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[Questa è l'ottava lezione del Corso Base di Sceneggiatura: se hai perso l'introduzione al Corso
Base di Scrittura e Sceneggiatura, ti consiglio caldamente di leggerla!]
L’arco di trasformazione è il percorso che porta un personaggio a cambiare nel corso di una
vicenda, affrontando nuove sfide, adattandosi agli eventi e infine vincendo. Un percorso
vittorioso grazie all’acquisizione di una visione diversa dei fatti rispetto a quella,
fallimentare, che aveva all’inizio della storia.
Il testo di riferimento da studiare per capire bene l’arco di trasformazione, a meno che non ti
bastino le mie spiegazioni sintetiche, è L’Arco di Trasformazione del Personaggio di Dara Marks,
pubblicato in Italia da Dino Audino Editore.
Lo stesso discorso vale per tutti i testi che troverai consigliati in fondo a questo manuale.
Comprali, studiali e leggili. Nel mio Corso Avanzato troverai il “di più”: le connessioni ulteriori
tra la teoria presente nei diversi saggi, le sintesi ragionate dei concetti e le mie aggiunte
originali di teoria.
Abbiamo già visto le basi di una buona storia nei precedenti capitoli dedicati a che cosa sia
una storia, all’importanza del difetto fatale di un personaggio, e al ruolo del conflitto e di
come mai debba essere sempre maggiore, causando sofferenze a mano a mano peggiori al
protagonista.
Immagine tratta dal saggio “L’Arco di Trasformazione del Personaggio” di Dara Marks, Dino Audino Editore.
Leggetelo!
Adesso lo aspetta la discesa dal monte, con la consapevolezza di aver avuto già la forza per
salire, di essere quindi migliore di quanto pensasse di essere prima della scalata: la discesa è
faticosa, ma grazie alla nuova fiducia che il personaggio ha in sé stesso ora si sente in grado
di farcela, anche se il percorso è perfino più difficile di prima… e la sfida arriverà al suo
apice, al massimo del pericolo, col terzo atto.
Dara Marks è l’esperta di analisi delle storie che ha reso ancora più famoso il modello
dell’arco del personaggio, grazie all’opera L’Arco di Trasformazione del Personaggio, ma non ha
inventato lei il modello.
Questo modo di strutturare le storie affonda le sue radici nei tradizionali tre atti del
modello aristotelico, come lo fanno pure gli insegnamenti di Lajos Egri, di Syd Field, di
Robert McKee e di altri ancora, tanto che modello “aristotelico”, “classico” o “restaurativo”
sono tutti sinonimi dell’arco di trasformazione e si possono usare benissimo come nomi per
indicare il modello spiegato dalla Marks.
Un modello efficiente e naturale che ritroviamo nelle migliori opere di Shakespeare. Il modo
con cui gli uomini per millenni si sono raccontati storie, come mostrato da Joseph Campbell
col monomito descritto nel capitolo precedente.
A cosa serve avere un modello ben spiegato se questo è un tipo di storia che viene naturale
realizzare agli umani, in diversi millenni e continenti? Semplice: per prima cosa a evitare gli
errori, perché per quanto “naturale” è un modello che viene assorbito per apprendimento,
non è che ci siano dei manuali di sceneggiatura dentro al DNA.
Studiare invece che andare alla cieca permette risultati molto migliori. In più è comodo per
fornire una guida che favorisca la creatività insegnandoci come indirizzarla in modo utile: la
creatività ben stimolata lavora meglio di quella lasciata a sé stessa.
Dall’interno all’esterno
Come abbiamo visto in precedenza, una storia nella sua essenza si basa su una crisi che
sconvolge la normalità, porta a lottare per ottenere qualcosa (e per non perdere
qualcos’altro) e obbliga a cambiare per adattarsi ai nuovi eventi e per sconfiggere le
opposizioni che impediscono la vittoria.
Questa storia, come avevamo visto in precedenza, si basa sul difetto del personaggio: il
personaggio non ha fiducia in sé stesso e nelle proprie idee originali, per questo cerca
sempre la soluzione più ovvia e banale, quella seguita da tutti. Magari lo fa perché ha visto
troppi colleghi nella sua agenzia pubblicitaria finire male per aver rischiato con qualcosa di
innovativo, e la paura di perdere il lavoro lo ha portato a non “voler vedere” invece i tanti
colleghi che con le idee nuove hanno avuto successo e lo hanno superato nella carriera.
Terrorizzato dal correre rischi per paura di venire licenziato, è diventato una pedina
sacrificabile e ha perso il posto. Il suo sistema di sopravvivenza ha smesso di
funzionare, ha smesso di proteggerlo dal licenziamento.
Ricorda il discorso che avevamo fatto su come non ci sia nulla che abbia in sé valore se non
per il modo in cui viene interiorizzato. La vicenda del personaggio ha valore per l’effetto che
ha su di lui, e la storia nasce come conflitto alimentato dall’imperfezione del
personaggio, muovendosi così dall’interno del personaggio per divenire azioni
all’esterno.
Mettiamo in scena il suo problema mostrando come il suo difetto influisce sulla sua vita e
sulle persone che gli sono vicine. Un difetto è tale perché porta ad azioni sbagliate.
quelle in cui l’eroe attraverso un percorso di cambiamento riesce a divenire più adatto
alla vittoria e trionfa, divenendo un esempio per noi;
e quelle in cui l’eroe fallisce il proprio percorso di cambiamento, viene sconfitto e
diviene un ammonimento per il pubblico.
