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21/7/2020 Libri, Arte e Cultura: ultime notizie - Corriere della Sera - Ultime Notizie

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OMAGGIO

Luna, un viaggio letterarioNuccio Ordine alla Milanesiana


Il testo di Nuccio Ordine in occasione della rassegna di «Letteratura Musica Cinema e Scienza»
ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi (domenica 21 luglio al Vittoriale)

NUCCIO ORDINE

Ecco il testo di Nuccio Ordine, professore ordinario di Letteratura italiana


nell’Università della Calabria e collaboratore del «Corriere della Sera» per l’evento
La conquista della luna (50 anni dopo) (domenica 21 luglio all’anfiteatro del Vittoriale
degli italiani) in occasione de La Milanesiana. La rassegna ideata e diretta da
Elisabetta Sgarbi, domenica 21 e lunedì 22 fa tappa a Gardone Riviera (Brescia)
dove celebra la luna con due serate speciali. Il 21 (alle 21) l’evento sarà introdotto
da un saluto del generale dell’Aeronautica militare Settimo Caputo; a seguire un
prologo di Giordano Bruno Guerri, scrittore, storico e presidente della Fondazione Il
Vittoriale; e poi la lettura di Nuccio Ordine; a chiudere la serata un concerto di Al
Bano. Lunedì 22 (sempre alle 21) La Milanesiana, che quest’anno festeggia la
ventesima edizione ed è dedicata al tema della «speranza», dà spazio all’arte con
Novecento, il nuovo spettacolo del critico Vittorio Sgarbi: un percorso inedito
attraverso gli artisti, i movimenti e le stagioni culturali del XX secolo. Organizzati da
La Milanesiana in collaborazione con Il Vittoriale, gli eventi sono a ingresso libero
fino a esaurimento posti; prenotazioni dal sito vittoriale.it.

Per secoli la Luna ci ha stregati. Ha sedotto non solo i poeti, i pittori, gli artisti (che al
suo splendore si sono ispirati come fonte di bellezza, di desiderio, di malinconia
d’amore), ma ha stregato ogni essere umano che abbia avuto la sensibilità di alzare
gli occhi al cielo. Compagna degli amanti, protettrice degli incontri segreti, spettatrice
degli eventi terreni, complice del destino, sede dell’instabilità e delle mutazioni
repentine, dispensatrice di influssi magici, la Luna non mai ha cessato di attirare su
di sé lo sguardo curioso e affascinato degli esseri viventi.

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Ricordate la lunghissima eclissi nel luglio dello scorso anno? Mi trovavo, per
caso, a Capo Sunio in Grecia. E la Luna, tinta di rosso, abbracciava
voluttuosamente le colonne del Tempio di Poseidone.

Ma cosa ci ha insegnato la Luna? Tantissimo. Questa sera, però, non mi


soffermerò sull’evento celebrativo dedicato all’approdo dell’Apollo 11. Racconterò,
invece, le vicende di un altro celebre allunaggio, compiuto con la fantasia nel 1516,
grazie all’aiuto di un Ippogrifo (il cavallo alato che condurrà in Paradiso il più curioso
dei paladini) e del carro appartenuto al profeta Elia. Si tratta del celebre viaggio di
Astolfo raccontato da Ariosto nei canti XXXIV e XXXV dell’Orlando furioso. Non ho
scelto, però, questo straordinario poema cavalleresco solo per rendere un indiretto
omaggio alla città di Ferrara e alle famiglie Cavallini e Sgarbi che hanno restaurato e
aperto al pubblico la casa in cui Ludovico iniziò a scrivere i primi canti del suo
capolavoro. Ho deciso di ricordare uno dei più celebri voli lunari della letteratura
perché ancora oggi, a distanza di secoli, è capace di farci riflettere su questioni di
scottante attualità.

