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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI

Facoltà di Scienze MM.FF.NN.


Corso di Laurea Magistrale in Fisica

Tesi di Laurea in
Fisica Teorica

MODELLO FRATTALE
DELL’UNIVERSO ED
ENERGIA OSCURA

Relatore
Dr.TEDESCO Luigi

Laureanda
CAGNETTA Fiorella Maria

ANNO ACCADEMICO 2011/2012


Ai miei genitori
iv
Indice

Introduzione 1

1 I frattali 5
1.1 Introduzione storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
1.2 Proprietà dei frattali: auto similarità e dimensione . . . . . . . . 6
1.2.1 La curva di Koch . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
1.2.2 L’insieme di Mandelbrot . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
1.3 Frattali ed economia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13

2 La struttura frattale dell’Universo 17


2.1 Frattali e Universo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17
2.1.1 Analisi tramite la funzione di correlazione . . . . . . . . 19
2.1.2 Lo spettro di potenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
2.2 Principio Cosmologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26
2.3 Frattali e dark matter . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

3 Cosmologia standard ed accelerazione dell’Universo 31


3.1 Espansione accelerata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
3.2 Le supernovae Ia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
3.3 Possibili fonti di energia oscura . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
3.4 Espansione accelerata: una spiegazione alternativa. . . . . . . . 38
3.5 La geometria di Lemaı̂tre-Friedmann-
Robertson-Walker . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
3.5.1 Geometria ed equazioni di Einstein. . . . . . . . . . . . . 41

v
INDICE

3.5.2 Le equazioni di Lemaı̂tre-Friedmann-


Robertson-Walker . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45
3.6 Redshift e distanza di luminosità . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
3.6.1 Redshift . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
3.6.2 Distanza di luminosità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48

4 Il modello frattale cosmologico 55


4.1 Il Principio Cosmologico Condizionale . . . . . . . . . . . . . . . 55
4.2 Le equazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58
4.3 Soluzione esatta per una metrica FLRW con distribuzione di
materia frattale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60
4.4 Il tensore energia-impulso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62

5 Distanza di luminosità in un Universo con distribuzione di


materia frattale 65
5.1 Le sorgenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65
5.2 Calcolo della distanza di luminosità . . . . . . . . . . . . . . . . 67
5.3 Soluzioni a confronto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72
5.3.1 Il modello “Fractal Bubble” . . . . . . . . . . . . . . . . 75
5.4 Inizio della accelerazione dell’Universo . . . . . . . . . . . . . . 79

Conclusioni 83

A Unità di misura e convenzioni 85

B Distanza di luminosità nel modello cosmologico standard 87

Bibliografia 89

vi
Introduzione

Il XX secolo è stato di fondamentale importanza per lo studio dell’Universo. Fra


le scoperte più importanti che hanno avuto luogo ce ne sono alcune di elevato
spessore; basti citare il redshift cosmologico, la radiazione cosmica di fondo e
la struttura su larga scala dell’Universo. La cosmologia rappresenta proprio il
tentativo di studiare e costruire una teoria fisica atta a spiegare fenomeni di
questo tipo che avvengono nel cosmo a distanze sempre più elevate.
In particolare il redshift cosmologico ha permesso di scoprire che l’Universo è in
continua espansione, un’espansione che ci si aspettava fosse di tipo decelerato
per effetto dell’azione attrattiva della forza gravitazionale. Tuttavia, la fine del
secolo scorso ha visto il verificarsi di una vera e propria rivoluzione cosmologica.
Nel misurare il tasso di espansione dell’Universo attraverso dati di supernovae
Ia, due gruppi di ricerca indipendenti ottennero risultati contrastanti rispetto
alle predizioni teoriche. I dati sperimentali, infatti, non solo mostravano che
l’espansione fosse di tipo accelerato, ma anche che stesse avvenendo ad una
velocità maggiore rispetto a quella attesa.
I fisici hanno cercato di spiegare questo fenomeno postulando l’esistenza di una
“sostanza strana” avente pressione negativa ed energia maggiore rispetto a quella
della materia oscura, che fosse in grado di controllare la dinamica dell’Univer-
so e causarne l’espansione. Capire la natura e le proprietà fisiche di questa
componente oscura che pervade il cosmo intero rappresenta uno dei principali
argomenti di studio della cosmologia moderna. L’interpretazione standard spie-
ga questo effetto repulsivo mediante il modello della costante cosmologica, ovvero
il termine Λ che compare nelle equazioni di Einstein e che viene interpretato

1
INTRODUZIONE

come l’energia del vuoto. Il modello, noto come modello “Λ-Cold Dark Matter”
si basa su un assunto fondamentale, detto Principio Cosmologico, che afferma
che l’Universo è omogeneo e isotropo, ossia sempre uguale a grande scala da
qualunque punto lo si osservi.
Il perfezionamento delle tecniche di rilevamento, tuttavia, ha mostrato, nel corso
degli anni, che gli oggetti celesti si accorpano in ammassi, che a loro volta
tendono ad unirsi per formare superammassi creando uno scenario in cui si ha
il susseguirsi di bolle di vuoto quasi assoluto sulle cui superfici si ramificano
filamenti di galassie. Nelle zone del cosmo in cui due bolle vengono a contatto
aumenta la presenza degli ammassi e dei superammassi.
In questo contesto si colloca una nuova teoria ed una nuova interpretazione
dei dati relativi alla distribuzione degli ammassi galattici su grandi scale, for-
mulata dal fisico italiano Luciano Pietronero e dai suoi collaboratori. Questa
ricerca cerca di spiegare e descrivere la struttura su larga scala dell’Universo
ricorrendo ai canoni dettati dalla geometria frattale. Applicando inoltre metodi
propri dell’analisi statistica ed escludendo l’assunzione aprioristica di un Prin-
cipio Cosmologico, tale teoria mostra che le strutture dell’Universo tendono ad
“ammassarsi” generando zone di vuoto e filamenti, ovvero la materia segue una
distribuzione intrinsecamente frattale. La possibilità che vi sia una distribuzione
frattale su grandi scale nell’Universo è un fatto estremamente rilevante per la
cosmologia moderna. E’ bene osservare che nell’ambito della “cosmologia fratta-
le” si fa riferimento alla materia visibile luminosa, questo tuttavia non esclude
che la materia oscura possa seguire lo stesso andamento. Sulla base di queste
considerazioni l’accelerazione dell’Universo e di conseguenza l’energia oscura
non avrebbero modo di esistere.
Il presente lavoro di tesi è dedicato allo studio di un modello di Universo che
prescinde dal Principio Cosmologico e, privilegiando un Principio Cosmologi-
co Condizionale secondo cui ogni osservatore occupa un punto materiale della
struttura, si pone lo scopo di mostrare che è possibile evitare l’introduzione del-
l’energia oscura, giustificando l’apparente espansione attraverso la distribuzione
frattale della materia stessa. Il riscontro sperimentale sarà effettuato soltanto

2
INTRODUZIONE

con i recenti dati di supernova, tuttavia è possibile cercare ulteriori conferme,


non trattate in questo lavoro di tesi, da osservazioni sperimentali provenienti
dalla radiazione cosmica di fondo, dalla BAO e dai gamma ray burst.
Il lavoro di tesi è cosı̀ strutturato, nel capitolo 1 si introdurranno i frattali ed
i concetti basilari, nel secondo capitolo si analizzeranno le motivazioni per una
struttura frattale dell’Universo. Il capitolo 3 studia la cosmologia standard e
l’accelerazione dell’Universo, mentre nel capitolo 4 si introdurrà il Principio
Cosmologico Condizionale e si risolveranno le equazioni di Einstein per il mo-
dello frattale introdotto, in particolare, si otterrà il più generale fattore di scala
in cui è contenuta l’informazione frattale per il modello considerato. Il capitolo
5 vede il calcolo della distanza luminosa nel modello frattale e lo studio delle
curve teoriche relative (sul diagramma di Hubble), confrontandosi con i dati spe-
rimentali di UNION2 delle supernovae Ia. Infine si mettono a confronto diversi
modelli.

3
INTRODUZIONE

4
Capitolo 1

I frattali

1.1 Introduzione storica

I frattali sono figure matematiche dotate di dimensione frazionaria e non intera,


come accade per le usuali figure geometriche. Caratteristica peculiare di questi
oggetti matematici è la proprietà di invarianza di scala o auto similarità: esa-
minando questi oggetti su scale diverse si incontrano sempre gli stessi elementi
fondamentali.
Il contributo più importante nell’ambito della geometria frattale si deve a Benoı̂t
B. Mandelbrot, del Thomas J. Watson Research Center della IBM a Yorktown
Heights, nello stato di New York. A lui si deve l’introduzione nel 1975 del
termine frattale (dal latino fractus= rotto o frammentato), nel libro Les Objects
Fractals: Forme, Hazard et Dimension [1].
Con questo neologismo, Mandelbrot indicava quegli oggetti e modelli altamente
irregolari o complessi che fino ad allora erano stati poco studiati e poco applicati
alla descrizione di fenomeni naturali proprio a causa della loro natura imperfetta.
Nel 1982, grazie alla pubblicazione dell’opera The Fractal Geometry of Nature
[2], dello stesso Mandelbrot, il concetto di frattale diviene noto nella comunità
scientifica e trova una sua applicazione in diverse discipline quali la matematica,
la fisica, l’economia, la biologia.

5
1.2. PROPRIETÀ DEI FRATTALI: AUTO SIMILARITÀ E DIMENSIONE

1.2 Proprietà dei frattali: auto similarità e di-


mensione

In natura esistono molteplici esempi di strutture estremamente irregolari ben


lontane dalle usuali strutture previste dalla geometria euclidea: gli alberi, le
montagne, i litorali, le nubi, le arterie o i bronchi dei polmoni. Tutte queste
strutture, cosı̀ diverse fra loro, sono caratterizzate da una proprietà comune:
ingrandendo una loro piccola porzione, questa evidenza le stesse caratteristiche
geometriche dell’intero sistema. Questa proprietà, legata alla natura irregolare
di questi oggetti, è detta di autosomiglianza e implica l’assenza di regolarità o
analicità nell’intero sistema.
Per una struttura regolare, come ad esempio una curva, è sempre possibile de-
finire, in maniera univoca, la tangente in ogni suo punto. Questo comporta
che su scale sempre più piccole, la curva possa essere approssimata dalla sua
tangente, perdendo ogni altra struttura. Nel caso di un sistema frattale o au-
tosimile, andando su scale sempre più piccole, si può notare come la stessa
struttura si ripeta mostrando tutta la complessità di quella originale. Pertanto
la distribuzione non diventa mai liscia e regolare.
Questa proprietà di invarianza di scala implica una grande irregolarità che non
è possibile descrivere mediante i tradizionali metodi matematici, permettendo
a molti fenomeni fisici di essere relegati ai margini della ricerca scientifica, pro-
prio per la mancanza di un formalismo matematico che permettesse di studiarli
accuratamente.
Una misura del grado di irregolarità di questi oggetti è fornita dalla loro dimen-
sione frattale. Si tratta di un parametro numerico, non necessariamente intero,
atto a fornire una descrizione del modo in cui l’oggetto riempie lo spazio in cui
è contenuto.
Vi sono diverse definizioni di dimensione frattale, fra cui vanno annoverate quella
di Hausdorff-Besicovitch e quella di Minkowski-Bouligand.
La definizione di dimensione frattale data da Hausdorff nel 1918 [3] risulta essere

6
1.2. PROPRIETÀ DEI FRATTALI: AUTO SIMILARITÀ E DIMENSIONE

quella più nota ed importante, dal momento che si basa su metodi di misura
relativamente facili da trattare.
A tal proposito supponiamo di voler misurare un insieme di punti S ∈ Rn ,
dove Rn rappresenta lo spazio a n dimensioni che dividiamo in celle di lato 
(o, equivalentemente, in sferette di raggio /2), dove  rappresenta il cosiddetto
passo di approssimazione. Detto N () il numero minimo di celle (o sferette)
necessarie per ricoprire completamente l’insieme, la quantità:

S0 = lim S = lim N () ·  (1.1)


→0 →0

è detta “misura” dell’insieme soltanto se risulta essere finita.


Detto questo è possibile definire la dimensione dell’insieme secondo Hausdorff-
Besicovitch come il numero critico D per cui la misura Md passa da zero ad un
valore infinito nel limite di  → 0:

X 0 se d > D
Md = γ(d)d = γ(d) · N () · d → (1.2)
∞ se d < D,

dove γ(d) rappresenta un’opportuna funzione numerica introdotta per omoge-


neizzare il passo con l’insieme [4].
La grandezza D cosı̀ definita, denominata box counting fractal dimension o
dimensione frattale secondo Hausdorff e Besicovitch, permette di calcolare la
dimensione frattale di un insieme misurabile (nel senso definito dalla (1.1)).
Difatti, manipolando in maniera opportuna l’equazione (1.2), con un semplice
passaggio ai logaritmi si ricava che per  → 0:

log N () log N ()


D=− = . (1.3)
log  log(1/)

Riportando in un grafico bilogaritmico il numero di celle N () in funzione di


 (che rappresenta la risoluzione) è possibile ricavare la dimensione D dalla
pendenza della retta interpolante.

7
1.2. PROPRIETÀ DEI FRATTALI: AUTO SIMILARITÀ E DIMENSIONE

Nel suo libro The Fractal Geometry of Nature Mandelbrot definisce frattale un
insieme la cui dimensione secondo Hausdorff-Besicovitch eccede rigorosamente
la dimensione topologica1 , sempre definita da un numero intero.

Pertanto, qualsiasi oggetto caratterizzato da una dimensione di Hausdorff non


intera, è un frattale.

Esiste tuttavia un metodo alternativo per calcolare la dimensione frattale, uti-


lizzato soprattutto nel caso di una distribuzione di punti isolati, che non fa uso
del passo di approssimazione , ma consiste nel misurare la massa M di un
oggetto in funzione di R, ovvero il “passo” dell’oggetto.

A tal proposito si considera un punto P all’interno dell’oggetto e si denota con


M (R) la massa contenuta in una cerchio di raggio R centrato in P 2 .

Se la massa segue una legge di potenza del tipo:

lim M (R) ∼ RD , (1.4)


R→∞

l’esponente D è detto dimensione di massa che, per un sistema autosimile


coincide con la definizione di dimensione frattale data in precedenza.

Si tratta di una definizione molto utile, come vedremo in seguito, soprattutto nel
caso delle distribuzioni di galassie nell’Universo, per le quali è possibile calcolare
M (R) dal numero di galassie all’interno di una sfera centrata su un punto della
distribuzione stessa.

1
La dimensione topologica di un insieme è data dal più piccolo valore n per cui ogni
ricoprimento aperto (insieme di aperti Uα la cui unione coincide con l’insieme) dell’insieme
ha un raffinamento (insieme di aperti Vα tali che ogni Vα è contenuto in almeno un Uα ) in
cui ogni punto è contenuto in al più n + 1 insiemi.
2
Nel caso caso tridimensionale l’oggetto non giace in un piano ma nello spazio, motivo per
cui si considera una sfera.

8
1.2. PROPRIETÀ DEI FRATTALI: AUTO SIMILARITÀ E DIMENSIONE

1.2.1 La curva di Koch

La curva triadica di Koch, o fiocco di neve di Koch, è stata una delle prime
curve frattali ad essere descritte nel 1904 dal matematico svedese Helge von
Koch [5]. Per generare questa curva si considera un segmento detto iniziatore,
lo si taglia in tre parti uguali e si elimina il segmento centrale sostituendolo
con due segmentini uguali a quello eliminato. L’elemento ottenuto, formato
da quattro segmenti, viene chiamato generatore. Ripetendo l’operazione con
ciascuno dei quattro segmenti ottenuti e iterando il processo un numero infinito
di volte, si ottiene la curva riportata in figura 1.1.

Figura 1.1: Costruzione della curva triadica di Koch.

Ad ogni passo del processo la lunghezza della curva aumenta di un fattore


pari a 4/3 e, dal momento che il processo per generarla richiede un numero
infinito di iterazioni, possiamo affermare che essa sia caratterizzata da lunghezza
infinita. Inoltre essa risulta autosimile e non differenziabile in alcun punto, e

9
1.2. PROPRIETÀ DEI FRATTALI: AUTO SIMILARITÀ E DIMENSIONE

dalle considerazioni fatte finora si ricava che la sua dimensione frattale è pari a
D = log4/log3 ∼ 1.2628.
La curva di Koch risulta interessante, poichè in grado di descrivere oggetti natu-
rali con proprietà frattali. Lo stesso Mandelbrot la propone come modello della
costa di un’isola nell’articolo How long is the coast of Britain? [6]. Egli infatti
sostiene che le coste siano curve che godono della proprietà di auto similarità:
ogni piccola porzione è un’immagine ridotta dell’insieme totale. Ne deriva che
la lunghezza della costa dipende dallo strumento di misura. Ogni qual volta si
riduce la lunghezza dello strumento di misura, la lunghezza della costa aumenta,
perché si prendono in considerazione sinuosità sempre più piccole.

