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NOTE DI COPERTINA
Divorata da un dio giaguaro o da una dea leonessa, sferzata da uragani, sepolta da un
diluvio di acque o di fuoco, scossa da terremoti, dissolta nell‘indistinto Caos
primordiale, percorsa dalle armate del Bene e del Male impegnate nella lotta estrema:
così finirà la terra secondo i miti elaborati dalle grandi civiltà, dal Sumeri agli Egizi,
dagli Indù ai Celti, dagli Aztechi alle grandi religioni monoteiste. Il sonno degli dèi è
un‘«enciclopedia dell‘apocalisse», per un millennio che si chiude con l‘usuale
contorno di attese e presagi, e insieme uno straordinario racconto, che mette il lettore
davanti alle visioni, alle immagini, alle domande fondamentali che accompagnano
l‘uomo fin dalla sua comparsa sulla terra, e alle risposte che nel corso del tempo è
riuscito a fornire il mito, la più potente e universale delle forme di narrazione e di
spiegazione del mondo. Nelle pagine di Giuseppe Conte, lo scrittore italiano che più
di ogni altro ha riconosciuto nel mito la sua principale fonte d‘ispirazione, la fine del
mondo non è solo il cataclisma cosmico profetizzato dai testi religiosi, ma anche la
fine – storica – di un mondo: apocalissi reali avvolte in un alone mitico, come il
crollo dell‘impero azteco davanti all‘assalto dei quattrocento soldati di Cortés, la
catastrofe delle bombe atomiche sul Giappone gli ultimi giorni del Terzo Reich, con i
bagliori da Crepuscolo degli dèi che si levano dal bunker di Hitler. Quale sorte
attende ogni uomo, la terra, l‘universo? La fine e poi il nulla? Un Giudizio e una vita
eterna, delle anime, dei corpi, dell‘anima del mondo? O una serie incessante di
reincarnazioni, «universi che esplodono, implodono e tornano a esplodere; dèi che
sognano – e il loro sogno siamo noi e l‘universo -, che dormono – e il loro sonno è
l‘azzeramento, il dissolversi, il nulla – e che tornano a risvegliarsi, senza fine»? Se le
risposte della scienza ci lasciano freddi e perplessi, le immagini del mito
infiammeranno la nostra fantasia.
GIUSEPPE CONTE, nato a Imperia nel 1945, è poeta, saggista e romanziere. Tra le sue opere più
recenti, Fedeli d’amore (1993), L’impero e l’incanto (1995), Canti d’Oriente e d’Occidente (1997)
e II ragazzo che parla col sole (1997).
Indice
Premessa
Introduzione
Le apocalissi e l’idea del tempo
Aztechi
La fiamma sacra di Aldebaran
Maya
La piramide delle tenebre e dei giaguari
Indiani d‘America
La Danza degli Spettri
Giapponesi
«Grande e augusta Kami che brilla nel Cielo»
Sumeri, Assiri, Babilonesi
Un flagello più terribile del diluvio
Egizi
Rà comincia a invecchiare
Indù
La notte di Brahma
Persiani
Il seme di Zoroastro
Greci e Romani
«Della morte non parlarmi, glorioso Odisseo»
Germani
Quale crepuscolo per gli dei?
Celti
«Re Artù non è morto»
Ebrei e cristiani
«E’ caduta la grande Babilonia»
Musulmani
Il Dodicesimo Imam
Epilogo
Ringraziamenti
PREMESSA
Il lettore troverà in questo libro i racconti della distruzione del mondo e della fine
dei tempi come ci vengono conservati dai miti e dalle religioni delle grandi civiltà.
Ho preso in considerazione le civiltà degli Aztechi, dei Maya, degli Indiani
d‘America, dei Giapponesi, dei Sumeri, Assiri e Babilonesi, degli Egizi, degli Indù,
dei Persiani, dei Greci e Romani, dei Germani, dei Celti, degli Ebrei e dei cristiani,
dell‘Islam. Naturalmente, un conto è occuparsi di religioni estinte come quelle degli
Aztechi, dei Sumeri, dei Greci, dei Celti, che nessuno si offende a sentire definire
mitologie. Un conto è occuparsi dell‘ebraismo, del cristianesimo, dell‘Islam,
dell‘induismo, che contano miliardi di fedeli nel mondo. Per loro le dottrine
escatologiche delle rispettive religioni sono oggetto di fede. Non c‘è niente, dal mio
punto di vista, che meriti più rispetto della fede; dunque se il sottotitolo del libro
parla di «miti», è perché «mito» in questo caso significa soprattutto «racconto sacro»,
«racconto delle cose prime e ultime», e non c‘è nessuna intenzione denigratoria
nell‘applicare il termine in questa accezione all‘Apocalisse di Giovanni o a certe Sure
del Corano o a certe pagine delle Upanisad. Non ho avuto nessuna pretesa di
esaustività. Così come, pur essendo il libro frutto di una documentazione precisa e
appassionata, non ho avuto nessuna pretesa di scientificità: non sono uno studioso di
professione, ma soltanto uno scrittore di libri in versi e in prosa che ormai da decenni
lavora sui temi del mito. Il mito, per la sua natura aurorale, per il senso delle origini
che lo pervade, ha sempre puntato più sul momento della creazione che su quello
della distruzione. Così si trovano tanti libri sui «miti della creazione» negli scaffali
dei settori di mitologia e antropologia delle librerie, ma nessuno che abbracci
l‘insieme dei «miti della distruzione e della fine dei tempi». Le ricerche ad esempio
di Damian Thompson (La fine del tempo, 1996) o di Graham Hancock (Impronte
degli dèi, 1995) o di Alfred Weysen (Le Tempie du secret et l’Apocalypse, 1990)
toccano questi temi ma non sistematicamente e hanno punti di vista particolari o
ardite tesi da dimostrare. Così posso dire che scrivendo ho accettato un duplice
invito: prima di tutto quello del mio editore, e poi quello del libraio di Nizza che un
giorno mi ha chiesto perché non mi facevo io stesso quel libro sulla fine dei tempi nei
miti delle grandi civiltà che non riusciva proprio a trovarmi, anche dopo tante
ricerche.
INTRODUZIONE
AZTECHI
MAYA
INDIANI D’AMERICA
GIAPPONESI
EGIZI
RA COMINCIA A INVECCHIARE
Neppure gli egizi, come i sumeri o i Giapponesi, concepirono un‘idea di apocalisse
come noi siamo abituati e pensarla: la «rivelazione» della fine dei tempi con il
Giudizio Universale, l‘uscita definitiva dal divenire e l‘inizio dell‘eternità. Ma
svilupparono un ricchissimo pensiero escatologico sul viaggio dell‘anima del defunto
nell‘Aldilà; e anche loro elaborarono un mito di distruzione dell‘umanità, di fine del
tempo degli uomini, anche se soltanto tentata, e non portata alle estreme conclusioni.
La fine individuale di una vita era per gli Egizi l‘inizio di un viaggio. Essi
vedevano nell‘uomo la compresenza di tre principi spirituali, due più alti, uno meno:
un principio si chiamava Akh, il primo in ordine gerarchico di altezza, che viene
tradotto con «anima trasfigurativa del divino nell‘umano», e, come ci ricorda
l‘egittologo Boris de Rachewiltz, fu prima considerato soltanto appannaggio degli dèi
e dei faraoni, poi di tutti gli uomini. Il secondo principio si chiama Ba, e potremmo
tradurlo con «anima». Se Akh è raffigurato come ibis, Ba viene raffigurato come
uccello antropocefalo, spesso mentre si reca a visitare la mummia del defunto, su cui
aleggia come un soffio di vita. Ka è il terzo principio, il meno elevato ma forse il più
importante, perché rappresenta l‘anello di congiunzione tra il corpo materiale
dell‘individuo e i due principi spirituali superiori. È stato avvicinato dagli studiosi
allo «spirito vitale» dei Semiti o al genius dei Romani, ed è stato anche tradotto con
«doppio» o con «corpo astrale». Secondo Julian Jaynes, corrisponde invece a quella
«voce-guida» che ciascun uomo sente interiormente mentre è in vita, e che dopo la
sua morte verrà udita in modo allucinatorio dai suoi amici e parenti.
È per il Ka che i corpi vengono mummificati, in quanto esso ha bisogno che venga
fissato, sottratto alla corruzione qualcosa del corpo del defunto per sopravvivere a sua
volta; di suo non ha possibilità di svilupparsi, di mutare, quindi la sua esistenza è la
continuazione di quella che il morto ha condotto sulla terra, un‘infinita ripetizione. E‘
il Ka che viene alimentato con le offerte funebri o con formule sostitutive che si
affidano al potere magico della voce: per amministrare le offerte funebri esisteva un
ordine sacerdotale apposito, detto dei Servitori di Ka.
Il morto, con tutti e tre i principi spirituali che lo abitano, viene preso in consegna
da Anubi, il dio protettore delle necropoli che presiede ai riti funerari e ai processi di
mummificazione, che anzi lui stesso ha inventato, provvedendo a mummificare
Osiride, di cui secondo il mito era figlio illegittimo, avuto dalla sorella Nefti, sposa di
Seth. Anubi è rappresentato sotto forma umana ma con la testa di animale, di solito di
uno sciacallo: in questo simile all‘Ermes greco, accompagna l‘anima del defunto al
Tribunale di Osiride, uno degli dèi maggiori del pantheon egizio, lo sposo di Iside
ucciso a tradimento dal fratello malvagio Seth; Osiride è il dio della resurrezione, il
dio buono e civilizzatore che ha distolto gli uomini dal cannibalismo, che ha dato
inizio alla coltura del grano, dell‘orzo e della vite, in modo che gli uomini possano
consumare pane e bere vino e birra.
Osiride è stato ucciso dal fratello Seth, il suo corpo straziato, fatto a pezzi e
disperso nel Nilo; ma Iside, la grande dea madre e sposa, poi grande dea maga e
sapiente cui tutti i paesi del Mediterraneo orientale diventeranno devoti, cerca il
corpo del marito, lo ricompone, edifica suoi templi dovunque ne recuperi una parte;
con l‘aiuto di Anubi mummifica la salma; soltanto una parte non è stata ritrovata, il
sesso; ma Iside rimane lo stesso incinta del suo sposo posandosi sulla sua mummia
sotto forma di avvoltoio, o, secondo una versione più gentile del mito dovuta a
Plutarco, ricevendo dalla sua testa mozzata e appena recuperata tra i giunchi del delta
del Nilo uno sguardo pieno di languore e passione. Iside genera Horo il Giovane,
raffigurato sempre come un bimbo nudo che si porta il pollice alla bocca e con una
treccia che scende sulle spalle. Cresciuto, e scampato con la madre alle persecuzioni
di Seth, alla fine sfiderà lo zio malvagio e lo sconfiggerà, stabilendo il proprio regno
sulla terra, mentre a Osiride toccherà di regnare sui morti, sull‘Aldilà e sulle anime.
E‘ per questo dunque che Osiride presiede il Tribunale la cui corte è composta da
lui stesso, da Iside, da Nefti e da quarantadue consiglieri divini. La cerimonia cui
Anubi conduce il morto si chiama «psicostasia», ovvero «pesatura dell‘anima». C‘è
una grande bilancia, e su un piatto Maàt, la dea della Verità e della Giustizia, ha
posato una piuma; sull‘altra, il morto dovrà posare il suo cuore. Se il cuore è puro,
giusto, e dunque leggero, la bilancia non si muoverà, e il possessore di quel cuore
partirà verso i campi detti di Jaru, i Campi Elisi su cui regna Osiride. Lì condurrà una
vita felice, il cui unico obbligo sarà coltivare i campi del dio; ma sarà un‘attività
soprattutto spirituale, perché ai lavori agricoli veri e propri potrà provvedere un
ushabti, un «corrispondente», una statuetta in argilla che riproduca le fattezze del
defunto.
Se invece la bilancia si muove, se il piatto su cui è posato il cuore precipita in
basso, e dunque il verdetto di Osiride è negativo, allora il defunto perde ogni diritto a
entrare nei Campi Elisi, e il suo cuore viene subito distrutto da un‘entità mostruosa
chiamata Amam, Colei che annienta i colpevoli, che ha testa di coccodrillo, zampe
anteriori e tronco di leonessa, zampe posteriori di ippopotamo. Quando Amam ha
compiuto la sua opera, del defunto non restano che lacerti sparsi che vengono
precipitati in un Lago di Fuoco e lì ridotti al nulla. Il Libro egizio dei Morti riferisce
al capitolo 125 la «confessione negativa» che il defunto pronuncia davanti al
Tribunale di Osiride. Non vengono enunciati i peccati commessi: ma c‘è una litania-
formula in cui vengono elencati i peccati non commessi.
Non ho commesso ingiustizia
non ho rubato
non ho ucciso
non sono stato insolente
non ho disobbedito
non ho ucciso bestiame sacro
non ho fatto la spia
(…)
Poiché la serie delle colpe di cui un uomo può macchiarsi è assai lunga, assai lunga
era la formula, e grande la paura di non riuscire, davanti ad Osiride, a recitarla per
intero; allora certi facevano inumare con la propria salma ampi passaggi della
formula stessa, sicuri in quel modo di ricordarla con più facilità.
La religione egizia, nota Mircea Eliade, è dominata più di qualunque altra dal culto
del sole. E‘ imperniata sulla divinizzazione del Sole, che si chiami Rà, Amon, Ptah,
Horo il Falco o Aton. Ma, qualunque sia il suo nome, e per quanto grande sia la sua
potenza e la venerazione di cui è circondato, il sole ha un nemico, eterno e
costantemente in agguato, che è il drago Apofi. Come per gli Aztechi, il sole è in
continuo pericolo di morte; in questo senso, una vena di apocalisse cosmica percorre
anche la visione egizia dell‘universo. Il drago Apofi, raffigurato come un serpente
tutto squame che sembrano gobbe, da cui spuntano dei veri e propri coltelli, è il
simbolo di forze malefiche sempre operanti per contrastare quotidianamente il passo
al sole. Anche gli Indù conoscono demoni, i Mundehas, che ogni mattina si preparano
ad attaccare e spegnere il sole e che vengono sconfitti e ricacciati indietro dai mantra
e dalle offerte dei fedeli.
Il sole sta per spuntare all‘orizzonte, e il drago Apofi con le sue spire, le sue gobbe,
i suoi coltelli, sta tramando per fermarlo, per bloccare il principio della luce e far
trionfare le tenebre. Per rendere possibile la vittoria del sole, i sacerdoti devono
levare preghiere nel momento immediatamente precedente a quello in cui sorge
sull‘orizzonte, pronunciare formule di esecrazione di Apofi, e bruciarne un simulacro
di cera. Durante il giorno, la cerimonia veniva ripetuta diverse volte. Durante il
viaggio notturno del sole, poi, alla settima ora della notte, si pensava che avvenisse lo
scontro con Apofi, e lì era Iside, la grande dea signora delle arti magiche, a propiziare
la vittoria del principio della luce, per cui sarebbe ancora spuntata un‘alba. E‘
impressionante pensare come soltanto la moderna civiltà dei bianchi, nutrita di
cristianesimo e razionalismo, abbia abolito il senso di reverenza per la luce che torna,
e del pericolo che l‘energia solare si spenga. A parte i poeti, questi inascoltati
legislatori del mondo, nessuno ha più coltivato nessuna devozione per il sole e la
luce. Nessuno ha più pensato che la luce stessa si alimenta della sua lotta eterna con il
principio a essa opposto, cioè le tenebre, il male, la distruzione, l‘annichilimento. Gli
Aztechi, le tribù pellerossa, gli Indù, gli Egizi hanno capito che il sole, inteso come
fonte di luce e di bene, va aiutato nel suo corso dalle preghiere e dal sacrificio degli
uomini che non vogliono soccombere alle tenebre. Senza preghiere e riti sacrificali il
sole può spegnersi, l‘alba non venire, il ciclo di giorni e notti spezzarsi. La civiltà
costruita sull‘innesto di cristianesimo biblico e razionalismo utilitaristico ed
economicistico ha creato una società totalmente acosmica,
dove il sole è un‘insignificante palla di atomi la cui presenza merita soltanto
attenzioni meteorologiche. Che il sole e la luce siano il risultato di una terribile lotta
nessuno lo pensa più. Eppure dovremmo anche noi qualche volta ricordarci del drago
Apofi, della sua volontà di spegnimento, di annientamento, di tenebra. Forse anche
del piccolo drago Apofi che vive probabilmente in noi, riflesso di una lotta più vasta
e lontana. E dovremmo ricordarci anche che lo si può sconfiggere, con la tecnica
degli antichi sacerdoti egizi, esecrandolo, bruciando i suoi simulacri. Superato
l‘agguato di Apofi, saremo nella luce che ritorna; e, se ha ragione Goethe a dire che
la luce è sul piano fisico quello che è lo spirito sul piano morale, allora saremo anche
nella pienezza dello spirito.
Il culto egizio del sole è legato alla storia delle dinastie dei faraoni e delle città che
ebbero man mano il predominio lungo la valle del Nilo. Siamo in presenza così di
diverse cosmogonie: quella di Eliopoli, quella di Ermopoli, quella di Menfi e quella
di Tebe. La cosmogonia eliopolitana, la più antica, si presenta come «enneade»
perché prevede nove dèi maggiori legati da un preciso ordine genealogico. Anche per
gli Egizi prima della creazione dell‘universo non c‘è il nulla, ma il caos, un
indefinibile caos d‘acque detto Nun, da dove germina il dio del sole Rà. Una volta
nato, il sole presenta una triplice natura: Rà è il sole allo zenit, Atum, dalla radice tm
che significa sia «totalità» sia «nulla», è il sole tramontante, Khepri, dalla radice
khpr, «divenire» o «trasformarsi», il sole dell‘alba. Verso il 2700 avanti Cristo,
durante la IV dinastia, Rà diventa il dio di tutto l‘Egitto sino alla fine della storia dei
faraoni. Rà è all‘origine della creazione, che avviene per masturbazione o
espettorazione: da lui nascono Shu, principio dell‘aria e della luce e Tefnut, principio
dell‘umidità. Shu e Tefnut danno vita a Geb, il dio della terra, e a Nut, la dea del
cielo.
Nut e Geb avevano avuto per accoppiarsi la difficoltà che tanti papiri ricordano in
quella raffigurazione così emblematica e bizzarra, dove si vede il corpo allungato e
filiforme della dea distendersi in alto, sorretto dal padre Shu che le impedisce ogni
contatto con Geb. L‘interdizione da parte di Shu era stata assoluta: niente nozze tra
cielo e terra. Ma c‘era stato l‘intervento di Thoth, il dio dalla testa di ibis, il patrono
degli scribi, il dio dalla parola sapiente e creatrice, il dio della scienza ma anche
dell‘astuzia e del gioco, anche lui come Anubi una specie di Ermes, ma meno volatile
e leggero. Thoth gioca ai dadi con la Luna e vince cinque giorni da aggiungere al
calendario: in quei giorni Geb e Nut potranno accoppiarsi. Le loro nozze generano
Iside e Osiride, Nefti e Seth.
Va detto che Shu, dio dell‘atmosfera, fu in seguito identificato anche lui con il
sole. E che in un testo intitolato ha rivelazione dell’anima di Shu, iscritto sul
sarcofago di Gwa, un nobile e colto medico della XII dinastia (1991-1778 avanti
Cristo), Shu appare come il creatore di se stesso, la guida per evolversi dall‘eterno
sorgere e cadere, origine di tutti gli dèi, colui che rigenera la sostanza della sacra
carne di Osiride. Ma in questo testo non prevale l‘aspetto cosmogonico e mitico; qui
siamo già in piena dimensione misterica, una dimensione che ha così largo spazio
nella cultura dell‘antico Egitto.
La cosmogonia ermopolitana si presenta invece come un‘«ogdoade» e prevede
infatti otto dèi invece di nove: dal caos, nascono quattro coppie divine, Nun e Nunet,
l‘acqua iniziale, Heh e Hehet, l‘infinito spaziale, Keh e Kehet, le tenebre, Amon e
Amonet, «ciò che è nascosto». La creazione avviene però in forma più gentile che
non nella cosmogonia eliopolitana: qui si parla di un sole che nasce da un uovo o da
un fiore di loto, e si manifesta all‘inizio sotto la forma di un‘oca o di un bambino.
