Principio e sistema
1. Progresso e decadenza
Hegel aveva offerto una prima definizione del concetto di «sistema» nel-
la Prefazione del 1807 alla Fenomenologia. Il senso generale è che la verità
non può essere concepita né come intuizione immediata né come nudo risul-
tato: perché la verità non si distingue dal metodo necessario a conseguirla,
ma trattiene in sé, come momento costitutivo, tutto il percorso necessario a
generarla. Che non sia intuizione significa che la verità non può essere affer-
rata nella forma del nous, come una verità immediata ed elementare, ma è il
risultato del processo della ragione, come nel sillogismo. Che non sia nudo
risultato vuole dire, però, che la verità non è il giudizio che conclude il per-
corso razionale, ma l’intero svolgimento che lo costituisce. Se io dico A – B
– C, la verità non è A né C, considerati come tali, ma coincide con tutta la
sequenza. La verità è l’intero, come Hegel ripete. Il sistema esprime questo
concetto della verità.
Nel testo che stiamo esaminando, Hegel prende in considerazione il plu-
ralismo delle filosofie; e sottolinea che la diversità tra le filosofie non può
essere concepita come contraddizione, cioè come conflitto tra una verità e
un errore, ma deve essere concepita come «il progressivo sviluppo della ve-
rità» (Fen, p. 2). Abbiamo detto prima che la verità è l’intero (A – B – C):
ora aggiungiamo che i momenti che costituiscono questo intero (A, B, C)
non si escludono, ma si includono reciprocamente nella struttura della veri-
tà. Dunque la verità, come sistema, non è intuizione, non è nudo risultato,
ma neanche è l’astratto, cioè un singolo momento isolato rispetto agli altri. I
singoli momenti della ragione devono includersi secondo la regola della
successione. La successione non è però anonima, ma progressiva e inclu-
dente. Questi termini (A – B – C) si susseguono secondo l’ordine di una
concretezza crescente.
Per illustrare questo concetto, Hegel ricorre alla metafora del boccio, del
fiore, del frutto, che non si contraddicono tra loro, ma si svolgono l’uno
nell’altro secondo una linea finalistica di progresso. Scrive Hegel:
Non tanto l’opinione riesce a farsi un concetto della diversità dei sistemi filosofici,
quanto piuttosto nella diversità scorge più la contraddizione che non il progressivo svi-
luppo della verità. Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello viene
confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa
esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme
non solo si distinguono, ma ciascuna dilegua anche sotto la spinta dell’altra, perché esse
sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momen-
ti dell’unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma anzi sono neces-
sarie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita
dell’intiero (Fen., p. 2).
Non basta dire che le figure si distinguono. Quello che abbiamo di fronte
non è una semplice opposizione di determinazioni, che possano essere con-
siderate l’una senza l’altra. La regola della loro relazione si riassume in que-
ste tre parole:
2) esse sono momenti della verità, dell’intero: ossia non hanno realtà, se non
nel completo divenire dello spirito;
3) seppure momenti, privi di realtà, esse sono necessarie, cioè non sono una
presenza accidentale nel vero, ma la sua necessaria costituzione d’essere.
La vera figura nella quale la verità esiste, può essere soltanto il sistema scientifico di es-
sa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della scienza, - alla meta rag-
giunta la quale sia in grado di deporre il nome di amore del sapere per essere vero sape-
re, - ecco ciò ch’io mi sono proposto (Fen, p. 4).
3. La sostanza e il soggetto
Se, indubbiamente, l’embrione è in sé uomo, non lo è tuttavia per sé; per sé lo è soltanto
come ragione spiegata, fattasi ciò che essa è in sé; soltanto questa è la sua effettuale re-
altà (Fen., p. 16).
Tra le varie conseguenze che discendono da quello che si è detto, può venir messa in ri-
lievo la seguente: soltanto come scienza o come sistema il sapere è effettuale, e può ve-
nire presentato soltanto come scienza o come sistema; inoltre, un così detto principio
fondamentale della filosofia, se pur è vero, è poi già falso in quanto esso è soltanto prin-
cipio. – è perciò facile confutarlo. La confutazione consiste nell’indicarne la deficienza;
ma deficiente esso è perché è solo l’universale, o perché è soltanto principio, soltanto
cominciamento. Se la confutazione è esauriente, essa lo è proprio perché tratta e svilup-
pata da quel principio stesso, non già perché dal di fuori messa in opera mediante oppo-
ste gratuite asserzioni (Fen., p. 18).