Entrambi i tipi di storie hanno un contenuto che risuona con noi perché ci insegnano
qualcosa sulla vita come “sopravvivenza del più adatto”, qualcosa che l’umanità ha dovuto
imparare con molto dolore nel corso di centinaia di migliaia di anni.
E che, volendo o meno, viviamo tutti nelle nostre vite: forse non tutti quelli che decidono di
cambiare la propria posizione e saltare via dalla rotaia quando il treno arriva a folle velocità
sopravvivranno, ma di sicuro gran parte di quelli che prenderanno la locomotiva in fronte a
100 km/h, pur di non cambiare, finiranno molto male.
Il difetto del personaggio è interessante perché ha un effetto sugli altri, come ogni altra
caratteristica degna di nota del personaggio… ed essendo il difetto un problema, ha un
effetto problematico sugli altri.
Così come il difetto impedisce al protagonista di vincere sull’antagonista nel rapportarsi con
lui (conflitto esterno), così impedisce anche di ottenere aiuto o comunque di sapersi
relazionare correttamente con quelli che non sono nemici: amici, parenti, colleghi, potenziali
alleati… chiunque possa essere utile poi per trionfare sul nemico.
Non necessariamente in modo “diretto”: anche capire che bisogna fare da soli, senza dare
retta a persone che ci sottovalutano o ci fanno del male nel tentativo di proteggerci, e isolarsi
dagli altri per proseguire in solitaria, è una possibile soluzione del conflitto di relazione.
Dipende dalla storia: nel romanzo Caligo Barbara Ann deve imparare a fare da sola,
smettendola di fidarsi delle persone sbagliate. Talvolta serve l’aiuto altrui, altre volte serve
che gli altri smettano di mettere i bastoni tra le ruote.
Se un tizio è avaro, al fine di una storia ci interessa la sua avarizia perché lo mette nei
guai: ma se è avaro, ti pare possibile che questo non avrà alcun effetto nelle sue relazioni? Se
compra al suo nipotino per il compleanno una confezione di matite invece di un videogioco
appena uscito, il nipotino sarà felice? Probabilmente no.
Se per l’anniversario ha illuso la fidanzata che finalmente la porterà in un bel ristorante e che
lì le chiederà di sposarlo, non pensate che la loro relazione avrà un problema quando la
porterà in un McDonald e lì le dirà che non crede nel matrimonio perché sono tutte
spese inutili e che si sta così bene continuando a vivere come adesso, ché tanto è l’amore che
conta davvero, e non l’anello con la cerimonia? Sembra la formula del disastro con la sua
(presto ex) compagna.
In certe storie il conflitto di relazione è interamente contenuto nel rapporto tra due soli
personaggi: in Arma Letale i due poliziotti devono imparare a comprendersi a vicenda, in
modo da trovare nell’esempio reciproco quel che manca nelle proprie vite (sono
complementari), e grazie a questo equilibrio ritrovato ognuno dei due può dare il meglio di sé
nel lavorare con l’altro e così sconfiggere i narcotrafficanti.
L’azione esterna è mossa dall’interno del personaggio: dal difetto, dalla caratteristica che
non funziona più nella vita del personaggio e che bisognerà cambiare. Dall’interno all’esterno,
la regola chiave di una buona storia tridimensionale.
Il conflitto interno e il conflitto esterno sono le due “sottotrame” della storia principale
(subplot, usando i termini originali): ma non sono “sottotrame” nel senso di trame secondarie,
trame aggiuntive, ma nel senso di fondamenta, di ciò che si trova sotto la storia esterna e ne
regge lo svolgimento dando solidità e tridimensionalità a una storia altrimenti piatta,
poco coinvolgente umanamente e priva di reale profondità. Tre conflitti, una sola storia:
l’eleganza unita allo sviluppo tridimensionale.
Ricorda ciò che Aristotele diceva dell’unità della storia: se una sottotrama non fa parte del
tutto, perché non riguarda ciò di cui la storia parla né a livello interiore, né esterno, né di
relazione, come può essere “parte” della storia?
Possono essere scene interessanti o carine, ma se non fanno parte della storia vanno tolte
dalla storia. I buoni film e i romanzi davvero ben fatti sono pieni di scene ottime per “altre
storie”, e non per loro, che sono state tagliate e che magari sono finite, dopo un
rimaneggiamento, in un’opera successiva dello stesso autore.
Breve riassunto del concetto chiave visto nelle pagine precedenti, prima di proseguire. La
tridimensionalità del protagonista non nasce dall’ammassare dettagli a caso o dal farlo
comportare secondo manierismi, come capita spesso ai personaggi degli anime/manga
(talvolta fino a ridurli a vuote maschere), che nulla hanno a che fare con il suo difetto fatale o
con il tema della storia.
Il nostro personaggio non diventa tridimensionale perché facciamo sapere al lettore qual è il
suo sport preferito, o cosa mangia a colazione o che musica ascoltava da ragazzo… va bene
avere dettagli, ma la quantità non fa la qualità. Anzi, tanti direbbero che “di meno è di più”!
Ciò che è importante davvero è ciò che genera conflitto, quindi i dettagli utili sono quelli
che aiutano a generare un conflitto coerente in tutti gli aspetti della vita: esteriore, interiore e
di relazione. Il personaggio diventa tridimensionale perché il suo difetto si esprime in tre
dimensioni conflittuali legate alla sua personalità.