Questo viaggio sulla Luna, infatti, non è un’esplorazione scientifica per


conoscere il satellite, come quelle compiute a partire dall’Apollo 11, ma è soprattutto
un’occasione per osservare dall’alto la Terra e i suoi abitanti. Solo la visione da una
lunga distanza permette di cogliere i limiti e le miserie umane. Già Luciano di
Samòsata, nel II secolo dopo Cristo, aveva, per primo, spedito sulla Luna il cinico
Menippo nel suo dialogo intitolato, Icaromenippo, ovvero un viaggio tra le nuvole.
Giunto sul satellite, il filosofo greco vede (senza essere visto) il tragicomico
spettacolo di esseri umani che commettono crimini, incesti, adultèri, omicidi,
nefandezze di ogni sorta per diventare più ricchi e più potenti: «Mi curvai dunque
verso la Terra e vidi chiaramente le città, gli uomini e non solo quanto accadeva
all’aria aperta, ma anche quanto facevano quelli in casa credendo di non essere
visti: Tolomeo era a letto con la sorella, […] Alessandro il Tessalo veniva assassinato
dalla propria moglie […]; c’era chi commetteva adultèrio, chi uccideva, chi
complottava, chi rapinava, chi spergiurava, chi temeva, chi era tradito dai parenti più
stretti» (p. 865).

Sulla scia di Menippo, molti secoli dopo anche Astolfo approda sulla Luna per
recuperare il senno perduto di Orlando. E mentre vola, in compagnia di San
Giovanni, sullo stesso carro che aveva condotto Elia in cielo, il paladino osserva la
Terra. E scopre, con grande sorpresa, un clamoroso errore: non è vero che la Luna
è piccola come gli sembrava mentre la osservava dalla Terra; tanto più che adesso,
sulla Luna, la Terra gli appare piccola, proprio come gli appariva la Luna vista dalla
Terra: «Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia:/ che quel paese appresso era sí
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grande,/ il quale un picciol tondo rassimiglia/ a noi che lo miriam da queste bande»
(XXXIV, 71).

Il paladino, insomma, scopre un principio di fondo che caratterizza l’intera


struttura dell’Orlando furioso: la relatività dei punti di vista. Chiusi nel nostro misero
perimetro non saremo mai in grado di capire la complessità dell’universo e degli
esseri viventi che lo abitano. Osservare la realtà da una posizione fissa, induce a
compiere lo stesso errore di Astolfo. Bisogna andare sulla Luna per capire che la
Luna non è piccola per niente e per capire anche che la Terra, vista dalla Luna, non
è per nulla grande. Una metaforica lezione di umiltà. Un invito a collocarsi sempre al
posto dell’«altro». Del resto, l’Ariosto in molti episodi del suo stupendo poema ci
ricorda che il bene e il male, l’amore e l’odio, la saggezza e la follia si configurano
sempre come facce di un’identica medaglia. Ma su questo tema ritornerò tra poco.

Sulla Luna Astolfo impara anche altre cose. Capisce, per esempio, il sottile e
ambiguo rapporto che lega la poesia al potere. Dopo aver preso l’ampolla con il
senno d’Orlando e dopo aver inalato il suo senno, il paladino chiede a San Giovanni
spiegazioni su alcune misteriose scene lunari: in un palazzo le Parche filano e
tagliano i velli della vita; un vecchio velocissimo trasporta i velli recisi nelle acque del
Lete; uccelli rapaci (i versificatori allo ricerca di denaro) sollevano i velli e poi li
lasciano ricadere nel fiume dell’oblio; mentre solo i cigni (i veri poeti) riescono a
condurre i velli più belli in salvo, sull’altare della Fama. Qui, come l’evangelista
spiega al suo compagno di viaggio, è possibile osservare, in chiave allegorica, le
relazioni che i poeti intrecciano con i potenti. Non è vero che i più celebri eroi del
passato siano stati gli unici e i migliori: «Non sí pietoso Enea, né forte Achille/ fu,
come è fama, né sí fiero Ettorre;/ e ne son stati e mille e mille e mille/ che lor si puon
con verità anteporre:/ ma i donati palazzi e le gran ville/ dai discendenti lor, gli ha
fatto porre/ in questi senza fin sublimi onori/ da l’onorate man degli scrittori» (XXXV,
25).