1.2.2 L’insieme di Mandelbrot

Il frattale di Mandelbrot, anche noto come insieme di Mandelbrot, costituisce


uno dei frattali più popolari in assoluto, caratterizzato da una straordinaria
ricchezza di dettagli.
Le origini di questo frattale risalgono agli inizi del XX secolo grazie agli studi
del matematico francese Gaston Julia e del suo accanito rivale Pierre Fatou.
Le loro ricerche erano finalizzate a studiare la successione di punti zn del piano
dei numeri complessi generati dalla trasformazione g(z) = z 2 + c, dove c è un
numero complesso, scelto arbitrariamente, che svolge il ruolo di parametro di
controllo.
Si tratta di un processo matematico basato su una procedura molto semplice in
cui il risultato finale di ogni calcolo rappresenta l’inizio del calcolo successivo.
Partendo da un punto del piano, iterando la trasformazione sopra citata, si
ottengono i cosiddetti insiemi di Julia, ovvero delle frontiere frattali la cui forma
dipende esclusivamente dal valore del parametro di controllo. Inoltre, a seconda
del valore di tale parametro, si distinguono due possibili tipi di insiemi di Julia:
quelli connessi e quelli costituiti da un numero infinito di punti non connessi,

10
1.2. PROPRIETÀ DEI FRATTALI: AUTO SIMILARITÀ E DIMENSIONE

che, rappresentati graficamente, assumono l’aspetto di “polvere”.


I lavori dei due matematici furono quasi dimenticati, fino al 1979, anno in cui
Benoı̂t Mandelbrot, usufruendo dei potenti calcolatori del Thomas J. Watson
Research Center dell’IBM in cui lavorava, fu in grado di dare una rappresentazio-
ne grafica agli insiemi studiati precedentemente da Julia. Mandelbrot analizzò
la stessa traformazione studiata da Julia e Fatou, considerando come punto ini-
ziale z0 = 0. La successione, ottenuta iterando la trasformazione, può divergere
o rimanere limitata. L’insieme di Mandelbrot, dunque, è definito come l’insieme
dei punti c del piano complesso per cui tale trasformazione risulta limitata.
Una proprietà importante dell’insieme di Mandelbrot, diretta conseguenza della
sua definizione, è la stretta corrispondenza con gli insiemi di Julia. In parti-
colare, l’insieme di Mandelbrot funge da indice degli insiemi di Julia. Questo
significa che, se il punto c appartiene all’insieme di Mandelbrot, l’insieme di
Julia corrispondente è connesso. Gli insiemi di Julia non connessi, al contrario,
sono quelli definiti da punti non appartenenti all’insieme di Mandelbrot.
Osserviamo che l’insieme di Mandelbrot non è propriamente autosimile ma, se
provassimo a ingrandire la sua frontiera, troveremmo su tutte le scale un nu-
mero infinito di copie dell’insieme originale. Uno studio minuzioso e dettagliato
dell’insieme di Mandelbrot mostrerebbe la ricchezza di forme e strutture che lo
caratterizzano, come dimostra la figura 1.2.
Per quanto concerne la dimensione frattale, lo stesso Mandelbrot ha ipotizza-
to che la dimensione di Hausdorff della frontiera dell’insieme da lui studiato
fosse pari a 2, dato confermato successivamente dagli studi del matematico
giapponese Mitsuhiro Shishikura [7].

11
1.2. PROPRIETÀ DEI FRATTALI: AUTO SIMILARITÀ E DIMENSIONE

Figura 1.2: Rappresentazione dell’insieme di Mandelbrot. I punti appartenenti all’insieme


sono colorati di nero.

12
1.3. FRATTALI ED ECONOMIA

1.3 Frattali ed economia

Come detto nel paragrafo 1.1, la geometria frattale trova riscontro non soltanto
in ambito matematico, ma anche nel settore economico. L’applicazione ai grafici
di mercato di modelli previsti dalla geometria frattale, si deve ancora una volta
all’opera di Benoı̂t B. Mandelbrot [8], il quale ha introdotto un modello frattale
per lo studio della variazione dei prezzi sul mercato finanziario.
Il lavoro di Mandelbrot tende a criticare le ipotesi alla base della teoria del
portafoglio: ossia la teoria ”classica” che descrive le fluttuazioni dei prezzi del
mercato e prevede la ripartizione del capitale investito sulla base del rischio
atteso e del rendimento medio atteso. Le ipotesi della teoria, ritenute infondate,
sono le seguenti:

• l’assunzione che le fluttuazioni dei prezzi siano statisticamente indipenden-


ti le une dalle altre, vale a dire che non vi sono correlazioni fra il prezzo in
un determinato giorno e il prezzo nel giorno successivo, con conseguente
impossibilità di prevedere i movimenti futuri del mercato;

• la distribuzione gaussiana o normale delle fluttuazioni. E’ noto che il gra-


fico di tale distribuzione è l’usuale forma a campana centrata sul valor
medio, la cui ampiezza è misurata dalla deviazione standard, parametro
statistico che indica di quanto la variazione nei prezzi differisca dalla me-
dia. Le variazioni dei prezzi si addensano prevalentemente (con frequenze
elevate) intorno al valor medio, e con frequenze progressivamente minori
verso gli estremi. Gli eventi posti agli estremi sono considerati oltremodo
rari.

Gli eventi estremi sopra citati, che rappresentano le grandi fluttuazioni di mer-
cato, vengono sovente ritenuti estremamente improbabili e pertanto tralasciati
nei modelli matematici alla base della teoria economica classica. Tuttavia, spe-
rimentalmente si osserva che questi eventi, definiti rari, si verificano con proba-
bilità non del tutto trascurabili e comportano la presenza di picchi, anche molto

13
1.3. FRATTALI ED ECONOMIA

frequenti, nella gaussiana dei prezzi. Pertanto la teoria del portafoglio, risulta
essere inadeguata a descrivere gli effettivi andamenti del mercato dal momento
che non trova riscontro con la realtà sperimentale.
Prendendo le distanze dalla teoria del portafoglio, Mandelbrot ha introdotto
quindi un modello frattale in grado di fornire stime più accurate del rischio,
e capace di prevedere non solo le fluttuazioni ”classiche” descrivibili mediante
distribuzioni gaussiane, ma anche quelle fluttuazioni imprevedibili che la vecchia
teoria riteneva improbabili.
Il modello si basa sull’idea che i grafici di mercato, che descrivono l’andamento
di un titolo o di una valuta in funzione del tempo, mostrano proprietà simili
qualora si effettuino delle variazioni di entità diverse sulla scala dei tempi e su
quella dei prezzi. Questa proprietà, nota con il nome di autoaffinità, differisce
dall’autosomiglianza che invece prevede una variazione dello stesso ordine su
entambe le scale.
L’idea di Mandelbrot, dunque, è stata quella di utilizzare una funzione autoaf-
fine capace di descrivere qualsiasi tipo di fluttuazione che il mercato fosse in
grado di offrire. Il procedimento che permette di definire una funzione con tali
caratteristiche è analogo a quello visto nel paragrafo 1.2.1 per la generazione
della curva di Koch. Esso prevede l’utilizzo di un generatore opportuno, ad
esempio una linea spezzata caratterizzata da almeno tre segmenti in maniera
tale da poter rappresentare prezzi che possano crescere o diminuire e un pro-
cedimento ricorsivo in cui, ad ogni passo, si sostituisce ciascun segmento della
spezzata con una copia rimpicciolita della stessa spezzata. Il generatore può
essere invertito, in modo da simulare anche fluttuazioni negative.
Come si nota in figura 1.3, il risultato di questo algoritmo è un grafico frattale in
cui ogni segmento è una copia dell’intero: è proprio la proprietà di invarianza di
scala, già incontrata nel paragrafo 1.2. Osserviamo che ad ogni passo esso mostra
un andamento sempre più frastagliato, in grado di riprodurre le oscillazioni reali
dei prezzi del mercato.
Per concludere, modificando i parametri caratteristici del generatore, si otten-
gono dei generatori, detti multifrattali, che permettono di ottenere dei grafici

14
1.3. FRATTALI ED ECONOMIA

Figura 1.3: Il generatore frattale (grafico in alto) viene ripetuto in ciascun segmento dei
grafici successivi. L’andamento finale assomiglia all’andamento reale dei prezzi di mercato.
Immagine tratta da “LE SCIENZE 368/Aprile 1999”.

15
1.3. FRATTALI ED ECONOMIA

frattali molto più realistici, in grado di descivere fluttuazioni maggiori. E’ chia-


ro che l’analisi di Mandelbrot non esige di prevedere l’andamento futuro del
mercato, ma di fornire una stima delle probabilità di ciò che potrebbe avvenire,
fornendo delle previsioni il più possibile affidabili.

16
Capitolo 2

La struttura frattale
dell’Universo

2.1 Frattali e Universo

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come molti fenomeni naturali siano ca-
ratterizzati da strutture estremamente irregolari, descrivibili soltanto in termini
di frattali.
Un compito fondamentale della cosmologia consiste nello studiare come la ma-
teria si distribuisce nello spazio e come evolve nel tempo.
L’aspetto innovativo consiste nel fatto che probabilmente le “irregolarità” pre-
senti in strutture su grandi scale dell’Universo possono essere analizzate in
termini di frattali.
Per capire brevemente come la frattalità entra in cosmologia basti pensare che
se consideriamo la massa contenuta in un volume, essa cresce col cubo della
dimensione lineare. Invece, per i frattali, dato che si hanno molti vuoti nel
volume che li contiene, la massa diventa proporzionale ad una certa potenza D
della dimensione lineare, detta “dimensione frattale”, e risulta D < 3.
Su scale maggiori delle dimensioni della nostra galassia, infatti, le osservazioni
mostrano la presenza di enormi agglomerati di galassie che si alternano a grandi

17
2.1. FRATTALI E UNIVERSO

vuoti. Per tale motivo è possibile pensare che la struttura dell’Universo possa
essere spiegata ricorrendo ai metodi della geometria frattale.
Lo studio statistico della distribuzione delle galassie nello spazio si basa sull’uti-
lizzo di cataloghi astronomici, in cui sono riportate le coordinate spaziali di una
qualsiasi galassia. Fino a qualche anno fa, gli astronomi hanno utilizzato cata-
loghi bidimensionali, ottenuti riportando due coordinate angolari (la latitudine
galattica e la longitudine galattica) che determinano la posizione della galassia
nella volta celeste. La singola galassia viene successivamente indicata mediante
un punto su una sfera di raggio unitario centrata sulla nostra galassia, assunta
come origine del sistema di riferimento. Sebbene questi cataloghi non fossero
in grado di fornire una proiezione tridimensionale del cielo, l’analisi effettuata
mostrava la presenza di strutture su piccole scale e una distribuzione omogenea
su scale più grandi.
Alla fine degli anni settanta furono introdotti i primi cataloghi tridimensionali,
ottenuti riportando, in aggiunta alle coordinate angolari, due parametri carat-
teristici quali la magnitudo relativa m e il redshift z. La prima è un’unità di
misura della luminosità di un oggetto celeste rilevata dal nostro punto di os-
servazione, da non confondere con la magnitudo assoluta che, invece, misura
la luminosità intrinseca dell’oggetto stesso, mentre il redshift è una variabile
strettamente legata alla distanza d di una galassia dalla relazione lineare:

z = const × d, (2.1)

nota come legge di Hubble.


In particolare, il redshift è una misura dello spostamento verso il rosso delle
righe di emissione o assorbimento di una galassia, attribuibile ad un processo di
allontanamento delle galassie, noto come recessione, dovuto alla fase di espan-
sione che l’Universo sta attraversando, la cui trattazione è rimandata al capitolo
successivo. Per tale motivo il redshift è legato alla velocità di recessione delle
sorgenti cosmologiche secondo la legge di proporzionalità diretta:

v = z × c, (2.2)

18
2.1. FRATTALI E UNIVERSO

dove c rappresenta la velocità della luce. Combinando le due formule si ottiene


la forma più nota della legge di Hubble [9], ossia:

v = H0 × d, (2.3)

dove la costante di proporzionalità H0 rappresenta la costante di Hubble.


L’avvento dei cataloghi tridimensionali e l’affinarsi delle tecniche di rilevazione
del redshift, hanno permesso di investigare porzioni sempre più ampie e pro-
fonde di cielo. A differenza dei risultati ottenuti con i cataloghi bidimensionali,
l’analisi tridimensionale ha rivelato l’esistenza di strutture su tutte le scale,
come mostrato in figura 2.1, negando l’ipotesi di omogeneità su cui la teoria
cosmologica standard si fonda.
Ciò che Luciano Pietronero è riuscito a determinare è che la densità delle galassie
e degli ammassi di galassie gode dell’autosimilarità. In particolare, Pietronero
e Sylos Labini hanno rilevato che la densità della materia decresce al crescere
della scala in base ad una legge di potenza, e questo comportamento lo si ritrova
per distanze che vanno da 0.1 a 100M pc.
Invece se la materia avesse una distribuzione uniforme nell’Universo, la densità
avrebbe un andamento costante. Questo vuol dire che non si può escludere che
a distanze superiori a 100M pc si abbia omogeneità nel cosmo, in accordo quindi
col Principio Cosmologico.
Assume un carattere primario capire i meccanismi che possono aver generato
la struttura frattale dell’Universo [10, 11]. Non è del tutto chiaro come questi
possano operare nell’Universo, certamente devono interagire con i due meccani-
smi antagonisti e cioè il flusso espansivo di Hubble e il fattore aggregante della
gravità.

2.1.1 Analisi tramite la funzione di correlazione

Sono diversi i metodi statistici che sono stati utilizzati per analizzare le distribu-
zioni angolari (in due dimensioni) e le distribuzioni spaziali (in tre dimensioni)

19
2.1. FRATTALI E UNIVERSO

Figura 2.1: Distribuzione su larga scala dell’Universo.

dei cataloghi delle galassie. Non ci addentreremo in tali metodi che possono
essere trovati in [12, 13].

Lo studio della distribuzione degli oggetti celesti e l’individuazione delle strut-


ture gerarchiche si fonda su metodi statistici e in particolare sull’utilizzo della
funzione di correlazione a due punti ξ(r), introdotta da Hiroo Totsuji e Taro
Kihara [14] nel 1969 e ripresa successivamente da Peebles e i suoi colleghi [15]
nel 1980. Essa fornisce una descrizione della propensione delle galassie a riunirsi
in strutture più grandi e denota la deviazione dalla densità media del campione
che si esamina. Consideriamo un campione di N galassie distribuite in maniera
casuale ma omogenea nel volume V . Detta n la densità media del campione:

N
n= , (2.4)
V

la probabilità congiunta di trovare galassie in due volumi dV1 e dV2 , separati

20
2.1. FRATTALI E UNIVERSO

Figura 2.2: La funzione di correlazione a due punti descrive l’eccesso di probabilità, rispetto
a una distribuione casuale di galassie, di trovare una galassia in un elemento di volume dV1
a distanza r da una galassia nell’elemento di volume dV2 .

dalla distanza r, è data dal prodotto delle singole probabilità1 (vedi figura 2.2):

dP = n2 dV1 dV2 . (2.5)

Questa equazione, tuttavia, non tiene conto del fatto che la probabilità di trovare
una galassia in un punto possa aumentare o diminuire a seconda o meno della
presenza di un’altra galassia nelle vicinanze. Pertanto possiamo correggerla nel
seguente modo:
dP = n2 dV1 dV2 [1 + ξ(r)] , (2.6)

dove ξ(r) rappresenta proprio la funzione di correlazione.


In altre parole, possiamo dire che la funzione di correlazione a due punti è
definita come l’eccesso di probabilità, rispetto a quella che si avrebbe nel caso
in cui le galassie seguissero una distribuzaione di Poisson, di rivelare due galassie
a distanza r.
1
La proprietà risulta verificata se gli eventi sono incorrelati o statisticamente indipendenti,
ovvero se il verificarsi dell’uno uno non altera la probabilità che l’altro si verifichi.