4. Kant e la decadenza
La completa trasformazione che da circa venticinque anni è presso di noi avvenuta nel
pensiero filosofico, la più alta posizione che in questo periodo di tempo fu acquistata ri-
spetto a sé dalla coscienza di sé dello spirito, non ha finora che uno scarso influsso sulla
forma della logica. (SL, p. 3)
In certo modo, qui Hegel, all’inizio della sua logica, rende veramente un
omaggio a Kant, considerandolo come il vero genio della modernità, come
colui che ha scoperto il principio nuovo della filosofia; e attribuisce a sé
stesso il compito ulteriore di elaborare e di rendere sistema quel principio.
Cioè di conferirvi la forma della verità. Di elaborarlo dopo che, in una pri-
ma fase, esso è stato «fermentazione», protesta, rifiuto del passato. La filo-
sofia di Kant è il centro di questo contrasto. Hegel, possiamo dire, distingue
tra una verità interna della filosofia kantiana e una dottrina exoterica, cioè
popolare. Da un lato, Kant ha còlto il principio della idealità del finito,
d’altro lato lo ha piegato in una metafisica dell’esperienza. Questo principio
nuovo appare dunque, al tempo stesso, come principio del progresso e come
principio della decadenza. È l’embrione che non si è fatto uomo, il boccio
che non si è fatto frutto.
Dunque, decadenza. Ma decadenza che è iscritta dentro il principio del
progresso. E Kant è il crocevia di entrambe queste direzioni, sia del pro-
gresso che della decadenza. Del progresso perché, come abbiamo visto, in
lui il principio dell’idealismo si è rivelato; ma anche della decadenza, per-
ché egli è arretrato dinanzi alla sua stessa scoperta, fermandosi a quella dot-
trina che qui Hegel definisce exoterica. Egli ha dichiarato «la rinuncia al
pensare speculativo», là dove ha affermato che l’intelletto non può farsi ra-
gione, cioè non può oltrepassare i limiti dell’esperienza. Così, la metafisica
dell’esperienza ha sostituito il pensare speculativo, gli ha sottratto lo scettro.
La dottrina exoterica della filosofia kantiana – che cioè l’intelletto non possa oltrepassa-
re l’esperienza giacché altrimenti la facoltà conoscitiva si muterebbe in quella ragione
teoretica che di per sé non metterebbe al mondo altro che sogni, ha giustificato, dal pun-
to di vista scientifico, la rinuncia al pensare speculativo. A questa dottrina popolare
vennero incontro le grida della moderna pedagogia, l’urgente necessità dei tempi, che
indirizza lo sguardo al bisogno immediato, proclamando che come per il conoscere è
l’esperienza il primo, così per le attitudini e l’abilità nella vita pubblica e privata il con-
siderare le cose teoricamente riesce addirittura dannoso, doveché nell’esercizio e
nell’educazione pratica sta l’essenziale, quello che unicamente profitta (SL, pp. 3-4).
E poco dopo aggiunge:
Sembra che il periodo della fermentazione, con cui comincia una nuova creazione, sia
ormai passato. Nel suo primo apparire la nuova creazione suole abbandonarsi a una osti-
lità fanatica contro la larga sistematizzazione del principio precedente. Essa suole anche
in parte aver paura di perdersi nell'estensione del particolare, in parte, poi, rifuggire dal
faticoso lavoro necessario al perfezionamento della costruzione scientifica, onde in
mancanza di quello si attacca per lo più dapprima ad un vuoto formalismo. Il bisogno di
una elaborazione e di una sapiente trasformazione del materiale diventa ora tanto più
urgente. V'è un periodo nella formazione di un'epoca storica, come nell'educazione di
un individuo, in cui si tratta soprattutto della conquista e dell'affermazione del principio
nella sua intensità non sviluppata. Un compito superiore è però di far sì che quel princi-
pio diventi scienza (SL, p. 5).