Alla stessa maniera, proprio i privilegi e i soldi concessi a Virgilio hanno


permesso ad Augusto di farsi perdonare le severe liste di proscrizione, per essere
ricordato solo come un illuminato mecenate: «Non fu sí santo né benigno Augusto/
come la tuba di Virgilio suona./ L’aver avuto in poesia buon gusto/ la proscrizion
iniqua gli perdona./ Nessun sapria se Neron fosse ingiusto,/ né sua fama saria forse
men buona,/ avesse avuto e terra e ciel nimici,/ se gli scrittor sapea tenersi amici»
(XXXV, 26).

Se solo le opere dei grandi scrittori possono salvare imperatori e potenti


dall’oblio del tempo e della storia, è facile capire da dove derivi la buona fama di
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Augusto: «favorire le arti e le lettere accordando un generoso sostegno a chi le


coltiva» significa creare le premesse per vincere «di mille secoli il silenzio» (per
citare un celebre verso di Ugo Foscolo). E proprio per non esser stato un generoso
mecenate, il povero Nerone viene ricordato come un folle incendiario, leggenda che
la moderna storiografia ha fortemente ridimensionato.

Tutto dipende dalla funzione eternatrice della letteratura. Ma i poeti cantano lodi
perché sono ben pagati. E, se i lettori vogliono ricostruire la vera storia, dovranno
avere l’intelligenza di ribaltare le vicende raccontate dagli scrittori. L’Ariosto non
risparmia neanche i testi omerici, nobili fondatori della letteratura occidentale.
L’umiliazione di Troia nell’Iliade e l’onestà di Penelope nell’Odissea non sono frutto
di una narrazione partigiana? «Omero Agamennòn vittorïoso,/ e fe’ i Troian parer vili
e inerti;/ e che Penelopea fida al suo sposo/ dai Prochi mille oltraggi avea sofferti./
Ma se tu vuoi che ‘l ver non ti sia ascoso,/ tutta al contrario l’istoria converti:/ che i
Greci rotti, che Troia vittrice,/ e che Penelopea fu meretrice» (XXXV, 26).

Lo stesso discorso vale per l’immagine negativa che Virgilio, nell’Eneide,


attribuisce a Didone (qui evocata con il suo nome fenicio Elissa): «Da l’altra parte
odi che fama lascia/ Elissa, ch’ebbe il cor tanto pudico;/ che riputata viene una
bagascia,/ solo perché Maron non le fu amico./ Non ti meravigliar ch’io n’abbia
ambascia,/ e se di ciò diffusamente io dico./ Gli scrittori amo, e fo il debito mio;/ ch’al
vostro mondo fui scrittore anch’io» (XXXV, 28).

San Giovanni — autore dell’Apocalisse e riconosciuto come il più colto dei


quattro evangelisti — include anche se stesso tra gli scrittori menzogneri. Neppure
i testi sacri sfuggono alla logica mercantile della lode in cambio di un beneficio: «E
sopra tutti gli altri io feci acquisto/ che non mi può levar tempo né morte:/ e ben
convenne al mio lodato Cristo/ rendermi guidardon di sí gran sorte» (XXXV, 29). Alla
stregua di un ricco signore, pure Cristo offre al dotto evangelista la ricompensa della
vita eterna in cambio di una generosa «biografia».

La provocatoria e ironica analisi di San Giovanni coinvolge naturalmente anche


l’Ariosto e le sue esagerate lodi per Ippolito d’Este e i suoi familiari. Parlando degli
altri poeti, il geniale Ludovico mette in guardia soprattutto i suoi lettori, invitandoli a
capire che le vicende encomiastiche del poema sono frutto di un inevitabile
compromesso. Ma proprio mentre ironicamente denuncia il meccanismo della
menzogna, il grande scrittore dice la verità: fate la tara agli elogi, l’autentica poesia
si nasconde nelle altre vicende del poema.