21
2.1. FRATTALI E UNIVERSO

In particolare, la correlazione risulta essere maggiore su scale molto piccole e


diminuisce su scale più grandi.
Osservazioni sperimentali (si veda la figura 2.3) mostrano che la funzione di
correlazione delle galassie ha un andamento a legge di potenza del tipo:
 −γ
r
ξ(r) ∼ , (2.7)
r0
dove γ ∼ 1.8 rappresenta la pendenza della curva e si chiama “esponente di
correlazione” mentre r0 ∼ 5h−1 M pc si chiama “unità di scala” ed è una variabile
statistica, detta anche lunghezza di correlazione, che definisce la scala oltre la
quale si passa da un regime correlato ad uno incorrelato. Si tratta di una
grandezza definita come la distanza per cui la funzione di correlazione assume
valore unitario e denota la lunghezza oltre la quale la distribuzione della galassie
diventa omogenea e caratterizzata da una densità costante.

Figura 2.3: Funzione di correlazione a due punti in scala bilogaritmica per il catalogo CfA.

Benché l’analisi dei cataloghi tridimensionali indicasse la presenza di struttu-


re, lo studio del primo catalogo tridimensionale, il CfA1, ad opera di Davis e

22
2.1. FRATTALI E UNIVERSO

Peebles [16], rivelava un valore della lunghezza di correlazione pari a 5M pc, lo


stesso che si sarebbe trovato analizzando cataloghi bidimensionali. Il risultato,
dunque, sembrava apparentemente risolvere il problema relativo alla presenza
di strutture sul larga scala, ma ne introduceva uno nuovo. Ripetendo l’ana-
lisi per la distribuzione degli ammassi di galassie si trovava una lunghezza di
correlazione pari a 25M pc, diversa da quella delle galassie.
Questo fenomeno, noto come mismatch o discrepanza fra galassie e ammassi,
ha condotto Pietronero e altri [18] a rianalizzare i cataloghi astronomici in ter-
mini di un nuovo formalismo matematico. Essi hanno dimostrato che l’analisi
fatta utilizzando la funzione di correlazione ξ(r) risultava essere inappropriata
dal momento che si basava sul presupposto che la distribuzione delle galassie
fosse omogenea e, di conseguenza, sul concetto di densità media, ovvero di una
proprietà intrinseca del sistema.
Una distribuzione frattale, come la distribuzione della materia nell’Universo, è
caratterizzata dall’assenza di grandezze di riferimento, pertanto non ha senso
definire una densità media. Un’analisi opportuna dovrebbe basarsi sul concetto
di densità condizionata che per una struttura irregolare è sempre definita e
uguale in ogni punto.
Il nuovo modo di procedere basato sulla densità condizionata prevede di consi-
derare un campione tridimensionale e di contare il numero di galassie presenti
all’interno di una sfera di raggio r centrata su ogni galassia del campione. Si
calcola la media aritmetica del numero di galassie all’interno della sfera al varia-
re di r e lo si divide per il volume corrispondente al fine di ottenere una densità,
che è proprio la densità condizionata. Si ripete la procedura aumentando r fino
ad un valore massimo corrispondente al raggio della più grande sfera contenuta
nel campione.
Poichè il numero di galassie contenute nella sfera di raggio R cresce secondo la
N
legge N ∝ RD , notiamo che la densità n = V
∝ R(D−3) decresce all’aumentare
del raggio con una legge di potenza con esponente D − 3.
Alla luce di quanto detto, Pietronero ha rianalizzato il catalogo CfA1 ottenendo
come risultato che la distribuzione delle galassie segue una legge di potenza e

23
2.1. FRATTALI E UNIVERSO

quindi frattale fino ai limiti del campione studiato (80M pc) e ha stimato una
dimensione frattale D ≈ 2. Lo stesso risultato è stato ottenuto per i cataloghi di
ammassi di galassie che permettono di investigare porzioni di spazio maggiori
a causa della luminosità intrinseca maggiore rispetto a quella di una singola
galassia. Questo ha permesso di concludere che, a causa della proprietà di
invarianza di scala delle galassie, la distribuzione degli ammassi di galassie è la
stessa delle galassie, ma osservata a scale maggiori.

2.1.2 Lo spettro di potenza

Su scale piuttosto grandi si suole generalmente usare, piuttosto che la funzione


di correlazione a due punti, la sua trasformata di Fourier.
Sulla base del teorema di Wiener - Khintchinen secondo cui lo spettro di poten-
za coincide con la Trasformata di Fourier della funzione di correlazione di un
campo distribuito in modo omogeneo, vogliamo definire un opportuno spettro
di potenza P (k) per la distribuzione delle galassie a partire dalla funzione di
correlazione a due punti definita nel paragrafo precedente.
Esso è definito dalla relazione:
Z
~
P (k) ≡ F T [ξ(r)] = ξ(r)eik·~r d3 r
Z 2π Z π Z ∞
−ikr cos θ
= dφ e sin θdθ ξ(r)r2 dr
0
Z ∞ 0 0
sin kr 2
= 4π ξ(r) r dr, (2.8)
0 kr

dove k rappresenta il numero d’onda, legato alla lughezza d’onda delle fluttua-

zioni dalla relazione k = λ
.
La forma e l’ampiezza dello spettro di potenza permettono di ricavare informa-
zioni sulla natura e sulla quantità di materia presente nell’Universo utili nello
studio della formazione di strutture su larga scala.

24
2.1. FRATTALI E UNIVERSO

La determinazione dello spettro necessita di cataloghi omogenei di galassie di


cui sia nota la distanza o il parametro di redshift.

Un metodo per determinare lo spettro delle fluttuazioni su larga scala è quello


basato sui rilevamenti (“survey”) di grandi porzioni di cielo. Fra i più importanti
ricordiamo la CfA Redshift Survey iniziata nel 1977 e completata nel 1982, la
2dF Galaxy Redshift Survey (2dF o 2dFGRS), condotta fra il 1997 e il 2002, ma
soprattutto la più recente Sloan Digital Sky Survey (SDSS) che rappresenta il
più grande rilevamento che sia stato fatto e ha permesso di investigare circa un
quarto del cielo [17].

Il progetto iniziato nel 2000 e durato circa otto anni, ha utilizzato un telescopio
da 2, 5m di diametro situato presso l’Osservatorio di Apache Point nel Nuovo
Messico. Si tratta di un dispositivo dotato di una serie di rivelatori CCD in
grado di riprendere immagini in cinque bande ottiche (nell’ultravioletto e nel-
l’infrarosso) e di due spettroscopi digitali a cui la luce arriva tramite un fascio
di fibre ottiche in grado di misurare gli spettri (e quindi le distanze) di oltre 600
galassie e quasar in una singola osservazione.

Nella prima fase di osservazioni effettuate dal 2000 al 2005 (SDSS-I) sono stati
esaminati più di 8000 gradi quadrati2 di cielo, soprattutto nell’emisfero nord, in
cinque diverse bande spettrali ottenendo gli spettri di milioni di oggetti celesti.
La seconda fase (SDSS-II), invece, principalmente volta all’osservazione delle
stelle appartenenti alla nostra galassia (la Via Lattea), ha permesso l’osserva-
zione di supernovae di tipo IA in grado di fornire informazioni importanti per
lo studio della storia dell’Universo.

I risultati ottenuti hanno rivelato l’esistenza di strutture filamentari corrispon-


denti ad addensamenti di galassie e grandi vuoti e hanno posto le basi per lo
sviluppo di modelli riguardanti la formazione di strutture su larga scala.

2
Il grado quadrato è un unità di misura di angoli solidi, non facente parte del Sistema
Internazionale. A differenza del grado che rappresenta un’unità di misura di parte di una
circonferenza, l’angolo quadrato viene utilizzato per misurare parti di una sfera.

25
2.2. PRINCIPIO COSMOLOGICO

2.2 Principio Cosmologico

Sappiamo che il modello cosmologico standard si basa sull’ipotesi che nell’Uni-


verso non vi siano direzioni privilegiate e che la distribuzione della materia sia
omogenea. La prima ipotesi va sotto il nome di isotropia locale mentre l’ipotesi
di omogeneità presuppone che tutti i punti dell’Universo siano essenzialmente
equivalenti in modo che non vi siano osservatori privilegiati. Si tratta di un
principio noto come Principio Cosmologico, formulato da Einstein nel 1917 e
successivamente rielaborato da Milne nel 1930.
Tale principio, contiene inoltre l’assunzione implicita che la distribuzione della
materia sia regolare. E’ possibilie provare che l’ipotesi di omogeneità si ottiene
soltanto se sono verificate, nel contempo, le condizioni di isotropia e analicità
o regolarità della distribuzione della materia [32]. A tal proposito, osservando

Figura 2.4: Legame fra isotropia e omogeneità.

la figura 2.4, possiamo notare che l’isotropia intorno ad ogni punto garantisce
che tutti i punti appartenenti alla circonferenza centrata sulla prima galassia
abbiano la stessa densità, condizione valida anche per i punti della circonferenza
centrata sulla seconda galassia. Poichè le due circonferenze possiedono un punto
in comune, la densità risulterà essere uguale per entrambe le circonferenze,
ovvero la materia è distribuita in maniera uniforme.

26
2.3. FRATTALI E DARK MATTER

E’ opportuno specificare che l’ipotesi di regolarità permette una descrizione in


termini di funzioni matematiche continue e analitiche ed assicura l’esistenza di
una densità in ogni punto. Alla luce di quanto sopra esposto, le caratteristi-
che di una distribuzione irregolare, come quella di un frattale, permettono di
asserire che essa gode della proprietà di isotropia locale, ma non risulta omoge-
nea. C’è da aggiungere che non esiste una isotropia locale attorno a qualunque
osservatore, e ancora meno in una distribuzione frattale [20].
L’analisi di Pietronero mostra che la struttura dell’Universo è simile a quella di
un frattale. In quanto tale, godrà della proprietà di isotropia locale nel senso
che tutti i punti sono equivalenti e non vi sono osservatori privilegiati, ma la
distribuzione di questi punti non risulterà essere omogenea. Risulta lecito chie-
dersi se sia possibile estendere il Principio Cosmologico ad una distribuzione non
analitica di materia. La risposta è fornita dal Principio Cosmologico Condizio-
nale proposto di Mandelbrot [2] il quale non presuppone che la distribuzione di
materia sia regolare e pertanto non implica l’assunzione a priori dell’ipotesi di
omogeneità.
Esso semplicemente assume che la posizione di un generico osservatore risulta
irrilevante purchè esso si trovi in un punto appartenente alla distribuzione. Se
questo avviene, l’osservatore sarà in grado di osservare che la distribuzione della
materia segue un andamento frattale. In caso contrario, se l’osservatore si trova
in una regione di vuoto, sarà in grado di osservare la decrescita frattale della
densità solo su scale più grandi di quella del vuoto.

2.3 Frattali e dark matter

In accordo alla teoria cosmologica standard, l’Universo è omogeneo, isotropo


e in espansione, caratterizzato da una densità di materia costante. Su queste
ipotesi si basa la legge di Hubble, già incontrata nel paragrafo 2.1, che esprime la
relazione lineare fra redshift e distanza. Un risultato sorprendente che l’analisi

27
2.3. FRATTALI E DARK MATTER

fatta da Pietronero comporta, è che la legge di Hubble continua a valere anche


nel caso di distribuzione frattale della materia nell’Universo.
Una possibile spiegazione di questo fenomeno richiede di considerare il ruolo
della materia oscura. Si potrebbe pensare infatti che la materia oscura sia di-
stribuita in modo omogeneo mentre la materia luminosa, molto meno presente
nell’Universo, sia la causa della struttura frattale. Se cosı̀ fosse, le equazio-
ni della cosmologia standard da cui è possibile ottenere la legge di Hubble
continuerebbero a valere. Inoltre, la materia visibile continuerebbe ancora a
distribuirsi in maniera autosimile e non analitica e pertanto sarebbe possibile
studiarla mediante il metodo descritto in precedenza.
Nella descrizione della struttura dell’Universo un ruolo molto importante è affi-
dato alle simulazioni cosmologiche. Queste, a differenza di quanto succede con
le osservazioni, non si rivolgono soltanto alla percentuale di materia luminosa
nell’Universo ma considerano anche l’evoluzione della materia oscura. Le simu-
lazioni più semplici che sono state effettuate, hanno coinvolto soltanto materia
oscura, in particolare materia oscura fredda non barionica, e hanno mostrato
risultati in accordo con i dati osservativi.
La maggior parte dell’informazione contenuta nell’Universo, però, proviene dai
barioni (comunemente nella forma di gas). Pertanto, per avere una simulazio-
ne cosmologica completa, alla componente di materia oscura non barionica si
dovrebbe aggiungere il gas di barioni. Problemi di questo tipo sono estrema-
mente complicati ma recentemente, grazie alla creazione di supercomputers e
allo sviluppo del calcolo parallelo, è stato possibile creare potenti simulazioni
che coinvolgono un numero estremamente alto di particelle e caratterizzate da
una risoluzione molto elevata.
Una delle più potenti simulazioni cosmologiche della struttura su larga scala
che siano mai state fatte, è la simulazione Mare-Nostrum Universe ad opera di
Gottlöber ed altri [21] che simula l’evoluzione cosmica di due bilioni di particelle
(2 × 10243 ), di cui un bilione sono particelle di materia oscura e l’altro bilione
sono particelle di gas, in una scatola cubica di lato pari 500h−1 M pc.
Fra gli scopi della simulazione vanno annoverati il confronto della distribuzione

28
2.3. FRATTALI E DARK MATTER

su larga scala della materia oscura con quella del gas, lo studio dell’evoluzione
su larga scala della frazione di gas e la forma di aloni che la distribuzione di
materia oscura e gas assume.
Partendo dal lavoro di Gottlöber, José Gaite [22] ha successivamente sviluppato
un metodo di analisi multifrattale mostrando che le distribuzioni di gas e materia
oscura assumono aspetti frattali in un opportuno range di valori, il cui limite
superiore è definito dalla scala di omogeneità e quello inferiore dalla scala in cui
il sistema diventa discreto. In questo intervallo la distribuzione di materia si
può considerare omogenea e la dinamica non lineare.
In questo particolare intervallo non lineare Gaite ha calcolato gli spettri mul-
tifrattali relativi a materia oscura e gas con lo scopo di verificare la proprietà
di invarianza di scala, ottenendo spettri alquanto simili e la presenza di sin-
golarità comuni. Quest’ultimo aspetto ha origine fisica e deriva dal fatto che
materia oscura e gas sono dominate, su larga scala, dall’interazione gravitazio-
nale, la quale è in grado di produrre singolarità con leggi di potenza. Inoltre, il
fatto che le due componenti siano caratterizzate da dinamiche diverse (la ma-
teria oscura è soggetta all’interazione gravitazionale mentre la dinamica del gas
è molto più complessa) non interferisce con i principali aspetti che emergono
dall’analisi multifrattale delle distribuzioni. Si potrebbe dunque asserire che
l’intera struttura cosmica abbia un solo attrattore multifrattale, indipendente
dalle condizioni iniziali.
In ultimo c’è da dire che se le galassie sono distribuite in modo frattale ciò non
è necessariamente in contrasto col Principio Cosmologico se esiste una quantità
“giusta” di materia oscura, come messo in evidenza in [23].

29
2.3. FRATTALI E DARK MATTER

30
Capitolo 3

Cosmologia standard ed
accelerazione dell’Universo

3.1 Espansione accelerata

Fino a pochi anni fa gli astronomi erano convinti che la gravità stesse rallentando
l’espansione dell’Universo. Ma nel 1998 due gruppi di ricerca indipendenti,
guidati da Saul Perlmutter [24], in USA (Supernova Cosmology Project), e da
Brian Schmidt1 [25], in Australia (High-Z Supernovae Search Team), osservando
supernovae lontane, realizzarono che le loro luminosità apparenti risultavano
essere inferiori ai risultati previsti dalla teoria cosmologica. Questa divergenza
fra i dati teorici e sperimentali ha permesso di concludere che l’Universo sta
attraversando una fase di espansione accelerata. In particolare, dopo una prima
fase di rallentamento l’Universo ha subito una transizione, circa 5 miliardi di
anni fa, ed ha iniziato ad accelerare.
I fisici e gli astronomi hanno cercato di spiegare questo fenomeno postulando
l’esistenza di una strana nuova forma di energia, detta energia oscura. La rea-
le natura dell’energia oscura è ancora sconosciuta e la formulazione di modelli
che ne possano spiegare l’origine rappresenta uno degli aspetti più misteriosi
1
Premiati con il Premio Nobel per la Fisica nel 2011, insieme ad Adam Riess [26].

31
3.2. LE SUPERNOVAE IA

ed entusiasmanti che i fisici possano affrontare. L’osservazione delle supernovae


non rappresenta l’unica via per verificare l’espansione accelerata dell’Universo.
Ulteriori metodi di studio si basano sulla struttura a larga scala dell’Universo,
sull’analisi della radiazione cosmica di fondo a microonde (CMB), sulle oscil-
lazioni acustiche barioniche (BAO), a cui vanno aggiunti l’effetto Sachs-Wolfe
integrato e l’effetto di lente gravitazionale.