Veniamo ora alla seconda parte della prefazione del 1812. Qui entra subi-
to in gioco il problema della dialettica, il suo significato e il suo posto nel
progetto della nuova logica. Perché la logica divenga scienza, ossia sistema,
occorre – scrive Hegel – «riferirsi alla natura dell’oggetto stesso»: ossia (lo
vedremo meglio nell’Introduzione) risolversi nell’oggetto logico, seguirne il
movimento interiore, lasciare che esso si riveli in sé stesso: andare alla cosa
stessa. Questo lasciarsi andare alla cosa (all’oggetto logico) è la vera chiave
di volta della logica, il suo senso profondo. Se intendiamo questo punto
(l’oggetto logico che si afferma di per sé, la sostanza che si fa soggetto) ab-
biamo capito il centro della logica e della dialettica.
Il punto di vista essenziale è questo, che si ha in generale da fare con un nuovo oncetto
di trattazione scientifica. In quanto la filosofia ha da essere scienza, essa non può, come
altrove ricordai, togliere a prestito il metodo, in questo intento, da una scienza subordi-
nata come è la matematica, come nemmeno potrebbe contentarsi di categoriche affer-
mazioni d’intuizione interna, oppure servirsi del ragionamento fondato sulla riflessione
esterna. Ma può essere soltanto la natura del contenuto, quella che si muove nel cono-
scere scientifico, poiché è insieme questa propria riflessione del contenuto, che sola po-
ne e genera la sua determinazione (SL, p. 6).
3. Lo spirito
Subito dopo, però, Hegel ci avverte che questi tre momenti non devono
essere presi nella loro separatezza. Che la divisione dei momenti è soltanto
analisi e metafora del divenire della cosa, nella quale, a rigore, i momenti
non possono essere distinti (e infatti non sono distinti, ma identici): il mo-
vimento razionale è lo spirito, e la sua legge intrinseca è la negatività, la de-
terminatezza e la differenza che con il negativo coincidono.
Nella nota al § 79 dell’Enciclopedia scrive:
Questi tre aspetti non fanno già tre parti della logica, ma sono momenti di ogni atto lo-
gico reale, cioè di ogni concetto o di ogni verità in genere. Essi possono essere posti tut-
ti insieme sotto il primo momento, l’intellettuale, e per questo mezzo tenuti separati tra
loro; ma così non vengono separati nella loro verità. – L’esposizione, che qui si fa delle
determinazioni della logicità, come anche della sua divisione, è parimenti data solo in
forma anticipata e storica (Enc., pp. 95-96).
Questo stesso concetto è ribadito qui, nella prefazione alla Scienza della
logica:
A quella stessa maniera che si suol prendere l’intelletto come un che di separato a fronte
della ragione in generale, così anche la ragione dialettica si suol prendere come un che
di separato a fronte della ragione positiva. Ma nella sua verità la ragione è spirito; e lo
spirito sta al di sopra di tutti e due, della ragione intelelttuale, o dell’intelletto razionale.
Esso è il negativo, quello che costituisce la qualità tanto della ragione dialettica, quanto
dell’intelletto; - lo spirito nega il semplice; e così pone la determinata differenza
dell’intelletto. Ma insieme la dissolve; e così è dialettico. Se non che esso non si ferma
al nulla di questo risultato, ma in questo risultato stesso è parimenti positivo, e ha così
restaurato quel primo semplice, ma come universale che è in sé concreto. Sotto un tale
universale non viene sussunto un particolare dato, ma in quel determinare e nella sua ri-
soluzione anche il particolare si è già determinato. Questo movimento spirituale, che dà
a sé nella sua semplicità la sua detemrinatezza, e in questa dà a sé la sua eguaglianza
con sé stesso, questo movimento, che è perciò lo sviluppo immanente dle concetto, è il
metodo assoluto del conoscere, e insieme l’anima immanente dle contenuto stesso (SL,
pp. 6-7).