La cosmogonia di Menfi ha come dio principale Ptah, il cui nome deriva da una
parola che significa «modellare»: la creazione continua a spiritualizzarsi, ora avviene
attraverso la parola. Infine la cosmogonia di Tebe, con il suo dio principale Amon-
Rà, fonde l‘enneade eliopolitana e l‘ogdoade ermopolitana giungendo finalmente
all‘idea di un dio del sole che crea attraverso la parola e l‘intelletto. Un faraone del
XIV secolo, Amenothep IV, tentò di imporre come religione di stato il culto di Aton,
portò la capitale da Tebe in una località ribattezzata Akhet-Aton («l‘orizzonte di
Aton», oggi Tell-el Amarna), lui stesso prese il nome di Ekhnaton. Il termine aton
indicava già il disco solare, il corpo visibile di Rà, l‘astro inteso in senso fisico. Il
nuovo dio Aton, simboleggiato in un cerchio che in basso emana raggi disposti a
triangolo e che simulano all‘estremità una minuscola mano, è il sole nella sua essenza
naturale, materiale, è luce, bellezza, gioia, germinazione, continua creazione della
vita. Ogni speculazione metafisica, ogni preoccupazione escatologica viene bandita.
È giunto sino a noi l‘inno che Ekhnaton, il faraone scismatico, l‘inventore di questa
religione dell‘energia, della natura, del Sole vivente, dedicò al nuovo dio:
Tu splendi di bellezza all‘orizzonte del cielo
o Sole vivente, che per primo hai avuto vita.
Tu ti levi, orientale,
e tutto riempi della tua bellezza.
(…)
Tu sei nel mio cuore
e nessun altro ti conosce come il tuo figlio, il Re.
Tu l‘hai iniziato ai tuoi disegni e alla tua forza.
Ciò che avviene nel mondo,
avviene nel tuo segno; sei tu che l‘hai creato.
Tu ti levi: vivono.
Tu tramonti: muoiono.
Tu sei la durata della vita, tu dai vita.
La religione di Ekhnaton è una religione iniziatica, il suo è un monoteismo, ma
quanto diverso da quello cupo, implacabile, vendicativo dell‘Antico Testamento. Il
dio cantato da Ekhnaton fa coincidere natura, sacralità, bellezza ed energia. Non ci
parla dell‘Aldilà, di premi e castighi che ci attendono, ma del mondo presente
alimentato dal sole, divinizzato nella sua fisicità. La materia diventa spirito, Dio
diventa materia. Una scelta da teosofo, troppo in anticipo sui tempi, quella di
Ekhnaton. Alla sua morte, il culto popolare di Amon-Rà fu restaurato. Ma la sua
breve eresia resta e parla ancora oggi a tutti quelli tra noi che sanno alzare uno
sguardo reverente verso il sole come verso la Fonte della Luce e di tutto ciò che
cresce, si trasforma e muore e rinasce sulla terra.
Nella teologia eliopolitana si parla di un fenomeno misterioso, che dà vita a una storia
apocalittica piena insieme di ferocia e di astuzie, di terrore e di commozione.
Dunque, un giorno Rà comincia a invecchiare. Invecchia visibilmente e
progressivamente, compaiono rughe sulla sua fronte, sulle sue guance e sul suo collo:
la bocca gli si restringe, e le labbra cominciano a bagnarglisi di bava, che cola sul
mento, e poi al suolo, lasciandovi tracce come quelle delle lumache. Dalla terra gli
uomini vedono il volto di Rà rattrappirsi, la sua bocca sdentata da cui ora la saliva
esce senza sosta. E non provano nessuna reverenza, nessun compatimento per lui. E‘
quello il sommo Rà, il potente Rà che ha creato il mondo brandendo nella sua mano il
membro, o espettorando con un gran colpo di tosse un grumo di catarro? Quello
ormai non è che un vecchio sfinito e suonato; e gli uomini pensano addirittura di
potersene sbarazzare, di ordire un complotto per distruggerlo.
Ma non bisogna mai essere troppo leggeri con gli dèi. Rà, pur preda di quel
misterioso attacco di decrepitezza, non è però finito, né ha perso le sue prerogative
regali e divine; tra queste, l‘onniscienza e la capacità di leggere il futuro. Dunque
riconosce le trame degli uomini e decide di sterminarli. Convoca alla sua corte celeste
Shu e Tefnut, i due primi dèi da lui generati, principi dell‘aria e dell‘umidità, e
insieme Geb, dio della terra, e Nut, dea del cielo.
Quel giorno a consiglio, nel palazzo celeste di Rà, ci sono tutti: Osiride, Iside,
Nefti, Horo il Falco, Horo il Giovane, Anubi, Thoth con la moglie Seshat, patrona
degli architetti, Bastet, la dea dalla testa di gatta che i Greci presero per Artemide,
Khonsu, il dio lunare dall‘aspetto mummiforme considerato suo figlio, Renenet,
patrona delle nutrici e dell‘allattamento, Meskhenet, patrona delle nascite, Min, dio
della fecondità, Maàt, dea della verità e della giustizia, Hathor, la grande dea dalle
orecchie di vacca, dea dell‘amore, dell‘abbondanza cosmica, della bellezza, della
danza, secondo Erodoto – fonte preziosissima per la conoscenza della civiltà egizia –
da avvicinare ad Afrodite. Arriva anche Nun, il più antico degli dèi, e anche lui, come
tutti gli altri, si inchina sino a toccare terra con la fronte.
Rà prende la parola: «Nun, tu che sei il più antico tra noi, quello da cui io stesso
sono uscito, e voi tutti, divinità del cielo e della terra, dei vivi e dei morti, ascoltate:
vedete che gli uomini, creati da me, fuoriusciti dal mio occhio a prendere forma e
vita, si sono comportati con ingratitudine e malvagità; sono arrivati al punto di
deridermi, ma non basta, hanno anche pensato di ribellarsi e di complottare contro di
me per distruggermi; così ora sono incerto se non debba essere io a distruggere loro, a
cancellarli dalla faccia della terra. Per questo vi ho convocato, per sentire il vostro
parere».
Il primo a rispondere è proprio Nun, il dio della massa di oceano primordiale da
cui Rà è sorto: «Rà, figlio mio, sovrana maestà, tu che sei più grande di chi ti creò e
più potente delle potenze che ti generarono, ascoltami; resta sul tuo trono, non devi
allontanarti dal tuo palazzo celeste per compiere la tua
giusta opera di vendetta, per dare agli uomini la giusta punizione; non tu, figlio
mio, sovrana maestà; invia sulla terra il tuo occhio sotto forma di Hathor; io vedo già
gli uomini fuggire davanti a lei, cercar riparo nei deserti, disperdersi dal terrore;
manda il tuo occhio, Rà, che non resti sulla tua fronte ma prenda le fattezze di Hathor
e vada sulla terra».
Tutti gli dèi assentono. Rà si alza e li congeda. La decisione ormai è presa:
l‘umanità sarà distrutta, sarà Hathor a provvedere, a compiere l‘opera di distruzione.
Hathor non è soltanto la dea dell‘amore e della bellezza; in questo caso sarebbe
difficile capire perché proprio a lei venga dato un incarico come quello. Hathor è una
dea antichissima, che ha orecchie di vacca perché nutre il faraone e l‘universo,
garantisce l‘immortalità, favorisce gli accoppiamenti e, come sovente presso gli
antichi capita alle dee dell‘amore, è anche dea di morte. In quanto tale, prende il
nome e le forme di Sekhmet, la «Possente», la leonessa divoratrice, che rappresenta il
calore mortale del sole, la sua forza di distruzione. E‘ con le sembianze di Sekhmet,
della leonessa così feroce e furiosa che Hathor scende tra gli uomini.
E l‘opera di devastazione e rovina comincia. E‘ un‘apocalisse ordinata,
sistematica; Sekhmet divora tutti gli uomini, uno per uno, e più mangia più ha fame,
non risparmia nessuno, a niente valgono i gridi e le suppliche, continua la sua opera
senza tregua, e già il mondo sta per spopolarsi, e le suppliche arrivano sino al cielo,
all‘orecchio di Rà. Il dio supremo si considera ormai vendicato a sufficienza; ma non
può revocare l‘incarico dato a Hathor-Sekhmet, che lo sta svolgendo con tanta precisa
furia. Così deve ricorrere a un‘astuzia. Manda suoi messaggeri a Elefantina, l‘isola
sul Nilo che ha sempre rappresentato il confine a sud dell‘Egitto, oltre il quale vivono
i popoli barbari; lì, dove la valle del Nilo ha le sabbie più rosa e le trasparenze più
azzurre, troveranno un‘erba colorante che si chiama didi, grazie alla quale qualunque
cosa si può tingere di rosso. Poi fa preparare settecento enormi orci di birra, e ordina
che a quella birra venga mescolata la sostanza colorante ottenuta dall‘erba didi.
Intanto Hathor sta continuando il suo massacro; niente sembra poterla fermare, la
sua fame si alimenta di se stessa, uccide come per un istinto irrefrenabile, l‘umanità si
è assottigliata, entro breve di essa non resterà traccia. Rà e i suoi dèi si mettono in
cammino per Elefantina, e assaggiano la birra dei settecento orci, spumante e colorata
di rosso.
«E‘ buona questa birra», dice Rà. «Ora portatela là dove Hathor si appresta a
terminare la sua distruzione, versatela di notte, questa notte, perché altrimenti domani
mattina non resterà un solo uomo sulla terra.» Così, come per una piena del Nilo,
l‘indomani mattina le onde di birra ricoprono l‘Egitto; è birra, ma grazie all‘erba didi
è anche rossa come il sangue. E quando la leonessa Hathor-Sekhmet si sveglia,
vedendo tutto quel liquido rosso scorrere intorno a lei, crede che sia il sangue degli
uomini, e vedendone così tanto, ha la certezza che il suo compito sia finito, che di
uomini non ne esistano più. Si specchia sulla superficie della birra che lei crede
sangue, estrae lentamente dalla bocca la lingua, comincia a berne. Quella birra,
giudicata buona da Rà, deve essere buona davvero. Continua a bere, continua sinché
non sente una
mollezza dolce prenderle il corpo, fumi di allegria arrivarle al cervello. E‘ ubriaca
ormai, non pensa più al suo incarico, non pensa più ad altro che a bere e a lasciarsi
andare a quella sensazione così nuova per lei. Senza aver ancora vinto gli effetti della
troppa birra bevuta, Hathor-Sekhmet ritorna al cielo. E il massacro non è terminato, e
l‘umanità è salva.
INDÙ
LA NOTTE DI BRAHMA
Quando, al quinto colloquio dell‘Alliance Mondiale des Religions, tenutosi a Parigi il
10 e l‘11 gennaio 1970 e incentrato sulle Apocalissi e la fine dei tempi, prese la
parola Swami Ritajananda, l‘invitato indù, dovette subito mettere in guardia
l‘uditorio che il concetto di apocalisse non esiste in India; in compenso esiste una
teoria molto complessa del tempo e della fine dei tempi, per la quale invitò i presenti
a munirsi di pazienza e a disporsi, forse sorridendo, ad ascoltare molte cifre. E‘ quello
che chiedo ora io ai lettori. Per gli Indù non c‘è un tempo lineare, che comincia e
procede verso un termine fissato. Non c‘è neppure l‘idea di un Giudizio finale, con la
separazione dei buoni dai malvagi; e neanche l‘idea di un Dio che crea e giudica.
Spesso mi è capitato di pensare, viaggiando con la mente o nella realtà in quel
continente così complesso che è l‘India, che la visione indù dell‘universo è la più
radicalmente opposta a quella occidentale elaborata su concetti ebraico-cristiani. Ma
nello stesso tempo la visione indù sembra arrivare da più lontano, da profondità
cosmiche insondabili, tanto da dare l‘impressione di poter inglobare in sé tutte le altre
esperienze di pensiero religioso, compreso il cristianesimo. E sicuramente sono
stupefacenti le affinità tra la cosmogonia indù e certe tesi dei neognostici di Princeton
(«Il pensiero è una goccia di Luce») e certe leggi fondamentali della scienza
contemporanea, da Einstein a Hawking.
L‘universo indù appare come un equilibrio tra forze centripete che conservano
l‘energia e forze centrifughe che la disperdono, in una crescente entropia. Queste
forze hanno il nome degli dèi maggiori: Vishnu, dio della preservazione della vita,
Shiva, dio della distruzione. La tendenza vishnuita alla conservazione dell‘energia,
quella shivaita alla sua dispersione entropica potrebbero essere definite in termini
scientifici con i grandi principi della termodinamica. La creazione per gli Indù non è
l‘evento divino da cui far iniziare l‘universo. Dio è al di sopra della creazione, e l‘atto
di creare non può essergli attribuito. Non c‘è un inizio e non c‘è una fine. La vita e
l‘universo esistono da sempre, immortali ma in forme sempre mutevoli.
Conservazione della vita e sua distruzione, dicono i saggi indù, vanno per mano, sono
due facce della stessa moneta divina. La vita permane mentre tutto nasce e muore e
rinasce e rimuore in un infinito processo metamorfico. Swami Ritajananda fece ai
suoi interlocutori al colloquio l‘esempio delle stagioni; chiese loro di guardare fuori:
a gennaio non c‘è un albero a Parigi che abbia foglie, eppure tutti sapevano che tra
aprile e maggio tutti gli alberi dei Lungosenna si sarebbero caricati di fronde nuove e
verde tenero. L‘inverno distrugge perché possa venire la primavera creatrice, questo
lo vide superbamente, nella sua Ode al vento di ponente, un poeta romantico come
Shelley che aveva uno sguardo rivolto a Oriente e aveva letto il celebre Hindu
Pantheon di Sir William Jones ed Edward Moor. Allo stesso modo occorre che la
primavera venga distrutta perché appaia l‘estate, e che l‘estate declini perché si
affacci l‘autunno. E così il mattino distrugge la notte, ma a sua volta è distrutto dal
mezzogiorno; e poi la distruzione del mezzogiorno sarà creazione del pomeriggio, e
la distruzione del pomeriggio creazione della sera. Una catena implacabile di
creazioni-distruzioni muove il gioco delle stagioni e dei giorni. E, come i più antichi
poeti del mondo hanno visto costruendo le loro prime metafore, questa catena tocca
la vita dell‘uomo, dove la distruzione dell‘infanzia crea la giovinezza, la distruzione
della giovinezza la maturità, la distruzione della maturità la vecchiaia.
La teoria indù della reincarnazione permette di considerare non definitiva la morte.
Tutto passa e ritorna, come le stagioni, le ore, le età dell‘uomo. Tutto scompare e
riappare, nulla si crea e nulla si distrugge definitivamente nell‘universo. Le religioni
che hanno adottato l‘idea del tempo lineare hanno compensato l‘angoscia
insormontabile di una fine totale, annullante, che avviene una volta per tutte, con la
teoria della Resurrezione. Per l‘induismo, fautore di un tempo assolutamente ciclico,
la vita consiste in un‘alternanza di periodi cosmici in cui si manifesta e periodi
cosmici in cui non si manifesta: non c‘è apocalisse e Resurrezione e Giudizio, c‘è
ciclico, continuo succedersi di distruzioni e ricominciamenti. Il periodo cosmico in
cui la vita si manifesta si chiama kalpa. E un kalpa è detto anche un giorno di
Brahma.
Secondo Radhakrishnan, la teoria dei kalpa viene proposta nella religione indù –
anche se bisogna sottolineare che in sé il kalpa non è un concetto strettamente
religioso – per rispondere alla esigenze poste dell‘idea di samsara: in base a tale
concetto, le azioni di ciascuna vita individuale non scompaiono con la scomparsa di
chi le ha compiute, ma sfociano nella sua vita successiva; se ogni vita presuppone una
vita successiva e una antecedente, fa parte di una catena dove è impossibile
distinguere il primo anello, quello che corrisponde alla creazione. Di qui la
ripugnanza del pensiero indù a concepire la creazione del mondo in un dato momento
come prima e unica. Essa è al contrario un evento periodicamente ricorrente.
L‘universo, una volta creato, dura per l‘intera durata di un kalpa, dopo di che si
dissolve e ritorna al Dio supremo, ma soltanto per essere creato di nuovo. Le vicende
cosmiche, per Radhakrishnan, sono pensate in funzione delle esigenze delle anime:
perché se l‘universo avesse un principio e una fine, esse non potrebbero
continuamente reincarnarsi in nuove forme, in cui essere premiate o espiare le azioni
compiute in una vita passata. Tutte le Upanisad sono percorse da questa idea di
periodica dissoluzione-creazione dell‘universo.
Egli dimora in tutte le creature, e ardendo furiosamente alla fine del tempo Egli,
che è il Signore, manda in frantumi tutte le cose create.
Egli è il Dio che molte volte ridispiega una dopo l‘altra le sue reti nello spazio, e di
nuovo le ritira a sé.
È Lui che, quando l‘universo si dissolve, rimane da solo alla posta, ed è Lui che
allora di nuovo dalle profondità dello spazio ridesta alla vita i puri spiriti.
Il Signore supremo, detto Narayana, non crea: il dio creatore è Brahma, uno della
Trimurti, l‘unico a cui gli Indù non dedicano né templi né devozione. Una delle più
antiche immagini di Brahma ce lo mostra seduto su un fiore di loto, vestito di una
pelle di antilope, con un cigno che lo traina: la cosa che ci colpisce di più è che ha
quattro facce e quattro mani. In una mano tiene un vaso (kamandalu), in un‘altra un
manoscritto (vedas), nella terza un cucchiaio lustrale (sruva) e nella quarta un rosario
(mala). Le quattro facce eguali hanno gli occhi semichiusi, un‘aria assente, più
assente che ieratica, molto lontana e astratta.
Se ci si vuole avventurare nell‘interpretazione simbolica dell‘immagine di Brahma
– personalmente ritengo che sia un‘impresa temeraria e che non possa condurre a
conclusioni certe e definitive – possiamo dire che il loto su cui è seduto rappresenta la
realtà, l‘universo che si schiude alla vita; la pelle dell‘antilope sta per l‘austerità
ascetica; il cigno che lo traina, dal momento che il cigno nel mito indù è detto in
grado di separare il latte puro dalla mistura di latte e acqua, rappresenta la capacità di
discernere dio nelle manifestazioni plurali del mondo; le quattro facce
rappresenterebbero i quattro Veda, e i quattro modi in cui funziona il pensiero: la
mente (manas), l‘intelletto (buddhi), l‘ego (ahankara) e la coscienza (chitta); infine il
manoscritto sta per la conoscenza, il cucchiaio lustrale per il superamento dell‘ego e
dei desideri egoistici, il vaso è segno di rinuncia, essendo quello usato dal sannyasin,
l‘asceta o «rinunciante», il rosario è segno di meditazione.
Brahma, dovendo creare, ha sposato la dea della conoscenza, Sarasvati. Ma la vita
dell‘universo, piuttosto che a lui, è affidata ai principi di conservazione e di
distruzione cui presiedono gli altri due dèi della Trimurti, Vishnu e Shiva. Le tre
divinità sono interconnesse, tanto che esiste la figura di Dattatreya, un dio nelle cui
forme sono tutti e tre rappresentati. Ma, come dicevo, Brahma non gode del culto e
della venerazione dei fedeli. Non è la creazione che merita ringraziamenti e
preghiere, ma le due forze che periodicamente la sostengono e la dissolvono. Così in
India è difficilissimo, quasi impossibile trovare templi di Brahma, mentre pullulano
quelli di Vishnu e di Shiva.
Vishnu, il preservatore della vita, il cui nome deriva dalla radice del verbo
«penetrare», «pervadere», è raffigurato con la sua sposa Lakshmi mentre giace su un
fianco, abbandonato, sognante, sopra il serpente cosmico Ananta, che significa
«infinito», e ha come altro nome Shesa. Indossa un elegante cappello che si affila a
cono, ha i fianchi stretti, femminei, le gambe ricoperte da un velo panneggiato. Se ne
sta disteso, ma è come se fluisse, tanto il suo corpo è elastico e ondoso. L‘espressione
del volto è quella di un dormiente. Qualcosa che scorre e si posa, ma ritmicamente,
senza scarti, senza eccessi, per una necessità profonda come quella del moto e della
quiete nell‘universo. Vishnu è l‘energia positiva che mantiene, preserva in vita le
cose. Quello che Brahma, demiurgo disinteressato, ha creato, Vishnu lo alimenta e lo
protegge, lo salva intervenendo volta per volta quando potenze negative e malvagie si
apprestano a guastarlo. Così si manifesta e viene adorato nei suoi avatara, figure che
compaiono nell‘universo e nel mondo degli uomini per riportare l‘ordine ogni volta
che è minacciato dalla violenza e dalla dissoluzione. Si conoscono ben nove dei suoi
avatara, e si sa che ne dovrà comparire un decimo: li vedremo suddivisi nelle varie
epoche in cui sono apparsi, e nelle loro molteplici e curiose forme.