3.2 Le supernovae Ia

Le supernovae sono esplosioni stellari estremamente energetiche la cui lumino-


sità è elevata a tal punto da eguagliare quella della galassia che la ospita. La
classificazione delle supernovae è basata sulle caratterisiche del loro spettro elet-
tromagnetico. In particolare, l’assenza delle linee dell’idrogeno contraddistingue
le supernovae di tipo I, altrimenti, laddove le linee dell’idrogeno sono presenti,
si parla di supernovae di tipo II. Le prime possono a loro volta essere suddivise
in ulteriori categorie a seconda della presenza di linee spettrali aggiuntive. Si
definiscono supernovae di tipo Ia quelle che mostrano linee di assorbimento del
silicio, mentre si parla di tipo Ib quando c’è una prevalenza delle linee di assor-
bimento dell’elio e di tipo Ic quando vi è l’assenza di entrambi i tipi di linee,
ma la presenza delle righe del calcio, del ferro e di altri elementi intermedi.
Ad eccezione del tipo Ia, le supernovae hanno origine dal collasso gravitazionale
di una stella massiccia, seguito da un’esplosione nucleare che distrugge la stella.
Una supernova di tipo Ia, invece, non ha origine da una singola stella ma da
un sistema stellare binario, ovvero un sistema formato da due stelle orbitanti
intorno al loro comune centro di massa. In particolare, i sistemi binari che
possono dar origine ad una supernova Ia sono quelli costituiti da una nana
bianca composta da carbonio e ossigeno e da una stella compagna.
In un sistema binario, la stella più massiva evolve più velocemente e raggiunge

32
3.2. LE SUPERNOVAE IA

lo stato di nana bianca prima che la sua compagna lasci la sequenza principale2
e diventi una gigante rossa. Quando questo avviene e le stelle sono abbastanza
vicine, è possibile che ci sia trasferimento di massa dalla gigante rossa alla nana
bianca, come mostra la figura 3.1. La stabilità della nana bianca è mantenuta

Figura 3.1: Trasferimento di massa da una gigante rossa a una nana bianca.

dalla pressione degli elettroni degenerati che ha origine dal principio di esclusio-
ne di Pauli e che si oppone al collasso gravitazionale cui la nana bianca sarebbe
naturalmente soggetta. La massa di Chandrasekhar [27], pari a 1.44 volte la
massa del Sole, è definita come il valore limite che la massa di un corpo può
raggiungere e che garantisce una condizione di equilibrio in cui la gravità bilan-
cia perfettamente la pressione di degenerazione. Se il trasferimento di massa
sopra citato è tale da oltrepassare il limite di Chandrasekhar, il collasso gravita-
zinoale predomina, la stella si contrae comportando un aumento drastico della
temperatura che provoca l’accensione esplosiva del carbonio, nota come defla-
2
La sequenza principale è una curva molto particolare che rappresenta il cammino evo-
lutivo di una stella attraverso fasi diverse fino al raggiungimento degli stadi terminali che
rappresentano la fine del suo ciclo vitale. Essa appare nel diagramma di Hertzsprung-Russell,
importante strumento teorico utilizzato per classificare le stelle mettendo in relazione i valori
di temperatura effettiva e luminosità di ogni singola stella.

33
3.2. LE SUPERNOVAE IA

grazione. Dal momento che l’esplosione coinvolge una quantità fissa di massa,
è ragionevole affermare che essa rilasci una quantità fissa di energia. Questa
energia è sufficiente per far esplodere completamente la stella. La fusione nu-
cleare nelle supernovae di tipo Ia converte il carbonio e l’ossigeno presenti nel
56 56
nucleo della nana bianca in N i, che succeessivamente decade in Co e infine
56 56
in F e. Non tutto il materiale è però convertito in N i e questo giustifica la
presenza delle linee di assorbimento del silicio nello spettro delle supernovae di
56
tipo Ia. Secondo i modelli teorici la quantità di N i prodotta è di ∼ 0.5M .
L’analisi delle curve3 di luce permette di ottenere importanti informazioni circa
i meccanismi che regolano la formazione della supernova. In primo luogo si
osserva che la luminosità della supernova aumenta rapidamente nelle prime due
o tre settimane dopo l’esplosione fino a raggiungere un valore massimo, e poi
decresce lentamente nei mesi successivi. La luminosità del picco risulta essere
elevatissima, confrontabile con quella della galassia ospitante. Un’ulteriore pro-
prietà delle curve di luce delle supernovae Ia è la loro uniformità: è possibile
sovrapporre le curve una alle altre, come mostra la figura 3.2.
L’apparente uniformità e l’elevata luminosità del picco, che risulta avere un va-
lore standard in ogni parte dell’Universo, permettono di utilizzare le supernovae
Ia come candele standard, ovvero oggetti di cui si conosce con precisione la lu-
minosità assoluta e la cui distanza si può facilmente derivare dal confronto della
luminosità assoluta con quella apparente. Negli ultimi anni è stato possibile os-
servare che per una dato valore di redshift le esplosioni delle supernovae lontane
appaiono meno luminose del previsto. La luminosità di una supernova è stret-
tamente legata alla sua distanza dalla Terra, che a sua volta fornisce una misura
del tempo trascorso dall’esplosione. Pertanto se a fissato redshift la supernova
risulta avere una luminosità inferiore al valore atteso, si può affermare che essa
sia più lontana del previsto. La luce ha dovuto impiegare un tempo maggiore
per raggiungerci e l’Universo ha avuto bisogno di più tempo per crescere fino a
raggiungere le dimensioni attuali, come mostra la figura 3.3. Questo giustifiche-

3
La curva di luce è un grafico che mostra l’andamento della luminosità di un corpo celeste
in funzione del tempo trascorso dall’esplosione.

34
3.3. POSSIBILI FONTI DI ENERGIA OSCURA

Figura 3.2: Curva di luce di una supernova di tipo Ia.

rebbe un’eventuale fase di espansione accelerata necessaria affinché l’Universo


raggiunga il tasso di espansione attuale.
Esperimenti recenti, fra cui il Super Nova Legacy Survey (SNLS), Hubble Spa-
ce Telescope (HST) e Equation of State:SupErNovae trace Cosmic Expansion
(ESSENCE) [28, 29, 30], hanno permesso di ottenere i valori della distanza
di luminosità di supernovae Ia per grandi valori del redshift. Attraverso que-
sti dati è stato possibile riscotruire l’andamento dell’espansione dell’Universo e
confermare l’ipotesi di una fase di espansione accelerata.

3.3 Possibili fonti di energia oscura

Come già osservato nel paragrafo 3.1, una possibile spiegazione alla fase di
espansione accelerata dell’Universo è fornita dall’energia oscura. Si può imma-
ginare questa forma di energia come un’entità non identificata che genera una
specie di forza antigravitazionale sull’Universo.

35
3.3. POSSIBILI FONTI DI ENERGIA OSCURA

Figura 3.3: Le esplosioni di supernovae sono prove dirette dell’espansione dell’Universo.

Nella teoria di Einstein la gravità svolge un’azione attrattiva sulla materia. Di


conseguenza ci si aspetta che l’espansione dell’Universo rallenti ad un tasso re-
golato proprio dalla densità di materia presente nell’Universo, cosa che al giorno
d’oggi non avviene. Il rallentamento o l’accelerazione dell’espansione dell’Uni-
verso, potrebbero allora dipendere dallo scontro fra l’attrazione gravitazionale
della materia e la spinta repulsiva dell’energia oscura. La prevalenza di una del-
le due azioni dipende dalla densità di ciascuna di esse. E’ ragionevole pensare
che la densità dell’energia oscura oggi sia maggiore di quella della materia, ma
che ci sia stata un’epoca remota in cui è avvenuto il contrario e l’espansione
avrebbe dovuto rallentare. Prove dirette di una fase remota di espansione de-
celerata sono fornite proprio dall’osservazione delle supernovae, come riportato
nel paragrafo precedente.
Il modello più semplice utilizzato dalla cosmologia standard per spiegare gli
effetti dell’energia oscura è quello basato sulla costante cosmologica Λ4 , cosı̀
chiamata per via della sua densità di energia che risulta costante nello spazio e
4
Nel 1917, Einstein introdusse la costante cosmologica Λ nelle equazioni della Relatività
Generale al fine di ottenere soluzioni delle equazioni di campo in grado di descrivere una
geometria indipendente dal tempo, e quindi un Universo di tipo statico [31].

36
3.3. POSSIBILI FONTI DI ENERGIA OSCURA

nel tempo e il cui significato fisico è associato alla densità di energia del vuoto.
Tale termine viene interpretato come il contributo del vuoto cosmologico alla
densità cosmica. Il vuoto cosmologico può essere infatti interpretato come una
componente di “materia” con energia positiva e pressione negativa. E’ proprio
questa la caratteristica che permette di generare una forza repulsiva.
L’origine di questa energia va ricercata nel principio di indeterminazione di
Heisenberg secondo cui il vuoto sia pieno di fluttuazioni quantistiche che creano
coppie di particelle e antiparticelle virtuali che si annichiliscono in un tempo
inversamente proporzionale alla propria energia.
Tuttavia, se si calcola la densità di energia del vuoto si ottiene un valore estrema-
mente piccolo, molto simile al valore della densità critica, ovverro ρ ∼ 10−29 cmg 3 ,
valore decisamente in contrasto con quello sperimentale che è ρ ∼ 1094 cmg 3 . Que-
sta enorme discrepanza di circa 123 ordini di grandezza fra risultato teorico e
sperimentale, è alla base di uno dei problemi principali della fisica teorica, noto
come problema della costante cosmologica [32].
I tentativi per cercare di ridurre il “fine-tuning” e risolvere cosı̀ il problema
della costante cosmologica sono numerosi e riguardano teorie diverse: QCD,
supersimmetria, teoria delle stringhe. Nessuna di queste teorie sembra tuttavia
fornire una valida risposta al problema.
Esistono modelli alternativi a quello appena descitto, basati sull’ipotesi che il
valore di Λ sia nullo o trascurabile. Risolvere il problema della costante cosmo-
logica vuol dire, dunque, trovare il meccanismo che renda il suo valore nullo
o trascurabile in maniera tale da poterlo confrontare con il valore dell’attuale
densità cosmologica [33].
In aggiunta va considerato il problema della coincidenza, ovvero il fatto singolare
che la densità di energia del vuoto sembra aver iniziato a dominare rispetto alla
densità di materia pressapoco nell’epoca attuale. Si tratta di un problema
che caratterizza non soltanto il modello della costante cosmologica, ma tutti i
modelli riguardanti l’energia oscura.
La teoria delle particelle elementari afferma che alcuni campi quantistici pos-
sono essere descritti come “sostanze” con energia positiva e pressione negativa.

37
3.4. ESPANSIONE ACCELERATA: UNA SPIEGAZIONE ALTERNATIVA.

Questo ci permette di introdurre un modello alternativo in grado di spiegare


l’energia oscura e allo stesso tempo capace di risolvere il problema della coin-
cidenza. Esso è basato sull’introduzione di un campo scalare φ, denominato
“quintessenza” [34], con un potenziale V (φ) che interagisce con le altre com-
ponenti solo attraverso la gravità ed è responsabile dell’accelerazione cosmica.
Si tratta di un metodo basato sull’ipotesi che l’energia del vuoto sia nulla,
Λ = 0, e che ci sia una forma di energia oscura dinamica, piuttosto che statica
come l’energia del vuoto appena discussa. Questo equivale a dire che, a diffe-
renza della costante cosmologica, l’equazione di stato della quintessenza varia
dinamicamente nel tempo.
A differenza della materia usuale la quintessenza è in grado di produrre accele-
razione piuttosto che decelerazione. Questo si può giustificare considerando il
termine di accelerazione che compare all’interno delle equazioni di Einstein per
l’energia oscura. Sappiamo che l’accelerazione dell’Universo è descritta dalla
legge di gravitazione universale di Newton; in questo caso particolare la massa
in una sfera centrata intorno ad un generico punto risulta negativa. Ed è proprio
questa massa negativa che fa sı̀ che la quintessenza provochi accelerazione.
Anche questo tipo di approccio però rivela dei problemi di fondo. Innanzitutto
è necessario trovare un campo e di conseguenza un potenziale V (φ) opportuno
che sia in grado di spiegare una fase di espansione accelerata. In secondo luogo,
a causa della ridotta scala di energia, risulta difficile trovare un modello analogo
nella fisica delle particelle.

3.4 Espansione accelerata: una spiegazione al-


ternativa.

Esiste un’ulteriore spiegazione al fenomeno dell’espansione cosmica in accordo


con i dati delle supernovae Ia a grandi redshift e che non richiede l’introduzione

38
3.4. ESPANSIONE ACCELERATA: UNA SPIEGAZIONE ALTERNATIVA.

di una forma esotica di energia, quale l’energia oscura.


Come sappiamo, la cosmologia standard si fonda sul Principio Cosmologico, ge-
neralizzazione del principio copernicano secondo cui a grandi scale l’Universo
risulta uniforme ed omogeneo. Supponiamo di trascurare il principio cosmologi-
co, a favore di un’espansione non omogenea dell’Universo, come quella mostrata
in figura 3.4. Osserviamo che la distribuzione su grande scala dell’Universo è
composta da aggregati di materia, filamenti, ma anche vuoti cosmici.

Figura 3.4: Esempio di espansione non uniforme dello spazio

In questo contesto possiamo immaginare che la posizione della Terra non sia del
tutto irrilevante, ma che questa si trovi in una posizione privilegiata, ad esempio
in un gigantesco vuoto cosmico, ovvero in una depressione nella distribuzione
delle galassie caratterizzata da una minore densità di materia, come in figura
3.5.

39
3.4. ESPANSIONE ACCELERATA: UNA SPIEGAZIONE ALTERNATIVA.

Figura 3.5: Distribuzione delle strutture e dei vuoti cosmici su larga scala nel caso di un
modello di Universo isotropo paragonata a una distribuzione non omogenea.

Uno scenario del genere è stato proposto inizialmente da George Ellis, Charles
Hellaby e Nazeem Mustapha [35] e successivamente perfezionato dal lavoro di
Marie-Nölle Célérier [36].
Come sappiamo, la materia frena lo spazio-tempo facendo diminuire il tasso di
espansione. Ma se si considera una regione di spazio in cui la densità di materia
è estremamente piccola, l’effetto di frenamento dell’ espansione risulterà essere
minore rispetto ad altre regioni dell’Universo. Pertanto in ogni istante di tempo,
regioni diverse dello spazio si espanderebbero a tassi diversi. In particolare, il
tasso risulta essere massimo al centro dei vuoti, e si riduce in prossimità dei
bordi, laddove si avvertono gli effetti della densità di materia esterna.
In questo contesto, i dati relativi all’osservazione di supernovae sono fortemente
dipendenti dalla posizione in cui avviene l’emissione. Se una supernova esplode
in una regione lontana, la luce emessa attraverserà zone in cui sono presenti
vuoti e zone più omogenee. In particolare, se la nostra posizione fosse al centro
del vuoto, l’espansione dello spazio sarebbe più rapida nelle regioni limitrofe
rispetto al punto in cui si trova la supernova. L’onda luminosa, attraversando
quindi zone che si espandono a velocità sempre più elevata, subisce un allun-

40
3.5. LA GEOMETRIA DI LEMAÎTRE-FRIEDMANN-
ROBERTSON-WALKER
gamento che produce lo spostamento verso il rosso osservato sperimentalmente.
Se l’Universo si comportasse in questo modo, la luce dovrebbe percorrere una
distanza maggiore per ottenere lo stesso redshift che si avrebbe nel caso in cui
l’Universo si espandesse in maniera omogenea e con un tasso costante.
L’esistenza di un vuoto cosmico gigantesco in grado di produrre gli stessi effetti
dell’energia oscura è ritenuta altamente improbabile, ma studi risalenti ai primi
anni novanta hanno mostrato che la probabilità che gli osservatori si trovino in
una struttura simile a quella appena descritta non è del tutto trascurabile.
Osservazioni future saranno in grado di risolvere la questione tra energia oscura e
modelli di vuoto e determinare quale sia il modello più opportuno per descrivere
la fase di espansione che l’Universo sta attraversando.