4. L’astrazione
L’analisi di una rappresentazione come di solito era condotta, non consisteva in altro
che nel togliere la forma nel suo esser-nota. Scomporre una rappresentazione nei suoi
elementi originari è un ritornare ai suoi momenti, i quali per lo meno non hanno la for-
ma della rappresentazione trovata, ma costituiscono l’immediata proprietà del Sé. Una
tale analisi giunge bensì solo a pensieri che, anch’essi, sono determinazioni note, salde
e ferme. Ma questo separato, questo stesso ineffettuale, è un momento essenziale; infat-
ti, solo perché il concreto si separa e si fa ineffettuale, esso è ciò che muove sé.
L’attività del separare è la forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile e
più grande, o meglio della potenza assoluta. Il circolo che riposa in sé chiuso e che tie-
ne, come sostanza, i suoi momenti, è la relazione immediata, che non suscita, quindi,
meraviglia alcuna. Ma che l’accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, che ciò che
è legato nonché reale solo nella connessione con altro, guadagni una propria esistenza
determinata e una sua distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo; esso è
l’energia del pensare, del puro Io. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è
la più terribile cosa; e tenere fermo il mortuum, questo è ciò a cui si richiede la massima
forza. La bellezza senza forza odia l’intelletto, perché questo le attribuisce dei compiti
che essa non è in grado di assolvere. Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla
morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene,
è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé
nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positi-
vo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è
niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcosa d’altro; anzi lo spirito
è questa forza solo perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui.
Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere. – Essa è quel
medesimo che sopra fu detto il Soggetto, il quale, mentre nel proprio elemento dà esi-
stenza alla determinatezza, supera l’immediatezza astratta, e cioè, in genere, solo essen-
te, ed è quindi la verace sostanza, l’essere o l’immediatezza che non ha la mediazione
fuori di lei, ma è questa stessa (Fen., pp. 25-26).
5. Lo squilibrio dell’ente
Le cose naturali sono limitate, e sono cose naturali solo in quanto nulla sanno del loro
limite universale; in quanto il loro essere detemrinato è un limite, solo per noi, non già
per esse. Una cosa è conosciuta come limite, come deficienza, solo in quanto quel quel
limite e quella deficienza sono stati oltrepassati. Le cose viventi hanno di fronte alle
non-viventi il privilegio del dolore, e un singolo modo, in cui esse siano determinate,
diventa anche per esse la sensazione di un qualcosa di negativo, perché, come viventi,
hanno in sé l’universalità della vita, la quale oltrepassa il singolo; e, mantenendosi in
questa negazione di sé stesse, sentono il contrasto come esistente dentro di loro. Questo
contrasto è in loro solo in quanto l’una e l’altra cosa è in un medesimo soggetto:
l’universalità del suo sentimento vitale, e la singolarità, che è la negazione di quel sen-
timento. Il limite, la manchevolezza del conoscere è parimenti determinata come limite
e manchevolezza solo mediante il paragone con l’idea in quanto esistente
dell’universale, di alcunché di intero e di perfetto. È perciò semplice irriflessione il non
vedere che appunto la designazione di qualcosa come finito o limitato contiene la prova
della presenza effettiva dell’infinito, dell’illimitato; che del limite si può avere notizia
solo in quanto c’è di qua, nella coscienza, l’illimitato (Enc., p. 73).
3
Noto e conosciuto
La prefazione alla seconda edizione è l’ultimo scritto di Hegel; prima della morte im-
provvisa per colera, egli fece a tempo a terminare la correzione del primo libro della
Logica e ad aggiungere questa nuova prefazione, datata 7 novembre 1831 (la morte av-
venne esattamente una settimana dopo, il 14 novembre). La prima prefazione è stilisti-
camente più riuscita: concentrata, pregnante e, come abbiamo visto, di notevole bellezza
icastica; la seconda è più prolissa e dispersiva, ma presenta anch’essa punte teoriche
molto importanti. Il punto di vista complessivo, sebbene si presentino sviluppi comuni,
appare modificato; in particolare il riferimento all’epoca e allo spirito nuovo del tempo,
su cui Hegel aveva molto insistito nella prima prefazione, non è più messo in rilievo1.
