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Il filo rosso dell'insurrezione del maggio 1920

di Andrea Genovali
La storia ha percorsi e regole che spesso sono difficili da comprendere,
sicuramente un avvenimento che risponde a questi dettami, che fu importante
e che poteva produrre risultati anche di grande rilievo, fu quello della
insurrezione viareggina del 2-4 maggio 1920.
Solitamente si dice che le vittorie hanno cento madri e la sconfitta è orfana e
mai come in questo caso possiamo affermare che il detto popolare sia, quanto
meno, molto vicino alla realtà. Non è sicuramente un caso che questo episodio,
che in molti ormai a Viareggio ricordano come le giornate della Repubblica
Viareggina, abbia dovuto pazientemente aspettare, in pratica, un secolo perché
potesse diventare patrimonio storico e culturale dell'intera città e iniziare a
espandere fuori dai confini comunali l'originalità della sua storia.
Le Giornate Rosse - di cui oggi possiamo finalmente conoscere
approfonditamente storia e motivazioni sociali, economiche e politiche, con un
metodo storicamente scientifico e per le quali si sta girando un docufilm,
preparando una riduzione teatrale oltre a veder intitolata a loro nome un luogo
della città – rappresentano un grande fatto di popolo in primo luogo. Non
furono, infatti, giornate in cui una minoranza organizzata e preparata
militarmente prese in mano la situazione. Fu il popolo viareggino delle darsene,
dei lavori umili, dei marinai che insorse, in modo non organizzato a seguito
dell'omicidio a sangue freddo e senza alcuna motivazione del guardialinee di
parte viareggina, Augusto Morganti ben dopo il termine della ormai famosa
partita di calcio Viareggio-Lucchese, da parte di un carabiniere, che ne uscirà
immacolato e con il rimborso delle spese processuali.
Un fatto spontaneo di popolo che vide nella serata di quella domenica 2 maggio
1920 l'apparire nella direzione dell'insurrezione - che necessitava di una
sponda e di un progetto politico concreto al fine di potersi prolungare -
dell'onorevole Luigi Salvatori, giovane deputato del Regno, eletto nel novembre
del 1919 fra le fila dei socialisti e già guida del proletariato versiliese e del
gruppo dirigente anarchico della Camera del Lavoro di Viareggio, guidata da
Manlio Baccelli.
Salvatori, chiamato l'"Avvocato del popolo" per la difesa che operava in
tribunale gratuitamente per operai e povera gente - non condivideva la scelta
dell'occupazione, avendo ben presente la situazione politica generale, ma
essendo riconosciuto come il "capo" di quel popolo e ricoprendo la carica di
deputato assunse su di sé tutta la responsabilità di guidare nel miglior modo
possibile quell'insurrezione, cercando di darle uno sbocco politico capace di
proteggerla e di innescare, forse, un qualcosa di inaspettato e foriero di buone
cose per il proletariato.
Ci provò con tutte le sue forze e capacità, malgrado il suo scetticismo che
aveva ragioni ben consolidate e giustificate nella realtà dell'Italia del tempo che
lui conosceva perfettamente. Ma "Fare come in Russia" era lo slogan che
riecheggiava per le strade di Viareggio e lui volle cercare di essere all'altezza
del compito che i proletari della città gli avevano offerto con generosità e
fiducia. Riuscì in entrambi gli scopi non facendo pagare prezzi elevati alla città
e agli insorti e garantendo, al contempo, una grande dignità a
quell'insurrezione al punto che le trattative per la sua cessazione si svolsero
con i militari e il governo da pari a pari.
Lo sciopero generale indetto nella riunione serale di quella domenica 2 maggio
da questo gruppetto di uomini darà all'insurrezione spontanea un carattere di
rivolta organizzata, con finalità politiche e sociali che diventarono subito
patrimonio della città insorta.
Finalità che non calarono dall'alto ma rappresentanti le rivendicazioni, le lotte
che il proletariato viareggino aveva condotto nel corso dei mesi che andarono
dalla fine della Prima guerra mondiale a quel 2 maggio 1920.
La scintilla fu assolutamente occasionale ma dopo pochissime ore affiorarono
subito le grandi disuguaglianze sociali, la violenza del Regno e la rabbia per
quel giovane morto per una partita di calcio. Morganti, ha anche il triste
primato di essere stato il primo morto ammazzato in Italia a seguito di un
evento sportivo. La prima peculiare caratteristica della rivolta viareggina.