3.5 La geometria di Lemaı̂tre-Friedmann-


Robertson-Walker

3.5.1 Geometria ed equazioni di Einstein.

La cosmologia standard si fonda sul Principio Cosmologico, il quale afferma che


l’Universo sia omogeneo ed isotropo su grandi scale. Questo è confermato da un
gran numero di osservazioni, basti pensare ad esempio ai fotoni della radiazione
cosmica di fondo che, pur provenendo da differenti direzioni nel cielo, presentano
una temperatura costante.
Le ipotesi di isotropia ed omogeneità permettono di parametrizzare la geometria
dello spazio-tempo attraverso la carta “comovente”. In questo caso, l’intervallo
spazio-temporale può essere espresso nel seguente modo:

ds2 = gµν dxµ dxν = b2 (t)dt2 − a2 (t)dσ 2 , (3.1)

41
3.5. LA GEOMETRIA DI LEMAÎTRE-FRIEDMANN-
ROBERTSON-WALKER

dove gµν = diag(1, −1, −1, −1) è il tensore metrico, a(t) e b(t) sono generiche
funzioni del tempo. In particolare la funzione a(t), detta fattore di scala, viene
determinata risolvendo le equazioni di Einstein per questa metrica. Il fattore
dσ 2 , invece, rappresenta l’elemento di linea di uno spazio tridimensionale con
raggio di curvatura costante (positiva, negativa o nulla) k 5 che, facendo uso di
coordinate stereografiche {x1 , x2 , x3 }, può essere espresso come:

(xi dxi )2
dσ 2 = dxi dxi + k , (3.2)
1 − kxi xi
in cui il prodotto scalare è fatto secondo la metrica Euclidea δij 6 .
L’equazione (3.1) può essere riscritta utilizzando coordinate polari {r, θ, φ}. Po-
nendo x1 = rsinθcosφ, x2 = rsinθsinφ, x3 = rcosφ e differenziando per cal-
colare il dσ 2 , si ottiene la forma generale della metrica di Friedmann-Lemaı̂tre-
Robertson-Walker (FLRW) [37, 38, 39, 40],

dr2
ds2 = b2 (t)dt2 − a2 (t) − a2 (t)r2 (dθ2 + sin2 θdφ2 ), (3.3)
1 − kr2
dove occorre solo specificare un opportuno gauge per la coordinata temporale.
Una peculiarità della carta comovente consiste nel fatto che osservatori statici,
dxµ
con quadri-vettore velocità uµ = dτ
= (1, 0, 0, 0), risultano anche geodetici.
Questo equivale a dire che tutte le componenti del quadri-vettore velocità uµ ,
sia spaziali che temporale, soddisfano l’equazione geodetica:
duµ
+ Γµαβ uα uβ = 0, (3.4)

dove
1
Γµαβ = g µν (∂α gβν + ∂β gνα − ∂ν gαβ ) (3.5)
2
rappresentano i simboli di Christoffel i quali, nell’ambito della relatività generale
di Einstein, coincidono con la connessione, e τ rappresenta il tempo proprio.
5
Le varietà con curvatura costante sono anche dette “massimamente simmetriche”, poiché
ammettono il massimo numero consentito di isometrie che, in uno spazio a n dimensioni, è
pari a n(n+1)/2.
6
Nell’ Eq. (3.1) gli indici Greci µ e ν assumono valori da 0 a 3, mentre nell’ Eq. (3.2) gli
indici Latini i e j assumono valori da 1 a 3.

42
3.5. LA GEOMETRIA DI LEMAÎTRE-FRIEDMANN-
ROBERTSON-WALKER

L’esistenza di questi osservatori geodetici statici permette di definire un’oppor-


tuna coordinata temporale, detta tempo cosmico, che coincide col tempo proprio
dell’osservatore statico ed è ottenuta dalla condizione b(t) = 1. Tale scelta di
coordinate è detta gauge sincrono e corrisponde alla condizione g00 = 1. Una
diversa scelta della coordinata temporale è quella che definisce il gauge confor-
me in cui si richiede che sia g00 = a2 (t) o b(t) = a(t). In questo caso si parla
di tempo conforme, indicato con il simbolo η. Nella seguente trattazione verrà
adottata la scelta del gauge sincrono che permette di riscrivere l’Eq. (3.3) nella
forma più tradizionale della metrica FLRW, ovvero:

dr2
ds2 = dt2 − a2 (t) 2
− a2 (t)r2 (dθ2 + sin2 θdφ2 ). (3.6)
1 − kr

Dopo aver fissato il gauge opportuno, occorre determinare l’evoluzione tempo-


rale del fattore di scala a(t). A tal fine si ricavano le equazioni dinamiche del
moto a partire dalle equazioni di Einstein nel modo qui di seguito descritto.
Dalla metrica gµν si ricavano i simboli di Christoffel (3.5) e si definisce il tensore
di Ricci:
Rνα = ∂µ Γνα µ − ∂ν Γµα µ + Γµρ µ Γνα ρ − Γνρ µ Γµα ρ , (3.7)

la cui contrazione determina lo scalare di Ricci, anche detto curvatura scalare,

R = Rν ν = g να Rνα . (3.8)

Combinando il tensore di Ricci e la curvatura scalare si ottiene il tensore di


Einstein,
1
Gµν = Rµν − gµν R, (3.9)
2
il quale gioca un ruolo fondamentale nelle equazioni del campo gravitazionale.
La dinamica cosmologica può essere dunque ottenuta risolvendo le equazioni di
Einstein:
Gµν = 8πGTµν , (3.10)

dove con Tµν si indica il tensore generalizzato energia-impulso di un fluido per-


fetto, introdotto per descrivere le sorgenti gravitazionali su scala cosmologica.

43
3.5. LA GEOMETRIA DI LEMAÎTRE-FRIEDMANN-
ROBERTSON-WALKER

Le sorgenti del campo gravitazionale difatti si possono descrivere come un fluido


perfetto barotropico con tensore energia-impulso:

Tµ ν = (ρ + p)uµ uν − pδµ ν , (3.11)

dove uν rappresenta la quadri-velocità dell’elemento di fluido in coordinate co-


moventi, mentre p e ρ indicano rispettivamente pressione e densità7 di energia
del fluido, legate dall’equazione di stato:

p
= γ = costante. (3.12)
ρ

Se inoltre si assume che il fluido sia a riposo nel sistema comovente, in cui
uν = (1, 0, 0, 0), l’equazione (3.11) assume la forma:

Tµ ν = diag(ρ, −p, −p, −p). (3.13)

E’ opportuno precisare che p e ρ rappresentano pressione e densità totale del


fluido. Nel modello cosmologico standard, tuttavia, si assume che il tenso-
re energia-impulso appena definito, descriva una miscela di fluidi barotropici,
composta da n componenti disaccoppiate tra loro, con diversi parametri di stato
γn dipendenti dal tipo di fluido considerato. Pertanto è possibile scrivere:
X X
p= pn ρ= ρn pn = γn ρn . (3.14)
n n

In conclusione è bene specificare le componenti principali che costituiscono il


fluido cosmico: la materia (caratterizzata da parametro di stato γmat = 0 con
conseguente pressione nulla), e la radiazione (caratterizzata dal parametro di
stato γrad = 1/3 ed equazione di stato prad = ρrad /3). Mentre la prima descrive
le sorgenti gravitazionali macroscopiche quali stelle, galassie, gas interstellare,
la seconda componente rappresenta il contributo di tutte le particelle con massa
nulla (o molto piccola) quali fotoni, gravitoni e neutrini.
7
Pressione e densità del fluido sono funzioni esclusivamente del tempo e non delle
coordinate spaziali in accordo alle proprietà di isotropia e omogeneità della geometria FLRW.

44
3.5. LA GEOMETRIA DI LEMAÎTRE-FRIEDMANN-
ROBERTSON-WALKER

3.5.2 Le equazioni di Lemaı̂tre-Friedmann-


Robertson-Walker

Dall’equazione (3.7) si ricava che per la metrica FLRW le componenti non nulle
del tensore di Ricci sono:

R0 0 = −3 (3.15)
a
ä k
R1 1 = R2 2 = R3 3 = − − 2H 2 − 2 2 (3.16)
a a
mentre la curvatura scalare definita dalla (3.8) assume la forma:
 
ä 2 k
R = −6 +H + 2 . (3.17)
a a

Il punto indica la derivata rispetto al tempo cosmico, e



H= (3.18)
a
è detto parametro di Hubble che descrive il tasso di espansione dell’Universo.
L’equazione (3.10) insieme alla condizione Gµ ν = g να Gµα , conduce alle seguenti
equazioni
k 8πG
G0 0 = 8πGT0 0 ⇒ H 2 + 2
= ρ (3.19a)
a 3
ä k
G1 1 = 8πGT1 1 ⇒ 2 + H 2 + 2 = −8πGp (3.19b)
a a
la prima delle quali è nota come equazione di Friedmann e risulta essere indi-
pendente dalla pressione. Le due equazioni possono essere combinate al fine di
ottenere l’equazione
ä 4πG
=− (ρ + 3p), (3.20)
a 3
nota come equazione di accelerzione del fluido. Notiamo che ä < 0 se ρ e p
sono entrambe positive; pertanto la richiesta che ä > 0 risulta verificata dalla
condizione:
ρ 1
p<− → γ<− , (3.21)
3 3

45
3.5. LA GEOMETRIA DI LEMAÎTRE-FRIEDMANN-
ROBERTSON-WALKER

dove si assume che ρ sia positiva. Il meccanismo, già introdotto nel paragra-
fo 3.1, che permette di generare questa pressione negativa e che è causa del-
l’espansione cosmica, rappresenta uno dei principali scopi di questo lavoro di
tesi.
Differenziando l’equazione di Friedmann ed usando la (3.20) si ottiene

ρ̇ + 3H(ρ + p) = 0, (3.22)

che descrive l’evoluzione temporale della densità di energià ed è nota come equa-
zione di continuità o di conservazione. A tal proposito è opportuno specificare
che la stessa equazione può essere ottenuta considerando la conservazione del
tensore energia-impulso, diretta conseguenza dell’identità di Bianchi contratta
soddisfatta dal tensore di Einstein.
Abbiamo visto nel paragrafo precedente che è possibile fare l’ipotesi che il fluido
barotropico sia formato da n componenti disaccoppiate tra loro. E’ possibile
assumere in aggiunta che ognuna di essese soddisfi separatamente l’equazione
di continuità (3.22), ovvero:

ρ̇n + 3Hρn (1 + γn ) = 0, (3.23)

in cui si è fatto uso dell’ultima relazione di (3.14). Ricordando la definizione


del parametro di Hubble e separando le variabili si ottiene:
 −3(1+γn )
a
ρn = ρn0 (3.24)
a0

dove ρn0 e a0 rappresentano i valori attuali di densità e fattore di scala. Pertanto


l’equazione di Friedmann (3.19b) può essere riscritta nella seguente forma:

2 k 8πG X  a 3(1+γn )
0
H + 2 = ρn0 (3.25)
a 3 n a

o, in alternativa, in forma adimensionale:


X
Ωn + Ωk = 1, (3.26)
n

46
3.6. REDSHIFT E DISTANZA DI LUMINOSITÀ

dove
8πG k
Ωn ≡ 2
ρn , Ωk ≡ − . (3.27)
3H (aH)2
Ricordando la definizione di densità critica ρc ,
3H 2
ρc = , (3.28)
8πG
si può dunque affermare che l’ Eq. (3.26) rappresenta una relazione fra i vari
contributi alla densità totale espressi in frazioni di densità critica.

3.6 Redshift e distanza di luminosità

3.6.1 Redshift

Nel paragrafo 2.1 è stato introdotto il concetto di redshift come parametro stret-
tamente legato alla distanza di un oggetto luminoso. Per definire tale quantità
consideriamo una particella di massa nulla (ad esempio un fotone) con energia
E e quadri-impulso pµ che si propaga lungo una geodetica nulla di una varie-
tà spazio-temporale descritta dalla metrica FLRW. Se il fotone viene emesso e
ricevuto da due osservatori geodetici e statici situati lungo la geodetica nulla,
rispettivamente nei punti xem e xoss , l’energia misurata da ciascun osservatore
si ottiene proiettando scalarmente il quadri-impulso del fotone sulla quadri-
velocità dell’osservatore. Si definisce allora il parametro di redshift nel seguente
modo:
(gµν pµ uν )em E(tem ) ωem λoss
1+z ≡ = = = (3.29)
(gµν pµ uν )oss E(toss ) ωoss λem
E’ possibile tuttavia definire il parametro di redshift in funzione del fattore di
scala.
Ricordiamo che per un fotone che si muove lungo una geodetica, il quadri-
impulso pµ viene trasportato parallelamente a se stesso, ossia deve essere sod-

47
3.6. REDSHIFT E DISTANZA DI LUMINOSITÀ

disfatta l’quazione:
Dpµ ≡ dpµ + Γαβ µ dxα pβ = 0. (3.30)

Se supponiamo che il fotone si propaghi radialmente, il suo quadri-impulso può


essere espresso nella forma pµ = (E, pr , 0, 0). Dalla condizione p2 = gµν pµ pν = 0
si ricava che per la metrica FLRW (3.6):

2 2 1 − kr2
g00 E + g11 pr = 0 ⇒ pr = E. (3.31)
a(t)

Assumiamo inoltre che il fotone si propaghi lungo una geodetica radiale nulla
della metrica (ds2 = 0, dθ = dφ = 0), ossia:

2 a2 (t) 1 − kr2
dt − dr2 = 0 ⇒ dr = dt. (3.32)
1 − kr2 a(t)

Inserendo le equazioni (3.31) e (3.32) nell’equazione geodetica (3.30), valutata


per µ = 0, si ottiene8 :
dE da
=− , (3.33)
E a
che esprime una relazione di proporzionalità inversa fra l’energia propria del
segnale luminoso e il fattore di scala della metrica FLRW. In conclusione l’Eq.
(3.29) può essere riscritta nella forma:

a(toss ) a0
1+z = = , (3.34)
a(tem ) a(t)

dove a0 e a(t) si riferiscono rispettivamente ai valori del fattore di scala relativi


al giorno d’oggi e al tempo di emissione.

3.6.2 Distanza di luminosità

In relazione alla “distanza”, la quantità più nota in astronomia è la distanza di


luminosità dL , che costituisce un parametro molto utilizzato nelle osservazioni di
8 aȧ
L’unico coefficiente di Christoffel non nullo è Γ011 = 1−kr 2 .

48
3.6. REDSHIFT E DISTANZA DI LUMINOSITÀ

supernovae Ia in quanto permette di confrontare la luminosità di una supernova


con il tasso di espansione dell’Universo.
Per poterla definire occorre introdurre il concetto di distanza propria. A tal pro-
posito si considera un segnale che si propaga in direzione radiale verso l’origine
e che pertanto soddisfa la condizione differenziale:
dr dt dz
√ =− = , (3.35)
1 − kr2 a(t) a0 H(z)

dove l’ultimo passaggio è stato ottenuto differenziando l’Eq. (3.34) e ricordan-


do la definizione di H data nel paragrafo 3.5.2. Se assumiamo che il segnale
venga emesso a distanza rem e ricevuto nell’origine al tempo t0 l’integrazione
della precedente equazione, nell’ipotesi di curvatura nulla, conduce al seguente
risultato:
rem z z
dz 0 dz 0
Z Z Z
dr = ⇒ a0 rem ≡ d0 = , (3.36)
0 0 a0 H(z 0 ) 0 H(z 0 )
che rappresenta effettivamente la distanza propria.
Consideriamo adesso una sorgente posta a distanza rem dall’origine, che emette
radiazione con una potenza:
 
dE
Lem = . (3.37)
dt em

Sia F flusso osservato nell’origine al tempo t0 , ovvero la potenza ricevuta a


distanza propria d0 = a0 rem per unità di tempo e di superficie, definito da
 
Loss 1 dE
F = 2
= 2 2
. (3.38)
4πd0 4πa0 rem dt oss

Si definisce allora distanza di luminosità la quantità:


Lem
dL 2 ≡ . (3.39)
4πF
Ricordiamo che nella metrica FLRW esiste una legge di proporzionalità inversa
fra energia e fattore di scala che conduce all’espressione:
dEoss 1
= . (3.40)
dEem 1 + zem

49
3.6. REDSHIFT E DISTANZA DI LUMINOSITÀ

Tale risultato si estende anche agli intervalli di tempo per effetto della dilata-
zione temporale, pertanto:
dtoss dEem
= = 1 + zem . (3.41)
dtem dEoss
Sotto queste condizioni il flusso assume la forma
Lem
F = 2 2
, (3.42)
4πa0 rem (1 + zem )2
da cui si ottiene
dL = (1 + z)a0 rem . (3.43)
Facendo uso della (3.36) e ricavando l’espressione di H(z) dalla (3.25), si giunge
al risultato finale:
z
dz 0
Z
1+z
dL (z) = pP , (3.44)
H0 0 n Ωn0 (1 + z 0 )3(1+γn ) + Ωk0 (1 + z 0 )2
dove H0 rappresenta l’attuale valore della costante di Hubble mentre Ωn0 ≡
8πG
ρ
3H02 n0
e Ωk0 ≡ − (a0 Hk 0 )2 sono parametri che definiscono lo stato cosmologico
attuale e che possono essere ottenuti direttamente dalle osservazioni sperimen-
tali.
Tuttavia per il confronto fra modello teorico e dati osservativi, si suole utiliz-
zare generalmente un parametro, detto modulo di distanza, definito nel modo
seguente:  
dL
µ ≡ 5 lg10 , (3.45)
10
dove la distanza di luminosità viene espressa in pc.
I dati sperimentali con cui effettuare un confronto sono quelli relativi al catalogo
UNION2 ottenuto nell’ambito del Supernova Cosmology Project [41].
Si tratta di un catalogo che consiste in 557 supernovae Ia relative a valori di
redshift nel range z = [0.015; 1.4], ottenuto estendendo il catalogo Union con
l’aggiunta di nuovi dati relativi a supernovae Ia con valori del redshift bassi e
intermedi, trovati nell’ambito di progetti quali il CfA3 e il SDSS-II Supernova
Search, e di nuove supernovae Ia con alti valori di z scoperte attraverso il tele-
scopio spaziale Hubble. In figura 3.6 viene mostrata la distribuzione nel cielo
delle supernovae Ia appartenenti al catalogo UNION2.