Come osserva Mario Cingoli, rispetto alla prima prefazione, nella prefa-
zione alla seconda edizione il tono di Hegel cambia profondamente. Soprat-
tutto per due ragioni. In primo luogo, prevale la motivata insoddisfazione
per i risultati conseguiti dalla rielaborazione:
A questa rielaborazione della Scienza della logica, della quale viene qui in luce il primo
volume, io mi sono bensì accinto con la piena coscienza sia della difficoltà della materia
di per se stessa e quindi della sua esposizione, sia dello stato imperfetto in cui la tratta-
zione era rimasta nella prima edizione; ma per quanto, avendo ancora per molti anni
continuato ad occuparmi di questa scienza, mi sia affaticato a riparare questa imperfe-
zione, sento nondimeno di avere assai ragioni per ricorrere ancora all’indulgenza del
lettore. Ora un titolo a questa indulgenza può anzitutto fondarsi nella circostanza che la
metafisica e la logica dei tempi andati non fornivano, per il contenuto, quasi altro che
un materiale esterno (SL, p. 9)
Una esposizione plastica richiede poi anche un senso platico del ricevere e
dell’intendere. Ma dei giovani e degli uomini così plastici, e così calmi nel reprimere
quelle riflessioni e osservazioni proprie, con cui è impaziente di mostrarsi il pensare da
sé, degli uditori cioè che badino soltanto all’argomento, quali vengono immaginati da
Platone, non si potrebbero introdurre in un dialogo moderno. Meno che mai, poi, vi sa-
rebba da contare su lettori di questa sorta. All’opposto, troppo frequenti e ardenti mi si
sono mostrati i contraddittori incapaci di riflettere come le loro osservazioni ed obiezio-
ni contenessero categorie che erano presupposizioni, bisognose esse stesse di una criti-
ca, prima di essere adoperate. L’incoscienza che si suole avere a questo proposito è
qualcosa di incredibile. Essa è causa di quel malinteso fondamentale, di quella pratica
cattiva, cioè rozza, consistente in ciò che nel considerare una categoria si pensa qual-
cos’altro, e non la categoria stessa (SL, p. 20).
1
M. Cingoli, La qualità nella “Scienza della logica” di Hegel, Guerini e Associati, Napoli
1997, p. 28.
1. Linguaggio e concetto
Le forme del pensiero sono anzitutto esposte e consegnate nel linguaggio umano.
Vi sono, spiega Hegel, alcune lingue più speculative, come quella tede-
sca: lingue nelle quali il ritmo del pensiero si è rivelato di più. Il carattere
speculativo della lingua si manifesta nella polisemia delle parole, nel fatto
che esse raccolgano un pluralità di significati opposti:
La lingua tedesca si trova in questo molto avvantaggiata in confronto delle altre lingue
moderne. Molte sue parole possiedono anche la proprietà di avere significati non solo
diversi, ma opposti, cosicché anche in questo non si può non riconoscere un certo spirito
speculativo della lingua. Per il pensiero può ben essere una gioia, d’imbattersi in queste
parole, e di riscontrare già in una maniera ingenua, lessicalmente, in una sola parola di
opposti significati, quella unione degli opposti che è il risultato della speculazione, ben-
ché sia contraddittoria per l’intelletto. La filosofia non abbisogna perciò in generale di
alcuna speciale terminologia. Le occorre bensì togliere in prestito alcune parole da lin-
gue straniere. A queste parole l’uso ha però già procurato il diritto di cittadinanza nella
lingua, mentre un’affettazione di purismo sarebbe addirittura fuor di luogo là dove non
si deve assolutamente guardare che alla cosa (SL, pp.10-11).
2. Noto e conosciuto
Ma mentre così gli oggetti logici, come le loro espressioni, sono un che di universal-
mente noto, nella cultura, quello che è noto, come dissi altrove, non è già perciò cono-
sciuto. Può anzi dare luogo a impazienza, il doversi ancora occupare di ciò che è noto. E
che cosa più noto che le determinazioni del pensiero, delle quali facciamo uso in ogni
occasione, e che ci vengono alla bocca in ogni proposizione che pronunciamo? (SL, pp.
11-12).
E ancora:
(SL, pp. 16-17)
5. Il concetto puro
1. Le scienze empiriche
A proposito di nessuna scienza si sente così forte il bisogno di cominciar subito dalla
cosa stessa, senza riflessioni preliminari, come a proposito della scienza logica. In ogni
altra scienza l’oggetto, che essa tratta, e il metodo scientifico sono distinti uno
dall’altro; e così pure il contenuto non costituisce un cominciamento assoluto, ma di-
pende da altri concetti, e si connette, tutto attorno, con altra materia (SL, p. 23).