L'insurrezione viareggina, a cento anni dai fatti, ci consegna la possibilità di
ricostruire quel filo rosso che, per molti decenni, divenne carsico, di una storia
di lotta al fascismo che si origina e prende forma in quel maggio 1920.
I fascisti sono ancora poca cosa ma a Viareggio – ma di lì a poco - nel maggio
del 1921, con la copertura dei carabinieri e dell'esercito, in Piazza Grande,
assassineranno Pietro Nieri e Enrico Paolini, i primi martiri della violenza
squadrista viareggina. E in Italia diverranno dittatura grazie alla codardia, ma
anche condivisione, del re e ai ricchi finanziamenti di industriali e latifondisti
agrari.
A Viareggio un numero abbastanza consistente, fra quei protagonisti del
maggio del 1920, diverranno gli antifascisti della prim'ora. Un po' come lo
furono gli Arditi del Popolo, altri protagonisti che hanno dovuto attendere quasi
lo scoccare del secolo dalla loro nascita per vedersi riconosciuto il titolo di
prima realtà antifascista che si batté, armi alla mano, contro il fascismo.
A Viareggio in quei giorni sappiamo che vi furono anch'essi. Forse non in modo
organizzato, gli studi sono in corso in queste settimane, ma sicuramente per le
strade e le barricate della città vi fu chi si riconosceva nell'arditismo popolare.
Un nome che di cui abbiamo certezza fosse presente nei fatti del 1920 è quello
di Eugenio Biancalana detto "Bori", Ardito del Popolo, di cui in questi giorni
inizieremo la ricostruzione della sua vita e militanza politica.
Quindi le Giornate Rosse come prima fucina di un antifascismo che si
contrappose frontalmente, pagandone un prezzo altissimo, al fascismo del
ventennio. Un antifascismo che si forgiò nelle enormi difficoltà economiche e
sociali e nella violenza della dittatura. Uomini e donne, che in parte ritroveremo
venti e passa anni dopo, con in pugno, alle volte, le armi sotterrate alla fine di
questa insurrezione, pur di non riconsegnarle ai carabinieri e in vista di nuove
opportunità. Non va dimenticato che molti fra gli oltre 400 reduci della guerra
mondiale di Viareggio ricordavano benissimo come i carabinieri si disponessero
alle loro spalle durante gli attacchi dalle trincee pronti a sparare contro chi si
fosse rifiutato di continuare ad andare incontro alle mitragliatrici austriache.
Ma allora perché nessuno ha mai voluto fare opera di giustizia storica e politica
riproponendo, in chiave storiografica adeguata e politicamente onesta, queste
giornate della Repubblica Viareggina?
Francamente abbiamo sempre dato una grande valenza al fatto che gli
anarchici, dopo la fine della dittatura e della Seconda guerra mondiale, avendo
perso peso e rilevanza politica a livello viareggino, e in larga parte a livello
nazionale, si fossero trovati impediti dalla realtà dei fatti nel riproporre con
forza gli accadimenti viareggini. Invece, leggendo le pagine di Umanità Nova, il
loro organo di stampa, di quei lontani giorni vediamo che le notizie da
Viareggio (Umanità Nova aveva un suo corrispondente fisso) sono sì riportate
in prima pagina ma in trafiletti modestissimi e con uno stile giornalistico
improntato molto a un giornalismo diciamo asciutto. Gli anarchici, esclusi quelli
di Viareggio e delle poche città limitrofe, che in qualche modo manifestarono
solidarietà, non compresero l'importanza dei fatti viareggini e sostanzialmente
li ignorarono a livello nazionale.
E questo farebbe il paio con la risposta che Salvatori ricevette da un anarchico
sindacalista di Pisa, il 3 maggio 1920, che gli disse, più o meno: "...Che la
rivoluzione è cosa seria e non la si fa partendo da 22 stercorari in mutande"
con l'ovvio riferimento ai giocatori del derby.
Questo atteggiamento della stampa anarchica è una novità nello studio delle
Giornate Rosse fin qui svoltosi. Ma, allora non desta più troppa curiosità il
perché Virgilia D'Andrea non citerà mai, neppure nel suo libro di memorie, il
suo comizio di Viareggio che pure fece prendere coscienza alle donne della
Viareggio proletaria del loro peso e della loro forza nella partecipazione alla
vita sociale della città e che diverranno fondamentali nell'insurrezione che si
svolse una settimana dopo.