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Adesso mi pare evidente che il viaggio di Astolfo sulla Luna ci abbia insegnato
tante cose. Innanzitutto, l’importanza della relatività dei punti di vista. Pensiamo, per
esempio, al tema della follia. Il paladino mentre cerca l’ampolla con il senno di
Orlando, scopre (con grande meraviglia) che nella valle lunare esistono anche
ampolle con il cervello di tanti esseri umani ritenuti molto saggi sulla Terra. E prende
coscienza delle infinite cause che possono indurre a smarrire la ragione. La follia
non si manifesta solo in maniera ferina come testimonia la dolorosa esperienza di
Orlando. Può palesarsi in mille modi, a tal punto che ogni essere vivente potrebbe,
senza saperlo, esserne affetto: «Altri in amar lo perde, altri in onori,/ altri in cercar,
scorrendo il mar, ricchezze;/ altri ne le speranze de’ signori,/ altri dietro alle magiche
sciocchezze;/ altri in gemme, altri in opre di pittori,/ et altri in altro che più d’altro
apprezze./ Di sofisti e d’astrologhi raccolto,/ e di poeti ancor ve n’era molto» (XXXIV,
85).

Così la relatività dei punti di vista si rivela un’utile guida per orientarci nella
complessità del presente. Pensate ad alcune immagini che in questi ultimi anni
hanno fatto il giro del mondo sui giornali, in televisione e in internet. Un banale
gommone strapieno di esseri umani che naviga nelle acque del Mediterraneo. Per
alcuni (che guardano, immobili, la Luna dalla Terra) si tratta di furbi vacanzieri festosi
che vengono a spassarsela in Italia. Per altri (che, disponibili al movimento,
guardano la Terra dalla Luna) si tratta, al contrario, di esseri umani disperati alla
ricerca di una dignità e di un futuro migliore. La differenza sta proprio qui: chi esce
dal misero perimetro del suo egoismo per assumere il punto di vista dell’altro, vede
la stessa scena ma in maniera diametralmente opposta.

Bisognava approdare sulla Luna per cogliere, con quella necessaria distanza
che ogni rigorosa analisi richiede, storture e ingiustizie che imperversano nel nostro
pianeta. Grazie alla sua feconda immaginazione, Ariosto ci ha offerto la preziosa
occasione, almeno per un momento, di viaggiare con Astolfo per osservare le
contraddizioni della nostra Terra dall’alta posizione del satellite. Leggere i classici —
l’ho scritto e lo vado ripetendo da anni nelle scuole e nelle università di diversi
continenti — non serve per conseguire un diploma o una laurea. I classici si leggono
perché ci insegnano a vivere, perché ci insegnano a essere più umani, perché ci
insegnano a essere più solidali e tolleranti. E perché ci permettono di cogliere i
grandi valori che danno un forte senso alla nostra vita.

Di fronte alla brutalità di slogan che in lingue diverse rimbalzano da un


continente all’altro («American first», «La France d’abord», «Prima gli italiani»), la
letteratura, la musica, l’arte, ci ricordano che l’umanità è una, e che gli esseri umani
non sono isole separate, ma parti diverse di un unico continente. Per questo voglio
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chiudere le mie riflessioni con una commovente citazione. Siamo nel 1624. E John
Donne, uno dei più importanti poeti inglesi, dopo aver combattuto con una grave
malattia sente, nel suo letto, i rintocchi delle campane e pensa immediatamente alla
morte di un vicino. Ma questa scomparsa non si presenta solo come un memento
mori. Diventa una preziosa occasione per capire che gli esseri umani sono legati gli
uni agli altri e che la vita di ogni uomo è parte della nostra vita: «Nessun uomo è
un’isola, intero in se stesso; ciascuno è un pezzo del continente, una parte
dell’oceano. Se una zolla di terra viene portata via dal mare, l’Europa ne è diminuita
[…]; la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché sono preso nell’umanità, e
perciò non mandar mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te».

Questa bellissima pagina (che, come avrete riconosciuto, ispirò il titolo del celebre
romanzo di Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, pubblicato nel 1940),
attraverso la negazione dell’uomo-isola tesse un potente inno alla fratellanza, un
elogio dell’umanità concepita come inestricabile intreccio di tante vite. Ci fa capire —
come ricordava Seneca nelle Lettere a Lucilio — che per dare un forte senso alla
nostra vita dobbiamo imparare a «vivere per gli altri»: «alteri vivas oportet, si vis tibi
vivere», «è importante vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso».

NUCCIO ORDINE
21 luglio 2019 | 17:50
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