Shiva, che qui più ci interessa in quanto dio della distruzione, ci viene mostrato
nella sua immagine più diffusa e certo più affascinante: mentre danza. In origine,
Shiva è un dio violento, cupo, terribile, che porta con sé sofferenze, infermità,
tempesta, morte, rovina. Quando all‘inizio tra le cose create per prime appare la
coppa di veleno letale detta Kalakuta, è proprio Shiva a berla e a neutralizzarne ma
anche assumerne tutto il potenziale di morte. Il desiderio di dissoluzione e di fine che
ogni essere sente in sé, ogni istinto di aggressività, lo stesso principio di distruzione
insito nel ritmo con cui le cose nascono, si sviluppano e tramontano, tutto questo
Shiva raccoglie in sé quando beve in un sorso il contenuto della coppa detta Kalakuta,
il veleno cosmico che avrebbe potuto intossicare la creazione.
La casa di Shiva è la giungla, che percorre armato di tridente e pronto ad
annientare i demoni. Ma questo dio iroso e combattivo è anche il grande asceta, il
Signore dello Yoga, il corpo eretto e spalmato di cenere, vestito di una pelle di
antilope, una collana di teschi umani, il ciuffo di capelli raccolto in alto con un
serpente: è lui che con l‘ascesi immagazzina un‘energia sconfinata, diventando il
modello per tutti i mistici indù. Infine, questo dio che porta la morte è anche il
superatore della morte, è colui che, invocato, placato, dona la salvezza dal pericolo, la
guarigione, la rigenerazione; e questo dio della distruzione è anche il dio della
riproduzione, della potenza maschile, del seme maschile, e appare in tutti i templi –
soprattutto nell‘India del sud – sotto la forma misteriosa e cosmica del Unga, la nera
colonna fallica alzata verso il cielo.
Ha scritto Elémire Zolla: «Shiva, il Signore, Ishvara, corrisponde allo zero, matrice
di positivo e negativo, coincidenza di contrari. E‘ anche una dinamica unità di
opposti, un processo di incessante trascendimento di se stesso». Quando danza, Shiva
si chiama Nataraja, il «Signore dei danzatori» o il «Re degli attori». Nelle
raffigurazioni, Shiva che danza ha un corpo elastico, una vita sottile, e si torce su di
sé, in un equilibrio che sprigiona una forza estatica, inavvertibile. Si regge su una
gamba che calpesta un nano-demone, schiacciato al suolo, come trafitto; l‘altra è
alzata orizzontalmente e appena piegata al ginocchio, in una posa celebre della danza
classica indiana; è come se il dio volesse imprimere al suo corpo un movimento
rotatorio. Ma un braccio si tende sino a risultare quasi parallelo alla gamba alzata;
l‘altro si flette, la palma della mano aperta, frontalmente. Delle altre due mani, una
regge un tamburo, l‘altra nel proprio cavo ha una fiamma. Un anello, un mandala di
fiamme, lo cinge dai piedi sino al cobra che gli fa da copricapo. I simboli più
importanti sono
proprio il tamburo detto Damaru, a forma di piccola clessidra, e le fiamme sulla
sua mano e tutt‘intorno a lui. Damaru, che regola il ritmo della danza, rappresenta la
creazione, la realtà come movimento ritmico del divino. Le fiamme rappresentano le
creature deperibili, sottoposte alla rovina e alla fine, e tutta la forza necessaria della
distruzione. Il nano-demone Muyalaka forse è un simbolo dell‘ego, dei desideri
egoistici che vengono sconfitti e superati attingendo un grado di coscienza superiore.
Shiva, dio di morte, danza anche nel cimitero indù con il nome di Sudalaiyadi,
«danzatore del campo di cremazione», una danza più scatenata e selvaggia. E‘ lui che
distrugge le catene che legano un‘anima individuale al corpo, come è lui che alla fine
di ogni ciclo distrugge il cielo e la terra. Ananda Coomaraswamy ha scritto bellissime
pagine sulla danza di Shiva: secondo lui, il suo Gioco ritmico è l‘origine di ogni
movimento nel cosmo; il suo scopo consiste nel liberare gli spiriti degli uomini dalle
insidie dell‘illusione; e il luogo in cui questo avviene, Cidambara, il Centro
dell‘universo, si trova nel cuore di ognuno di noi. Ma soprattutto Coomaraswamy ci
dice che tamburo e fiamme, oltre a essere simboli di creazione e distruzione, sono
anche immagini che illustrano la dottrina dei kalpa di cui, con il soccorso di molte
cifre, dovremo ora parlare.
La natura è inerte e non può danzare sinché non lo vuole Shiva. Quando Shiva
inizia la danza, attraverso la danza, invia alla materia inerte onde pulsanti di un suono
che provoca il risveglio. Quando poi i tempi sono maturi e il ciclo finisce, è Shiva che
con il fuoco, sempre danzando, distrugge tutte le forme e i nomi delle cose,
concedendo a tutto l‘universo un nuovo sonno. «Questa è poesia, ma è anche
scienza», conclude Coomaraswamy, e non si può non essere d‘accordo con lui.
Il tempo è per gli Indù una manifestazione della potenza di Dio, è una realtà
indifferenziata, senza principio né fine. Esistono sette mondi, o loka, ciascuno dei
quali esprime un grado di spiritualità superiore a quello del precedente: tre sono
inferiori, quattro superiori. I primi sono bhu, la terra, bhuvas, la regione intermedia,
svar, la regione degli dèi. E‘ solo in questi tre mondi inferiori che l‘essere passa dallo
stato di manifestazione a quello di non manifestazione, dalla creazione alla
dissoluzione, sottomesso al ciclo di nascita, morte e rinascita. Questi tre mondi si
sono manifestati all‘inizio di un ciclo cosmico, o kalpa, ed entreranno nello stato di
non-manifestazione quando il kalpa finirà.
I quattro mondi superiori, maharloka, janaloka, ta-paloka, brahmaloka, sono
quelli in cui vivono esseri perfetti, non coscienti dell‘ego, al di là di ogni
trasformazione, e non soggetti al ritmo di creazione e distruzione. Nei Bhagavata
Purana la creazione avviene così: Brahma è seduto su un loto a meditare e a praticare
l‘ascesi; aumenta la sua potenza, ed è solo sul loto posato sulle acque cosmiche
primordiali; allora divide il loto in tre petali, e da ognuno di essi nasce uno dei tre
mondi inferiori, bhu, bhuvas, svar. Brahma abita molto al di sopra, nei mondi immuni
dal ciclo di nascita, morte e rinascita. Ma i tre mondi inferiori conoscono, oltre alla
morte di ogni individuo, anche la fine e la distruzione di epoche e civiltà e universi,
secondo la dottrina del kalpa e degli yuga, gli eoni in cui il kalpa si divide. Il tempo
scorre con diversa velocità per gli uomini e per gli dèi: esiste un tempo umano e uno
divino: un anno divino è 360 anni umani. Degli yuga, che sono quattro, gli Indù
calcolano alla perfezione la durata.
La prima epoca è il Kritayuga. Krita, al gioco dei dadi, è il colpo vincente, numero
divisibile per quattro senza resto. È il corrispondente dell‘età dell‘oro per i Greci,
un‘epoca di perfezione, in cui la Vacca della Virtù si regge su quattro zampe, il
dharma o legge morale è interamente praticato, gli esseri umani osservano austerità,
penitenza, e posseggono tutte le virtù, pietà, compassione, verità. Il Kritayuga
comprende 4000 anni divini più 800 anni divini per i due periodi transitori, detti
Samdhya, che corrispondono alle fasi dell‘aurora e del tramonto dello yuga. 4800
anni divini corrispondono a 1.728.000 anni umani.
La seconda epoca, il Tretayuga, è un po‘ meno perfetta; al gioco dei dadi, treta è il
colpo che lascia il resto di tre; la Vacca della Virtù si regge ora su tre zampe, e un
quarto delle virtù dell‘epoca passata va perduto; corrisponde all‘età dell‘argento per i
Greci. La sua durata è di 3000 anni divini più 600 anni divini di transizione. Ancora
una moltiplicazione per 360: il secondo yuga ha una durata di 1.296.000 complessivi
anni umani.
La terza epoca, il Dvaparayuga, segna un ulteriore decadenza. Dvapara è il colpo
che lascia un resto di due. La Vacca della Virtù si regge ora su due zampe, una metà
delle virtù passate è scomparsa. Sarebbe l‘età del bronzo. E dura 2000 anni divini più
400 anni divini di transizione: cioè 864.000 anni umani.
E infine la quarta epoca, quella in cui noi viviamo, il Kaliyuga. Sempre al gioco
dei dadi – anche le Norne, le Parche dei Germani, stabiliscono il destino dei mortali
gettando i dadi, facendoli volteggiare e stabilendo il risultato — kali è il colpo
perdente, che lascia il resto di uno. La Vacca della Virtù non ha più che una zampa su
cui reggersi, e tutto il bene è ormai scomparso, e nessuna virtù più praticata. Siamo in
piena età del ferro. Il Kaliyuga è cominciato tra il 17 e il 18 febbraio 3102 avanti
Cristo. Abbiamo già notato l‘impressionante coincidenza secondo cui anche l‘ultima
epoca dei Maya inizia sostanzialmente nello stesso momento (3113). Durerà 1000
anni divini più 200 anni divini di transizione, dunque 432.000 anni umani. Bisogna
prestare particolare attenzione a questo numero, perché ricorrerà, nei multipli e
sottomultipli, ancora più volte. Gli Indù, nella loro percezione del tempo ciclico,
calcolano alla perfezione la durata di un ciclo stesso; dobbiamo sommare gli anni
umani dei quattro yuga:
1.728.000 + 1.296.000 + 864.000 + 432.000 = 4.320.000
Dunque i quattro yuga si estendono per quattro milioni e trecentoventimila anni
umani: insieme formano un mahayuga. Poiché occorrono mille mahayuga
per fare un kalpa, dobbiamo procedere a un‘ulteriore moltiplicazione:
4.320.000 X 1.000 = 4.320.000.000
Questo è il numero che ci dice quanti anni umani dura un kalpa. Quattro miliardi e
trecentoventi milioni di anni umani. Un kalpa è per gli Indù un giorno di Brahma. Sul
fiore di loto che compare nel sogno di Vishnu, posa Brahma, al di sopra della sua
creazione e delle epoche che la realtà creata attraversa. Anche Brahma sogna, e il suo
sogno siamo noi e il mondo, simili alla tela del ragno tesa nell‘aria, o alla rete del
pescatore nelle profondità del mare. Al suo giorno, il kalpa, seguirà un periodo
cosmico di eguale durata in cui non ci sarà nessun sogno, il sognatore cosmico avrà
richiamato a sé i sogni come il ragno la tela e il pescatore la rete, e non ci sarà più
nulla: l‘universo imploderà e avrà termine con una immane dissoluzione. Sarà la
notte di Brahma. Poi ci sarà il risveglio, qualcosa che si agita e si scuote, onde di
suono e di energia che si espandono ritmicamente, danzando come indica il tamburo-
clessidra di Shiva, e un nuovo loto si dischiude, e un nuovo universo nascerà e tutto
ricomincerà. Se un kalpa è un giorno di Brahma, e se la durata di una notte di Brahma
è esattamente equivalente, non è difficile trovare la durata della vita di Brahma, che
secondo gli Indù è di 100 anni. Un anno di Brahma contiene 360 giorni e 360 notti di
Brahma, cioè 720 kalpa. Avevo preavvertito
il lettore della necessità dell‘uso di molte cifre, e cifre vertiginose: un anno di
Brahma è dunque 3.110.400 milioni di anni umani. Una vita di Brahma dura 100
anni, dunque 311.040.000.000.000, trecentoundici-milaquaranta miliardi di anni
umani. Secondo gli Indù, nella nostra epoca, nel Kaliyuga, Brahma ha cinquant‘anni.
Gli resta dunque abbastanza da vivere. E nel succedersi di giorni e notti, di sonni
senza sogni e di risvegli, da vedere ancora tanti universi spegnersi, rinsecchirsi e poi
riaprirsi ed esplodere come corolle di tanti fiori. Come non ha avuto inizio, mai avrà
fine questo ritmo di nascite e di morti, di crescite e di collassi, di esplosioni e
implosioni nello spazio infinito.
Ogni aspetto escatologico e soteriologico sembra estraneo al pensiero indù, così
impregnato di pura cosmicità. L‘unica dottrina che presenta, sia pure in forma mitica,
questi aspetti è la dottrina degli avatara di Vishnu. Durante il Kritayuga, Vishnu si è
manifestato in quattro avatara: sono figure di animali per mezzo delle quali il dio
ingaggia combattimenti cosmici contro forze distruttive e malvagie. La prima volta
ha preso la forma di un pesce, Matsya, che salva il primo uomo, Manu, da un diluvio
– ancora un diluvio delle origini, come in quasi tutte le mitologie prese in
considerazione – e recupera i Veda portati in fondo al mare da un demone. Poi prende
la forma di una tartaruga, Kurma, che serve da appoggio alla Montagna del Mondo,
sorregge la terra sul suo guscio e ne assicura la stabilità. In certi templi in India e a
Bali noi occidentali restiamo divertiti e sgomenti di fronte alle ricorrenti immagini di
tartarughe al cui guscio non riusciamo a connettere un senso di stabilità: lo vediamo
anzi scivoloso e insicuro; ma forse perché non abbiamo della stabilità e
dell‘equilibrio quella idea danzante che ne hanno gli Indù. Il terzo avatara è il
cinghiale, Varaha, che risolleva la terra precipitata dal demone Hiranyaksa
nell‘oceano. La quarta forma che assume Vishnu è quella dell‘uomo-leone,
Narasimha, per liberare il mondo da un altro demone, Hiranyakashipu.
Durante il Tretayuga, Vishnu si manifesta sotto le spoglie del nano Vamana per
liberare il mondo dal demone Bali, che tormentava uomini e dèi. C‘è un mito dai
contorni fiabeschi che racconta come il nano ottiene di vincere la sfida con il demone
Bali. Bali, vedendo le dimensioni del nano, gli promette irridente di dargli il potere su
quanto spazio potrà percorrere con tre passi; e il nano, che è un avatara di Vishnu, il
grande dio della Trimurti, con un primo passo percorre la terra, con il secondo il
cielo, con il terzo il mondo dei demoni, cacciando Bali dall‘universo. Poi si manifesta
come Rama armato di scure, Parashurama, per sconfiggere gli ksatriya, cioè gli
appartenenti alla casta dei guerrieri, che avevano ucciso un bramino. E poi prende le
forme di Rama, il grande guerriero del Ramayana, che deve liberare il mondo dal
demone Ravan. Nel corso del Dvaparayuga, verso il termine, Vishnu si manifesta con
l‘aspetto del dio blu, di Krishna, il saggio che parla ad Arjuna nella Bhagavadgita
dettandogli i precetti più alti della spiritualità indù, e uccide Kamsa, il peggiore dei
demoni. Nella nostra epoca, o Kaliyuga, è già apparso un avatara di Vishnu, ed è
stato il Buddha, cui si deve l‘abolizione dei sacrifici cruenti. Verso la fine ne apparirà
un altro, si chiamerà Kalkin, che avrà — e qualcuno potrà vedervi affinità con il
Cristo, con il Dodicesimo Imam dell‘apocalisse sciita – il compito di far prevalere il
bene sul male, di punire i malvagi, di salvare i buoni e di inaugurare una nuova era.
Ma le ere di cui gli Indù parlano sono innanzi tutto cicliche e cosmiche. Vishnu si
manifesta sotto altre spoglie nel mondo sia cosmico sia umano quando c‘è una
minaccia alla sopravvivenza dell‘ordine mobile e metamorfico che regge la vita.
Combatte contro disastri, demoni, ksatriya; ma non muove un dito contro la
distruzione che segue ritmicamente alla creazione, non combatte contro il ciclo delle
cose perché il ciclo eterno delle cose è in lui, è lui, il suo sogno. Allo stesso modo
Shiva, il dio preposto alla distruzione, ha in una delle sue mani il tamburo che
propaga il suono vibrante, ritmico attraverso il quale il mondo si sveglia dallo stato di
non-manifestazione e ricomincia a vivere. Sembra che per gli Indù nascita e morte,
creazione e distruzione, giorno e notte siano inestricabilmente connessi. È il giorno di
Brahma, un kalpa, che fa apparire il mondo e desta alla vita le cose. È la notte di
Brahma che fa riassorbire tutto nello stato di non-manifestazione, in una totale
assenza di sogni. E poi un nuovo giorno, un nuovo kalpa, riporterà tutto a vivere, e il
sogno a dispiegarsi in tutte le forme del creato.
Nei Matsra Purana la fine dell‘universo è dovuta a Vishnu, che potenzia le forze
della natura nel normale corso dell‘anno sino a renderle catastrofiche e letali.
Prima di tutto Vishnu si concentra nel sole, amplifica la potenza dell‘energia
solare, ne mostra il lato violento e devastatore. Allora il mondo delle piante e dei
fiori, i campi di grano e di riso, tutto si dissecca, non sopravvive né una palma né un
banano né un filo d‘erba; la terra si spacca, una vampata mortale lambisce le acque
sotterranee e le prosciuga all‘istante. Poi Vishnu si concentra nel vento. Soffia senza
tregua, e porta via dalle forme di vita superstiti ogni traccia di aria vivificante. E un
vero e proprio tifone che porta via tutta la materia rinsecchita come una massa
immensa di foglie secche. Vishnu ora si trasforma in fuoco, e grazie all‘attrito tutta la
materia si incendia, deflagra, si consuma, si volatilizza e si fa cenere. Allora il dio
assume la forma di una nube, un‘enorme nube bianca da cui fa scendere una pioggia
torrenziale, dolce e pura come il latte, per spegnere l‘incendio dell‘universo.
Il corpo della terra trova la pace finale, il Nirvana. Ora Vishnu è pioggia, e come
pioggia riporta l‘universo in seno all‘oceano primordiale. L‘universo collassa su di
sé; gli elementi si dissolvono nel fluido indifferenziato da cui sono nati. La luna e le
stelle e le costellazioni e le galassie scompaiono. Dio ha riassorbito di nuovo in sé la
tela, la rete dell‘universo, ha contratto il suo sogno e le creature del suo sogno in un
sonno completo, un intervallo di sonno che durerà quanto la veglia: la notte di
Brahma, l‘attesa buia, ferma, silenziosissima, vuota, di un soffio, un suono, una
vibrazione che reimprima ciclicamente all‘universo il suo danzante movimento di
vita.
PERSIANI
IL SEME DI ZOROASTRO
L’avesta, il libro sacro della religione iranica, che possiamo chiamare mazdeismo,
dal nome del dio Ahura Mazda, o zoroastrismo, dal nome del profeta Zoroastro, fu
tradotto per la prima volta in una lingua occidentale nel 1771 da Abraham Hyacinthe
Anquetil du Perron. Il libro riguardava una religione estinta, almeno nella sua terra
d‘origine, da circa un millennio, ed era stato tramandato e conservato da una setta,
quella dei Parsi, che esiste tuttora e ha il suo centro principale a Bombay, in India.
Inevitabilmente, quello che sappiamo dello zoroastrismo è mediato da quello che
viene considerato un suo frutto, l‘eresia cristiana di Mani, il manicheismo. I libri
dell’Avesta e i templi del fuoco e i suoi sacerdoti subirono prima l‘attacco di
Alessandro il Macedone, che nella tradizione iranica è ricordato non come un grande
conquistatore ma come un demone malvagio, poi dell‘Islam, che costrinse gli
adoratori del fuoco a fuggire portando con sé la fiamma che deve bruciare in eterno.
Ma l‘Islam nella sua versione sciita, quando si stabilì in Iran, conservò sia pure senza
dichiararlo molte delle istanze dualistiche ed escatologiche della religione di Ahura
Mazda e ne ereditò l‘idea della fine dei tempi.
Le ultime piccolissime comunità zoroastriane che vivono in Iran si trovano tra
Yazd e Kerman, nella parte orientale del paese, verso il Pakistan. Lì, in un paesaggio
aspro e desertico, spiccano su grandi formazioni coniche ma addolcite, arrotondate
alla sommità – simili a grossi seni femminili, mi diceva ridendo un autista baffuto e
poco devoto – strutture cieche in pietra che ormai hanno lo stesso colore della terra e
che furono per millenni le Torri del Silenzio, quelle dove gli zoroastriani esponevano
i loro defunti perché fossero divorati dagli uccelli, e non contaminassero con la morte
gli elementi vitali, il fuoco soprattutto e l‘acqua, la terra e l‘aria. Naturalmente
nell‘Iran musulmano quel tipo di sepoltura fu proibito, e ormai le Torri del Silenzio si
potrebbero confondere davvero con strane conformazioni collinari, gibbose del
terreno. Sui sentieri che le risalgono ho visto ragazzi fare rombare le loro
motociclette.
