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OSCAR MEO

DUE SVILUPPI RECENTI DELLA TEORIA DELL’IMMAGINE:


IL PICTORIAL TURN E L’IKONISCHE WENDE

Da alcuni anni suscitano crescente interesse fra gli studiosi che operano nell’ambito dei
visual studies (storici dell’arte e della cultura, estetologi, antropologi) due proposte teoriche,
elaborate rispettivamente dagli storici dell’arte William J. Thomas Mitchell (che è anche un
anglista) e Gottfried Boehm: il pictorial turn e l’ikonische Wende (o iconic turn). Come risulta
anche dalla loro diversa denominazione, le due “svolte” non sono affatto sovrapponibili. Boehm,
che è di formazione ermeneutica, separa rigidamente le due sfere della produzione linguistica e di
quella immaginale (Boehm 2007, 31). Per contro, fondandosi su un robusto, ampio e variegato
supporto filosofico, Mitchell si interroga sui difficili rapporti fra linguaggio verbale e sfera
immaginale, cercando di elaborare una mediazione; né potrebbe essere diversamente, considerato
che egli riassume in sé la doppia competenza dello studioso di letteratura e di arti visive.
Per cercare di comprendere il senso della “svolta” di Mitchell, è utile prendere le mosse
dalla sua distinzione fra picture e image (1994, 4-5; 2005, XIII e 84-88)1. Per picture si intende un
assemblaggio di elementi virtuali, materiali e simbolici. Pictures in senso stretto sono, per es., un
quadro, una fotografia, un’illustrazione. In un senso più ampio, però, i pictures sorgono anche in
altri media: nella fiction cinematografica, nella televisione, nella collocazione di una scultura in un
determinato contesto spaziale, nelle caricature o nello stereotipo di un comportamento umano
(imitazioni e simili), nella «coscienza incarnata» (il riferimento è ai cosiddetti pictures in the mind,
che si formano quando immaginiamo o ricordiamo) e addirittura in una proposizione o in un testo in
cui venga proiettato uno «stato di cose», come già sosteneva il primo Wittgenstein. Il concetto di
picture è così strettamente legato a quelli di supporto materiale e di collocazione (nello spazio, nel
corpo, ecc). Per contro, l’image è qualcosa di più astratto del picture: è la presenza virtuale (o in
absentia) del referente, che compare solo in un medium, ma lo trascende e può essere trasferita da
un medium all’altro. Rifacendosi a Nelson Goodman (che ha giocato un ruolo molto importante
nell’elaborazione delle sue proposte teoriche), Mitchell recupera la distinzione type-token e
identifica l’image con la classe dei pictures, ossia di tutte quelle rappresentazioni che denotano un
unico referente e sono legate fra loro da una «somiglianza di famiglia» (per es. diversi ritratti di un

1 Le premesse della distinzione sono poste in Mitchell 1987, cap. 1.


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singolo soggetto). Questa interrelazione e il rifiuto della sostanzializzazione dell’image rinviano