50
3.6. REDSHIFT E DISTANZA DI LUMINOSITÀ

Figura 3.6: Distribuzione nel cielo delle 557 supernovae Ia del catalogo UNION2. Le su-
pernovae con redshift z < 0.1 sono indicate col simbolo più, mentre il quadratino individua
quelle con z > 0.1.

Per il computo di dL e del conseguente modulo di distanza, occorre specifica-


re quali siano le componenti dell’Universo che intervengono nell’Eq.(3.44). A
tal proposito ricordiamo che oltre alle componenti di materia e curvatura, ri-
spettivamente Ωm e Ωk , occore considerare la componente a pressione negativa,
ovvero l’energia oscura.
Denotando con ρΛ la densità di questa energia oscura, la sua equazione di stato
può essere scritta nella forma pΛ = −ρΛ = −Λ, con conseguente parametro di
stato γΛ = −1.
Tale equazione di stato deriva dall’assumere che l’energia oscura rappresenti il
contributo gravitazionale di una costante cosmologica Λ. Se indichiamo con
Tµ ν = Λδµ ν il tensore energia-impulso che descrive gli effetti gravitazionali di
tale costante e lo confrontiamo con l’equazione (3.13), troviamo effettivamente
che esso corrisponde ad un fluido perfetto barotropico con densità di energia
ρ = Λ ed equazione di stato nella forma appena scritta.
La scelta di queste sorgenti, la cui distribuzione è mostrata in figura 3.7, va
sotto il nome di “modello Λ-Cold Dark Matter” (ΛCDM).

51
3.6. REDSHIFT E DISTANZA DI LUMINOSITÀ

Figura 3.7: Grafico a torta relativo alla composizione dell’Universo nel modello ΛCDM.

Sotto queste condizioni possiamo riscrivere l’Eq. (3.26) nella forma:

Ωm + ΩΛ + Ωk = 1. (3.46)

Se assumiamo che il contributo di curvatura sia trascurabile, utilizzando i valori


Ωm0 = 0.3 e ΩΛ0 = 0.7 forniti dalle attuali osservazioni, siamo in grado di
calcolare il valore di dL e di conseguenza quello di µ.
L’andamento del modulo di distanza in funzione del redshift per il modello
descritto in confronto ai dati relativi al catalogo UNION2 è invece riportato in
figura 3.8, da cui si evince chiaramente che andamento teorico e dati sperimentali
sono in buon accordo.

52
3.6. REDSHIFT E DISTANZA DI LUMINOSITÀ

34 Μ

36

38

40

42

44
0.0
0.2
0.4
0.6
z
0.8
1.0
1.2
1.4

Figura 3.8: Modulo di distanza in funzione del redshift per le 557 supernovae del catalogo
UNION2.
53
3.6. REDSHIFT E DISTANZA DI LUMINOSITÀ

54
Capitolo 4

Il modello frattale cosmologico

4.1 Il Principio Cosmologico Condizionale

Nel secondo capitolo abbiamo derivato la metrica di FLRW e dimostrato che


essa è diretta conseguenza dell’assumere che la materia sia distribuita in modo
omogeneo ed isotropo, in accordo con quanto postulato dal Principio Cosmolo-
gico. L’applicazione di tale principio richiede che la distribuzione della materia
segua le stesse leggi indipendentemente dalla scelta del sistema di riferimento
da cui si osserva, ovvero deve essere invariante per traslazioni.
Quando si analizza la distribuzione spaziale delle galassie si trova che essa è es-
senzialmente non omogenea fino a scale dell’ordine di 100M pc. Questo è uno dei
motivi che spingono i cosmologi a studiare modelli non omogenei dell’Universo
piuttosto che quello FLRW.
L’evidenza sperimentale tuttavia mostra, con buona approssimazione, che su
piccole scale (dell’ordine di ∼ 20M pc/h) la distribuzione della materia nel co-
smo segue un andamento frattale1 . Questo equivale a dire che, detto N (R) il
numero di galassie contenute in una sfera di raggio R centrata su una qualsiasi
1
I dati disponibili non sono in grado di mostrare se la distribuzione della materia continui
ad essere frattale su scale maggiori di quella riportata nel testo o se vi sia un “passaggio”
all’omogeneità in accordo al Principio Cosmologico.

55
4.1. IL PRINCIPIO COSMOLOGICO CONDIZIONALE

galassia, esso non risulta proporzionale a R3 come ci si aspetta nel caso di una
distribuzione omogenea, bensı̀ a RD , dove D ≈ 2 proprio come enunciato nel
paragrafo 2.1.
Sebbene, sotto queste condizioni, venga meno la proprietà di omogeneità, non
si può dire la stessa cosa per l’ipotesi di isotropia spaziale, confermata da molti
dati sperimentali.
L’isotropia insieme al carattere non analitico della distribuzione di materia han-
no indotto Mandelbrot a introdurre il cosiddetto “Principio Cosmologico Con-
dizionale”, ossia un principio più “debole” rispetto al Principio Cosmologico,
secondo cui l’Universo risulta statisticamente lo stesso da qualsiasi galassia lo
si osservi e in ogni direzione.
Il principio cosmologico di Mandelbrot essenzialmente è una generalizzazione
del principio cosmologico per modelli cosmologici non omogenei aventi strutture
frattali isotrope.
Ricordiamo che per osservatore si intende un osservatore comovente con il flui-
do cosmologico, definizione che esclude la presenza di osservatori in regioni di
vuoto. Inoltre, poichè tutti i punti appartenenti al frattale risultano equivalen-
ti2 , possiamo affermare che il Principio Cosmologico Condizionale corrisponde
alla richiesta che un generico osservatore sia situato su una galassia (ovvero un
punto del frattale) e non in una regione di vuoto.
In altri termini in base a questo principio cosmologico gli osservatori solidali
con la “struttura” in considerazione, sono equivalenti.
Il termine “condizionale” si riferisce alla condizione che ogni osservatore “occupa”
sempre un elemento della struttura, altrimenti non ha senso neppure definire la
densità, come si vedrà più avanti in questa sezione.
Quando si ha a che fare con mezzi continui si introduce il concetto di densità
come rapporto tra la massa contenuta in un certo volume ed il volume stesso.
Questo valore non dipende dal valore della massa nè tantomeno da quello del
volume. E’ possibile generalizzare definendo il concetto di densità in un punto
2
La proprietà non è vera per i punti non appartenenti al frattale. Si dimostra infatti che
qualsiasi sfera centrata su un punto di questo tipo risulta vuota con probabilità uguale a 1.

56
4.1. IL PRINCIPIO COSMOLOGICO CONDIZIONALE

P , dove si ha:
M (P, V )
ρ = lim , (4.1)
V →0V
in cui M in questo caso è la massa del fluido in considerazione e V il volume
intorno al punto P .
Se il mezzo è continuo il limite nella (4.1) esiste ed ha senso.
Per spiegare questo comportamento della materia possiamo supporre che essa
si distribuisca secondo i punti Pi di un insieme frattale con dimensione D. Il
concetto stesso di densità non può essere applicato semplicemente ma bisogna
assumerne un altro. Attribuendo ad ogni punto del frattale una massa mi , la
densità di materia per questa distribuzione risulta essere:
X
ρ(P ) = mi δ(P, Pi ), (4.2)
i

nel caso di particelle identiche, cioè mi = m, si è soliti utilizzare il termine di


densità numero:
X
n(P ) = δ(P, Pi ). (4.3)
i
Consideriamo una nuova variabile R, raggio di un volume sferico V (R), all’in-
terno del quale conteggiamo le particelle.
Pertanto possiamo definire la densità di massa frattale come dipendente da due
variabili, Pi , posizione della nostra particella, e il raggio R del nostro volume:
M (P, R)
ρf rattale = ρ(P, R) = , (4.4)
V (R)
dove M (P, R) è proprio la massa contenuta nel volume V (R) posizionato in P .
Integrando sulla sfera di raggio R centrata sul punto P appartenente al frattale
si ha: Z
ρ dV = MP (R) = C(t)RD , (4.5)
3 (R)
SP

ovvero la massa racchiusa nella suddetta sfera. Nell’ultima uguaglianza abbiamo


fattorizzato il termine dipendente dal tempo da quello dello spazio.
Notiamo che per una distribuzione frattale caratterizzata da una dimensione
D < 3, la densità
M RD
ρ= ≈ 3 ≈ R(D−3) → 0, (4.6)
V R

57
4.2. LE EQUAZIONI

nel limite R → +∞. Questo equivale a dire che la densità media non è una
quantità ben definita per un frattale in quanto nel limite di un volume infinito
essa tende asintoticamente a zero.
Questo risultato non è del tutto atteso perché ci dice che la densità frattale sta
decrescendo a partire da ogni punto del frattale. Cioè sembra che ogni punto
del frattale rappresenti il centro del nostro sistema a partire dal quale la densità
decresce.
Ma allora vi sarà una scala oltre la quale la densità della materia o di una
generica componente uniforme sarà maggiore della densità della nostra compo-
nente frattale. E’ oltre questa scala che l’Universo diventa omogeneo nel senso
“classico” del Principio Cosmologico.
Possiamo sintetizzare il tutto dicendo che su piccola scala la distribuzione della
materia è frattale, mentre su grandi scale essa è uniforme. Chiaramente tutto
ciò è dovuto al fatto che un Universo frattale non è un frattale matematico che,
essendo tale, non ha alcuna limitazione a qualunque scala.
Pertanto si può concludere che una distribuzione frattale è asintoticamente vuo-
ta e per tale motivo la densità non rappresenta più un parametro fondamentale.

4.2 Le equazioni

In analogia a quanto fatto per il modello Cosmologico Standard, vogliamo ora


scrivere le equazioni di Einstein per il nostro modello frattale, sulla base del
Principio Cosmologico Condizionale [42, 43]. Definiamo allora una funzione
fˆ(r) tale che:


fˆ(r)GF RW (t) se P ∈ f rattale
f rattale 00
Ĝ00 (t, r, θ, φ) = (4.7)
0 altrimenti.

58
4.2. LE EQUAZIONI

Le equazioni di Einstein assumono la forma:


X
Ĝf00rattale (P ) = 8πGρ(P ) = 8πG mi δ(P, Pi ), (4.8)
i

che, integrate sul volume di una ipersfera di raggio R centrata in P, SP3 (R),
danno: Z Z X
Ĝf00rattale (P )dV = 8πG mi δ(P, Pi )dV. (4.9)
3 (R)
SP 3 (R)
SP i

Inserendo l’Eq. (4.5) e assumendo R = r a(t), l’equazione precedente può essere


riscritta nel modo seguente3 :
2π π r
fˆ(r)r2
Z Z Z Z
GF00RW (t)a3 (t) dφ sin θdθ √ dr = 8πG ρdV
0 0 0 1 − kr2 3 (R)
SP

= 8πGC(t)aD (t)rD , (4.10)

ovvero
r
fˆ(r)r2
Z
GF00RW (t)a3 (t)4π √ dr = 8πGC(t)aD (t)rD , (4.11)
0 1 − kr2
che semplificata restituisce:
r
fˆ(r)r2
Z
GF00RW (t)a3 (t) √ dr = 2GC(t)aD (t)rD . (4.12)
0 1 − kr2

Tale equazione è soddisfatta dalle condizioni:

GF00RW (t) = 2νGC(t)aD−3 (t) (4.13a)


r
fˆ(r)r2 rD
Z
√ dr = . (4.13b)
0 1 − kr2 ν

Osserviamo che nel caso in cui D = 3 si deve riottenere l’usuale metrica FRW,
cioè deve valere:
fˆ(r)r2 r
Z
√ dr ∝ r3 , (4.14)
1 − kr 2
0

condizione soddisfatta richiedendo fˆ(r) = Dν 1 − kr2 rD−3 .

3 a3 (t)r 2 senθ
Ricordiamo che possiamo esprimere l’elemento di volume come dV = √
1−kr 2
drdθdφ.

59
4.3. SOLUZIONE ESATTA PER UNA METRICA FLRW CON
DISTRIBUZIONE DI MATERIA FRATTALE

Il valore della costante ν è determinato dalla condizione che per D = 3 risulti


Ĝf00rattale = GF00RW . Questo si traduce nel richiedere che fˆ(r) = 1 per k = 0 e
D = 3, vale a dire:
3
fˆ(r) = = 1 ⇒ ν = 3. (4.15)
ν
Inserendo nell’ Eq.(4.13a) e ricordando la definizione di GF00RW data nel para-
grafo 3.5.2 otteniamo:
 2
ȧ k
3 + 3 2 = 6 G C(t)aD−3 (t), (4.16)
a a

che rappresenta l’equazione di Friedmann per un Universo con distribuzione di


materia frattale. La soluzione di tale equazione, nel caso di curvatura nulla,
sarà argomento del prossimo paragrafo.

4.3 Soluzione esatta per una metrica FLRW


con distribuzione di materia frattale

Per poter risolvere l’equazione appena ottenuta parametrizziamo la “densità


frattale” in maniera opportuna ponendo:
 nD
a0
C(t) = C0 . (4.17)
a(t)

Se denotiamo con N (t) = C(t)RD (t) il numero di galassie presenti, all’istante


di tempo t, in una sfera di raggio R(t) = a(t)r centrata sul punto P , possiamo
osservare che per n = 1, la parametrizzazione definita da (4.17) permette di
descrivere il caso di un Universo in cui il numero delle galassie resta costante,
nonostante il fattore di scala vari nel tempo. Questa situazione è espressa dalla
condizione:
C(t)aD (t)rD = C0 aD D
0 r . (4.18)

60
4.3. SOLUZIONE ESATTA PER UNA METRICA FLRW CON
DISTRIBUZIONE DI MATERIA FRATTALE

Nel caso in cui n = 0, invece, il numero di galassie presenti nella sfera è definito
da N (t) = C0 aD (t)rD , ovvero aumenta col variare del fattore di scala secondo
una legge di “potenza frattale”.
Sotto queste condizioni, assumendo un n generico, l’equazione (4.16) diventa:
 2
ȧ k
3 + 3 2 = 6 G C0 anD
0 a
D−3−nD
(t) = 6 G C0 anD
0 a
D(1−n)−3
(t), (4.19)
a a
che, nel caso di curvatura nulla, si riduce a:
 2

3 = 6 G C0 anD
0 a
D(1−n)−3
(t). (4.20)
a
Fissando a0 = 1, è possibile riscrivere l’equazione nella forma:
 2

= 2 G C0 aD(1−n)−3 (t) ⇒ ȧ2 = 2 G C0 aD(1−n)−1 (t). (4.21)
a
Essendo interessati a modelli di Universo in espansione, consideriamo solo la
soluzione positiva
da p D(1−n)−1
= 2GC0 a 2 (t), (4.22)
dt
separiamo le variabili
1−D(1−n) p
a 2 (t) da = 2GC0 dt (4.23)

e integriamo su epoche passate, ovvero su istanti di tempo t precedenti a quello


attuale t0 = 0 Z 1 Z 0
1−D(1−n) p
a 2 (t)da = 2GC0 dt. (4.24)
a(t) t

L’integrale restituisce un fattore di scala nella forma:


 2
 3−D(1−n)
3 − D(1 − n) p
a(t) = 1 + 2GC0 t , (4.25)
2
pertanto l’elemento di linea per una distribuzione di materia frattale diventa:
 4
 3−D(1−n)
2 2 3 − D(1 − n) p
dx2 + dy 2 + dz 2 , (4.26)

ds = dt − 1 + 2GC0 t
2
riuscendo cosı̀ ad introdurre l’informazione della frattalità all’interno della me-
trica stessa, quindi della geometria del nostro Universo.