3) deve presupporre la realtà di una cosa in sé, indeterminata, che sfugga al-
la forma del pensiero.
2. La logica
Nel brano che abbiamo letto, vi sono tre punti notevoli, che devono esse-
re evidenziati:
1) nella prima parte, Hegel descrive in maniera compituta l’ideale della veri-
tà come adaequatio, fondamento della conoscenza empirica e ordinaria;
2) nella seconda parte (“In terzo luogo, …”) mette in evidenza come, in
questo ideale di verità, diventa impossibile lo stesso progresso conoscitivo:
“il pensiero non va oltre a se stesso”;
3) nell’ultima parte, afferma che questo ideale di verità è “la natura della
nostra coscienza ordinaria, la coscienza apparente o fenomenica”. E aggiun-
ge che, quando questi “pregiudizi” “si trasportano nella ragione”, essi “di-
ventano gli errori”: errori di cui la filosofia “è la confutazione”. Che la filo-
sofia sia “confutazione” della “coscienza ordinaria”, ciò rappresenta, come
sappiamo, la chiave di lettura dell’intero percorso fenomenologico. Ma si
tratta di capire – e questo è il problema più arduo di tutta la filosofia hege-
liana – il significato e la portata di questa “confutazione” che costituisce il
motivo essenziale del discorso speculativo.
4. L’intelletto riflettente
Qui, nella metafisica, la verità non è nella cosa come estranea al pensiero
(la adaequatio), ma è nella cosa pensata, nella essenza della cosa, nella de-
finizione. O ancora: la realtà della cosa non è nel suo immediato offrirsi,
nella sua semplice presenza, ma nella sua costituzione logica.
A questo punto, interviene il passaggio forte dell’argomentazione. La rot-
tura della vecchia metafisica viene ricondotta all’intelletto riflettente, di cui
Hegel offre qui una impegnativa definizione. Anzi tutto, Hegel ci dice, in
generale, cosa è l’intelletto riflettente:
(SL, p. 26)
5. La critica a Kant
7. Il circolo dialettico
La dialettica è questo luogo originario, che esprime il movimento del
pensiero e della cosa, ossia il divenire della verità. Essa è la costituzione
d’essere della cosa: l’oggetto, che si pensava come un oltre del pensiero,
come qualcosa di offerto, è in realtà questo muoversi del pensiero. La cosa è
il ritmo della dialettica. Questo è il suo essere, la sua costituzione propria.
Come ricordate, noi abbiamo già incontrato la dialettica nella prefazione
alla prima edizione. Lì, come nell’Enciclopedia, Hegel distingueva tre mo-
menti: l’intelletto, la ragione negativa, la ragione positiva. Ma subito ci av-
vertiva che questi tre momenti non devono essere intesi come separati, anzi
che non sono neanche distinti, ma sono analisi e metafora di un unico mo-
vimento della cosa. Cioè sono lo stesso. La dialettica non si applica, non è
forma del pensiero, ma è il movimento del contenuto, dell’oggetto, della co-
sa: è il modo di essere di ciò che esiste, dell’oggetto, della determinazione.
Le cose esistenti sono fatte così: sono questo muoversi, sono dialettica (cioè
sono pensiero).
Abbiamo visto, infatti, che nessun momento della dialettica può precede-
re l’altro. L’intelletto determina, è la determinazione: dire intelletto, signifi-
ca dire A (il tavolo, la sedia, ecc.). Ma la determinazione è negatività: A si
costituisce come determinazione se e solo se è non-B, se si distingue da al-
tro. Dunque, perché l’intelletto si costituisca, la ragione negativa deve già
essere all’opera. E la ragione negativa sarebbe nulla se, alla sua radice, non
agisse la ragione positiva, la soluzione del negativo, la totalità delle relazio-
ni. Non è dunque possibile che l’intelletto preceda la ragione, che la tesi stia
prima della sintesi, perché anzi è la sintesi che costituisce la tesi, è la ragio-
ne che costituisce l’essere dell’intelletto, della determinazione.