non solo al nominalismo di Goodman e al secondo Wittgenstein, ma anche – sia pure indirettamente
– all’individuazione della somiglianza (o similitudine) come caratteristica fondamentale dei segni
iconici in Peirce.
Secondo Mitchell, i pictures, che ci circondano da ogni parte, sono sempre stati con noi e
non è possibile andare al di là di essi, eluderli, per instaurare una relazione più autentica con quello
che i filosofi chiamano l’“Essere”, con il mondo, con il reale. Dunque la nostra relazione con il
mondo passa sempre attraverso un medium immaginale. In questo senso, come diceva Goodman, le
immagini sono «modi di fare il mondo» (ways of worldmaking) e non di rispecchiarlo
passivamente. Pertanto l’atteggiamento del pictorial turn è radicalmente antiplatonico e iconofilo.
Al tempo stesso, Mitchell prende le distanze dalle conclusioni che Heidegger trae dall’esame
dell’epoca moderna, in cui il mondo sarebbe concepito e compreso come immagine (Mitchell 2005,
XIV): nella rappresentazione (Vorstellung, ossia lett. nel “porre innanzi a sé” l’oggetto), il soggetto
cartesiano rapporterebbe a sé il mondo come separato da sé. Ma, se è vero che noi non possiamo
fare i conti con il mondo se non attraverso il medium immaginale, la critica mossa da Heidegger
all’epoca del Weltbild risulta profondamente ingiusta nei confronti dell’aspetto rappresentazionale
intrinseco al nostro modo di “essere-nel-mondo”. Di qui, per Mitchell, l’esigenza di studiare la
“vita” delle immagini nella storia e nel presente e il suo forte coinvolgimento nella
contemporaneità, che si traduce in prese di posizione molto nette nell’ambito della “critica
militante” e sul piano politico-sociale. Significativamente, con una concessione all’espediente
retorico-letterario della paronomasia, un suo importante libro, What Do Pictures Want?, è
sottotitolato: The Lives and Loves of Images. Sostenere che le immagini “vivono” (e a volte ci
amano, e sono da noi amate) significa anche dire che, circolando pubblicamente, parlano, ci
comunicano qualcosa, ci rivolgono un appello o un comando. Per comprenderlo, dobbiamo però
esercitare una certa abilità ermeneutica, perché il messaggio che ci inviano è per lo più criptico,
ellittico, simbolico. Quale richiesta ci rivolgono dunque le immagini? E come rispondiamo alle loro
sollecitazioni?
Per farci intendere cosa accade nel nostro rapporto con le immagini, Mitchell (2005, 217-
221) prende ad esempio una scena di Videodrome, un film girato nel 1983 da David Cronenberg, in
cui ci vengono messi innanzi gli spettri peggiori del post-human e dell’alienazione disumanizzante
che lo caratterizza. La realtà in cui il protagonista, Max Wrenn, vive è una specie di allucinazione
video. Dal punto di vista diegetico, si tratta di un espediente drammaturgico (e anche pittorico) ben
noto, quello della fiction nella fiction o dell’annidamento di un medium in un altro medium, che –
suggerendo l’esistenza di una riflessione sull’immagine all’interno dell’immagine – Mitchell
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chiama metapicture (Mitchell 1994, 35-82)2: rispetto alla realtà in cui vivono gli spettatori, quella
del film è illusione e quella della TV nel film è illusione di illusione, e dunque – per dirla con
Platone – lontana tre gradi dalla verità. Sostituendo la TV alla realtà, la gerarchia platonica si
rovescia: la TV ha un surplus di verità ontologica, ed è ora la nostra realtà ad essere illusione di
un’illusione. Significativamente, uno dei personaggi, il dott. O’Blivion, una sorta di telepredicatore
che è l’avatar filmico di McLuhan e ne riprende le tesi sul medium televisivo, proclama che la vera
battaglia mentale sarà combattuta nell’«arena video» (il Videodrome del titolo): «la vera realtà è la
televisione e la realtà è meno che televisione». Nella fiction filmica Max fa alla fine esperienza
corporea dell’immersione nella fiction TV. Sullo schermo del televisore compare una sorta di boia
incappucciato che strangola il dott. O’Blivion. dopo che questi ha proferito il nuovo verbo secondo
cui la TV è realtà. Alla domanda di Max «che cosa c’è dietro questo? cosa vogliono?», l’assassino si
toglie il cappuccio, rivelandosi come l’amante di Max, Nicki Brand. Mentre ella dice «Voglio te [I
want you], Max», «vieni da Nicki, vieni subito, non farti aspettare», le sue labbra si ingrandiscono
fino a occupare interamente lo schermo. A questo punto il tubo catodico si gonfia, fuoriesce dal
televisore e lo schermo si anima, pulsa, palpita di desiderio, le vene si dilatano sotto la pelle. Alla
fine Max obbedisce alla richiesta e inserisce la sua testa nella bocca mostruosa di Nicki. Mitchell
interpreta questa scena come un paradosso visivo che fa riflettere sul tema del potere delle
immagini, della cosiddetta “iconocrazia”, coincidente con una nuova forma di “(auto)idolatria”.
Provocatoriamente, Mitchell (2005, XVI) afferma che la risposta alla domanda “cosa
vogliono le immagini?” è: vogliono essere baciate, e noi vogliamo baciarle. Egli trova un supporto
per la sua tesi paradossale nei miti classici legati al potere delle immagini (la Medusa, Pigmalione,
Narciso) nonché in alcuni rituali religiosi, come il bacio alle sacre icone, per altro approvato e
sollecitato in sede teologica (ibid., 39 e 80-81). Insistendo sulla funzione propria delle immagini di
risvegliare il desiderio, e non di soddisfarlo, giacché esse ci offrono l’oggetto solo virtualiter e al
tempo stesso ci sottraggono la sua presenza, Mitchell coglie (come fa anche Nancy 2003, 26) il loro
erotismo implicito, la seduzione che ne emana. Di fronte alla temptatio oculorum, all’appello che
l’immagine ci rivolge, noi esitiamo, come Max, fra due opposte soluzioni: immergerci in essa,
lasciarci trascinare nel suo gorgo, abbandonarci totalmente; ritrarci in noi stessi, conservare la
distanza, mantenere l’autocontrollo, non lasciarci coinvolgere, per il timore di essere inghiottiti, di
perdere la nostra personalità. Di qui la natura paradossale dell’immagine, che è al tempo stesso una
res intramondana e un messaggio dotato di un potere simbolico che tende a diventare reale, e
talvolta lo diventa, come accade oggi nell’esperienza dell’immersione nei “mondi virtuali” o da