I Parsi di Bombay continuano invece da millenni quell‘usanza. Le Torri del
Silenzio si levano in mezzo a giardini molto estesi di proprietà della comunità, che è
la più ricca della città. Non si possono vedere, dunque. Ma costeggiando i giardini,
non si può non notare con un brivido l‘addensarsi nuvoloso di tantissimi grossi corvi
in certi punti tra gli alberi, uno stringersi in stormo di cui intuiamo lo scopo. Un
tempio del fuoco resta nella zona archeologica di Persepoli: un parallelepipedo né
alto né sontuoso, spoglio, chiuso, quasi come un fodero di pietra per la fiamma che si
alza. Il tempio che ho visitato a Yazd, in un quartiere defilato di quella città che ha la
polvere e l‘odore di un accampamento del deserto, è ancora in funzione, una
tranquilla costruzione con un porticato, sormontata da un‘aquila di maiolica azzurra.
All‘interno ha un‘aria così ordinata, sembra un vecchio salotto borghese, due
lampadari a gocce, una bacheca con dentro una copia dell’Avesta aperta. Dietro un
vetro, brilla su un braciere a coppa, forse di ottone, una fiammella che dovrebbe
essere la stessa accesa millenni fa. Il culto principale dello zoroastrismo è proprio
quello: il fuoco, mantenere acceso il fuoco che, insieme alla luce, è la più grande
delle ierofanie, cioè delle manifestazioni del divino e del sacro sulla terra.
Secondo un filosofo stoico, Zoroastro stesso, salito sulla vetta del monte Albordij,
abitò lassù in mezzo alle fiamme. Ridisceso poi, si stabilì a Balkh, città a nord-ovest
del Caucaso che contende a Gerico, a Ur e a Kash il titolo di più antica città del
mondo e vi stabilì una scuola per Magi e il più importante Tempio del Fuoco. Fu lì
che lo raggiunse Pitagora, da lì partirono insieme per un viaggio di conoscenza in
India. Naturalmente le cronologie vacillano. Per accompagnarsi a Pitagora lo
Zoroastro storico, che i più collocano tra il XV e il XII secolo avanti Cristo, avrebbe
dovuto vivere nel VI. E lo Zoroastro mitico vive invece cinquemila anni prima della
caduta di Troia, e di lui si conoscono ben sei incarnazioni.
Il fondamento dello zoroastrismo, quello che rende decisiva nella storia dell‘umanità
la sua idea del tempo e della fine, è il dualismo. Esistono due divinità antitetiche e
nemiche in lotta nell‘universo, la prima della Luce e del Bene, Ahura Mazda o
Ohrmazd, il secondo della Tenebra e del Male, Angra Manyu, o Ahriman. Prima di
loro esisteva un principio indeterminato, un‘entità primordiale senza inizio né fine, il
Tempo Illimitato.
Questo principio è chiamato Zurvan. Esistono due versioni diverse della nascita da
Zurvan delle due opposte divinità. Secondo la prima versione, esse apparvero
simultaneamente, come risultato di un lento covare e meditare di Zurvan, che si
chiedeva come affermare il proprio potere se non aveva qualcuno altro da sé che lo
riconoscesse. Ma secondo un‘altra versione, indubbiamente più poetica, i due gemelli
Ahura Mazda e Ahriman nacquero così. Zurvan compì un sacrificio della durata di
mille anni per avere un figlio: essendo lui solo, principio indistinto e illimitato di un
universo che non esisteva ancora, ci riesce difficile immaginare a chi e come questo
sacrificio potesse essere compiuto. Ma il mito di una vita del cosmo che nasca e si
manifesti attraverso un sacrificio, che è anche un sacrificio di sé, è in linea con
lo spirito etico dello zoroastrismo.
Zurvan dunque persevera, un millennio è passato, il sacrificio dà il suo frutto. Ma
Zurvan per un istante, un istante soltanto in quei mille anni di preghiera e di rito, ha
dubitato: e se quel rito non fosse efficace? E se quelle preghiere non portassero a
nulla? Allora non nasce più soltanto il figlio che Zurvan aveva tanto intensamente
desiderato: ne nascono due, due gemelli: Ahriman, frutto di quell‘istante di dubbio,
Ahura Mazda, frutto del rito sacrificale. Poiché aveva promesso di attribuire la
regalità al primo figlio, Zurvan è costretto a consegnare l‘universo nelle mani di
Ahriman. Ma non sarà né senza contrasti, né per sempre. Perché Ahura Mazda lo
combatterà con tutte le sue forze, e manderà sulla terra il profeta Zoroastro e poi i
suoi figli, i suoi emissari, i Saoshyant o Salvatori, a continuare la guerra. E alla fine,
dopo una lotta che coinvolgerà tutto il cosmo e tutta la storia degli uomini, riavrà la
sua sovranità e sarà re. Il dualismo zoroastriano è metafisico ma è anche e soprattutto
etico; impegna ogni essere umano a schierarsi dalla parte di Ahura Mazda, Signore
Saggio, onnisciente, guardiano dell‘ordine cosmico, e a combattere contro Ahriman,
principe delle potenze malvagie e dello spirito di distruzione.
Che il mondo sia dominato dal Male, dal Principio della distruzione e del nulla contro
cui occorre lottare, è un‘idea zoroastriana di incalcolabile importanza nella storia
dell‘umanità, che influenza l‘ebraismo, il cristianesimo, le eresie cristiane come
quelle dei Manichei e dei Catari, la Gnosi, l‘Islam soprattutto sciita, sino
all‘espressione di «grande Satana» coniata da Khomeini per definire la superpotenza
americana.
Esiste in proposito una leggenda manichea che vale la pena di riportare. Dunque
Ahriman e le sue legioni, perché Ahriman ha ai suoi ordini schiere e schiere di
demoni combattivi e malvagi come lui, scorrazzano per l‘universo ancora inabitato,
dove i pianeti volteggiano vuoti e silenziosi intorno ai loro soli. Le legioni di
Ahriman vogliono distruzione e rovina, non sono capaci di creare e non lo vorrebbero
neppure, se fosse per loro il sole spegnerebbe le sue fiamme e la terra resterebbe un
deserto di ghiaccio e il mare evaporerebbe e metterebbe a nudo i suoi abissi
impraticabili: tutto sarebbe nel buio e nella dissoluzione. Ma a un certo punto del loro
vagabondaggio distruttivo, Ahriman e le sue legioni vedono qualcosa di cui non
sospettavano neppure l‘esistenza: negli spazi del cielo, una corona di fiamme simili a
petali di un fiore come il papavero o l‘anemone, e in mezzo a quel cerchio ardente
una forma di ragazza, una vergine dalla bellezza irradiante, i capelli e gli occhi
luminosi, la bocca dalle labbra rosse come le fiamme che la circondano, la pelle
bianchissima, le spalle erette e il seno prominente, il ventre appena pronunciato, le
gambe magre ma forti, i piedi delicati. Il suo sguardo è pieno di innocenza ma anche
di gioia e di amore. Ahriman e i suoi la contemplano quel tanto che basta per
infiammarsi di desiderio, per volerla possedere. Innocenza, gioia, amore
rappresentano tutto quello che Ahriman e i suoi odiano, che vorrebbero cancellare
dall‘universo. Ma in quella figura di vergine le stesse cose li riempiono di desiderio,
di un desiderio gonfio, brutale. Così si avvicinano alla ragazza per toccarla, per
violarla; ma quando stanno per mettere le loro mani su di lei, si accorgono che è
totalmente immateriale, che esiste ma come un‘apparizione, che è spirito, penetrabile
da tutte le parti senza per questo essere né macchiato né posseduto. Allora Ahriman e
le sue legioni provano tutta la pena, il fastidio rabbioso, il senso di impotenza che dà
il desiderio inappagato. La ragazza è lì con la sua immagine a infiammarli, ed è lì con
la sua immaterialità a dire che ogni loro assalto sarà vano, che non potranno mai
averla. Ma il desiderio di Ahriman e dei suoi, per quanto frustrato, è troppo acceso e
violento per calmarsi. Un desiderio come quello va sfogato, in un modo o nell‘altro. I
membri di Ahriman e dei suoi sono turgidi, pesanti, pieni sino alla cima di quella
fame inappagabile. Non resta che portare su di essi la mano, e farla finita così. Si
masturbano tutti insieme, e tutti insieme eiaculano nuvole nere, masse di vapore buio
che si muovono tutt‘attorno come spinte da qualche vento silenziosissimo. Le nuvole
vagano, si stracciano, si riaddensano, volano, scendono sino a lambire la terra. Ed è
da queste nuvole di tenebra, sperma di Ahriman e delle sue legioni sgorgato dal
desiderio impossibile di avere la vergine della Bellezza nella sua corona-corolla di
fiamme, che sorgono i corpi, i rivestimenti materiali in cui gli uomini e le donne
conducono l‘esistenza durante il loro viaggio terreno, attorniati dal Buio in cerca di
Luce. Di un riflesso di quella Bellezza spirituale e invincibile.
Nella visione di Zoroastro, ogni specie di essere ha in cielo un suo prototipo
trascendente. Così anche per il Tempo, le Acque, la Terra. Per l‘uomo, esiste il
Fravashi. Per capire che cosa è un Fravashi, niente di più chiaro di un‘illustrazione di
un antico libro di Jacob Bryant, A New System; or, An Analysis of Ancient Mythology.
L‘illustrazione porta come titolo: «Un Mago e il suo doppio o Fravashi». Si vede un
vecchio alto e magro con una fluente barba bianca, un turbante, una tunica lunga con
le maniche larghissime; un braccio è piegato e rivolto in avanti, l‘altro regge una
specie di arco che fa anche da bastone.
Il Mago, perché di questo si tratta, di un sacerdote del Fuoco della religione
zoroastriana, è davanti a un altare, un parallelepipedo in mezzo a una landa deserta,
sul quale arde un grande fuoco. Il sole è riprodotto in un angolo in alto, una ruota
dentata, simbolica e quasi sbiadita rispetto alle fiamme dell‘altare. Ma quello che più
colpisce nell‘illustrazione è la presenza, alta sul capo del Mago ma non parallela, di
una figura più piccola che sta su una specie di nuvola, di vapori o di fumo, una
nuvola piccola e allungata, una specie di divano; e questa figura ha in tutto e per tutto
i tratti del Mago: il turbante, la tunica dalla manica larga, la barba e i capelli bianchi,
il gesto del braccio teso in avanti. Non si vedono le gambe e l‘arco-bastone, perché la
nuvola li nasconde o li fonde dentro di sé. Quello è il Fravashi del Mago, il suo
Doppio celeste. Ma non occorre essere sacerdoti del Fuoco per possederlo. Tutti ne
abbiamo uno. Perché il Fravashi è un elemento costitutivo della natura umana, e
preesiste alla persona cui appartiene. Dunque dobbiamo invertire la prospettiva con
cui abbiamo guardato l‘illustrazione del libro del Bryant: non è il Fravashi che
riproduce le fattezze del sacerdote del Fuoco, ma è il sacerdote del Fuoco che
riproduce le fattezze del suo Fravashi.
Archetipo trascendente, Doppio celeste, il Fravashi sceglie di incarnarsi, scendere
nel tempo e nello spazio non per espiare una colpa, ma per meglio combattere contro
Ahriman e le forze del male. I Fravashi sono dunque anche spiriti guardiani che
aiutano l‘uomo nel suo cammino verso la Luce, lo sorreggono nelle difficoltà, lo
proteggono dai terrori delle tenebre; sono potenze spirituali indissolubilmente legate
a ciascun essere umano e all‘umanità nel suo insieme. Il dualismo zoroastriano,
spiega Gherardo Gnoli, non è dualismo tra materia e spirito; i due piani
dell‘esistenza, spirituale (menog) e materiale (getig), sono inscindibili: tutto il creato
partecipa della dimensione menog come di quella getig. Il dualismo zoroastriano è,
piuttosto, un rigoroso dualismo spirituale, in cui gli spiriti del Bene lottano contro
quelli del Male, sino alla fine, quando i primi prevarranno.
Zoroastro dunque rifiuta l‘arcaico scenario del ciclo cosmico, dominato dall‘idea
della periodica rigenerazione del mondo. Prima di lui, gli uomini avevano interpretato
il succedersi di notti e giorni, tramonti e albe, inverni e primavere, giovinezza e
vecchiaia, vita e morte come una certezza dell‘illimitata, circolare potenza del cosmo.
Tutto nasce e muore, ma tutto rinasce, in eterno. Tutto circola come il sole sul cielo di
giorno, come la luna e le stelle sul cielo della notte; Aldebaran, le Pleiadi, Venere
compiono il loro cammino sulla volta celeste, abbandonano una posizione e la
ritrovano ciclicamente. L‘erba nei campi secca sotto il solleone e ritorna a
verdeggiare alle prime piogge. Il seme gonfia nella zolla e la spacca sino a diventare
una spiga. Ogni primavera i rami degli alberi si coprono di germogli e poi di foglie e
poi di frutti, sino a che tutto si secchi e ritorni spoglio e apparentemente senza vita,
come già era stato. Le anime si staccano dai corpi per poi prendere carne in altri
corpi. Morti e rigenerazioni si susseguono senza sosta, e senza la possibilità di
lasciarci individuare un loro punto d‘inizio e un loro punto di fine. Tutto diviene e
ritorna. Questo solenne scenario cosmico persiste ancora nella visione indù, nella
teoria dei kalpa, del giorno e della notte di Brahma.
Zoroastro – ma altri dicono che fu Mosè – inventa qualcosa di capitale nella storia
dell‘umanità: il tempo lineare. Il tempo che comincia, prosegue e precipita verso una
fine. Ci sarà una fine dei tempi prevedibile e irrevocabile, una resa dei conti tra Bene
e Male, tra Luce e Tenebra. Un giudizio che dividerà i seguaci di Ahura Mazda da
quelli di Ahriman, che alla fine dei tempi, dopo aver goduto eoni interi di vittorie,
sarà sconfitto in modo definitivo e irrimediabile. La Luce vince e la Tenebra non
ritornerà. Il cosmo verrà ordinato in una gerarchia immutabile, non ciclica, eterna:
Ahura Mazda, il Signore Saggio, infallibile, onnisciente, insonne, vigile, instaurerà il
suo Regno che durerà per sempre.
Nella parte più antica dell’Avesta, viene raccontato il viaggio che l‘anima
intraprende verso il cielo dopo aver abbandonato il corpo. Conosciamo così il magico
ponte Cinvat, sul quale si compie il destino finale di ciascun essere. L‘anima del
defunto rimane tre giorni nelle vicinanze del corpo a cui apparteneva, posata sulla
sommità del suo capo. All‘alba del quarto giorno, è prelevata da tre spiriti, Saroch,
Vary il Buono e Vrahram e portata verso il ponte Cinvat. Ma davanti al ponte
l‘aspettano altri tre spiriti, Mithra, Sraosha e Rashnu, che provvederanno alla pesatura
delle azioni compiute; siamo di fronte a una «psicostasia» come quella cui presiede
Osiride presso gli Egizi.
Il risultato della pesatura qui non viene rivelato subito. L‘anima può incamminarsi
sul ponte Cinvat, e sarà il ponte a comunicarle la sua destinazione. Cosa accade
quando sale sul ponte l‘anima di un malvagio, di un peccatore, di un seguace di
Ahriman? Cinvat si contrae, diventa di colpo più stretto, stretto come un nastro, poi
come la lama di un coltello; l‘anima perde l‘equilibrio, vacilla, precipita e raggiunge
così gli abissi dove comincia la sua punizione, tormentata, torturata dai peggiori
demoni. Quando invece è l‘anima di un giusto a passare, Cinvat si allarga, più di un
sentiero, più di una piazza o di un giardino pieno di alberi, e la conduce verso
un‘esistenza eterna di gioia. All‘improvviso soffia un leggero vento profumato che
viene dal Sud, che sa di rose e gelsomini, e compare Daena, una ragazza di quindici
anni, splendente, dalle braccia bianche e forti, alta di statura, diritta, dai seni bene in
rilievo, dal bel corpo, dai tratti nobili; Daena si manifesta all‘anima del giusto come
l‘essenza delle sue azioni, come la figura che le incarna nella propria bellezza.
Così Daena parla all‘anima del giusto: «O giovane uomo, dai buoni pensieri, dalle
buone parole, dalle buone azioni, dalla buona religione, io sono la tua Daena;
ciascuno ti amava per la grandezza, la bontà, la bellezza, il buon profumo, la forza
vittoriosa e trionfante sul nemico che ora io trovo in te. (…) Amata, tu mi hai reso più
amata, bella, tu mi hai reso più bella, desiderabile, tu mi hai reso più desiderabile; ero
seduta nella prima fila, tu mi hai fatto sedere ancora più avanti, attraverso i buoni
pensieri, le buone parole, le buone azioni». Così Daena introduce l‘anima del giusto
nel regno della Luce Infinita, dove le viene servita la zaremaya, un cibo di
immortalità.
Sul tema del viaggio dell‘anima dopo la morte bisogna ricordare il Libro di Arda
Wiraz, che, per quanto romanzato e tardo, ebbe un‘influenza che va sino al Libro
della Scala, che racconta il viaggio nell‘Aldilà del Profeta Muhammad, e sino alla
Divina Commedia di Dante (non è a Beatrice, che attende Dante per guidarlo nel
passaggio al Paradiso, che pensiamo quando leggiamo di Daena, spirito femminile e
guida verso la Somma Luce?). Secondo il libro, i saggi zoroastriani, dopo il
saccheggio della Persia compiuto da Alessandro, dopo che i loro templi sono stati
distrutti e l’Avesta bruciata, si radunano per assicurare la continuità del loro culto.
Scelgono tra loro sette uomini pii, poi la scelta si restringe a tre, infine a uno, Wiraz,
che incaricano di andare in cielo per poi raccontare quello che vi troverà. Wiraz beve
vino mescolato con un narcotico, si stende su un letto vicino a un fuoco sacro sempre
acceso, e la sua anima vola verso il ponte Cinvat, lo varca, e soltanto dopo sette
giorni ritorna al suo corpo. Wiraz si risveglia pieno di gioia, e detta a uno scrivano le
sue visioni.
Nella cosmogonia del mazdeismo il tempo ha una durata calcolabile in 12.000
anni. Una dimensione davvero contratta, un‘inezia se pensiamo a quelle che il tempo
assume per i Maya e per gli Indù. Questi 12.000 anni sono divisi in quattro ere di
3000 anni ciascuna. La prima era, quella della creazione, vive tutta in quello stato che
abbiamo definito menog, cioè è un‘epoca in cui gli esseri hanno un‘esistenza
puramente spirituale, e gli spiriti del Bene e della Luce
lottano già contro quelli del Male e della Tenebra. La seconda era è quella che
vede l‘universo trasferirsi dallo stato di menog a quello di getig, in cui cioè gli spiriti
prendono corpo, si calano nella loro veste materiale. La lotta tra Ahura Mazda e
Ahriman continuerà sino alla terza era, quella in cui Ahriman trionferà con i suoi
assalti e avrà il sopravvento. La quarta e ultima era conoscerà la lenta ripresa delle
forze del Bene, sino alla vittoria finale e all‘instaurazione del regno di Ahura Mazda,
il Signore Saggio, e dell‘eterna Luce divina.
Secondo la tradizione raccontata da Muhammad Mokri, Zoroastro appare nella
prima era. Ma i suoi figli, suoi emissari inviati sulla terra a proseguire la lotta contro
Ahriman e i demoni del Male e delle Tenebre, compariranno all‘inizio del quarto
millennio, all‘inizio del settimo, all‘inizio del decimo; poi, man mano che ci
avviciniamo alla fine dei tempi, il ritmo delle apparizioni dei figli di Zoroastro, dei
Saoshyant o Salvatori, si accelererà; un Saoshyant apparirà all‘inizio dell‘undicesimo
millennio, uno all‘inizio del dodicesimo, un altro alla fine del dodicesimo, e sarà
quello che porrà termine alla battaglia contro Ahriman e preparerà il ritorno
definitivo di Zoroastro e il regno di Luce di Ahura Mazda.
La tradizione racconta così la nascita dei tre ultimi Saoshyant. Il seme di Zoroastro
era stato affidato dal dio Neryosang alla divinità delle acque Anahita, e quest‘ultima
aveva deciso di conservarlo in un lago chiamato Kiansu, nell‘Iran orientale. (Occorre
ricordare che lo zoroastrismo si è modificato nel corso dei secoli, e nel rigidissimo
«monoteismo dualista» di Zoroastro sono tornati a inserirsi gli altri dèi del pantheon
iranico.) Lì il seme si era espanso e aveva dondolato al ritmo delle piccole onde verso
le rive, bianco e tiepido come una strana schiuma o uno strano fiore acquatico.