61
4.4. IL TENSORE ENERGIA-IMPULSO

4.4 Il tensore energia-impulso

In questo paragrafo ci occuperemo del calcolo del tensore energia-impulso nel


caso di una distribuzione di materia distribuita in maniera frattale. Ricordia-
mo che nel nostro modello stiamo assumendo che la materia, seppur seguendo
una distribuzione frattale, possa essere interpretata come un fluido perfetto ba-
rotropico, ovvero un fluido privo di viscosità o attriti interni. Pertanto anche
in questo caso, la componente di tipo tempo-tempo del tensore sarà associata
alla densità di energia (in unità naturali), mentre le componenti diagonali Ti i
corrispondono alla pressione isotropa nella direzione i-esima.
Consideriamo allora l’equazione (4.13a) e riscriviamola in termini della parame-
trizzazione (4.17) ottenendo il seguente risultato:

GF00RW (t) = 8πGT00 = 8πGρf = 6 G C0 anD


0 a
D(1−n)−3
(t). (4.27)

Un confronto diretto con l’equazione (3.24) che descrive l’evoluzione della den-
sità per una generica componente di fluido composto di parti non interagenti,
permette di scrivere:
D(n − 1)
−3(1 + γf ) = D(1 − n) − 3 ⇒ γf = , (4.28)
3
che rappresenta il parametro di stato per la componente di materia distribuita
in maniera frattale. L’equazione di stato assume la forma:
D(n − 1)
pf = ρf , (4.29)
3
pertanto il tensore energia-impulso diventa:
D(n − 1) D(n − 1) D(n − 1)
Tµ ν = diag(ρf , − ρf , − ρf , − ρf ). (4.30)
3 3 3
Osserviamo che ipotizzando n = 0 e considerando che le osservazioni sperimen-
tali mostrano che D > 1, il parametro di stato diventa γf r < − 13 e quindi
soddisfa la condizione, definita nell’equazione (3.21), necessaria affinché si ab-
bia un’espansione accelerata dell’Universo4 . Questo permette di supporre che
4
La condizione è verificata per qualsiasi valore di n che risulti minore di 1.

62
4.4. IL TENSORE ENERGIA-IMPULSO

l’accelerazione non sia causata da una forma esotica di energia quale l’energia
oscura, ma sia dovuta essenzialmente alla distribuzione stessa della materia che
con la sua pressione non nulla agisce sulla varietà spazio temporale.

63
4.4. IL TENSORE ENERGIA-IMPULSO

64
Capitolo 5

Distanza di luminosità in un
Universo con distribuzione di
materia frattale

5.1 Le sorgenti

Nell’equazione (3.44) abbiamo scritto la formula per il calcolo della distanza di


luminosità per un Universo descritto con la metrica di Friedmann-Robertson-
Walker. Tuttavia è possibile riscrivere la formula in una maniera più generale
nel modo seguente:
" Z z #
1+z p dz 0
dL (z) = p F H0 |Ωk0 | pP ,
H0 |Ωk0 | 0 3(1+γn ) + Ω (1 + z 0 )2
0 H0 n Ωn0 (1 + z ) k0
(5.1)
dove la funzione F[x] è cosı̀ definita1 :



 x, Ωk0 = 0,

F[x] = sinh x, Ωk0 > 0, (5.2)



sin x, Ωk0 < 0.
1
Per il calcolo dettagliato si veda l’appendice B.

65
5.1. LE SORGENTI

Vediamo quali sono le componenti che intervengono nell’equazione appena scrit-


ta. Osserviamo innanzitutto che, come nel caso “classico”, anche in questo mo-
dello possiamo scegliere come sorgenti gravitazionali fluidi perfetti barotropici
non interagenti, inglobando l’informazione frattale all’interno del fluido.
Questa scelta è giustificata dal fatto che per n = 1, dall’equazione (4.28) risulta
che il parametro di stato γf è nullo per qualsiasi valore di D. Pertanto la
componente T0 0 del tensore energia-impulso scala come a−3 (t) rendendo una
distribuzione di materia frattale comovente con la varietà indistinguibile da un
fluido perfetto barotropico comovente.
A questo punto vogliamo ottenere l’espressione della densità di energia della
componente di materia con distribuzione frattale. Lo faremo manipolando in
maniera opportuna l’equazione di Friedmann ottenuta nel precedente capitolo
e confrontandola con l’equazione di Einstein:

 3(1+γn )
a0
GF00RW (t) = 8 π G ρn0 (5.3)
a(t)

in cui si è fatto uso della (3.24).


A tal proposito consideriamo il secondo membro dell’equazione (4.16), che ri-
scriviamo, tenendo conto della parametrizzazione (4.17), nel modo seguente:

 nD  nD
a0 3−D a0 1
6 G C0 a (t) = 6 G C0
a(t) a(t) aD−3 (t)
 nD 
3−D
a0 a0 1
= 6 G C0 3−D
a(t) a(t) a0 (t)
  3+nD−D
6 C0 a0
= 8πG
8 π a3−D
0 a(t)
  3(1+γf )
3 C0 a0
= 8πG , (5.4)
4 π a3−D
0 a(t)

dove abbiamo moltiplicato e diviso per il fattore a03−D nel primo passaggio,
successivamente per 8π nel secondo passaggio, ed infine abbiamo fatto uso della
definizione di γf .

66
5.2. CALCOLO DELLA DISTANZA DI LUMINOSITÀ

Il confronto diretto con l’equazione (5.3) permette di scrivere la densità che


cercavamo come:
3 C0
ρf 0 = , (5.5)
4 π a3−D
0
da cui si ricava:
ρf 0 8 π G 3 C0 2 G C0
Ωf 0 = = 2 3−D
= 2 3−D . (5.6)
ρc0 3 H0 4 π a0 H0 a0
Sulla base di queste considerazioni, possiamo quindi elencare le principali com-
ponenti che costituiscono l’Universo, ossia:

• componente di curvatura;

• radiazione, avente parametro di stato γr = 1/3;

• materia oscura fredda (cold dark matter ), con parametro di stato γcdm = 0;

• materia visibile con distribuzione frattale, caratterizzata dal parametro di


stato γf = D(n − 1)/3.

Con queste condizioni, l’equazione (5.1) assume la seguente forma generale:


" Z z 
1+z p
dL (z) = p F |Ωk0 | dz 0 Ωr0 (1 + z 0 )4 + Ωcdm0 (1 + z 0 )3
H0 |Ωk0 | 0
# (5.7)
− 21
0 3+D(n−1) 0 2
+ Ωf 0 (1 + z ) + Ωk0 (1 + z ) ,

che rappresenta la più generale distanza luminosa per questo modello frattale
di Universo considerato.

5.2 Calcolo della distanza di luminosità

E’ necessario ora porre l’attenzione sulla determinazione della distanza di lumi-


nosità in un Universo con distribuzione di materia frattale.

67
5.2. CALCOLO DELLA DISTANZA DI LUMINOSITÀ

Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che il moto dell’osservatore è comovente


rispetto alle galassie. Tuttavia bisogna tener conto del moto relativo dell’os-
servatore rispetto al sistema di riferimento del fluido comovente, ossia occorre
considerare l’effetto di deriva fra spazio-tempo e materia.
Consideriamo pertanto un osservatore con velocità generica uµ = (1, u1 , u2 , u3 )
che misura il redshift di un segnale che si propaga in direzione radiale con
quadrivettore d’onda k µ = (k 0 , k 1 , 0, 0) secondo la relazione:

(gµν uµ k ν )em
1+z = . (5.8)
(gµν uµ k ν )oss

Valutiamo quindi la quantità:

gµν uµ k ν = g00 u0 k 0 + g11 u1 k 1 + g22 u2 k 2 + g33 u3 k 3 = k 0 − a2 (t)u1 k 1 , (5.9)

che, tenendo conto della condizione di normalizzazione:

k0
gµν k µ k ν = (k 0 )2 − a2 (t)(k 1 )2 = 0 ⇒ k 1 = , (5.10)
a(t)

diventa:
gµν uµ k ν = k 0 1 − a(t)u1 .

(5.11)

Sotto queste condizioni, assumendo inoltre che la velocità relativa u1 resti


costante nel tempo, l’equazione (5.8) assume la seguente forma:
0
kem (1 − aem u1 )
1+z = 0 (1 − a 1
, (5.12)
koss oss u )

che può essere ulteriormente modificata ricordando che la componente tempo-


rale del quadrivettore d’onda è definita come:

k0
k 0 (t) = , (5.13)
a(t)

per cui possiamo scrivere:

aoss (1 − aem u1 )
1+z = . (5.14)
aem (1 − aoss u1 )

68
5.2. CALCOLO DELLA DISTANZA DI LUMINOSITÀ

Con le condizioni aem = a(t) e a0 = 1 si giunge al risultato finale:


1 (1 − a(t)u1 )
1+z = , (5.15)
a(t) (1 − u1 )
molto importante perché in grado di fornire delle relazioni fondamentali per il
calcolo della distanza di luminosità.
In primo luogo possiamo ricavare l’espressione del parametro di espansione nel
modo seguente:

a(t) [(1 + z) (1 − u1 )] = 1 − a(t) u1 ⇒ a(t) [(1 + z) (1 − u1 ) + u1 ] = 1, (5.16)

da cui segue:
1
a(t) = . (5.17)
1 + z (1 − u1 )
In secondo luogo, differenziando la (5.15) si ottiene che:
(1 − a(t)u1 )ȧ(t) ȧ(t)u1
 
dz 1
= − −
dt 1 − u1 a2 (t) a(t)
1
ȧ(t)u1
 
1 ȧ(t) ȧ(t)u
= − 2 + −
1 − u1 a (t) a(t) a(t)
ȧ(t) 1
=− , (5.18)
a(t) a(t)(1 − u1 )
da cui, ricordando la definizione del parametro di Hubble, otteniamo:
dz dt
(1 − u1 ) =− . (5.19)
H(z) a(t)
In maniera analoga a quanto fatto nel caso della metrica FLRW possiamo adesso
ricavare la formula della distanza di luminosità. Per far questo, occorre innan-
zitutto ridefinire la distanza propria per un segnale che si propaga in direzione
radiale, emesso a distanza rem e ricevuto nell’origine al tempo t0 .
Assumendo a0 = 1, nell’ipotesi di curvatura nulla e facendo uso dell’equazione
(5.17), si ha che:
rem t z
dt0 dz 0
Z Z Z
1
dr = − = (1 − u ) , (5.20)
0 0 a(t0 ) 0 H(z 0 )
da cui segue:
z
dz 0
Z
1
d0 ≡ rem (z) = (1 − u ) . (5.21)
0 H(z 0 )

69
5.2. CALCOLO DELLA DISTANZA DI LUMINOSITÀ

A questo punto consideriamo una sorgente posta a distanza rem dall’origine, che
emette radiazione con una potenza:
 
dE
Lem = , (5.22)
dt em

e, seguendo una procedura del tutto analoga a quella vista nel paragrafo (3.6.2),
valutiamo il flusso F osservato nell’origine al tempo t0 , ovvero la potenza rice-
vuta, per unità di tempo e di superficie, da un osservatore posto a distanza
propria d0 = rem , che risulta essere dato dalla relazione:
 
Loss 1 dE
F = 2
= 2
. (5.23)
4 π d0 4 π rem (z) dt oss
Notiamo che anche per il nostro modello vale una legge di proporzionalità inversa
fra energia e fattore di scala, pertanto l’energia ricevuta è minore di quella
emessa in accordo alla relazione:
dEoss
= a(t), (5.24)
dEem
mentre gli intervalli temporali sono dilatati di una quantità opposta, ossia:
dtoss 1
= . (5.25)
dtem a(t)
Pertanto, facendo uso della (5.17), la potenza ricevuta risulta essere data da:
   
dE 2 dE Lem
Loss = = a (t) = , (5.26)
dt oss dt em [1 + z (1 − u1 )]2
che, inserita nella (5.23), permette di riscrivere il flusso osservato come:
Lem
F = 2 (z)[1
. (5.27)
4π rem + z (1 − u1 )]2
Essendo la distanza di luminosità il parametro per cui valga la relazione:
Lem
F = , (5.28)
4 π d2L (z)
ne consegue che:
z
dz 0
Z
1 1
dL (z) = [1 + z (1 − u )] rem (z) = [1 + z (1 − u )] (1 − u1 ) , (5.29)
0 H(z 0 )

70
5.2. CALCOLO DELLA DISTANZA DI LUMINOSITÀ

in cui abbiamo fatto uso della definizione di distanza propria data nella (5.21).

Occorre infine determinare l’espressione del parametro di Hubble che compare


all’interno dell’integrale. Per far questo riscriviamo l’equazione di Friedmann
per un Universo con distribuzione di materia frattale e curvatura nulla definita
dalla (4.20) nel modo seguente:
"  3+D(n−1) #
2 2 G C0 a0
H (z) = H02 , (5.30)
H02 a03−D a(t)
dove abbiamo usato la definizione del parametro di Hubble e moltiplicato e
diviso per il fattore H02 a3−D
0 .
Ricordiamo che l’equazione di Friedmann può essere espressa in forma adimen-
sionale, ovvero:
X
Ωn0 + Ωk0 = 1, (5.31)
n
che per un Universo con distribuzione di materia frattale e curvatura nulla si
riduce alla seguente forma:
2 G C0
Ωf 0 = 1 ⇒ = 1, (5.32)
H02 a03−D
in cui si è fatto uso dell’equazione (5.6).
Alla luce di questo e assumendo a0 = 1, l’equazione (5.30) diventa:
 3+D(n−1)
2 2 1
H (z) = H0
a(t)
3+D(n−1)
= H02 1 + z (1 − u1 )

, (5.33)

in cui abbiamo nuovamente espresso il parametro di espansione in accordo alla


definizione data da (5.17).
Pertanto il parametro di Hubble diventa:
 3+D(n−1)
H(z) = H0 1 + z(1 − u1 )
 2
, (5.34)

che, inserito nella (5.29), permette di ottenere l’espressione finale per la distanza
di luminosità, ossia:
z
(1 − u1 ) dz 0
Z
1
dL (z) = [1 + z (1 − u )] 3+D(n−1)
. (5.35)
H0 0 [1 + z (1 − u1 )] 2

71
5.3. SOLUZIONI A CONFRONTO

5.3 Soluzioni a confronto

Nota la formula generale per il calcolo della distanza di luminosità, siamo in


grado di valutare il modulo di distanza sulla base della definizione data nel
paragrafo 3.6.2.
La figura 5.1 mostra l’andamento del modulo di distanza per il modello frattale
discusso in questo lavoro di tesi (curva blu) in confronto a quello usuale di
Friedmann-Lemaı̂tre-Robertson-Walker (curva arancione).
I parametri di best-fit per il nostro modello sono ottenuti minimizzando la
funzione:
557  th 2
X µ (zi ) − µoss (zi )
i i
χ2f r = , (5.36)
i
σµ,i

dove µth oss


i (zi ) e µi (zi ) rappresentano i valori del modulo di distanza ottenuti
rispettivamente dal nostro modello e dalle osservazioni, mentre σµ,i rappresenta
l’errore sulle misure sperimentali.
I valori di questi parametri sono mostrati nella seguente tabella:

D n u1
1.71527 0.0145024 -0.0375404

mentre il valore del χ2f r risulta pari a 0.984 molto simile a quello ottenuto per
il modello cosmologico standard ossia χ2F RW = 0.981.
Come si può osservare in figura 5.1 il modello di Universo frattale riproduce
in modo eccellente i dati sperimentali delle supernovae date dal catalogo di
UNION2.
Ovviamente l’aspetto notevole consiste nel fatto che il nostro modello di Uni-
verso frattale non contempla nessuna costante cosmologica e quindi nessuna
accelerazione dell’Universo. In altri termini, l’apparente accelerazione potrebbe
essere spiegata tenendo presente che la distribuzione delle strutture su gran-
di scale è una distribuzione frattale. E’ proprio la frattalità a mimare una
accelerazione apparente.