2 Sul tema: Frank e Sachs-Hombach 2006, 192; Heßler e Mersch 2009, 25.
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sempre nell’uso retorico del medium visivo: le parole di Nicki sono le stesse che compaiono nel
famoso, e più volte imitato e parodiato, manifesto di propaganda bellica che ritrae lo “zio Sam”3.
Le due “svolte” sono nate in polemica con il linguistic turn, che Richard Rorty vedeva
realizzato nella filosofia del Novecento. Essa sarebbe infatti interessata soprattutto alle parole e alla
struttura da ultimo linguistica della realtà. Ciò è avvenuto non solo nell’area culturale anglo-
americana, ma anche in quella continentale. Sia sufficiente ricordare gli sviluppi della semiotica in
Francia, da Saussure a Barthes, che Mitchell (1987, 56) cita come campione dell’imperialismo
linguistico. Come esempio della subordinazione della semiotica al modello epistemico della
linguistica e del suo tentativo di rintracciare anche in ambiti diversi da quelli del linguaggio le
stesse strutture fondamentali che lo caratterizzano, si possono citare la concezione dei fenomeni in
generale come “testi” da interpretare e quella delle teorie scientifiche come “discorsi” intorno al
mondo. In sostanza, quella che è stata considerata come l’ultima fase della modernità, e che
coincide con lo sviluppo dello strutturalismo, è, secondo Mitchell e Boehm, una forma di
riduzionismo, che imprigiona la realtà in una rete, senza per altro riuscire a rendere pienamente
conto della complessità del mondo e dei suoi fenomeni. Mentre dunque, in una “lettera aperta” a
Mitchell, Boehm (2007) ha ragione nel ribadire che non tutto è riconducibile al linguaggio, appare
stravagante e fragile la tesi di un suo “superamento” e fondata su un ingenuo e rozzo rinvio al
paradigma referenziale quella secondo cui il linguistic turn sfocerebbe in un iconic turn perché la
fondazione della verità delle proposizioni esige il ricorso all’ambito extralinguistico (Boehm 2007
a, 44). Non per questo però, come gli obietta giustamente Mitchell nella sua risposta (2007), va
rigettato in toto l’approccio semiotico in senso lato, anche se egli stesso aveva ammesso molti anni
prima che la semiotica incontra gravi difficoltà quando cerca di descrivere le immagini e la loro
differenza rispetto ai testi (Mitchell 1987, 53-54). L’atteggiamento radicalmente antisemiotico di
Boehm, che eredita la sua avversione dal maestro Gadamer (e dunque indirettamente da Heidegger),
in tanto è incomprensibile, in quanto egli stesso sostiene che la domanda-guida della sua indagine è:
«Come le immagini producono senso? [Wie erzeugen Bilder Sinn?]», che dà pure il titolo a una sua
raccolta di saggi. Ora, le immagini “producono senso” nella misura in cui vengono comprese come
messaggi e interpretate come insieme di segni dotati di significato dai loro destinatari, ossia nella
misura in cui essi compiono proprio quelle operazioni che sono oggetto della semiotica e della
teoria della comunicazione in quanto imprese ermeneutiche, e pertanto non irrelate, in generale, a
quella teoria dell’interpretazione che Gadamer perseguiva. Anche in questo caso, si potrebbe