All‘inizio dell‘undicesimo millennio, una vergine mazdeita, una ragazza devota e
dalla pura bellezza, si bagna nel lago Kiansu, vi entra pian piano lasciando che
l‘acqua le arrivi alle ginocchia, poi che salga sino alle cosce, sino al ventre, poi nuota
un po‘, quella strana schiuma tiepida l‘avvolge, se la ritrova sul collo, tra i seni, sul
pube. La vergine, dopo quell‘immersione nel lago, rimane incinta, e genera un bimbo
cui impone il nome di Ukh-syat-Ereta, «Colui che fa nascere l‘ordine»; il bimbo
diventa uomo, e giunto a trent‘anni riceve da Dio il compito di salvare il mondo. Il
sole si arresta nel mezzo del cielo per dieci giorni e dieci notti, e questo è il segno del
suo avvento; grazie a lui, la religione di Ahura Mazda si affermerà in tutto il mondo e
i miscredenti saranno annientati.
All‘inizio del dodicesimo millennio, un‘altra vergine va a bagnarsi nello stesso
lago, si immerge e la stessa schiuma tiepida la avvolge sino a renderla incinta. Il
figlio così concepito dallo sperma di Zoroastro si chiamerà Ukhsyat-Nemah, «Colui
che fa crescere la preghiera», e anche lui riceve a trent‘anni l‘ordine di salvare il
mondo. Per annunciare il secondo Saoshyant, il sole dimorerà nel mezzo del cielo per
venti giorni e venti notti. Il re Zahhak, simbolo per i persiani di tirannia, corruzione,
dominazione straniera, si scatenerà e porterà al parossismo l‘ingiustizia e
l‘oppressione. Ma il discendente di un antico eroe persiano, Keresasp, sorgerà e
metterà fine alla vita del tiranno.
Alla fine del dodicesimo millennio, per la terza e ultima volta, una vergine entrerà
a bagnarsi nelle acque del lago Kiansu e concepirà un figlio, l‘ultimo Saoshyant, che
a trent‘anni riceverà l‘incarico di condurre il conclusivo attacco contro le forze del
Male. Il sole non si staccherà più dal centro del cielo, tutti gli antichi eroi torneranno
per l‘ultima battaglia decisiva. La venuta del terzo Saoshyant segnerà l‘ora della
resurrezione dei morti: tutti gli esseri che si sono incarnati rivivranno e corpi e anime
diventeranno indistruttibili e immortali. Riapparirà Zoroastro, e i tempi finiranno, la
terra manderà fuori dalle sue viscere fiumi di lava nati dalla fusione di tutti i suoi
metalli, fiumi di fuoco che invaderanno lenti e implacabili città e boschi, pianure e
montagne, e che ardendo purificheranno sino a fondere e trasformare tutto in Luce.
L‘eternità stenderà il suo dominio sull‘universo, e i giusti, che avranno attraversato i
fiumi di lava e fuoco come se fossero di latte tiepido e avranno varcato il ponte
Cinvat, godranno per sempre della vista di Ahura Mazda, Luce Suprema.
GRECI E ROMANI
GERMANI
CELTI
EBREI E CRISTIANI
«È CADUTA LA GRANDE BABILONIA»
SIA GLI EBREI SIA I CRISTIANI dividono il tempo in due eoni: quello presente
e quello a venire. Per gli Ebrei, quello che conta è l‘avvenire: lì è il centro di tutto, la
venuta dei «giorni del Messia». La nozione fondamentale per tutta la tradizione
ebraica, ci dice Raphael Cohen, è quella del tikkun. Tikkun è termine che suggerisce
l‘idea di riparazione, di aggiustamento di qualcosa che è danneggiato. Tutto ciò che
un uomo compie, lo compie per fare un tikkun, riparare qualcosa, migliorare il
mondo, reagire alla caduta di Adamo. Ci sono nella tradizione ebraica 613 tikkunim,
miglioramenti, aggiustamenti da apportare al mondo. Quando il mondo sarà
sufficientemente migliorato, reso vivibile, abitabile per Dio stesso, che vorrà di
nuovo considerare la terra un giardino e passeggiarvi con l‘uomo, allora l‘umanità
avrà raggiunto la sua meta, e questa meta, questo approdo si chiama «era messianica»
o «giorni del Messia», che gli Ebrei aspettano da millenni.
L‘importante è proprio aspettare, propiziare. Un antico enigmatico detto ebraico
recita: «Il Messia non è venuto, non sta venendo e non verrà. Però bisogna andargli
incontro». E vi sono letture midrashiche, cioè invenzioni letterarie scaturite da un
approfondimento dei testi sacri, che parlano di predecessori del Messia vero e
proprio, quello che uscirà dalla stirpe di Davide; questi predecessori apparterranno
alla stirpe di Giuseppe figlio di Giacobbe o a quella di Aronne fratello di Mosè,
quando non saranno il profeta Elia o Mosè stesso.
Per i cristiani, il centro è già stato attinto, è Cristo. Il mondo è già stato redento in
Lui. Noi non possiamo propiziare l‘arrivo di un‘era messianica per il semplice fatto
che viviamo un‘era messianica; e non ci saranno predecessori, soltanto segni. Il
tempo presente è già tempo della fine, in attesa del Secondo Avvento.
Il manoscritto scoperto a Qumran – una località sulla sponda nord-occidentale del
Mar Morto, dove il deserto si corruga in una straordinaria barriera di rocce tutte
bucate da innumerevoli grotte – e noto come La Guerra dei figli della luce e dei figli
delle tenebre propone una visione apocalittica maturata all‘interno della comunità
degli Esseni, una setta ebraica dai riti segreti che aveva il proprio centro a Qumran,
nata nel II secolo avanti Cristo e sciolta dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70
dopo Cristo. Nell‘escatologia degli Esseni ricompare l‘idea tribale del «popolo
eletto»: la prima azione dei figli della luce sarà quella di tornare dal deserto e
accamparsi vicino a Gerusalemme per conquistarla spodestando i sacerdoti della
Sinagoga ufficiale; poi la battaglia sarà contro i Kittim, i Romani detentori del potere
nel mondo. L‘apocalisse essena può apparire dunque una sorta di piano di conquista
del mondo, dove il Messia è più che un Redentore un Dominatore; e secondo alcuni
rappresenta l‘anello di congiunzione tra il pensiero escatologico ebraico e
l‘Apocalisse di Giovanni. Ma secondo gli studiosi è facile anche leggere
nell‘apocalisse essena, sin dalla contrapposizione tra i figli della luce e quelli delle
tenebre, l‘influenza dell‘etica dualistica zoroastriana: alla fine dei tempi si combatterà
una guerra santa di trentacinque anni con l‘intervallo di un anno di riposo ogni sette,
e allora i figli della luce abbatteranno i figli delle tenebre e trionferanno. E un
problema aperto (e lo afferma chi come il cardinale Daniélou non fu solo un illustre
uomo di studi ma anche un‘autorità della Chiesa cattolica): che rapporto c‘è tra il
pensiero iranico e quello ebraico-cristiano? La fine dei tempi come la concepisce
Zoroastro quanto influì sull‘escatologia ebraica rabbinica, su quella degli Esseni e
sull‘Apocalisse di Giovanni?
L‘atteggiamento verso il tempo è una delle opzioni decisive della nostra vita: dove e
in che tempo noi collochiamo il nostro Paradiso? Se per noi il Paradiso è l‘innocenza
perduta dell‘infanzia e del mondo, quella che ci racconta il mito, se cerchiamo di
riprodurre il Paradiso nel presente, di riscoprirlo nello splendore del divenire, del
cosmo, noi aderiamo a una logica, a uno spirito greco, pagano. L‘eroe pagano per
eccellenza, Ulisse, compie un lunghissimo periplo avventuroso per arrivare a Itaca, al
punto di partenza. Giusto il contrario di Abramo, che parte da Ur, in Caldea, certo che
non la rivedrà mai più, che non la rimpiangerà, e va verso l‘ignoto: un padre della
Chiesa aggiunge che Abramo capisce che la sua strada è buona proprio perché non sa
dove porta. Per Abramo il Paradiso era da conquistare. Se per noi il Paradiso è futuro,
quello verso cui procediamo, faticosamente, con il senso di una conquista adulta,
responsabile, allora aderiamo alla logica, allo spirito ebraico-cristiano.
Apocalisse, termine greco che il latino traduce con revelatio, «rivelazione», o
meglio ancora «svelamento», vuol dire appunto innanzi tutto «togliere un velo»:
togliere il velo al cosmo sacro, allo spazio sacro e al tempo sacro; profezia della fine
e dell‘inizio, in cui i tempi storici si chiudono e si apre il tempo infinito dell‘eternità.
Qualunque sia stata su di essa l‘influenza iranica, sia stato Mosè o Zoroastro
l‘inventore del tempo «lineare» contrapposto a quello «ciclico», è la cultura ebraico-
cristiana, con il suo sviluppo decisivo per la storia del pianeta intero, che si è presa
l‘incarico di inoculare negli uomini l‘idea che quello che conta è il punto d‘arrivo
futuro, non il presente; il riscatto dal male, dalla sofferenza e dalla tenebra, non il
piacere e la gioia; la speranza di eternità, non la bellezza del divenire; l‘idea che si
corre come su una strada rettilinea da un inizio verso una fine ineluttabile, da Adamo,
figlio della terra, al Messia degli Ebrei o al Secondo Avvento di Cristo, figlio di Dio.
Il luminoso mondo greco, lo sguardo greco sugli dèi, sulla natura, sulla morte, sul
cosmo, viene ribaltato, demonizzato. E Gerusalemme prevale su Atene. Il senso della
fine dei tempi come «svelamento» definitivo della verità delle cose, giudizio che
divide i buoni dai malvagi, inizio di un‘irrevocabile eternità, può essere oggi vissuto
come un frutto peculiare del monoteismo ebraico-cristiano e poi islamico.
Nella Bibbia il tema della distruzione dell‘umanità compare all‘inizio e alla fine,
nella Genesi, che la tradizione ebraica attribuisce a Mosè, e nell‘Apocalisse di
Giovanni. Ma che differenza tra le due concezioni, le due visioni che ne risultano.
Abbagliante, oscura, complessa, sovraccarica di simboli e metafore l‘opera di
Giovanni. Un‘opera nutrita di immaginazione visionaria e di filosofia, frutto di
un‘epoca fosca di transizione, e di vastissima cultura. Mentre il racconto del Diluvio
e dell‘arca di Noè ha una sua chiarezza sintetica, tra l‘epico e il fiabesco, tra il
leggendario e il magico, con tutta la freschezza innocente e insieme la ritualità
solenne delle voci che ci parlano dalle origini.
Dunque, gli uomini si sono moltiplicati, secondo l‘esortazione di Dio. Sono nate
loro delle figlie, e i figli di Dio, discendenti di Set, vedendo che erano belle,
cominciano a desiderare le figlie degli uomini, discendenti di Caino, e cominciano a
prendere tra esse quelle che a loro piacciono di più. Il piacere della carne ha il
sopravvento. Dio non ne è contento, e dice: «Il mio spirito non rimarrà sempre
nell‘uomo, perché è carne: i suoi giorni sono contati, 120 anni».
La scelta e l‘indicazione di un periodo di tempo così preciso lascia perplesso il
lettore. Ma tutte le pagine precedenti sono già piene di cronologie così dettagliate,
che possiamo individuare in quale anno dalla creazione di Adamo Dio disse tra sé
quelle parole: correva l‘anno 1536 dall‘inizio dell‘umanità. Basta qualche calcolo:
Adamo genera Set a 130 anni; Set a sua volta genera Enos a 105 anni; Enos genera
Cainan a 90; Cainan genera Malaleel a 70; Malaleel genera Jared a 65; Jared genera
Enoc a 162; Enoc genera Matusalemme a 65; Matusalemme genera Lamec a 187, e
infine Lamec genera Noè quando ha 182 anni. Noè raggiunge i 500 anni prima di
avere Sem, Cam e Jafet, e ne compie 600 quando Dio decide il Diluvio.
Dio vede la malvagità, la carnalità degli uomini e si pente di averli creati. Soltanto
uno tra loro, Noè, il cui nome significa «consolazione», trova grazia ai suoi occhi.
Così Dio gli rivela i suoi piani di distruzione e gli consiglia di costruire un‘arca di
legno resinoso, tutta a celle, ben spalmata di pece dentro e fuori, che possa resistere a
tutte le intemperie. Nell‘arca Noè entrerà con i figli e la moglie e le mogli dei suoi
figli, e prenderà con sé una coppia di tutti gli animali che hanno vita, per conservarli
in vita. La prima goccia del Diluvio scende il 17 del secondo mese dell‘anno 600 da
quando è nato Noè, e 1656 da quando è nato Adamo (1656: ricordiamoci di questa
data). Tutti i mari si sollevano e irrompono sulla terra: si aprono le cateratte del cielo.
Piove per quaranta giorni e quaranta notti. Le acque crescono e sollevano l‘arca dove
intanto Noè si è chiuso portando con sé tutti coloro, uomini e animali, che Dio gli ha
comandato di portare. L‘arca, ben costruita e impeciata, galleggia sulle acque che
continuano a salire. Ormai anche le montagne sono sommerse. E ogni creatura che si
muove sulla terra, uccelli, animali domestici, animali feroci, rettili, uomini, tutto
muore. Tutto quello che è sulla terraferma e dalle cui narici esce alito vitale muore.
Le acque rimangono alte sopra la terra per 150 giorni.
Quando Dio si ricorda di Noè e della sua arca, manda un vento che scaccia le
nuvole e fa cessare la pioggia. L‘abisso del mare e le cateratte del cielo si chiudono.
Le acque cominciano a ritirarsi. Al diciassette del settimo mese l‘arca si incaglia sulle
montagne dell‘Ararat, e lì rimane sino al decimo mese in attesa che le acque calino
del tutto. Il primo giorno del decimo mese le vette delle montagne sono tutte visibili.
Noè aspetta altri 40 giorni, e manda fuori dall‘arca un corvo, che continua a volare lì
intorno, andando e tornando. Poi è la volta della colomba, che al primo volo ritorna
all‘arca senza aver trovato terra su cui posarsi, al secondo riporta nel becco una foglia
d‘ulivo, segno per Noè che le acque si sono ritirate completamente, al terzo non
rientra neppure più nell‘arca, segno definitivo che la vita ha ripreso il suo corso.
Siamo ormai all‘inizio dell‘anno 601 della vita del patriarca, le acque si sono
prosciugate, e l‘arca viene scoperchiata. Obbediente all‘ordine di Dio, Noè esce
dall‘arca con la moglie, i figli e le mogli dei suoi figli e con tutti gli animali che ha
portato con sé. Per prima cosa alza un altare e celebra un sacrificio. Dio sente il
profumo fragrante che si leva su dall‘altare e in cuor suo promette che non maledirà
più la terra e non colpirà più ogni cosa vivente, e che sinché la terra durerà, l‘ordine
in cui si susseguono la semina e il raccolto, il freddo e il caldo, l‘estate e l‘inverno, il
giorno e la notte mai più sarà sconvolto. Poi si rivolge a Noè, nuovo capostipite
dell‘umanità, e gli rinnova le benedizioni già impartite ad Adamo: gli conferisce il
potere su tutti gli animali della terra e del cielo, che diventeranno cibo degli uomini
come già lo era l‘erba. Noè e i suoi discendenti saranno carnivori, ma non potranno
mangiare carne che abbia ancora vita, cioè che contenga ancora il suo sangue. E del
sangue di ciascun uomo Dio chiederà conto, e chiunque spargerà sangue avrà sparso
il suo sangue. Infine invita Noè e i suoi figli a essere fecondi, a moltiplicarsi, a
riempire la terra e a dominarla.
Poi Dio fa spuntare un arcobaleno sulle nubi. Ogni volta che le nubi si
accumuleranno in cielo e verrà una tempesta, l‘arcobaleno sarà lì a ricordare a Dio la
sua promessa, il suo patto con gli uomini che mai più un Diluvio sconvolgerà la terra
e cancellerà la vita.
Il lettore ricorderà il numero di anni di cui consta per gli Indù il Kaliyuga, l‘eone
che stiamo attraversando: 432.000 anni. E che l‘intero ciclo di yuga, detto mahayuga,
dura 4.320.000 anni. E che un kalpa, un giorno di Brahma, constando di 1000
mahayuga, ne dura 4.320.000.000. Questo numero, nei suoi multipli e sottomultipli,
ritorna spesso in ogni vicenda di sconvolgimento cosmico. Joseph Campbell lo
ritrova nel racconto germanico del ragna-rokr. Il Walhalla, il castello dei guerrieri di
Odino, ha 540 porte. E nel «giorno del lupo», quando i mostri guidati da Fenrir
attaccheranno gli dèi per distruggerli, si racconta che da ogni porta usciranno per
affrontare la battaglia finale 800 guerrieri. Se si moltiplica 540 per 800, si ottiene
ancora 432.000. E Berosso, sacerdote e profeta caldeo, sostiene che tra la fondazione
della prima città del mondo, Kash, e il Diluvio babilonese, quello da cui si salva
Utnapishtim con sua moglie, passano 432.000 anni. Ho raccomandato al lettore di
tenere a mente il numero 1656, l‘anno in cui inizia il Diluvio nella Genesi:
l‘assirologo ebreo del secolo scorso Julius Oppert calcolò che in 1656 anni ci sono
86.400 settimane. E dividendo per due 86.400 si ottiene 43.200. Dunque, secondo
Joseph Campbell, si possono avere due visioni del Diluvio biblico. La prima è quella
tipica del racconto tribale e popolare del Dio adirato con gli uomini che li punisce
facendo aprire le cateratte del cielo. La seconda è suggerita dal numero che si ottiene
secondo i calcoli di Julius Oppert: il racconto biblico nasconde con molta sottigliezza
e cura un riferimento alla cultura, alla cronologia e alla matematica dei gentili, dei
Sumeri e dei Babilonesi, e attraverso di essi degli Indù, che ci parlano di cicli del
tempo che eternamente ritornano e in cui interi universi e popolazioni nascono, si
sviluppano e durano per una stagione di 43.200 (o 432.000, o 4.320.000) anni per poi
dissolversi nel mare del cosmo, restarvi eguale tempo e rinascere.
L‘Apocalisse, «libro chiuso, di altissima profezia, dove tanti sono i misteri quante le
parole, e ogni parola ha molti sensi» (san Girolamo), conclude la Bibbia e getta
un‘ombra splendente e terribile sui tempi dell‘uomo: finiranno in una catastrofe che
sarà anche rivelazione e giudizio conclusivo, apertura dei cancelli dell‘eternità. I
tempi finiranno, qui non ci sono più margini di dubbio e non c‘è più un sapere mitico-
magico-cosmico da nascondere; al contrario, tutto sarà svelato, il Secondo Avvento di
Cristo, il Giudizio Universale, il trionfo della Gerusalemme Celeste, in una
visionarietà rituale e allucinatoria, in un profondersi di metafore e allegorie oscure e
lancinanti ma tutte tese a enunciare la medesima verità: Cristo è la causa e lo scopo
dell‘universo, è Lui l‘Alfa e l‘Omega, Colui che era, che è e che viene, l‘Onnipotente.
Il mondo terreno finirà perché Cristo ritornerà a chiudere i tempi e a far risorgere i
morti nella loro carne e a inaugurare la Città Celeste con il suo splendore eterno.
Secondo la Chiesa, l‘autore dell‘Apocalisse è l‘apostolo Giovanni, l‘evangelista, il
discepolo prediletto da Gesù, il più vicino a Maria. Nell‘isola di Patmos, vecchio
ormai e in esilio, un giorno viene rapito in estasi, e riceve l‘ordine di scrivere in un
libro alle sette Chiese quello che gli sarà rivelato nella sua visione. Il primo che gli
appare è Uno che assomiglia al Figlio dell‘Uomo, vestito di una lunga veste e con
una fascia d‘oro sul petto; ha il capo e i capelli bianchi come lana e neve, e i suoi
occhi sono di fiamma e i suoi piedi simili a rame ardente. La sua voce ha il suono di
grandi acque che scorrono, nella mano destra tiene sette stelle; e dalla sua bocca (ed è
la cosa che più colpisce, quasi terrorizza) esce un‘acuta spada a due tagli. Giovanni
cade ai suoi piedi come morto. Ma la Voce che ha il suono di grandi acque che
scorrono lo rassicura: «Non temere: Io sono il Primo e l‘Ultimo, il Vivente. Ho subito
la morte, ma ecco, ora son vivo nei secoli dei secoli e tengo la chiave della morte e
dell‘inferno».