Silenzio condiviso con tutti gli altri dirigenti nazionali, a iniziare da Claudio
Borghi segretario generale del sindacalismo anarchico e marito della D'Andrea.
Quindi questa novità rappresenta una prima risposta al silenzio centenario sui
fatti del Venti.
Altre risposte da avanzare sono quelle relative ai silenzi di socialisti, comunisti
e del sindacato che oggi chiameremmo confederale. Ovviamente, le Giornate
Rosse cadono a ridosso dell'instaurarsi della dittatura fascista, che fa calare
subito una pesante coltre di violenza e silenzio su tutto ciò che si richiama agli
ideali di libertà, giustizia sociale, socialismo, comunismo e anarchia. Quindi la
Repubblica Viareggina la possiamo annoverare fra le prime vittime della
restaurazione fascista ma ciò non toglie il colpevole silenzio dal dopo guerra
fino ai giorni nostri.
Il problema appunto nasce al termine della dittatura. Perché da un lato c'erano
i socialisti che avevano iniziato a lasciar cadere qualsiasi ipotesi rivoluzionaria e
dall'altra i comunisti che, nel 1920, non erano ancora stati costituiti in Italia.
Questo ha fatto si che per i socialisti non fosse assolutamente utile,
politicamente parlando, rivendicare quei fatti; così come per i comunisti che,
non essendo ancora sorti in quel maggio 1920, rievocare quei fatti avrebbe
portato acqua al mulino di altre realtà politiche.
In più, il sindacalismo viveva la breve ed effimera stagione dell'unitarietà
( pensarà De Gasperi a mandarla in frantumi) e dunque nessuno aveva
interesse a ricordare un avvenimento di chiara matrice sindacale anarchica,
anche se il nuovo leader sindacale viareggino fosse quel Manlio Baccelli, adesso
comunista, ma nel 1920 anarchico.
L'unico che avrebbe potuto rivendicare la vicenda, dall'alto della sua
autorevolezza e stima che il proletariato versiliese riversava su di lui, era Luigi
Salvatori. Ma il Salvatori morì nel 1946 dopo una grave malattia invalidante -
dovuta alle percosse che ricevette dai fascisti viareggini e versiliesi - che però
non lo tenne fuori dalla lotta resistenziale. Lui avrebbe potuto scrivere quella
pagina decenni prima e in modo maggiormente preciso e politicamente efficace
di quello che è accaduto nella seconda decade del nuovo secolo che viviamo.
Ma purtroppo è andate così.
La cosa che invece risulta difficile da comprendere è il perché gli studiosi, gli
storici di professione, i politici stessi di formazione socialista, comunista,
libertaria, democratica nel corso dei lunghissimi decenni dal 1946 a oggi
abbiamo sempre taciuto, disinteressandosi della ricostruzione storiografica e
anche della valenza politica di quelle giornate, che rappresentano l'unica caso
in Italia nel biennio 1919/1920 di occupazione totale di una città e la sua
conseguente gestione senza nessun spargimento di sangue o violenza gratuita.
Ci sono voluti cento anni affinché poche persone, e non certo storici di
professione, riproponessero i fatti del 1920 in una chiave storiografica corretta,
evidenziandone le caratteristiche e le peculiarità. Una storia finalmente narrata
"sui fatti" e "con i fatti", senza ridurre il tutto a macchiette da avanspettacolo
letterario o dando credito alle menzogne che il governo Nitti e i militari
costruirono dal nulla, per quel lontano assassinio di un giovane di nome
Augusto Morganti, propagate e fatte sopravvivere come verità da uno pseudo
storicismo dilettantesco e pernicioso.
Un grazie, a chiusura, lo voglio dedicare con tutta la stima e la passione
possibile a Francesco Bergamini: operaio, comunista e storico autodidatta della
città a cui si deve la nascita del Centro Documentario Storico, e dunque la
salvezza delle nostre radici, e le infinite ricerche e libri sulla storia cittadina. È
anche grazie a lui, soprattutto a lui, che le Giornate Rosse hanno vinto l'oblio
del tempo e il silenzio degli uomini facendole finalmente oggi diventare
patrimonio storico comune di Viareggio e non solo.

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