3 Può servire a illustrare la situazione su cui Mitchell attira l’attenzione il manifesto pubblicitario di
Videodrome, in cui lo schermo fattosi carne impugna una pistola puntata verso l’esterno, mentre Nicki guarda lo
spettatore negli occhi: il richiamo al dito puntato dello “zio Sam” è palese.
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rispondere alla domanda di Boehm rinviando alla vera e propria “parola d’ordine” del medium
immaginale secondo Mitchell: esse producono senso mediante l’imperativo I want you.
Come risulta dalle varie esposizioni di Mitchell (in part. 1994, 11-13), il pictorial turn è nato
nel solco degli sviluppi della semiotica americana. Già Peirce e, dopo di lui, Goodman si erano resi
conto che il linguaggio verbale non è il paradigma del significato, il veicolo privilegiato per la sua
trasmissione e il modello semiotico per eccellenza, che i sistemi simbolici non verbali obbediscono
a convenzioni specifiche e possiedono codici specifici. Come Mitchell sosteneva già in 1987, 55,
sebbene il titolo dell’opera più importante di Goodman, Languages of Art, suggerisca che il
linguaggio viene da lui considerato come modello per tutti gli altri sistemi simbolici, in essa viene
indicata la via per distinguere fra immagini e testi: la differenza fra i sistemi simbolici non sta
nell’opposizione fra natura e convenzione (né lo potrebbe, visto che Goodman è rigorosamente
convenzionalista), ma nelle regole che governano il loro uso (ibid., 65-66). Così, per marcare il
divario fra depiction e description, Goodman contrappone la “densità” dei sistemi visivi alla
“differenziazione” di quelli notazionali, la continuità delle immagini alla disgiuntività dei simboli
notazionali; a questa opposizione primaria se ne affiancano poi altre: analogico vs. digitale e
autografico vs. allografico. Proprio perché i sistemi verbale e visivo non sono sovrapponibili e non è
dunque possibile trasferire completamente gli strumenti dell’analisi linguistica all’esperienza del
visuale, sorge – di contro all’incommensurabilità proclamata da Boehm – il problema di reperire gli
strumenti adatti alla loro traduzione reciproca, affinché interagiscano in modo produttivo. Di qui
l’interesse storico di Mitchell per uno strumento letterario molto antico: l’ékphrasis4.
Per quanto concerne il debito con la filosofia cosiddetta continentale, occorre tenere conto
dell’elaborazione cui sono state sottoposte la fenomenologia e lo strutturalismo alla fine del ’900.
Emerge così un legame fra entrambe le svolte e un filosofo poststrutturalista come Derrida, il quale
criticava il modello logocentrico e fonocentrico della filosofia e concentrava la propria attenzione
sul lato visibile del linguaggio, sui segni materiali della scrittura. Secondo la concezione
grammatologica di Derrida, non sarebbe stato possibile pervenire al primato del lógos, se il
linguaggio e il pensiero non fossero stati fissati in scrittura: l’occhio, è proprio il caso di dirlo, vuole
la sua parte; esige che gli venga riconosciuto un ruolo di comprimario nella storia della costruzione
del significato.
Oltre a Derrida, Mitchell cita fra i “padri nobili” del pictorial turn: la Scuola di Francoforte,
le indagini di Foucault sui “regimi scopici” e l’iconofilia del primo Wittgenstein, contrapponendola
all’“iconofobia” delle tesi del secondo Wittgenstein (Mitchell 1994, 12). Verso di esse egli è