Ora una porta si apre nel cielo e appare un trono, dove è seduto Dio, circondato da
altri ventiquattro troni, dove siedono vegliardi vestiti di bianco e coronati d‘oro.
Davanti al trono un mare di cristallo, e intorno a esso quattro Esseri Viventi, ciascuno
con sei ali e pieni di occhi, il cui compito è lodare perennemente, senza soste, il nome
di Dio: «Santo, Santo, Santo è il Signore Iddio, l‘Onnipotente che era, che è, che
viene». Nella destra di Dio c‘è un libro, scritto dentro e fuori e sigillato con sette
sigilli. Nessuno in terra e in cielo sarebbe stato degno di leggere il libro sciogliendone
i sigilli. Ma ecco che fra il trono, i ventiquattro vegliardi e i quattro Viventi si fa
avanti un Agnello, come scannato, con sette corna e sette occhi, e Lui sì, Lui potrà
prendere il libro dalla mano di Dio e aprirne i sigilli uno dopo l‘altro. Miriadi e
miriadi di angeli, sopravvenuti intorno al trono di Dio, spiegano: «L‘Agnello che è
stato sgozzato è degno di ricevere la potenza, la ricchezza, la sapienza, la forza,
l‘onore, la gloria e la lode». E i ventiquattro vegliardi si prostrano e adorano, e i
quattro Viventi rispondono: «Amen».
Così l‘Agnello scioglie via via i sigilli, e compaiono i quattro cavalli con i quattro
cavalieri (l‘immagine più emblematica dell‘Apocalisse, quella che conoscono anche
coloro che non l‘hanno mai letta): un cavallo bianco con un cavaliere che ha un arco
e riceve una corona, un cavallo rosso con un cavaliere munito di una spada e del
potere di cancellare dalla terra la pace, un cavallo nero con un cavaliere cui è data una
bilancia, e un cavallo verdognolo, il cui cavaliere è Morte: questi ha il potere di
uccidere sulla terra con la spada, la peste, la fame e gli animali selvaggi.
All‘apertura del quinto sigillo, appaiono i martiri, quelli che sono stati sgozzati per
il Vangelo e la testimonianza che ne hanno dato, e tutti ricevono una veste bianca e
una promessa di giustizia; all‘apertura del sesto, un terremoto squassa la terra, il sole
diventa nero come un sacco di crine, la luna è colore del sangue, le stelle cadono al
suolo come i frutti ancora acerbi di un fico investito dal vento. Tutti, anche i re, i
grandi della terra, i ricchi mescolati ai poveri e agli schiavi si chiudono nelle caverne
e tra le rocce delle montagne, chiedendo alle montagne stesse di cader loro addosso,
di nasconderli all‘ira divina.
Nell‘attesa che venga sciolto il settimo sigillo, sono segnati sulla fronte i servi di
Dio, perché possano essere riconosciuti e risparmiati: e alla fine, all‘apertura del
settimo sigillo, ai sette angeli che stanno davanti a Dio vengono date sette trombe;
uno degli angeli con un turibolo offre tutti i più delicati profumi a Dio, ma poi
riempie il turibolo stesso di fuoco e lo getta sulla terra. Ne scaturiscono fulmini, tuoni
e terremoti. Il suono delle sette trombe provoca nuove distruzioni: dal cielo scendono
grandine e fuoco misto a sangue, poi una montagna di fuoco viene gettata in mare,
una stella il cui nome è Assenzio cade nelle acque dei fiumi e delle sorgenti, che
diventano velenose e amare; il sole, la luna, e le stelle vengono oscurate; da un pozzo
sale un fumo come di una grande fornace, e dal fumo escono locuste che si spandono
sulla terra. Alle locuste viene ordinato di non danneggiare né l‘erba né le foglie, ma
soltanto quegli uomini che non sono stati segnati in fronte. Non devono ucciderli, ma
tormentarli per cinque mesi pungendoli atrocemente. Le locuste hanno forme simili a
quelle dei cavalli, corone in capo, volto umano, capelli come quelli delle donne e
denti da leoni. Hanno il torace come una corazza di ferro, e il rumore delle loro ali
assordante come quello dei carri che corrono alla battaglia. Hanno code come gli
scorpioni, con cui infliggere le più atroci punture. Il loro re è l‘Angelo dell‘abisso,
chiamato in ebraico Abaddon e in greco Apollyon, che significa «distruttore»,
appellativo di Satana. Infine vengono liberati i quattro angeli sull‘Eufrate, che da
tempo sono in attesa di attaccare gli uomini al comando di miriadi di cavalieri su
cavalli dalle teste di leone e dalle cui bocche escono fuoco, fumo e zolfo.
Il primo dei segni che compaiono dopo che le sette trombe hanno suonato, è una
Donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi, e sul capo una corona di dodici
stelle, che grida perché è in preda alle doglie del parto. Contro di lei si leva un gran
dragone colore del fuoco che, appena la Donna partorisce, tenta di divorare suo figlio.
Ma il neonato è rapito in cielo, e la Donna trova rifugio nel deserto. In cielo scoppia
una grande battaglia: Michele e i suoi angeli si scontrano con il dragone e con gli
angeli passati dalla sua parte. Alla fine Michele e i suoi hanno la meglio, e il gran
dragone, l‘antico serpente, il seduttore che si chiama anche Diavolo, il Calunniatore,
o Satana, l‘Avversario, viene precipitato. Esiliato sulla terra, il dragone comincia a
perseguitare la Donna, ma Dio la protegge da ogni attacco. Il dragone si accanisce
così contro quelli che sono fedeli alla progenie di Lei, che seguono i Comandamenti e
i precetti del Vangelo di Gesù.
Altri segni sono la bestia che sale dal mare, con dieci corna e sette teste, simile a
una pantera, ma con i piedi di un orso e la bocca di un leone; ad essa il dragone
consegna trono, potenza e autorità, così che raggiunge il potere su tutte le genti, tribù
e nazioni; e la bestia che esce dalla terra, questa volta, simile a un agnello ma che
parla come il dragone, e seduce i popoli con i prodigi che compie, e li induce a
erigere una statua alla prima bestia e ad adorarla; riesce ad animare la statua sino al
punto di farla parlare; e ordina che venga messo a morte chiunque non si inginocchi
davanti a lei. Inoltre fa in modo che tutti, ricchi e poveri, liberi e servi, ricevano
un‘impronta o sulla fronte o sulla mano destra, e che nessuno possa comprare o
vendere senza avere l‘impronta della bestia, il suo nome, o il numero del suo nome.
Questo numero è 666. L‘ultimo segno è la comparsa dei sette angeli che tengono in
mano le sette piaghe estreme, perché con esse l‘ira di Dio viene saziata. Sono i sette
calici dell‘ira divina.
Gli angeli versano i calici: ed ecco che un‘ulcera maligna fa ammalare gli uomini
che hanno l‘impronta della bestia e che si prosternano davanti alla sua statua; le
acque del mare, dei fiumi, delle sorgenti divengono simili al sangue di un morto, il
sole brucia gli uomini, li ustiona terribilmente, il trono della bestia e il suo regno sono
immersi nelle tenebre, le acque dell‘Eufrate si seccano. Prima che anche il settimo
calice sia versato, escono dalla bocca del dragone, della bestia e dell‘agnello falso
profeta tre spiriti immondi, simili a rane, tre demoni che raduneranno i re della terra
per la battaglia finale in Armageddon. Infine il settimo calice è versato nell‘aria, e
suscita un terremoto come gli uomini non hanno mai visto: la città dell‘Anticristo è
squarciata in tre parti, tutte le città della terra crollano, scende dal cielo una grandine i
cui chicchi pesano mezzo quintale.
Ora uno dei sette angeli che hanno versato i calici porta Giovanni a vedere la
condanna della Grande Meretrice, con la quale hanno fornicato i re della terra, e che
ha inebriato gli abitanti della terra con il vino della sua lussuria. In un deserto, la
donna è seduta sopra una bestia rosso scarlatto, ricoperta di nomi blasfemi, con sette
teste e dieci corna. Anche la donna è vestita di porpora tutta adorna d‘oro, di perle e
di pietre preziose. In mano tiene un calice d‘oro ricolmo di abominazione e di
lussuria. E sulla fronte una scritta misteriosa: «Babilonia, la grande, la madre delle
meretrici e delle abominazioni della terra». Giovanni vede questa donna inebriarsi del
sangue dei santi e dei martiri di Gesù, ed è preso da sbigottimento. L‘angelo gli
spiega con oscuri vaticinii quello che accadrà, come alla fine la bestia prenderà in
odio la meretrice e la lascerà nuda, nella desolazione, mangerà la sua carne e la
consumerà con il fuoco.
Un altro angelo scende dal cielo, e la terra è illuminata dal suo splendore. Con voce
potente annuncia che è caduta la grande Babilonia, che era diventata la dimora dei
demoni, il covo di ogni impurità, il rifugio di ogni uccello odioso e immondo, perché
tutti i re hanno fornicato con essa, e grazie al suo lusso tutti i mercanti si sono
arricchiti. Alla sua caduta, i re piangono, vedendo tanta potenza e tanta ricchezza
venir meno in un momento; e anche i mercanti si lamentano: nessuno compera più le
loro merci, oggetti d‘oro e d‘argento e pietre preziose e perle, bisso e porpora, seta e
scarlatto, tutti i legnami odorosi e tutti i lavori d‘avorio e di legno prezioso e di
bronzo, di ferro e di marmo, la cannella e l‘amomo e i profumi, la mirra, l‘incenso, e
il vino e l‘olio, il fiore di farina e il grano, il bestiame, le pecore, i cavalli e i cocchi e
gli schiavi e le anime degli uomini. E si lamentano i nocchieri e i marinai, si gettano
polvere sul capo e piangono la grande città che fece arricchire quanti avevano navi
sul mare, e in un attimo è stata ridotta a un deserto. Un angelo scaglia in mare una
pietra grande come una macina, e dice che così, in un solo colpo, con la stessa
ineluttabilità con la quale il masso scende verso il fondale sarà precipitata Babilonia,
e nessuno la troverà mai più. In essa non si udranno più le armonie dei citaredi e dei
musici e dei flautisti e dei suonatori di tromba, né più si troveranno in essa artefici, di
qualunque arte.
Poi il cielo si apre, ed ecco apparire un cavallo bianco, e chi gli è in groppa è
chiamato il Fedele, il Vero, perché egli giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi
sono come fiamme, sul suo capo porta molti diademi, è avvolto in un mantello tinto
di sangue e il suo nome è il Verbo di Dio. Gli eserciti celesti lo accompagnano sopra
cavalli bianchi, sono angeli vestiti di bisso candido. Dalla bocca gli esce una spada
acuminata, per colpire le nazioni. Ed ecco la bestia e i re della terra con i loro eserciti
radunarsi per combattere contro Colui che sta sul cavallo bianco e il suo esercito. Ma
la bestia e il falso profeta, la seconda bestia uscita dalla terra con i suoi falsi prodigi,
sono presi ancor vivi e gettati in uno stagno rovente di zolfo. Gli altri vengono uccisi
dalla spada che esce dalla bocca di Colui che sta sul cavallo bianco, e tutti gli uccelli
si saziano della loro carne.
Poi un angelo scende dal cielo tenendo in mano la chiave dell‘abisso e una gran
catena, afferra il dragone, l‘antico serpente che è Satana e lo imprigiona e lo precipita
nell‘abisso. Lì resterà per mille anni. Poi verrà sciolto, sia pure per poco tempo,
uscirà dalla sua prigione, sedurrà ancora le nazioni, Gog e Magog, che si aduneranno
per una nuova battaglia. Daranno l‘assalto alla città dei santi, ma un fuoco scenderà
dal cielo e lo divorerà e sarà gettato nello stagno di zolfo dove sono anche la bestia e
il falso profeta, e dove resterà nei tormenti nei secoli dei secoli.
Infine davanti al gran trono bianco di Dio fuggiranno la terra e il cielo; i morti
saranno tutti in piedi davanti al trono. Verrà aperto il libro della vita, e i morti
saranno giudicati in base a quello che è scritto in esso e alle loro opere. Il mare
restituirà tutti i cadaveri che contiene, così faranno la morte e l‘inferno, e tutti
saranno giudicati. Chiunque non sarà trovato nel libro della vita, sarà gettato nello
stagno di fuoco, e questa sarà la seconda morte. Dopo il Giudizio, Giovanni vede
finalmente un nuovo cielo e una nuova terra; uno dei sette angeli che reggevano i
calici con le piaghe gli mostra le meraviglie della sposa dell‘Agnello, la
Gerusalemme Celeste, alta sopra un monte presso Dio, nella gloria stessa di Dio.
La città risplende come il diaspro. Le sue mura sono munite di dodici porte, come
le tribù di Israele, tre rivolte verso ciascun punto cardinale; e di dodici basamenti, su
cui sono scritti i nomi dei dodici apostoli dell‘Agnello. La pianta della città è
quadrata, ogni lato è lungo 2200 chilometri, e le mura sono alte 70 metri. Il materiale
di costruzione è il diaspro e l‘oro puro, trasparente come il cristallo. Le dodici porte
son fatte ognuna di una sola perla. E i dodici basamenti sono adorni ognuno di
differenti pietre preziose: diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonice, sardio,
crisolito, berillo, topazio, crisopraso, giacinto, ametista. Non ci sono templi, perché il
suo
Tempio è il Signore Dio Onnipotente e l‘Agnello. Non c‘è né sole né luna, perché
la luce scaturisce direttamente dalla gloria di Dio. Un fiume d‘acqua di vita sgorga
dal trono di Dio e dell‘Agnello, in mezzo alla piazza della città e sulle due rive del
fiume sta un boschetto di alberi della vita, che danno frutti dodici volte all‘anno, e le
cui foglie guariscono qualunque male. Non ci sarà più niente di maledetto e di
impuro. Tutti adoreranno Dio, vedranno la sua faccia, e porteranno in fronte il nome
di Lui. Non vi sarà più notte. Nessuna lampada, nessun sole sarà più necessario, Dio
risplenderà e regnerà nei secoli dei secoli.
Quest‘opera grandiosa e oscura, che nello stesso tempo affascina e respinge e che ha
avuto un‘influenza incalcolabile sulla civiltà occidentale, è innanzi tutto, sul piano
storico, un messaggio rivolto a un popolo essenzialmente infelice, come era senza
dubbio quello degli Ebrei nel I secolo dopo Cristo. Così la legge il cardinale
Daniélou: il contesto politico-religioso dell‘Apocalisse, scritta nell‘esilio di Patmos, è
in realtà la Palestina occupata dagli stranieri e dai pagani, è la Terra Santa macchiata,
profanata dalla presenza dei pagani, gli uomini che portano sulla fronte o sulla mano
destra il segno del dio (falso) a cui sono consacrati. L‘Apocalisse di Giovanni dice, in
una maniera sontuosa e terribile, irta di simboli e di visioni allucinatorie, il rifiuto
concreto, storico di uno stato di cose, e ne esalta il ribaltamento, vedendo però ogni
possibile ribaltamento non in un‘azione violenta, militare, politica, ma nell‘intervento
liberatore di Dio.
Dio farà cadere Roma-Babilonia, la città profana del potere, del lusso, della
ricchezza, dell‘abominio, della persecuzione; Dio farà colpire dai suoi angeli i
pagani, infliggerà loro le più terribili piaghe. In nessun racconto della fine dei tempi
compare tanta ossessiva, nera, funesta insistenza sulle sofferenze che gli uomini, o
meglio una parte degli uomini, quelli che gli angeli non avranno segnato come fedeli
del vero Dio, dovranno sopportare. Terremoti, oscuramento di sole, luna e stelle,
grandine, pioggia di sangue, fuoco, zolfo, veleno, invasione di locuste, armi e cavalli
feroci come leoni, pestilenza, carestia, tenebre, siccità: niente viene risparmiato ai
pagani, sino alla battaglia finale delle forze del male, il gran dragone, la bestia, il
falso profeta, Gog e Magog contro le armate degli angeli di Dio. Cristo ritornerà
trionfante.
Ma ricordiamoci, con il cardinale Daniélou, che Cristo è già tornato, già risorto
dalla morte. La Resurrezione di Cristo è il punto capitale che contraddistingue la fede
di un cristiano; la Resurrezione è molto più importante di qualunque cosa, è
l‘avvenimento che anticipa il futuro, ogni futuro possibile. E se si vuole
perfettamente sintetizzare il pensiero apocalittico cristiano, si devono affermare tre
verità: ci sarà la fine dei tempi, ci sarà il Giudizio di Dio, ci sarà il ritorno del Figlio
dell‘Uomo, la Parusia, il Secondo Avvento.
Nell‘Apocalisse si può anche leggere la rivelazione dell‘insopprimibile desiderio di
potenza del cuore umano, la sua santificazione e il suo trionfo. Così scrive D. H.
Lawrence, che dedicò al libro di Giovanni un saggio intenso e tormentato. Secondo il
grande scrittore inglese, il visionario affascinato dalle cosmologie pagane, autore di
una sorta di vangelo apocrifo struggente e perfetto intitolato L’uomo che era morto,
l‘Apocalisse fu composta da un Giovanni di Patmos che non è identificabile in
Giovanni l‘evangelista. Il libro appare a Lawrence un‘«orgia di mistificazione»,
sicuramente il «meno attraente» della Bibbia. Con un paragone ardito, afferma che
come Gesù ebbe Giuda tra i dodici apostoli, così il Nuovo Testamento ebbe il suo
Giuda nell‘Apocalisse. Infatti anche il libro di Giovanni di Patmos si può considerare
portatore di un clamoroso tradimento, nel senso che in esso non c‘è quasi nulla della
parte positiva del cristianesimo, di ciò che più ci commuove nel messaggio mite e
fraterno di Gesù: la pace della meditazione, la gioia nell‘aiutare il prossimo, la forza
del perdono, l‘acquietarsi delle ambizioni, il piacere della conoscenza. Vi compare
invece, sfrenato e furente, il desiderio di potere connaturato all‘anima dell‘uomo e
inestirpabile: il potere si esprime qui nell‘ansia di distruggere tutto l‘universo, la
ciclicità del tempo, le connessioni dell‘anima con il cosmo per compiere una vendetta
feroce sui pagani e per affermare la propria gloria. Nelle prime parti del libro, c‘è
l‘eco di antichi culti cosmici che in seguito divennero oggetto di anatema per i
cristiani. Ci sono, nell‘Apocalisse, sostrati greci, egizi, babilonesi, riflessi di quel
sapere pagano che pure si vuole con tanta determinazione distruggere.
Ma il cristianesimo ufficiale procede verso la cancellazione di tutto quello che c‘è
nell‘uomo di naturale, istintuale, astrale, erotico nel senso più pieno: la natura è
demonizzata, ancora più dopo la Riforma,
quando una concezione del cosmo come flusso di energia vivente viene
definitivamente soppiantata da una visione dell‘universo matematica, scientifica, non
vitale, fatta di forze e rapporti meccanici. Quella visione che propizierà, non a caso
nell‘allora più potente tra i paesi protestanti, la Rivoluzione industriale e da cui
muoverà lo sviluppo incondizionato della tecnica. Alla fine, la lettura lawrenciana
dell‘Apocalisse si salda con il verbo lawrenciano stesso: il libro di Giovanni ci mostra
ciò a cui noi, andando contro natura, ci opponiamo: cioè la nostra connessione con il
cosmo. «Dovremmo danzare di gioia al solo pensiero di essere vivi nella carne,
d‘essere una parte del vivente cosmo incarnato. Io sono una parte del sole come il
mio occhio è un parte di me, che io sia una parte della terra lo sanno benissimo i miei
piedi, il mio sangue è una parte del mare.»
Se l‘indubbio misticismo con cui Lawrence legge l‘Apocalisse piega verso una
religiosità della terra, cosmica e a suo modo pagana, la lettura di Rudolf Steiner, il
creatore dell‘antroposofia, è sorretta da un‘interpretazione esoterica del cristianesimo,
che si ricollega al pensiero di Gioacchino da Fiore, l‘autore di Concordia Novi et
Veteris Testamenti, Expositio in Apocalypsim, Psalterium decem Cordarum, opere
che, scritte nel XII secolo, ebbero un‘influenza considerevole sul francescanesimo, su
Dante e su tante correnti ereticali cristiane. L‘abate del monastero cistercense di
Fiore, in Calabria, «il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato»
(Paradiso, XII, 140-141), predicò l‘avvento del regno dello Spirito Santo.