72
5.3. SOLUZIONI A CONFRONTO

In verità questa conclusione non è del tutto nuova, anche se è ottenuta per la
prima volta con questo modello. Tentativi, più o meno riusciti, sono stati fatti
in passato con altri modelli.
Nel prossimo paragrafo, per ragioni di completezza e confronto, analizzeremo
uno di questi modelli e lo confronteremo col nostro e con quello della cosmologia
standard.

73
5.3. SOLUZIONI A CONFRONTO

34 Μ

36

38

40

42

44
0.0
0.2
0.4
0.6
z
0.8
1.0
1.2
1.4

Figura 5.1: Confronto fra il modulo di distanza per un modello di Universo con distribuzione
frattale di materia (curva blu) e per un Universo di Lemaı̂tre-Friedmann-Robertson-Walker
con energia oscura (curva arancione) per le 557 supernovae del catalogo UNION2.

74
5.3. SOLUZIONI A CONFRONTO

5.3.1 Il modello “Fractal Bubble”

Nel corso di questo paragrafo introdurremo un modello di Universo, proposto


da D.L.Wiltshire [44], al fine di effettuare un confronto con quello studiato in
questo lavoro di tesi.
Il modello, noto sotto il nome di “Fractal Bubble model” (FB), si basa sul fatto
che risulta possibile eseguire un fit dei dati sperimentali relativi alla distan-
za di luminosità per le supernovae di tipo Ia escludendo l’ipotesi che ci sia
accelerazione cosmica e di conseguenza presenza di energia oscura.
Basandosi sul lavoro di Kolb et al. [45], il modello di Wiltshire è un modello “a
due scale” in grado di mimare i vuoti e le pareti che si osservano nella struttura
del nostro Universo attuale. Esso afferma che l’Universo che osserviamo si trova
in una bolla under-dense, originata durante un’epoca primordiale di inflazione
cosmica, all’interno di un Universo più grande il quale risulta descritto mediante
una geometria di Lemaı̂tre-Friedmann-Robertson-Walker piatta.
Tuttavia, a differenza del lavoro di Kolb et al. ottenuto tramite un analisi
perturbativa, il modello di Wiltshire deriva dalle soluzioni esatte delle equazioni
di Einstein. Esso permette di fare previsioni su molte quantità cosmologiche
nell’epoca dominata dalla materia, basandosi su due parametri, la costante di
Hubble, H0 , e il parametro di densità, Ωm .
La dinamica dell’espansione, generalmente attribuita alla costante cosmologica,
viene adesso spiegata tramite un nuovo effetto.
La distanza di luminosità per questo modello cosmologico è stata calcolata ed
è data dalla formula seguente [46]:
" #
c (1 + z) (2 + Ω̃20 ) 2 − Ω̃0
dL = 2 cosh η − p sinh η , (5.37)
H0 Ω̃0 (2 + Ω̃0 ) 1 − Ω̃0

dove H0 rappresenta il valore attuale del parametro di Hubble, Ω̃0 è un parame-


tro opportunamento definito, legato alla densita di materia attuale Ωm0 dalla
relazione:  
6 π 1 −1
p
Ω̃0 = √ sin − cos Ωm0 − 2, (5.38)
Ωm0 6 3

75
5.3. SOLUZIONI A CONFRONTO

ed η indica il tempo conforme, ricavabile da:

q
1 (1 − Ω̃0 ) (2 + Ω̃0 ) + Ω̃0 z [9 Ω̃0 z − 2Ω̃20 + 16 Ω̃0 + 4] + (Ω̃20 + 2)2
cosh η = − + .
2 2 Ω̃0 (z + 1)
(5.39)
Partendo da queste considerazioni possiamo calcolare il modulo di distanza per
il modello appena descritto e confrontarlo con i dati di supernovae del catalogo
UNION2. Si tenga presente che nel lavoro originale di Wiltshire et al. il con-
fronto teorico era fatto con i dati di supernova del “Gold data set” pubblicato
da Riess et al. [47].
Invece in questo contesto aggiorneremo quel modello confrontandolo con i nuovi
dati del catalogo UNION2.
Il risultato ottenuto è riportato in figura 5.2.

44

42

40
Μ

38

36

34
0.0 0.2 0.4 0.6 0.8 1.0 1.2 1.4
z
Figura 5.2: Modulo di distanza in funzione del redshift per il modello “fractal bubble” in
riferimento alle 557 supernovae del catalogo UNION2.

76
5.3. SOLUZIONI A CONFRONTO

Le curve di best fit del modello di Wiltshire danno un χ2 = 1.72 e Ωm =


0.00017, avendo fissato H0 = 72 s km
M pc
, dati questi che naturalmente tendono
ad escludere il modello stesso essendo il valore di χ2 troppo alto ed il valore
di Ωm quattro ordini di grandezza inferiore rispetto a quello emergente dalla
cosmologia moderna.
A questo punto possiamo mettere a confronto il risultato ottenuto (curva verde)
con quello relativo al nostro modello frattale (curva blu), come mostrato in figura
5.3 in cui è stata inserita anche la curva relativa al modello ΛCDM.
Come si vede le relazioni luminosità-redshift sono in buon accordo con i dati
sperimentali.

77
5.3. SOLUZIONI A CONFRONTO

34 Μ

36

38

40

42

44
0.0
0.2
0.4
0.6
z
0.8
1.0
1.2
1.4

Figura 5.3: Confronto fra il modulo di distanza per un modello di Universo con distribuzione
frattale di materia (curva blu), per un Universo di Lemaı̂tre-Friedmann-Robertson-Walker con
energia oscura (curva arancione) e per il modello “fractal bubble” (curva verde) in riferimento
alle 557 supernovae del catalogo UNION2.

78
5.4. INIZIO DELLA ACCELERAZIONE DELL’UNIVERSO

5.4 Inizio della accelerazione dell’Universo

Una interessante analisi può essere fatta considerando il cosiddetto “Universo


di Milne”, ovvero un particolare Universo che si epsande linearmente ed è omo-
geneo, senza materia, radiazione e costante cosmologica. Naturalmente questo
modello di Universo non è reale, ma la sua importanza risiede nel fatto che con-
sente di avere importanti informazioni come, ad esempio, su “quando” l’Universo
abbia iniziato ad accelerare.
Per questo scopo consideriamo la seguente quantità:
   
M ilne dL (z) z (2 + z)
∆µ = µ(z) − µ (z) = 5 lg10 − 5 lg10 , (5.40)
1 M pc 2 H0
1
con H0 espresso in unità di M pc
.
Se ∆µ > 0 vuol dire che le distanze luminose che stiamo considerando sono
maggiori di quelle relative al modello di Milne. Analogamente per ∆µ < 0, le
distanze sono più piccole (i flussi ricevuti della radiazione, cioè la magnitudo
apparente, sono più grandi) di quelle attese dal modello in espansione lineare.
In particolare, se ∆µ < 0 si ha la caratteristica situazione di un Universo che
decelera perché, a fissato z, abbiamo che le distanze sono più piccole di quelle
attese da un modello lineare di espansione. Se ∆µ > 0, invece, abbiamo una
espansione accelerata perché a fissato z le distanze sono più grandi di quelle
attese dall’espansione lineare. Il valore ∆µ = 0 fornisce il tempo (z), che deno-
tiamo con zacc , in cui si passa dalla decelerazione all’accelerazione dell’Universo,
cioè segna il periodo in cui inizia l’espansione accelerata.
In figura 5.4 riportiamo il plot di ∆µ per tre casi: in azzurro un modello di Uni-
verso non omogeneo ed isotropo (Lemaı̂tre, Tolman, Bondi) [48], in arancione
il modello standard (ΛCDM) ed in blu il nostro modello di Universo frattale.
L’intercetta di z con ∆µ = 0 ci fornisce “l’istante” in cui il modello di Universo
considerato inizia ad accelerare. Il modello LT B considerato inizia ad accelerare
prima (z ∼ 1.08), il modello di Universo standard accelera dopo (z ∼ 1.26),
mentre il nostro modello di Universo frattale “mima” l’accelerazione ad un valore
di z più elevato (z ∼ 2.99).

79
5.4. INIZIO DELLA ACCELERAZIONE DELL’UNIVERSO

Questa analisi riesce quindi a discriminare tra vari modelli e questo è di per sè
un risultato non trascurabile in attesa di conferme in un senso o nell’altro.
Chiaramente questo nostro modello è solo un particolare esempio di modelli
frattali più complessi che è possibile considerare. Tuttavia la filosofia di base
rimane la stessa ed è quella che può consentire ulteriori generalizzazioni.

80
5.4. INIZIO DELLA ACCELERAZIONE DELL’UNIVERSO

DΜ=Μmodel -ΜMilne
-0.4

-0.2

0.0

0.2

0.4
0

zacc
LTB
LTB

zacc
=1.08
1

LCDM
LCDM
=1.26
2
z

zacc
FRACTAL
FRACTAL
3

=2.99
4

Figura 5.4: Differenza, ∆µ, fra il modulo di distanza per 3 diversi modelli di Universo
(LTB, ΛCDM, frattale) e il modulo di distanza per un Universo di Milne, in funzione del
redshift.

81
5.4. INIZIO DELLA ACCELERAZIONE DELL’UNIVERSO

82
Conclusioni

In questo lavoro di tesi, in generale, si è analizzata e studiata la struttura


frattale dell’Universo, dove per frattale si è intesa una curva, una superficie, un
solido, le cui proprietà non dipendono dalla scala, ovvero gode della proprietà
di autosimilarità.
Nella prima parte del lavoro sono state descritte le principali caratteristiche di
un oggetto frattale. L’attenzione è stata rivolta principalmente alla proprietà di
autosimilarità e invarianza di scala di cui questi oggetti godono e che permettono
ad un oggetto frattale di ripetersi nella sua struttura sempre allo stesso modo
su qualunque scala lo si osservi.
Sono stati descritti i principali esempi di frattali matematici ed è stata fatta
una trattazione dell’applicazione della geometria frattale in ambiti che vanno al
di fuori di quello matematico.
E’ stato quindi mostrato come è possibile applicare i metodi di indagine frattale
nel campo dell’Econofisica e, successivamente, dell’Astrofisica, in particolare
sulla distribuzione della materia nell’Universo.
A tale scopo sono stati descritti gli strumenti necessari per una trattazio-
ne di questo tipo e sono state introdotte quantità fisiche che caratterizzano
esclusivamente oggetti frattali.
Alla luce di questo nuovo formalismo matematico, basato su misure di tipo “con-
dizionale”, è stata analizzata la distribuzione di materia nello spazio. L’analisi
è stata fatta senza l’assunzione a priori dell’ipotesi di omogeneità dettata dal
Principio Cosmologico su cui invece tutta la Cosmologia standard si fonda.
Il tempo della cosmologia frattale è sempre più “presente” nei nuovi dati speri-

83
5.4. INIZIO DELLA ACCELERAZIONE DELL’UNIVERSO

mentali; il Principio Cosmologico della omogeneità deve pertanto essere sosti-


tuito da quello più generale del Principio Cosmologico Condizionale, il quale è
pienamente compatibile con la richiesta dell’equivalenza di tutti gli osservatori
e la condizione non secondaria di isotropia locale in ogni punto della nostra
struttura frattale.
Lo studio della distanza di luminosità, parametro utile per avere un riscontro
con i dati sperimentali, nel caso del modello cosmologico standard basato sulla
presenza di energia oscura per spiegare la fase di espansione che l’Universo sta
attraversando, è stato il punto di partenza del modello di Universo introdotto
per la prima volta in questo lavoro di tesi.
Il modello descritto nella tesi fa riferimento al Principio Cosmologico Condizio-
nale in modo da studiare un Universo frattale e isotropo. Esso si basa sull’ipotesi
che la materia si distribuisca nel cosmo in maniera frattale e non contempla l’in-
troduzione di un termine associato alla costante cosmologica. Alla luce di questo
è stato possibile scrivere una metrica che meglio descrive un cosmo siffatto ed è
stata calcolata la distanza di luminosità.
Dal confronto con le distanze luminose delle 557 supernovae di tipo Ia del ca-
talogo UNION2 è stato calcolato il valore del χ2 per il nostro modello che è
risultato essere simile a quello previsto dal modello cosmologico standard fi-
no alla seconda cifra decimale. I risultati sono in ottimo accordo con i dati
sperimentali.
Questa analisi, dunque, permette di asserire che è possibile escludere l’energia
oscura nella descrizione dell’Universo e che gli effetti dell’apparente accelera-
zione possano essere dovuti esclusivamente al modo in cui la materia stessa si
distribuisce.
Studiare la frattalità dell’Universo assume aspetti molto interessanti non solo
dal punto di vista delle aggregazioni di materia su grandi scale dell’Universo,
ma anche dal punto di vista di una “nuova fisica” che potrebbe spiegare la genesi
della frattalità su strutture su grandissime scale.
Certamente una visione del Cosmo come una enorme struttura frattale rappre-
senta una rivoluzione copernicana dagli scenari futuri inimmaginabili.

84
Appendice A

Unità di misura e convenzioni

Riportiamo nel seguito i valori delle principali quantità astronomiche utilizzate


in cosmologia.

m3
G = 6.67 × 10−11 (A.1)
kg s2
km
c = 299792 (A.2)
s
1 pc = 3.086 × 1013 km = 3.26a.l. (A.3)
1 MJ = 1.9891 × 1030 kg (A.4)
H0 = 3.2 h × 10−18 s−1 (A.5)

L’ultima equazione rappresenta il valore della costante di Hubble attuale, dove


h = H0 /(100 km s−1 M pc−1 ). Le recenti osservazioni forniscono un valore di h
pari a:
h = 0.72 ± 0.03. (A.6)

La densità critica per l’attuale Universo è quindi data da:

3 H02
ρc (t0 ) = ' 1.88 h2 × 10−29 g cm−3 . (A.7)
8πG

85
86
Appendice B

Distanza di luminosità nel


modello cosmologico standard

Nella presente appendice ci occuperemo del calcolo necessario per poter scrivere
la distanza di luminosità nella forma più generale.
Per far questo ricordiamo innanzitutto la definizione di redshift, ossia:
a0
1 + z(t) = , (B.1)
a(t)

che, differenziata, permette di ottenere la relazione:


dz a0
=− H(z) = −(1 + z) H(z), (B.2)
dt a(t)

dove si è fatto uso della definizione di parametro di Hubble.


Consideriamo adesso la traiettoria di un segnale fisico che si propaga verso
l’origine, lungo una geodetica radiale nulla della metrica FLRW, definita dalla
condizione differenziale:
dt dr
= −√ . (B.3)
a(t) 1 − kr2
Eliminando k in funzione di Ωk0 dalla definizione del contributo della curva-
tura spaziale1 e riscrivendo dt in funzione di dz attraverso l’equazione (B.2),
l’equazione precedente può essere riscritta nella forma:
1
Ricordiamo che Ωk0 = − a2 kH 2 .
0 0

87
dr dz
p = . (B.4)
[1 + a20 H02 Ωk0 r2 ] a0 H(z)
Integriamo l’equazione supponendo che il segnale sia emesso da un punto con
coordinata radiale r e ricevuto nell’origine al tempo t = 0, facendo uso del
risultato analitico:




 x, α = 0,

Z
dx 
√ = √1α sinh−1 α x, α > 0, (B.5)
1+αx 2 

 √1 sin−1 |α| x, α < 0.
 p

|α|

L’integrazione fornisce dunque la distanza propria del punto di emissione del


segnale in funzione del redshift del segnale ricevuto, ovvero:

R z dz0
0 , Ωk0 = 0,


 0 H(z )

 h i
d0 (z) = a0 r(z) = H0−1 |Ωk0 |−1/2 sinh H0 |Ωk0 |1/2 0z H(z
R dz 0
0) , Ωk0 > 0,

 h i
H0−1 |Ωk0 |−1/2 sin H0 |Ωk0 |1/2 z dz00 ,
 R

0 H(z )
Ωk0 < 0,
(B.6)
dove H(z) dipende dal modello cosmologico considerato.
Introducendo la funzione F[x] cosı̀ definita:

x,

 Ωk0 = 0,

F[x] = sinh x, Ωk0 > 0, (B.7)



sin x, Ωk0 < 0,
possiamo scrivere la distanza propria in una forma più sintetica come segue:
Z z
dz 0
 
1 p
d0 (z) = a0 r(z) = p F H0 |Ωk0 | 0
. (B.8)
H0 |Ωk0 | 0 H(z )

Di conseguenza, nota questa formula, la distanza di luminosità data dalla rela-


zione:
dL (z) = (1 + z) a0 r(z) = (1 + z) d0 (z), (B.9)
può essere espressa nella forma seguente:
Z z
dz 0
 
1+z p
dL (z) = p F H0 |Ωk0 | 0
. (B.10)
H0 |Ωk0 | 0 H(z )

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