4 Questo interesse è testimoniato dai capp. 4 e 5 di Mitchell 1994, dedicati agli esperimenti
intersemiotici di William Blake .
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particolarmente severo, come lo è in generale nei confronti delle teorie che giudicano pericolose le
immagini. Mentre nel Tractatus Wittgenstein considera il pensiero come l’immagine logica dei fatti,
e dunque il significato di una proposizione come l’immagine logica di uno stato di cose, nelle
Philosophische Untersuchungen egli muove una critica radicale alla “teoria rappresentazionale” e
sostiene che le parole hanno significato solo all’interno del contesto d’uso: dipendono dal “gioco
linguistico”. Questa posizione, cui Rorty aderisce, implica la rinuncia alla metafora visiva per
comprendere la natura del linguaggio e del pensiero. Sennonché, obietta Mitchell, in questo modo si
fa torto all’intera tradizione filosofica occidentale, il cui lessico è pieno di metafore visive: da
“idea” a “teoria”, da “contemplazione” a “speculazione”. La rinnovata iconofobia dell’epoca
tardomoderna sarebbe dovuta essenzialmente al fatto che l’immagine è sempre stata vista come una
figura realistica e di immediata comprensibilità, perché legata strettamente alla realtà che
rappresenta e capace dunque di esercitare un sinistro potere di seduzione. La critica di Rorty alla
metafisica (e allo stesso primo Wittgenstein, secondo il quale la forma logica rispecchia il mondo)
sarebbe dunque un’eco della critica di Platone al carattere mimetico dell’arte e una testimonianza
della vera e propria “angoscia” provocata nei filosofi del linguaggio dalla rappresentazione visiva.
Secondo Mitchell, il disagio creato dalle immagini è la conseguenza della loro difficile
collocabilità in un orizzonte di pensiero che vorrebbe abbracciare la realtà con la sola forma del
concetto. Nasce così un ulteriore paradosso, perché quello che a prima vista sembrerebbe chiaro e
trasparente, simile al reale, si rivela complicato, difficile da penetrare e da risolvere in termini
concettuali: l’immagine costituisce una sfida al pensiero. Nel quadro di questo nuovo atteggiamento
nei confronti dell’immagine si colloca anche la ripresa critica della proposta, formulata in termini
rigorosi da Panofsky, di istituire un’“iconologia”, ossia una vera e propria scienza sistematica delle
immagini, che starebbe all’iconografia (ossia allo studio sistematico del repertorio delle immagini
finalizzato a svelare il significato dei simboli e delle allegorie) come l’interpretazione sta alla
descrizione. Analizzando le immagini alla ricerca dei “valori simbolici” (non necessariamente
intenzionali nell’artista) e delle “forme simboliche”, cioè del significato culturale dei modi di
rappresentazione, dalla prospettiva al raggruppamento delle figure nello spazio, alla loro relazione,
ecc.5, l’iconologia si inserisce nell’ampio alveo dei cosiddetti visual studies, che si occupano del
significato intrinseco del visivo, in tutte le sue manifestazioni (e dunque anche nelle sue pratiche
sociali e politiche), e possono essere interpretati come una riflessione interdisciplinare su di esso.

5 In tal modo, si potrebbe chiosare con lo stesso Mitchell 2005, 89, le immagini diventano “forme di
vita”. Consapevolmente, Mitchell si rifà qui non solo a Wittgenstein, ma, più in generale, alla vecchia analogia fra le
forme di cultura e gli organismi viventi: anche delle prime si possono ricostruire la morfogenesi e lo sviluppo. Non va
poi dimenticato che di una “vita” delle immagini parlava già Aby Warburg, che ha introdotto il termine “iconologia” nel
lessico storico-artistico del Novecento.
7