Quella sarebbe stata l‘Apocalisse, la rivelazione: dopo l‘epoca del Padre, o della
legge, e dopo quella del Figlio, iniziata con il Vangelo, ecco la terza epoca
imminente, quella dello Spirito Santo, in cui l‘intelligenza della parola divina sarà
non più letterale ma spirituale: e l‘uomo conoscerà il vangelo eterno che è parola di
Dio, nascosto sotto la lettera delle espressioni di Matteo e di Marco, di Luca e di
Giovanni.
La prima epoca visse nella conoscenza, la seconda nel potere della sapienza; la
terza si effonderà nella pienezza dell‘intelligenza. Nella prima regnò la schiavitù;
nella seconda la servitù filiale; nella terza avrà inizio la libertà. La prima trascorse
segnata dai flagelli; la seconda nell‘azione; la terza nella contemplazione. La prima
visse nel timore; la seconda nella fede; la terza vivrà nella verità. In questa epoca a
venire che Gioacchino profetizza, nell‘epoca dello Spirito Santo, anche i corpi
saranno trasfigurati, cielo e terra subiranno una metamorfosi e conosceranno una
nuova bellezza spirituale, la morte e il dolore scompariranno.
Rudolf Steiner riprende nel nostro secolo la visione gioachimita. Secondo lui
l‘Apocalisse di Giovanni è la descrizione di un‘iniziazione cristiana, in cui il neofita è
condotto dal mondo fisico (le lettere alle sette Chiese) al mondo immaginativo e
astrale (i sette Sigilli) sino al mondo spirituale (le sette Trombe), mentre nei sette
Calici versati c‘è quello che l‘uomo deve respingere se vuole accedere a un grado di
spiritualità più elevata. Tutto quello che induce l‘uomo a irrigidirsi, indurirsi nella
vita fisica e dunque a respingere ciò che lo renderebbe capace di annientare la sua
natura inferiore e di elevarsi spiritualmente è rappresentato dal celebre e misterioso
numero 666, di cui tante interpretazioni sono state e continuano a essere proposte.
Perché 666 è il numero della bestia, dell‘Anticristo? Che cosa si nasconde dietro
quelle cifre, come vanno lette? E‘ vero che sostituendo ai numeri le corrispondenti
lettere ebraiche viene fuori il nome «Nerone». Sarebbe un‘interpretazione
storicamente fondata; Giovanni scrive dopo gli anni in cui Nerone fu imperatore di
Roma e perseguitò i cristiani. Ma Steiner ne propone una di carattere prettamente
spirituale e misteriosofico.
Nei Misteri a cui Giovanni fu probabilmente iniziato, il numero 666 era conosciuto
ma sapientemente occultato attraverso un modo diverso e depistante di scriverlo: 400
200 6 60. Provando ora a sostituire ai numeri le lettere ebraiche, si avrebbe una
sequenza che suona: Tau Resh Vav Samech. Aggiungendo le vocali, e leggendo
naturalmente da destra a sinistra, si ottiene il nome di Soradt, il demone solare
nemico dell‘Agnello, il principio che fa irrigidire l‘uomo nella vita fisica e lo tiene
bloccato in essa senza lasciarlo accedere a quella spirituale, la fonte di ogni magia
nera.
Nella concezione antroposofica di Steiner si susseguono sette ere: la prima si
chiama Polare, un‘era in cui tutto è ancora di una sostanza delicata, spirituale, e il
sole non ancora separato dalla terra; la seconda Iperborea, un‘era in cui il sole
intraprende il movimento che lo allontana dalla terra; la terza Lemuriana, in cui
l‘uomo compare nelle sue prime forme grottesche; la quarta Atlantidea, dal nome del
grande continente sommerso tra le attuali Europa, Africa e America. Il Diluvio, il
cataclisma che distrugge Atlantide, separa le prime quattro ere da quelle che seguono.
La quinta, la Post-atlantidea, si sottodivide a sua volta in sette civiltà, quella indù,
quella persiana, quella assiro-babilonese-caldea, egiziana ed ebraica, quella greco-
latina, quella attuale alla quale se ne aggiungeranno altre due. Alla fine della settima
civiltà dell‘era Post-atlantidea seguirà la Guerra di Tutti contro Tutti, causata
dall‘egoismo, dall‘attaccamento a se stessi, dalla volontà di mettere tutti i beni
materiali e tutti i beni dell‘anima al servizio di un ego che aspira a legare tutti gli altri
ego sotto il suo dominio, a far loro guerra. Dopo questo momento di immenso
disordine, verranno altre due ere: la sesta nascerà dall‘unione di Occidente e Oriente,
dalla spiritualizzazione del mondo, la settima sarà come un frutto già troppo maturo,
e non conterrà nessun segno, nessun principio di progresso sulla strada dello spirito.
Steiner, dicevo, ha dell‘apocalisse una visione gioachimita. Dopo le sette ere, la
terra avrà raggiunto la meta della sua evoluzione, gli esseri e le cose verranno
trasformati, tutto quello che è materia porterà il sigillo dello spirito. I segni del bene e
del male saranno evidenti, leggibili sul volto degli uomini, niente potrà più essere
dissimulato, il pensiero non sarà più muto, non potrà essere nascosto. La terra si
trasformerà in un corpo celeste. La sostanza fisica in quanto tale scomparirà; in
coloro che hanno saputo spiritualizzarsi, diventerà sostanza astrale; essi avranno
espresso nella loro stessa apparenza fisica ciò che è bene, ciò che è nobile, bello,
intellettuale, porteranno nel loro volto il sigillo di Cristo e avranno il potere di
sciogliere la materia in sé come l‘acqua scioglie il sale. Coloro invece che non hanno
saputo fare della materia espressione di valori spirituali, coloro che si sono induriti
nella materia non saranno in grado di dissolverla. Essa sussisterà in loro, si
pietrificherà.
Il punto conclusivo dell‘evoluzione terrestre è un‘ascensione verso lo Spirito di
tutte le forme che hanno avuto la capacità di astralizzarsi, e la caduta in un globo
opaco di tutte quelle che al contrario non avranno saputo dissolvere la materia. Che
cosa conduce la materia a dissolversi? L‘energia portata dall‘amore di Cristo. Gli
esseri diventano capaci di spiritualizzarsi quando aprono la loro anima all‘amore. Più
questa energia suscitatrice di calore sarà forte nell‘anima, più la sua azione sulla
materia sarà intensa e radicale. L‘Amore divino chiamerà a sé gli esseri che grazie a
esso hanno dissolto la materia; l‘Ira divina, al contrario, farà cadere tutti coloro che
nella materia si sono irrigiditi, e non sono stati capaci di intendere qual era la loro
vera missione sulla terra.
MUSULMANI
IL DODICESIMO IMAM
Nell‘islam, come nel mazdeismo, non vi è una descrizione della fine dei tempi che
sia redatta come testo unico e riconosciuta da un‘autorità centrale; non c‘è in sostanza
qualcosa di simile a ciò che per la Chiesa e per i cristiani rappresenta l‘Apocalisse di
Giovanni. I bagliori apocalittici, grandiosi e lancinanti, che percorrono l‘Islam sono
diffusi e dispersi senza ordine in differenti opere, anche di carattere popolare, dove
distinguere tra l‘apocrifo e l‘autentico è sostanzialmente impossibile. I dati di fede si
mescolano ai colori e alle musiche delle leggende e del folklore; eppure, identificati
nella loro essenzialità, sono comuni, oltre che alle diverse sette, alle due maggiori
confessioni in cui i musulmani si dividono, cioè ai Sunniti, che riconoscono come
testo sacro anche la Sunna (appendice del Corano che contiene sentenze, norme
giuridiche ecc.) e agli Sciiti, scismatici che sin dalla metà del secolo VII rifiutarono
di riconoscere l‘autorità della Sunna. Tutti i musulmani, dunque, sono tenuti a
credere: primo, nella Resurrezione dei morti; secondo, nella venuta, alla vigilia della
fine dei tempi, di un Salvatore. Il
Corano è tutto attraversato dai temi dell‘apocalisse. E‘ noto che l‘ordine in cui
leggiamo oggi le Sure del Corano non è quello originario. Le Sure sono state disposte
in una sequenza che tiene conto soprattutto della loro lunghezza. Dunque alcune di
quelle brevi che leggiamo in coda al Corano dovettero al contrario essere composte
tra le prime. Il Profeta ha cominciato da dove Giovanni – sia esso Giovanni l‘apostolo
o Giovanni di Patmos – ha terminato. Perché la distruzione, la fine dei tempi, il
giudizio, compaiono in forma estremamente concisa ma forte, abbagliante, oscura,
poeticamente felice in una Sura come la CI, quella «dell‘Ora che percuote», che
appartiene al primissimo periodo, e dice:
Nel nome di Dio clemente e misericordioso!
L‘ora che percuote! Che cos‘è mai l‘ora che
percuote?
Chi ti farà capire cos‘è l‘ora che percuote?
Il giorno in cui gli uomini saranno dispersi come
farfalle,
e le montagne voleranno come fiocchi di lana
cardata,
allora colui le cui opere peseranno sulla bilancia avrà una vita piena di piaceri,
e colui le cui opere saranno leggere sulla bilancia
avrà per dimora l‘abisso.
E chi ti dirà cos‘è l‘abisso?
È fuoco che arde.
La Sura LXXV, detta «della Resurrezione», proclama la certezza della
Resurrezione, tanto certa per il Profeta che non è neppure necessario giurare su di
essa. Può l‘uomo credere che Dio non rimetterà insieme le sue ossa? Dio può
ricreare qualsiasi uomo, può riplasmarlo perfetto com‘era sino alla punta delle dita.
Ma l‘uomo vuol negare quello che è davanti ai suoi occhi, e chiede: quando verrà
dunque il giorno della Resurrezione? Quando la vista sarà abbagliata, è la risposta,
quando la luna scomparirà per un‘eclisse, e luna e sole saranno riuniti in un solo
corpo; allora l‘uomo griderà in cerca di un asilo. Ma non troverà riparo, quel giorno
l‘ultima roccaforte di quiete sarà presso il Signore. Verranno recitate all‘uomo le sue
azioni, quelle che ha compiuto nel passato e quelle che ha compiuto più
recentemente. Vi saranno quel giorno dei volti radiosi, fissi sul loro Signore, e altri
volti saranno cupi, penseranno alla grande calamità che li aspetta.
L‘ora arriva, si avvicina – continua la Sura con il ritmo insistente con cui un
cavallo batte gli zoccoli sul terreno – sempre più vicina, sempre più vicina. L‘uomo
crede invano di essere lasciato libero. Non si ricorda che è stato una goccia di sperma,
una goccia che si espandeva? Non si ricorda che poi fu un grumo di sangue, e che da
esso Dio lo plasmò? Da quella goccia di sperma, da quel grumo di sangue, Dio ha
formato sia l‘uomo sia la donna. E non sarà dunque capace di resuscitare i morti?
La Sura LXIX, detta «dell‘Inevitabile», comincia proprio con questa domanda: che
cosa è il giorno inevitabile? I Tamud e gli Ad, popoli leggendari vissuti subito dopo i
tempi di Noè, hanno considerato una menzogna l‘Ora che percuote, e ora i Tamud
sono stati distrutti da un grido terribile partito dal cielo, gli Ad da un uragano che
ruggisce impetuoso;
Dio lo ha fatto soffiare contro di loro per sette notti e otto giorni successivi, e si
sono visti uomini riversi a terra come tronchi di palma svuotati, nessuno si è salvato.
Al primo suono di una tromba, la terra e le montagne sollevate in aria saranno di
colpo ridotte a polvere, l‘Ora che percuote apparirà inevitabilmente, i cieli si
fonderanno e cadranno in pezzi, gli angeli si piazzeranno da ciascuna parte del cielo e
otto tra loro porteranno quel giorno il trono del Signore.
Nessuno potrà sottrarsi, nessuno e niente nascondersi. A qualcuno verrà posto un
libro nella destra, e questi gioirà di una vita piena di piaceri in un giardino in cui i
frutti saranno sempre maturi e facili da cogliere. A qualcun altro il libro verrà dato
nella mano sinistra, e questi griderà e si lamenterà: oh, se non avesse mai ricevuto
quel libro, se la morte troncasse la sua esistenza; a che cosa servono ormai le sue
ricchezze? La sua potenza è svanita. Dio ordinerà ai guardiani dell‘Inferno di
prenderlo e di legarlo con una catena di settanta cubiti, e poi di gettarlo al fuoco,
perché non ha creduto a Dio grande, perché non era ansioso di nutrire i poveri, e ora
non ha amici né altro cibo che il pus che cola dai corpi dei peccatori. Parola
dell‘apostolo onorato – prosegue la Sura – e non di un poeta né di un indovino.
Quanto sono pochi quelli che ci riflettono! Questa è la rivelazione del Signore
dell‘Universo.
La Sura LVI, detta «dell‘Ora che cade» o «dell‘Avvenimento» ci parla con più
abbondanza di particolari del Giorno del Giudizio, «avvenimento» per eccellenza
perché chiude la serie degli avvenimenti della realtà terrena e apre le porte di
un‘eternità dove niente può più accadere se non il manifestarsi splendente e
immutabile della gloria di Dio. «Avvenimento» per eccellenza perché è il momento
decisivo non solo della storia del mondo, ma anche di quella privata di ciascun
fedele, che vedrà in quel giorno compiersi il suo destino definitivo, quello contro il
quale non esiste scampo, decretato una volta per tutte dalla pesatura e dalla
disposizione divina. Quando giungerà l‘Ora che cade, nessuno potrà negare il suo
arrivo. Essa rovinerà e innalzerà. La terra sarà scossa da un violento terremoto, le
montagne saranno fatte a pezzi, voleranno e si trasformeranno in polvere che coprirà
ogni cosa.
Gli uomini saranno divisi in tre classi: parte saranno disposti a destra, parte a
sinistra, e a sé staranno i Precursori, quelli che sono stati i primi nella fede e che
saranno i primi nel cielo, i più vicini a Dio. Essi abiteranno in un giardino di delizie,
si riposeranno su sedie adorne d‘oro e di pietre preziose, uno di fronte all‘altro, serviti
da ragazzi eternamente giovani che porgeranno loro calici riempiti di vino squisito,
che non farà salire loro i fumi alla testa e non oscurerà la loro ragione, avranno i frutti
che desiderano e le carni degli uccelli più rari, e vicino a loro saranno le hurì dai begli
occhi neri, simili a perle nel loro guscio. Quella sarà la ricompensa delle loro opere, e
non intenderanno né discorsi frivoli né parole criminali, ma soltanto la parola: Pace!
Pace!
Gli uomini disposti a destra soggiorneranno tra piante di loto senza spine, tra
banani carichi di frutti dalla cima sino ai rami più bassi, avranno ampi tratti d‘ombra
per ristorarsi, acqua che scorre, altri alberi da frutto in abbondanza cui nessuno
impedirà di avvicinarsi, e si riposeranno su letti alti. Dio ha creato le vergini del
Paradiso attraverso una creazione a parte, ha conservato la loro verginità e le ha
destinate agli uomini che saranno disposti a destra. Degli uomini disposti a sinistra,
invece, come sarà diverso il destino! Eccoli in mezzo a venti pestilenziali e a getti di
acqua bollente, nell‘oscurità di una caligine nera, né fresca né dolce. Hanno passato
sulla terra una vita piena di agi, hanno perseverato in un odio implacabile e dicevano:
quando saremo morti, nient‘altro che un ammasso di ossa e di polvere, saremo noi
resuscitati come i nostri avi? Questi uomini che hanno dubitato, trattato come
menzogna i segni e le parole di Dio, mangeranno in eterno il frutto dello Zakum, se
ne riempiranno il ventre e berranno acqua bollente come un cammello che sta per
morire di sete. Questa sarà la loro festa il Giorno del Giudizio.
La Sura prosegue con un invito a considerare l‘immensa potenza di Dio. Che gli
uomini guardino il proprio sperma, attraverso il quale generano: sono loro che lo
creano, o è Dio? E il grano che seminano: chi lo spinge fuori dalla terra e lo fa
germogliare? L‘acqua che bevono: chi la fa discendere dalle nuvole? E il fuoco che
fanno sprizzare da due rametti strofinandoli, chi ha creato il legno dell‘albero, loro o
Dio? Il destino degli uomini è interamente nelle mani di Dio. Il suo Giudizio è la
verità infallibile. E gli uomini non possono che celebrare il nome dell‘Altissimo.
Anche la Sura XVIII, detta «della Caverna», contiene elementi apocalittici, ma
soltanto nella sua parte conclusiva, e in una forma quasi fiabesca. Il Profeta viene
interrogato a proposito di Dhu ‗l-Qarnayn, e risponde raccontando una storia. Dhu ‗1-
Qarnayn, il Possessore di due Corni: è così che gli Arabi chiamano Alessandro
Magno, mai nominato se non in questo modo nel Corano. Demone malvagio per gli
zoroastriani, da quando distrusse i templi del fuoco e perseguitò i loro sacerdoti,
Alessandro diventa per gli Arabi una manifestazione vivente, ma temibile e oscura,
della infinita potenza di Dio. Dio rese possibile le immense conquiste di Alessandro e
gli donò i mezzi per compiere tutto ciò che desiderava e per seguire la sua strada. Egli
giunse un giorno al paese del sole calante, e vide il sole addormentarsi in una fontana
fangosa. Lì abitava un intero popolo.
E Dio disse: «O Dhu ‗l-Qarnayn, tu puoi, io te lo concedo, o punire questo popolo
o trattarlo con generosità».
«Puniremo tutti gli empi», rispose lui, «li consegneremo a Dio, che farà loro subire
un supplizio orribile. Ma chiunque avrà creduto nel bene e l‘avrà praticato otterrà una
bella ricompensa, e non gli daremo ordini, se non i più facili e gradevoli da eseguire.»
Allora Dhu ‗l-Qarnayn riprese la sua strada. Sinché arrivò al paese dove il sole
sorge, e dove vive un popolo a cui Dio non ha dato niente per mettersi al riparo
dall‘ardore dei suoi raggi. Lui continuò così la sua marcia. Arrivò a un paese tra due
dighe ai piedi delle quali abitava una gente che a malapena sapeva usare il
linguaggio. Questo popolo riuscì però a farsi capire da lui: «O Dhu ‗l-Qarnayn,
Yagug e Magug commettono continue razzie sulla nostra terra. Possiamo chiederti,
dietro una ricompensa, di alzare un muro tra noi e loro?».
«La potenza che mi accorda il Signore è già sufficiente ricompensa per me»,
rispose. «Aiutatemi con zelo, e io alzerò una barriera tra voi e loro.»
Prese grandi blocchi di ferro e con essi riempì lo spazio tra i due versanti delle
montagne. Allora ordinò ai fabbri di soffiare sul fuoco sinché il ferro diventò rosso
come il fuoco stesso. Poi fece portare del bronzo fuso da gettarvi sopra. Così Yagug e
Magug, i Gog e Magog dell‘Apocalisse che qui ricompaiono, non poterono mai più
scalare né forare la muraglia e razziare quel popolo. Dhu ‗l-Qarnayn sa che questo
effetto, la durezza resistentissima della muraglia, è un segno della misericordia
divina.
«Quando arriverà il giorno», aggiunse, «il Signore la ridurrà in polvere, perché le
sue promesse sono infallibili.»
Un giorno Dio lascerà che i popoli si gettino l‘uno sull‘altro come onde che si
rincorrono. Suonerà la tromba, e Dio radunerà tutti gli uomini, e gli infedeli saranno
consegnati al fuoco dell‘inferno, come coloro che ebbero gli occhi coperti di veli per
non vedere gli avvertimenti di Dio e non ascoltarono le sue parole. Ma quelli che
avranno creduto e praticato il bene avranno per dimora i giardini del Paradiso,
abiteranno lì per sempre, e non desidereranno più alcun mutamento. Che davvero il
Paradiso, termine che deriva dal persiano Firdaus, e che altrove nel Corano è indicato
semplicemente come Giardino, sia questo? Non desiderare più nessun mutamento,
non essere più agitati da nessuna ansia di proseguire – come lo fu Alessandro il
Macedone, Dhu ‗l-Qarnayn, il Possessore di due Corni, che percorse tutte le strade
della terra – e sentire la gioia stabile, inamovibile della vista, della presenza di Dio?
