stesso di quello dei saggi delle
Upanishad. Egli parlava raramente, perché è nella pace del silenzio che
si raggiungono le profondità dello Spirito. Parole e pensieri non pos-
sono condurci lontano. Persino le parole delle sacre scritture possono
aiutarci fino a un certo punto, e lì devono fermarsi.
Si racconta che il giovane Dakshinamurti istruì i suoi anziani disce-
poli col linguaggio del silenzio. È però vero che solo pochi possono
comprendere ciò che viene insegnato in silenzio; per questo, a volte
il Maharshi soleva parlare. Nello stesso tempo avvertiva i suoi
interlocutori che domande e risposte appartenevano al reame del-
l’ignoranza (avidya), anche se le seconde servivano a guidare verso la
luce della saggezza. Fino a quando ci sarà la mente, ci saranno dubbi
che l’assaliranno; perché solo con la realizzazione dell’eterno stato di
non-mente (amanibhava) saranno spazzati via tutti i dubbi e i quesiti,
come la foschia davanti al sole nascente.
Gli insegnamenti del Maharshi si potrebbero enunciare con un
aforisma: cerca di conoscere il Sé, e la conoscenza ti farà libero. La
Chandogya Upanishad racconta la storia di Narada, maestro in molti
campi della conoscenza, che andò da Sanatkumara e gli confessò che
malgrado la sua grande erudizione si sentiva affranto dal dolore. Sa-
peva che tutta la sua erudizione era inutile e che solo la conoscenza
del Sé poteva salvarlo. Si rivolse a Sanatkumara e gli disse: “Aiutami
ad attraversare l’oceano del dolore”; e il saggio gli trasmise la cono-
scenza del grande e unico Sé. Il principale comandamento della scrit-
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tura è “conosci il Sé” (atmanam viddhi). Il Maharshi ha detto ripetuta-
mente che l’atma-vichara è l’unica via sicura che porta alla liberazione.
Altre forme di sadhana possono aiutare in questo processo più o meno
efficacemente, ma solo il jnana è il mezzo diretto per il moksha.
Questo è nell’essenza il punto di vista dell’Advaita Vedanta, perché
il moksha è l’eterna natura del Sé, e non qualcosa di nuovo da acqui-
sire o completare. Nessuna azione del corpo o della mente può pro-
durre la liberazione. Lo stato sempre libero del Sé non viene ricono-
sciuto a causa dell’ignoranza, che vela il vero e proietta il falso. Quan-
do viene rimossa quest’ignoranza, si realizza la propria eterna natura,
che è il Sé non-duale e incondizionato. La saggezza realizza la rimo-
zione dell’ignoranza, e l’atma-vicara prepara la via alla saggezza.
La ricerca ‘Chi sono Io?’ non va intesa come uno sforzo mentale
per comprendere la natura della mente. Il suo scopo principale è
‘concentrare l’intera mente nella sua sorgente’. La fonte del pensiero
‘io’ è il Sé. Nella ricerca del Sé non si fa altro che andare contro la
corrente mentale, invece di scorrere insieme ad essa, e alla fine si
trascende la sfera delle modificazioni mentali. È relativamente facile
disincagliarsi dalla falsa identificazione con il corpo fisico e gli oggetti
materiali; ma l’identificazione con l’ego è dura da vincere. Come dice
il Pancapadika, un commentario al Sutra-Bhasya di Shankara: “L’idea
‘io’ è la prima sovrapposizione al Sé”. Lo strato esterno dell’ignoranza
può cadere facilmente, ma l’ultimo è difficile da togliere. La maniera
migliore di rimuoverlo è catturarlo alla sua sorgente. Quando c’è la
consapevolezza della sorgente, che è il Sé, l’ego scompare; e una volta
che l’ ‘io’ è stato cancellato attraverso il jnana, non ci sarà più schia-
vitù né il dolore conseguente.
La cessazione o non-cessazione del corpo non ha nulla a che vedere
con la liberazione. Il corpo può continuare ad esistere e il mondo può
continuare ad apparire, come nel caso del Maharshi; ciò non fa alcuna
differenza per il Sé che è stato realizzato. Come dice Shankara: “Non
c’è bisogno di discutere se il conoscitore di Brahman mantenga o
meno il corpo per qualche tempo. Come potrebbe (esistere) un altro
oggetto, quale il permanere di un corpo, dinanzi alla propria esperien-
za di Brahman realizzata nel Cuore?”. Invero per chi è liberato non
esiste né il corpo né il mondo; vi è solo il Sé, l’eterna Esistenza (Sat),
l’Intelligenza (Cit) auto-luminosa e l’incomparabile Beatitudine
(Ananda). Questa esperienza non ci è completamente estranea; perché
la facciamo nel sonno profondo, durante il quale non siamo coscienti
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del mondo esterno delle cose né del mondo interno dei sogni. Solo
che quell’esperienza rimane coperta sotto il manto dell’ignoranza, e
così ritorniamo alle fantasie del sogno e del mondo di veglia. Il non-
ritorno alla dualità sarà possibile solo quando sarà rimossa l’ignoranza,
e lo scopo del Vedanta è proprio quello di renderlo possibile. Il signi-
ficato supremo dell’avvento d’illustri personaggi, quali il Maharshi, è
quello d’infondere speranza anche al più piccolo di noi e di sollevarci
dall’abitudine allo scoraggiamento.
L’esempio di Sri Ramana è unico, in quanto nel suo caso l’esperien-
za non fece seguito alla lettura dei testi sacri. Per prima cosa il Maharshi
fece l’esperienza, e solo in un secondo tempo trovò delle conferme
nei testi delle sacre scritture. A un mondo miscredente, impaziente e
desideroso di bruciare i suoi libri sacri, Sri Ramana ha questo messag-
gio da offrire, e cioè “che il vero libro della vita è dentro e che, se solo
ci volgeremo ad esso e consulteremo le sue pagine, esso ci spalancherà delle
visioni impensabili che ci porteranno alla felicità e alla beatitudine infi-
nita”.
2 – L’esperienza-Ramana
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3 – Saluto a Ramana
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