Questo obiettivo la avvicina alla tedesca Bildwissenschaft, che – tenendo conto del dibattito storico-
artistico – vorrebbe abbracciare con unico sguardo onnicomprensivo tutte le arti e le manifestazioni
socio-culturali in cui si ha a che fare con la costruzione e la ricezione di immagini e ha come
oggetto del proprio interesse non solo le arti che si avvalgono di media tradizionali (nelle loro
manifestazioni iconiche e aniconiche), ma anche quelle neomediali 6. All’iconologia nel senso di
Panofsky Mitchell rimprovera tuttavia di sottomettere l’“icona” al lógos, fino ad assorbirla in esso:
l’iconologia è un “metasguardo”, in cui il lógos si pone sul piano metaimmaginale. La gerarchia
panofskyana dei livelli di approccio semantico all’opera visiva contrappone un livello “automatico”,
preriflessivo (naturale), a uno più raffinato, riflessivo, decisionale, in cui intervengono i cosiddetti
“processi cognitivi superiori”. A questa concezione dell’iconologia Mitchell (1994, 28) contrappone
quella che chiama un’«iconologia critica»7, che si rende conto della resistenza opposta
dall’immagine alla forza debordante del lógos. Il pictorial turn rimette dunque in scena la
tormentata relazione fra arti visive e verbali, che ha percorso la loro storia e quella dell’estetica fin
dall’età classica (Mitchell 1987, 43) e che si è di volta in volta sviluppata come vera e propria lotta
per la supremazia o come collaborazione; ma alla fin fine, come lo stesso Mitchell confessa (ibid.),
il tema fondamentale è ancora il rapporto fra segno e significato, fra sintassi e semantica.
Secondo Mitchell, il problema del significato delle immagini si è rivelato impellente nel
postmoderno (cioè agli inizi dell’era del virtuale e di Internet) proprio perché la comunicazione è
fortemente iconocentrica. In questo ambito si inquadra lo studio che, ispirandosi alla critica di Guy
Debord alla “società dello spettacolo” (al proliferare onnipervasivo delle immagini come mezzo
retorico), Mitchell ha condotto sul lato iconico della sfera socio-politica: fra gli esempi di
pervasività dell’iconico, si possono menzionare l’amore per la visibilità, che comporta l’esibizione
“autoidolatra”del proprio corpo da parte dei detentori contemporanei del potere, il controllo
satellitare e i circuiti delle telecamere di sorveglianza, che – dai luoghi tradizionalmente considerati
“sensibili” – sono trasmigrati a tutte le aree pubbliche. Perfino le guerre, ci ricorda Mitchell, sono
diventate fenomeni mediatici, combinazione di notizie TV e melodramma: la prima guerra del
Golfo è considerata come la prima interamente televisiva, oltre che ipertecnologica, tanto che,

6 Frank e Sachs-Hombach (2006, 185-188) cercano di istituire una rigorosa distinzione fra la
Bildwissenschaft in quanto focalizzazione sull’immagine (soprattutto pittorica) e i visual studies, che sarebbero
interessati all’insieme dei fenomeni visivi; ma la loro rivendicazione non esclude una collaborazione fra le due
discipline. Occorre per altro ricordare, con Kruse 2006, 72, che non vi è affatto accordo su ciò che si intende per
Bildwissenschaft. Dal canto suo, Boehm (2006, 11) sostiene che non si è ancora sviluppata una vera e propria
Bildwissenschaft, concepibile in analogia a una Sprachwissenschaft.
7 In 1987, 1-2 egli dichiarava però che la sua intenzione era «restaurare qualcosa del senso letterale »
del termine “iconologia” in quanto logos of icons, campo di studi in cui viene presa in esame l’idea di image in quanto
tale. Belting (2006, 15) gli rimprovera tuttavia di non distinguere fra immagini e visual culture come concetto
sovraordinato.
8

