OMAGGIO
NUCCIO ORDINE
Per secoli la Luna ci ha stregati. Ha sedotto non solo i poeti, i pittori, gli artisti (che al
suo splendore si sono ispirati come fonte di bellezza, di desiderio, di malinconia
d’amore), ma ha stregato ogni essere umano che abbia avuto la sensibilità di alzare
gli occhi al cielo. Compagna degli amanti, protettrice degli incontri segreti, spettatrice
degli eventi terreni, complice del destino, sede dell’instabilità e delle mutazioni
repentine, dispensatrice di influssi magici, la Luna non mai ha cessato di attirare su
di sé lo sguardo curioso e affascinato degli esseri viventi.
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Ricordate la lunghissima eclissi nel luglio dello scorso anno? Mi trovavo, per
caso, a Capo Sunio in Grecia. E la Luna, tinta di rosso, abbracciava
voluttuosamente le colonne del Tempio di Poseidone.
Sulla scia di Menippo, molti secoli dopo anche Astolfo approda sulla Luna per
recuperare il senno perduto di Orlando. E mentre vola, in compagnia di San
Giovanni, sullo stesso carro che aveva condotto Elia in cielo, il paladino osserva la
Terra. E scopre, con grande sorpresa, un clamoroso errore: non è vero che la Luna
è piccola come gli sembrava mentre la osservava dalla Terra; tanto più che adesso,
sulla Luna, la Terra gli appare piccola, proprio come gli appariva la Luna vista dalla
Terra: «Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia:/ che quel paese appresso era sí
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grande,/ il quale un picciol tondo rassimiglia/ a noi che lo miriam da queste bande»
(XXXIV, 71).
Sulla Luna Astolfo impara anche altre cose. Capisce, per esempio, il sottile e
ambiguo rapporto che lega la poesia al potere. Dopo aver preso l’ampolla con il
senno d’Orlando e dopo aver inalato il suo senno, il paladino chiede a San Giovanni
spiegazioni su alcune misteriose scene lunari: in un palazzo le Parche filano e
tagliano i velli della vita; un vecchio velocissimo trasporta i velli recisi nelle acque del
Lete; uccelli rapaci (i versificatori allo ricerca di denaro) sollevano i velli e poi li
lasciano ricadere nel fiume dell’oblio; mentre solo i cigni (i veri poeti) riescono a
condurre i velli più belli in salvo, sull’altare della Fama. Qui, come l’evangelista
spiega al suo compagno di viaggio, è possibile osservare, in chiave allegorica, le
relazioni che i poeti intrecciano con i potenti. Non è vero che i più celebri eroi del
passato siano stati gli unici e i migliori: «Non sí pietoso Enea, né forte Achille/ fu,
come è fama, né sí fiero Ettorre;/ e ne son stati e mille e mille e mille/ che lor si puon
con verità anteporre:/ ma i donati palazzi e le gran ville/ dai discendenti lor, gli ha
fatto porre/ in questi senza fin sublimi onori/ da l’onorate man degli scrittori» (XXXV,
25).
Tutto dipende dalla funzione eternatrice della letteratura. Ma i poeti cantano lodi
perché sono ben pagati. E, se i lettori vogliono ricostruire la vera storia, dovranno
avere l’intelligenza di ribaltare le vicende raccontate dagli scrittori. L’Ariosto non
risparmia neanche i testi omerici, nobili fondatori della letteratura occidentale.
L’umiliazione di Troia nell’Iliade e l’onestà di Penelope nell’Odissea non sono frutto
di una narrazione partigiana? «Omero Agamennòn vittorïoso,/ e fe’ i Troian parer vili
e inerti;/ e che Penelopea fida al suo sposo/ dai Prochi mille oltraggi avea sofferti./
Ma se tu vuoi che ‘l ver non ti sia ascoso,/ tutta al contrario l’istoria converti:/ che i
Greci rotti, che Troia vittrice,/ e che Penelopea fu meretrice» (XXXV, 26).