Se ora chiudiamo il nostro Corano, ci imbattiamo in tradizioni e leggende che non
sono obbligatoriamente oggetto di fede per i musulmani, ma che sono così colorate e
immaginose che vale la pena di riferirle. Il Giorno del Giudizio raccontato
dall‘angelo Gabriele a Muhammad il Profeta nel Libro della Scala ha ben strani toni,
di una leggerezza fiabesca e quasi mondana. Gabriele annuncia al Profeta che quel
giorno tutti gli uomini compariranno nudi e tutte le donne nude come sono venute al
mondo davanti a Dio, e il Profeta di rimando chiede se non avranno vergogna, a
starsene lì tutti insieme, in così gran massa, maschi e femmine senza neppure un velo
addosso, e senza neppure i sandali. L‘angelo lo rassicura, avranno troppo da pensare
ai propri peccati per guardare altro che se stessi, e a parte questo staranno in attesa
angosciosa del verdetto di Dio, e suderanno, suderanno tanto, certi sino alle anche,
certi sino alle ginocchia, altri sino ai piedi. Dio prende le sembianze e l‘atteggiamento
di un buon giudice patriarcale: fa chiamare ogni fedele per nome, fa leggere l‘elenco
delle sue buone azioni e di quelle cattive, e il verdetto è pronunciato in base
all‘equilibrio che si stabilisce. Inoltre, con l‘insieme delle buone azioni compiute, uno
può risarcire coloro cui ne ha fatto subire di malvagie.
Un‘altra leggenda, tramandata in ambiente sciita, riguarda il Dajjàl, l‘Anticristo e
la sua venuta alla fine dei tempi. Tre anni prima dell‘arrivo del Dajjàl, la siccità
colpirà la terra. Il primo anno scenderà un terzo della pioggia dovuta; e la terra non
produrrà che i due terzi del raccolto; così i campi di grano e di orzo, così le vigne,
così i frutteti con gli alberi di banano e di fichi, così le grandi palme da datteri. Non è
proprio carestia; ma se ne sentono le avvisaglie sui mercati, dove i prezzi crescono, e
nelle case, dove le porzioni quotidiane diminuiscono. Il secondo anno, due terzi della
pioggia non scende dal cielo; nuvole se ne vedono poche, le poche sono invocate, che
si fermino, che si aprano, che non se ne volino verso un orizzonte di foschia e
polvere. Allora i raccolti sono ancora più magri, in molti campi si vedono solo
stoppie e tra le stoppie il rosseggiare dei papaveri, molte vigne bruciano, molti alberi
seccano prima di dare un frutto. Infine il terzo anno non scenderà più neppure una
goccia d‘acqua. Le fonti e i pozzi si prosciugheranno, regneranno dappertutto la sete
e la fame, scoppieranno epidemie, nella terra si apriranno venature e voleranno
nuvole di polvere, sui greti secchi dei fiumi moriranno le rane e i pesci, soltanto
piante come i cactus e le euforbie insieme a certe gigantesche palme centenarie
rimarranno verdi, tutto il resto prenderà il colore del terriccio e della ruggine.
Il Dajjàl apparirà prima del Salvatore, il Dodicesimo Imam, detto anche Qa‘im,
Colui che si erge, esattamente diciotto giorni prima. Nascerà a Isfahan, non avrà
occhio destro; il sinistro sarà spostato verso il centro della fronte, e assomiglierà a
una stella rossa. Sotto il suo occhio sarà iscritta una parola: kafir, miscredente.
Monterà un asino dal pelame rosso vivo, che, insolitamente, si muoverà senza
impuntarsi e a velocità straordinaria. Si farà subito un seguito, che sarà composto in
gran parte da bastardi, da nemici dell‘Islam, da ebrei e da donne arabe. Il Dajjàl,
l‘Anticristo, afferma nelle sue peregrinazioni di essere il Signore degli uomini e il
Vicario di Dio sulla terra. Per tre giorni sta in meditazione sulla vetta di una
montagna, poi ne discende in groppa al suo asino dal pelame rosso vivo, ha in mano
un bastone d‘argento sin troppo lungo con il quale opera magie e incantesimi: da ogni
pelo rosso del suo asino esce una musica melodiosa e incantatrice. Muove il suo
lunghissimo bastone d‘argento ed ecco apparire alla sua destra una montagna simile a
un giardino pieno di ruscelli d‘acqua cristallina che scorrono, di farfalle, di libellule,
di alberi da frutto deliziosi e di fiori dai colori simili a quelli dell‘ibisco e dell‘aloe.
Lo muove ancora, ed ecco alla sua sinistra un‘altra montagna piena di serpenti che
strisciano sulla vetta, di scorpioni in agguato, di altri insetti armati di pungiglioni e
colore della terra, una moltitudine brulicante e mostruosa di insetti su un terreno arido
e bianchiccio, tutti pronti ad assalire e torturare l‘uomo.
Dajjàl proclamerà di essere il Dio unico, e che coloro che gli ubbidiranno
entreranno nel suo paradiso, nella montagna di delizie apparsa alla sua destra, mentre
coloro che si metteranno contro di lui finiranno dentro il suo inferno, nella montagna
piena di insetti malvagi. Dopo la lunga carestia e i lunghi tormenti della sete e della
fame, tanti lo seguono non perché abbiano fede in lui, ma sedotti dalle sue promesse,
dalla vista di quella montagna magica piena di ogni acqua e di ogni frutto. Altri si
lasceranno convincere da nuovi suoi incantesimi, operati con quel bastone d‘argento
sin troppo lungo. Dajjàl percorre il mondo intero in quaranta giorni – la sua
cavalcatura glielo consente – da Baghdad a Istanbul, da Atene a Roma, da
Alessandria d‘Egitto a Palermo, da Fès a Siviglia. E ormai buona parte del mondo lo
acclama e gli obbedisce. Soltanto tre città gli saranno interdette, e le loro porte
resteranno chiuse: Medina, La Mecca e Gerusalemme.
Su Medina, Dajjàl marcerà con le sue armate, ma allora saranno legioni di angeli
ad attaccarlo e a fermarlo. L‘ultimo tentativo sarà rivolto alla Mecca; Dajjàl,
l‘Anticristo, proverà a prendere la città con l‘intenzione di distruggere la Ka‘ba, la
Pietra Nera. Allora sarà Cristo stesso a scendere dal cielo all‘ora della preghiera e a
mettersi al fianco del Qa‘im. Insieme combatteranno la battaglia decisiva; secondo
una tradizione Gesù uccide il Dajjàl con un‘arma che tiene nelle mani; quando Gesù
lo attacca, il mostro fugge ma per ordine di Dio sarà la stessa terra sotto i suoi piedi
ad arrestarlo, in modo che non possa più fare un passo e Gesù lo raggiunga per
finirlo. Secondo altre tradizioni è il Qa‘im medesimo a uccidere il Dajjàl, le cui
armate sono ormai in rotta.
Chi è il Qa‘im, il Dodicesimo Imam di cui parla l‘escatologia sciita, e che
combatterà insieme ai suoi compagni, tra cui Cristo, la battaglia finale contro il
Dajjàl? L‘Undicesimo Imam, Hasan Askarì, morì prigioniero della polizia abbaside, e
lo stesso giorno suo figlio, chiamato Muhammad Mahdì, a cinque anni o poco più,
scomparve. Era l‘anno 260 dell‘Egira, 873 dell‘era cristiana. Da allora è vissuto
nascosto, e tornerà quando il mondo sarà pieno di tirannia e corruzione, e sarà
apparso l‘Anticristo. La cosiddetta «Occultazione Minore» durò settanta anni: il
piccolo Mahdì, da un luogo introvabile e al sicuro dalla polizia dei califfi, scelse
quattro nà’ib o rappresentanti, attraverso i quali gli sciiti potevano comunicare con
lui. All‘ultimo di questi suoi rappresentanti, Ali Samarri, ordinò di non scegliere
nessun successore, perché ormai era venuto il tempo della «Grande Occultazione». E
da quel momento inizia la storia segreta del Dodicesimo Imam, che domina la
coscienza sciita da circa dieci secoli. L‘Imam nascosto non sarà visibile se non nella
Parusia, nella sua comparsa alla fine dei tempi, o altrimenti nei sogni e nelle visioni
dei mistici. Il Dodicesimo Imam dimora in quello che i filosofi islamici chiamano
‘àlam al-mithàl, un mondo reale intermedio fra quello intelligibile degli esseri di pura
Luce e quello sensibile, che Henry Corbin traduce con mundus imaginalis, oppure
nella città celeste di Hurqalyà, la Terra di Luce dei Manichei. Il suo regno prelude
alla Grande Resurrezione (Qiyàmàt al-Qiyàmàt). Come il Saoshyant degli
zoroastriani, come il Cristo dei cristiani, il Qa‘im salverà il mondo vincendo la
battaglia finale contro le forze del male, e non porterà un nuovo libro e una nuova
Legge, ma rivelerà il senso nascosto di tutte le rivelazioni.
Che le radici dell‘escatologia sciita risiedano in quella zoroastriana sembra evidente.
Del resto l‘islamismo sciita trova la sua terra in un Iran dove lo zoroastrismo aveva
agito per secoli in profondità. L‘idea del ristabilimento dell‘ordine e della giustizia
per opera di un Salvatore prima della fine del mondo vi era familiare. Nel mazdeismo
compare la figura di Saoshyant che discende dalla stessa stirpe di Zoroastro e metterà
in rotta l‘armata malefica di Duròdj, diavolo della furberia, instaurando il regno della
vita celeste ed eterna.
Così il Mahdì, uscito dalla stessa famiglia del Profeta, si manifesterà alla fine dei
tempi, farà sparire il male del mondo e ristabilirà ovunque pace e felicità. Secondo
una tradizione attribuita a Muhammad Bàqir, il Quinto Imam sciita, il Qa‘im uscito
dalla comunità musulmana sarà Signore del mondo e regnerà per 309 anni.
Muhammad ibn Bàbuya e lo sceicco Tusi, citando una tradizione risalente ad ‗Ali ar-
Radà, l‘Ottavo Imam sciita, raccontano che al momento dell‘apparizione del Qa‘im
tre voci si faranno sentire in cielo. La prima: «Che la maledizione di Dio cada sui
tiranni». La seconda: «Un avvenimento deve accadere, si avvicina». La terza, che
risuonerà davanti al disco del sole: «Ecco l‘emiro dei credenti atteso per annientare i
tiranni».
Secondo alcune tradizioni, il Qa‘im apparirà uno dei giorni in cui l‘Achùrà (il
decimo giorno del mese lunare Muharram) coinciderà con un sabato. Si avvicinerà
alla Pietra Nera della Ka‘ba e il primo a porgergli la mano sarà Djibra‘il, l‘angelo
Gabriele. Sarà Gabriele, con un piede sulla Ka‘ba e un altro su Gerusalemme, a
gridare: «La vendetta celeste si avvicina». E proclamerà il nome e la genealogia del
Qa‘im, in modo che chi dorme si svegli, chi è seduto si alzi e chi è in piedi si segga.
Secondo altre versioni ancora, il Qa‘im appare all‘alba del ventitreesimo giorno del
Ramadan, sempre alla Mecca, e una voce celeste grida: «La verità è con Alì e gli
sciiti», mentre l‘araldo di Satana fa risuonare parole ingannevoli e perniciose per
scuotere la fede dei credenti.
Oltre alla voce risuonante dal cielo, altri quattro segni devono precedere
l‘apparizione del Qa‘im: un‘insurrezione a Gerusalemme, con le armate insorte
inghiottite dalla sabbia; l‘uccisione davanti alla Ka‘ba di un‘«anima pura», cioè di un
discendente di Husayn, il Terzo Imam; un‘insurrezione nello Yemen; la presenza
miracolosa di 313 persone pie venute da differenti città del mondo per mettersi al
servizio del Qa‘im stesso. Il Qa‘im distribuirà 313 gladi celesti e su ciascuno di essi
saranno scritti nomi e titoli e genealogia di chi li riceverà. Tra essi, ci saranno quattro
profeti, Edris, Khid, Ilyàs (Elia) e ‗Isà (Gesù), dei discendenti di Hasan e di Husayn,
figli di ‗Alì, e poi uomini devoti arrivati dalla Mecca, Gerusalemme, la Siria, lo
Yemen, Bassora, Qom, Isfahan, Kerman, Shiraz, e anche dall‘Etiopia e dall‘India.
Sono molti i segni che annunceranno l‘avvento del Dodicesimo Imam, e
Muhammad Mokri li elenca scrupolosamente. Innanzi tutto si verificherà un‘eclisse
di sole nel mezzo del Ramadan e un‘eclisse di luna alla fine del mese, eclissi che si
manifesteranno contro le previsioni degli astronomi e contro le leggi che governano
gli astri. Poi alcuni popoli saranno inghiottiti dal deserto e scompariranno sotto la
sabbia. Il sole, un giorno, si leverà da occidente. Apparirà una cometa a est, che
brillerà come la luna e arcuerà la sua coda; una luce di porpora si spanderà nel cielo e
darà l‘illusione di un grande fuoco ardente sempre a est, per tre o sette giorni
successivi. Altri segni: la messa a morte del re d‘Egitto da parte degli Egiziani;
l‘alzarsi di tre vessilli del Califfato in Siria, l‘entrata delle bandiere arabe in Egitto,
altre bandiere arabe che si dirigeranno verso il Khorasan, in Iran orientale;
l‘apparizione di sessanta impostori che pretenderanno di essere ascoltati come
profeti; l‘alzarsi di dodici vessilli dei membri della famiglia di Abu-Tàlib; il soffio di
un vento nero all‘alba e un terremoto che annienteranno la città di Baghdad. L‘Iraq
sarà invaso dalla paura, l‘assassinio, la peste, la carestia e la miseria. Il flagello delle
cavallette gialle colpirà la terra. Una parte degli Iraniani combatterà contro l‘altra con
grande spargimento di sangue. Coloro che hanno deviato dalla vera religione
cominceranno a trasformarsi in scimmie e maiali.
Quando tutti questi segni si saranno manifestati, il Qa‘im uscirà dal luogo in cui
vive nascosto da tanti secoli; la «Grande Occultazione» finirà. Sarà vestito di un abito
bianco e porterà due anelli, uno appartenente a Hasan, uno a Husayn, i due figli di
‗Ali. Sul primo anello saranno iscritte queste parole: «Mi affido alla saggezza». Sul
secondo: «Mi rifugio presso di te, o rifugio di coloro che ti temono». Apparirà di
giovedì e il venerdì, all‘ora della preghiera, si leverà, inizierà la sua battaglia contro il
mondo corrotto. Porterà Zulfa-qàr, il gladio di Ali, la corazza di Dja‘far-Tayyàr, il
fratello di Ali ibn Abu-Tàlib, cugino del Profeta, e nella mano terrà lo scettro del
Profeta stesso. Il suo araldo annuncerà ai 313 seguaci e fedeli che non c‘è bisogno di
portare né cibo né acqua con sé. Sul cammello che accompagna il Qa‘im sarà alzata
la Pietra di Mosè, e a ogni sosta da questa pietra zampillerà purissima acqua di fonte:
frutti e altro nutrimento ne scaturiranno per chi ha fame. Con il bastone di Mosè,
compirà miracoli e alla fine affermerà il suo potere sul mondo facendo bruciare gli
idoli sinché tutti i popoli si inchineranno solo davanti a Dio, l‘Essere Necessario.
Nella tradizione sciita, si racconta che un giorno ad Ali stesso, il successore del
Profeta, fu chiesto di svelare in quale momento apparirà il Dajjàl, l‘Anticristo. E si
dice che Ali rispose fornendo soltanto alcuni segni, occultandone altri. Quelli che lui
svelò, li conosciamo: e Muhammad Mokri li elenca così: «Verranno abbandonate con
negligenza le preghiere rituali. Sparirà la lealtà e si propagherà la furberia. Saranno
considerate lecite le menzogne, le false accuse e la venalità. Saranno costruiti
monumenti superbi e lussuosi. Si rinuncerà alla fede a profitto degli affari del mondo.
Si romperanno i legami familiari. Ciascun uomo sarà sottomesso ai suoi desideri e ai
suoi capricci. Si cercheranno le donne soltanto per il desiderio che suscitano. Gli
affari importanti verranno affidati agli sciocchi. Si verserà sangue con facilità. La
scienza verrà svalutata. Ci sarà un‘epoca in cui i popoli glorificheranno la tirannia e
gli emiri e i visir diventeranno tiranni. I sapienti tradiranno. I poveri stessi saranno
corrotti. Circoleranno false testimonianze. I minareti delle moschee porteranno delle
feritoie. Le copie del Corano saranno coperte di ornamenti e decorazioni floreali. Il
peccato e il tormento si espanderanno. I cuori si allontaneranno gli uni dagli altri e
ogni solidarietà scomparirà. I patti saranno rotti e le promesse non mantenute. Le
donne per avidità si assoceranno ai commerci dei propri sposi. Si leveranno alti i gridi
dei fornicatori. I più grandi affari e la direzione del popolo saranno nelle mani dei più
vili. I detentori del commercio e dei grandi capitali ispireranno paura. La menzogna
sarà moneta corrente e gli uomini di fede vivranno nel timore. Le donne domineranno
gli uomini e gli uomini cercheranno di assomigliare alle donne. Gli uomini
desidereranno gli uomini e le donne le donne. Le donne andranno a cavallo,
circoleranno dappertutto e diranno la loro fuor di proposito. Si pronunceranno
verdetti senza fondarsi su una vera conoscenza. Il mondo di quaggiù sarà privilegiato
in rapporto all‘Aldilà. Gli esseri umani somiglieranno ai lupi e si vestiranno di
pelliccia, i loro cuori puzzeranno più che le carogne e saranno più amari dell‘aloe».
Nessuno conoscerà mai quali segni Ali, il successore del Profeta, abbia occultato.
Quelli che ha consegnato alla tradizione sono una descrizione di quel parossismo del
male, di quella dissoluzione etica che, in tutte le apocalissi, precede la fine dei tempi.
Dajjàl incarnerà in sé tutto questo male, come il falso profeta, nell‘Apocalisse di
Giovanni, l‘agnello che parla nello stesso modo del gran dragone. Nelle parole di Ali,
venerato dagli sciiti e all‘origine della loro visione dominata dal senso del dolore e
del martirio, la corruzione dei tempi ultimi ha caratteri che la rendono riconoscibile,
familiare a noi uomini di questa fine Millennio: è addirittura come se tutti o quasi i
suoi segni si fossero già manifestati, e mancasse soltanto l‘arrivo dell‘Anticristo, il
Dajjàl sul suo asino dal pelame rosso vivo: per percorrere in quaranta giorni il mondo
e soggiogare con i suoi inganni i popoli che il Mahdi, il Dodicesimo Imam, salverà,
assistito da Gesù, dai profeti, e da altri uomini giusti capaci di lottare contro le forze
delle tenebre e del male.
EPILOGO
RINGRAZIAMENTI
Tra gli amici che mi hanno fornito prezioso materiale bibliografico, ringrazio
Laura Tortoni, poetessa e traduttrice di Berkeley, direttrice dell'esperia Presa, e il
professor Massimo Raggiami dell‘Università di Charleston, studioso di Onofria e
inventore di un Festival italo-americano imperniato sul mito.
Devo un ringraziamento ad altri amici che mi hanno offerto spunti e suggerimenti,
a Ma Ambito Candire, fondatrice e animatrice di «Il mondo delle idee», che ama la
New Age, a Christian Boutique, poeta ed editore, l‘uomo più spietatamente lucido ed
ebbro che io conosca, che credo la detesti. E poi al grande poeta libanese Sala Stette,
con cui ho parlato della componente apocalittica del Corano una mattina nel giardino
di un albergo ai confini delle Viennese.
La storia tragica e mitica di Alfonsina Storni mi è stata raccontata da Paco
Libanese e Osé Augustina Gotti- solo.
A Silvia Ronche sono debitore nel tempo di tanti scambi di idee su temi che
ricorrono in questo libro.
Devo ringraziare Siamese Pullman, che mi ha aperto molte vie di comprensione del
mito. E, nel cielo dove è
sicuramente ad ascoltare più da vicino il grande canto del cosmo, Aposepala
Campiello.
Infine ringrazio due amici liguri: Sto Ruscelli, allievo neo pagano di Sofio, un
filosofo e veggente di Porto Maurizio, e depositario del suo insegnamento orale,
anche sui temi dell‘apocalisse; ed Elvio Martino, mio compagno di banco al Liceo De
Amicis di Conegliano, che è stato a lungo in ritiro nel convento dei Padri Carmelitani
Scalzi di Genova e, esprimendomi subito le sue veementi proteste per aver
considerato «mito» il racconto apocalittico di Giovanni, mi ha costretto a spiegare a
me stesso, e ai credenti come lui, naturalmente, che non c‘è nessuna volontà
denigratoria nella cosa.