secondo l’ironico titolo del libro di un generale americano, fu la CNN a combatterla (Mitchell 1994,
397, ove – con pari ironia – si parla di un CNN’s Operation Desertstorm, e 405).
Nelle intenzioni del suo promotore, il pictorial turn rappresenta la rivincita della storia
dell’arte sull’egemonia esercitata dalla linguistica e dalla filosofia del linguaggio: egli osserva che,
grazie a esso, la storia dell’arte potrebbe trasformare la sua marginalità teoretica in una posizione di
centralità intellettuale (ibid., 14-15). L’obiettivo, molto ambizioso, è ispirato dalla critica di Hubert
Damisch all’incapacità della storia dell’arte di rinnovare il proprio metodo, precludendosi la
possibilità di avere un ruolo-guida fra le scienze della cultura; sennonché, le incertezze e le
oscillazioni che caratterizzano il procedere teorico di Mitchell e la debolezza filosofica della
posizione di Boehm sono una testimonianza delle difficoltà in cui le due “svolte” si dibattono.
Il pictorial turn intende essere un’impresa postlinguistica e postsemiotica. Sebbene non sia
disposto a considerare la semiotica come un metalinguaggio “neutro” e un complesso
transdisciplinare di teorie8, perché la considera troppo sbilanciata in direzione del versante
linguistico, per Mitchell assumere un atteggiamento antisemiotico tout court equivale a gettare il
bambino insieme all’acqua del bagno. È comunque un fatto che l’esperienza visiva o il livello di
istruzione visiva non possono essere spiegati totalmente sulla base del modello testuale; ed è vero
anche che risulta oggi fortemente sospetto uno dei postulati fondamentali della semiotica di Peirce
(e di Morris), ossia che l’icona (giusto il significato originario del greco eikón) è un segno che
somiglia per determinati aspetti al referente9. Ma soprattutto negli ultimi anni sono emersi elementi
tali da imporre un deciso mutamento di rotta nella riflessione sul concetto di immagine in generale,
e non soltanto su quello di immagine artistica: i nuovi media cambiano le condizioni della visione e,
in prospettiva, agiscono sul nostro modo di interpretare il mondo. Sia sufficiente accennare
all’impossibilità di definire secondo i vecchi criteri l’immagine virtuale: sebbene il risultato finale
sia molto simile alla vecchia immagine mimetica, essa è un prodotto artificiale fondato su algoritmi,
e dunque irriducibile alle tradizionali teorie della rappresentazione artistica, giacché la generazione
di un prodotto è fondamentale per stabilire il suo statuto ontologico. Non c’è, in queste nuove forme
immaginali, nulla di illusorio, perché sono il prodotto di specifiche manipolazioni tecnologiche, e
sia il nostro linguaggio sia il nostro approccio visivo devono ancora adattarvisi. Sennonché, anche
se non si ragiona più (o soltanto) in termini di semantica referenziale, permangono tuttora aperte le
questioni di pertinenza della semantica interna all’opera, che si costruisce in virtù dei rapporti

8 Su questo tema: Frank 2009, 355.


9 In 1994, 16 Mitchell riprende l’osservazione di Damisch che l’icona non è necessariamente un segno,
ossia che si può indagare l’opera d’arte prescindendo dal riferimento a qualcosa di esterno a essa, mentre in 1987, 57
cita con favore l’obiezione di Eco 1985, 282, secondo cui non solo la nozione di segno iconico è incoerente, ma quella
stessa di segno in generale è «inadoperabile».
9

sintattici fra gli elementi che la costituiscono, e quelle di pertinenza della pragmatica, concernenti il
“significato-in-situazione” dell’opera.
Mitchell si rende conto che il rapporto fra linguaggio e immagine è molto più complesso di
quanto possa far pensare la proclamazione di principio, da parte di Boehm, della necessità di
un’ikonische Wende. La debolezza del punto di vista di quest’ultimo sta nel fatto che egli respinge
la possibilità non solo di una semiotica dell’immagine in generale, ma di una semiotica tout court. È
assai facile controbattere che studi come quelli di Meyer Schapiro e di Louis Marin mostrano come
si possa fare un uso proficuo degli strumenti offerti dalla semiotica nelle arti visive, purché non la si
appiattisca sulla linguistica. Chi lo ha fatto, come Lévi-Strauss, è incorso in infortuni clamorosi. Al
rifiuto preconcetto di Boehm si può obiettare che non c’è nulla di scandaloso nel cercare, come fa in
parte Mitchell, una via di conciliazione fra semiotica, teoria della comunicazione ed ermeneutica,
nella misura in cui esse convergono su due aspetti fondamentali: 1) il messaggio (che è fatto di
segni) è sempre per qualcuno, cioè acquista significato soltanto nella misura in cui qualcuno lo
interpreta come tale; 2) qualsiasi “testo” vive grazie all’interpretazione, che lo attualizza, lo
rivitalizza alla luce del proprio orizzonte storico-culturale, delle proprie “forme simboliche”. Di
conseguenza, il concetto gadameriano di interpretazione come fusione di orizzonti, quello peirceano
di semiosi illimitata e la proposta costruttivista di Goodman possono essere considerati non come
teorie in competizione, ma come aspetti diversi di uno stesso sforzo di coinvolgimento attivo
dell’interprete nella produzione del significato dell’opera.
La tesi fondamentale di Boehm è che esiste una “differenza iconica”, un sintagma che
ricorda solo lessicalmente Heidegger e Derrida e acquista significati diversi nei diversi contesti in
cui egli lo usa. Così, esso concerne talvolta la tensione produttiva (e non la mutua esclusione) fra gli
oggetti che si configurano sulla tela e la sua superficie (Boehm 2006, 29-36), mentre altrove
designa, più in generale, la tensione fra materialità mediale e effetto (o senso) delle immagini
(Boehm 2007 a, 48-49 e 59)10, che rinviano a un assente (ibid., 38). Il modo in cui il contenuto
immaginale intenziona l’assente non è però ben chiarito, anche se la posizione di Boehm ricorda la
concezione gadameriana del simbolo come presenza dell’assenza. Dal punto di vista ontologico,
comunque, Boehm recupera la posizione assunta da Platone nel Sofista. Se la differenza iconica
«fonda la possibilità di vedere una cosa alla luce di un’altra e pochi tratti... come una figura» e
l’immagine «è al tempo stesso una cosa e una non-cosa, si trova nel mezzo fra la mera realtà e gli
aerei sogni» (assume cioè lo statuto di una «irrealtà reale»: ibid., 37), ci troviamo proprio di fronte
allo stesso paradosso ontologico che già aveva colpito Platone, spingendolo a perpetrare il