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Adesso mi pare evidente che il viaggio di Astolfo sulla Luna ci abbia insegnato
tante cose. Innanzitutto, l’importanza della relatività dei punti di vista. Pensiamo, per
esempio, al tema della follia. Il paladino mentre cerca l’ampolla con il senno di
Orlando, scopre (con grande meraviglia) che nella valle lunare esistono anche
ampolle con il cervello di tanti esseri umani ritenuti molto saggi sulla Terra. E prende
coscienza delle infinite cause che possono indurre a smarrire la ragione. La follia
non si manifesta solo in maniera ferina come testimonia la dolorosa esperienza di
Orlando. Può palesarsi in mille modi, a tal punto che ogni essere vivente potrebbe,
senza saperlo, esserne affetto: «Altri in amar lo perde, altri in onori,/ altri in cercar,
scorrendo il mar, ricchezze;/ altri ne le speranze de’ signori,/ altri dietro alle magiche
sciocchezze;/ altri in gemme, altri in opre di pittori,/ et altri in altro che più d’altro
apprezze./ Di sofisti e d’astrologhi raccolto,/ e di poeti ancor ve n’era molto» (XXXIV,
85).
Così la relatività dei punti di vista si rivela un’utile guida per orientarci nella
complessità del presente. Pensate ad alcune immagini che in questi ultimi anni
hanno fatto il giro del mondo sui giornali, in televisione e in internet. Un banale
gommone strapieno di esseri umani che naviga nelle acque del Mediterraneo. Per
alcuni (che guardano, immobili, la Luna dalla Terra) si tratta di furbi vacanzieri festosi
che vengono a spassarsela in Italia. Per altri (che, disponibili al movimento,
guardano la Terra dalla Luna) si tratta, al contrario, di esseri umani disperati alla
ricerca di una dignità e di un futuro migliore. La differenza sta proprio qui: chi esce
dal misero perimetro del suo egoismo per assumere il punto di vista dell’altro, vede
la stessa scena ma in maniera diametralmente opposta.
Bisognava approdare sulla Luna per cogliere, con quella necessaria distanza
che ogni rigorosa analisi richiede, storture e ingiustizie che imperversano nel nostro
pianeta. Grazie alla sua feconda immaginazione, Ariosto ci ha offerto la preziosa
occasione, almeno per un momento, di viaggiare con Astolfo per osservare le
contraddizioni della nostra Terra dall’alta posizione del satellite. Leggere i classici —
l’ho scritto e lo vado ripetendo da anni nelle scuole e nelle università di diversi
continenti — non serve per conseguire un diploma o una laurea. I classici si leggono
perché ci insegnano a vivere, perché ci insegnano a essere più umani, perché ci
insegnano a essere più solidali e tolleranti. E perché ci permettono di cogliere i
grandi valori che danno un forte senso alla nostra vita.
chiudere le mie riflessioni con una commovente citazione. Siamo nel 1624. E John
Donne, uno dei più importanti poeti inglesi, dopo aver combattuto con una grave
malattia sente, nel suo letto, i rintocchi delle campane e pensa immediatamente alla
morte di un vicino. Ma questa scomparsa non si presenta solo come un memento
mori. Diventa una preziosa occasione per capire che gli esseri umani sono legati gli
uni agli altri e che la vita di ogni uomo è parte della nostra vita: «Nessun uomo è
un’isola, intero in se stesso; ciascuno è un pezzo del continente, una parte
dell’oceano. Se una zolla di terra viene portata via dal mare, l’Europa ne è diminuita
[…]; la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché sono preso nell’umanità, e
perciò non mandar mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te».
Questa bellissima pagina (che, come avrete riconosciuto, ispirò il titolo del celebre
romanzo di Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, pubblicato nel 1940),
attraverso la negazione dell’uomo-isola tesse un potente inno alla fratellanza, un
elogio dell’umanità concepita come inestricabile intreccio di tante vite. Ci fa capire —
come ricordava Seneca nelle Lettere a Lucilio — che per dare un forte senso alla
nostra vita dobbiamo imparare a «vivere per gli altri»: «alteri vivas oportet, si vis tibi
vivere», «è importante vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso».
NUCCIO ORDINE
21 luglio 2019 | 17:50
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