10 In quest’ultimo caso, come suggeriscono Heßler e Mersch 2009, 19, si ha da intendere il concetto di
differenza in un senso più prossimo a quello nuancé di Derrida che a quello di Heidegger.
10

“parricidio” di Parmenide, ossia il rigetto dell’unilaterale affermazione dell’essere e dell’altrettanto


unilaterale negazione del non-essere.
In aperta polemica con la concezione peirceana del “segno iconico”, Boehm (2007, 33)
difende l’autonomia dell’immagine come chiave di lettura di un orizzonte storico e come oggetto di
interesse di per sé, svincolata da riferimenti a testi esterni e dalla logica della predicazione11.
Sennonché gli si può obiettare che l’immagine non è sui ipsius interpres, che la sua autoevidenza e
la sua chiusura sono puramente illusorie: possiamo attribuirle – con Mitchell – una funzione
appellativa, imperativa, fors’anche interrogativa, ma non una funzione puramente “percettiva”. Allo
stesso modo, è illusorio pensare di poter leggere le immagini a partire dalle immagini stesse:
Mitchell (2007, 38) ha buon gioco nel ricordare a Boehm che, come si è già detto, nelle immagini
ottenute con le nuove tecnologie il punto di partenza non è una costruzione analogica, ma digitale, e
per interpretarle non si può prescindere dal processo con il quale vengono generate12.
Studiare le immagini non è soltanto un’operazione di tipo scientifico e storico-antiquario,
nel senso in cui l’intendeva la tradizionale Kunstgeschichte nella sua aspirazione a trasformarsi in
Kunstwissenschaft, ma significa anche cercare di penetrare la complessa struttura psicologica,
culturale, sociale, che sta dietro la produzione di una certa epoca, di una certa civiltà, di una certa
convenzione rappresentazionale. Come Mitchell sottolinea concludendo la sua risposta alla lettera
di Boehm, chiedersi “cosa vogliono le immagini” significa anche interessarsi alla comunicazione
fra individui e culture: cercare di comprendere un’immagine è anche cercare di comprendere sia
come noi comprendiamo gli altri e ci autocomprendiamo sia come gli altri comprendono noi e si
autocomprendono. Del resto, non si deve mai dimenticare che, in un’ottica “poliglotta” (à la
Lotman), l’autocomprensione e l’autoriconoscimento passano anche attraverso la comprensione e il
riconoscimento dell’altro, in cui gioca oggi un ruolo molto importante il medium immaginale. E
questa operazione, di carattere inequivocabilmente ermeneutico, ha innegabili conseguenze dal
punto di vista socio-politico.

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11 Risulta ovvio da ciò che l’“astrazione” del Bild di Boehm è assai diversa da quella dell’image di
Mitchell. Sul carattere antipredicativo della proposta di Boehm: Huber 2006, 67 e Kapust 2009, 278.
12 Cfr. pure i rilievi di Griffero 2009, 281, che si appuntano sulla difficoltà di evitare la struttura
semiotica del rinvio e sui limiti della teoria di Boehm di fronte ai problemi posti dall’immagine digitale, che non è
“fusione” di immagine e supporto.
11

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