Il togliersi è dunque un essersi-tolto: perché ciò che segue, la ragione,
deve precedere ciò che precede. Se ciò che segue precede, e ciò che precede
segue, noi siamo in un unico atto, i cui momenti non sono distinguibili.
Dunque, la dialettica indica veramente il modo di essere dell’ente, la sua co-
stituzione ontologica: l’ente è questo movimento, segnato dal ritmo del ne-
gativo.
Ora, proprio perché l’ente è questo movimento, possiamo anche definire
la dialettica (quei tre momenti di cui parlavamo prima) come uno squilibrio
ontologico. Perché l’ente sia movimento, è necessario, infatti, che sia e non
sia sé stesso, che consista e non consista con sé stesso. Il gioco
dell’intelletto e della ragione è, in fondo, il darsi di questo squilibrio, di
questo non coincidere dell’ente con sé stesso. È la ragione, è la totalità, che
costituisce l’essere dell’ente in quanto determinato e limitato: è il tutto che
sta alla radice del limitato, e che ne assicura il divenire. E l’ente, possiamo
dire, è questo dolore, ossia il dolore di conservare in sé, come ricordo, come
Erinnerung, la voce dell’intero da cui proviene, ma di essere altresì costret-
to nel suo limite: l’ente, insomma, è la sua perenne crisi, il suo continuo
precipitare oltre di sé, il suo trascendersi senza potersi mai davvero trascen-
dere (cioè pareggiare con quell’intero da cui proviene).
8. Il passare
Si hanno costì forme della coscienza, ciascuna delle quali nella sua realizzazione insie-
me si risolve, ha per risultato la sua propria negazione, - e con ciò è trapassata in una
forma superiore. L’unico punto, p e r o t t e n e r e i l p r o g r e s s o s c i e n t i f i c o , -
e intorno alla cui s e m p l i c i s s i m a intelligenza bisogna essenzialmente adoprarsi, - è
la conoscenza di questa proposizione logica, che il negativo è insieme anche positivo,
ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si ri-
solve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto p a r t i c o l a r e , vale a di-
re che una tal negazione non è una negazione qualunque, ma la n e g a z i o n e d i
q u e l l a c o s a d e t e r m i n a t a che si risolve, ed è perciò negazione determinata.
Bisogna, in altre parole, saper conoscere che nel risultato è essenzialmente contenuto
quello da cui esso risulta; - il che è propriamente una tautologia, perché, se no, sarebbe
un immediato, e non un resultato. Quel che resulta, la negazione, in quanto è negazione
d e t e r m i n a t a , ha un c o n t e n u t o . Cotesta negazione è un nuovo concetto, ma un
concetto che è superiore e più ricco che non il precedente. Essa è infatti divenuta più
ricca di quel tanto ch’è costituito dalla negazione, o dall’opposto di quel concetto. Con-
tiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche di più, ed è l’unità di quel con-
cetto e del suo opposto. - Per questa via deve il sistema dei concetti, in generale, co-
struir se stesso - e completarsi per un andamento irresistibile, puro, senz’accoglier nulla
dal di fuori.
Come potrei io presumere che il metodo, che ho seguito in questo sistema della logica,
o anzi, il metodo che questo sistema in se stesso segue, non resti ancora suscettibile di
molti perfezionamenti, di molti rifinimenti per ciò che riguarda i particolari? So, anche,
però, ch’esso è l’unico vero. Questo risulta già di per sé da ciò che un tal metodo non è
nulla di diverso dal suo oggetto e contenuto; - poiché è il contenuto in sé, l a d i a l e t -
t i c a c h e i l c o n t e n u t o h a i n l u i s t e s s o , quella che lo muove. È chiaro
che nessuna esposizione può valere come scientifica, la quale non segua l’andamento di
questo metodo e non si uniformi al suo semplice ritmo, poiché è l’andamento della cosa
stessa.[36-37]
9. Il pensare speculativo
A questa rappresentazione del metodo, cioè della dialettica, Hegel ag-
giunge una notazione, in parte storica e in parte teoretica: Kant ha avuto il
merito di mostrare la dialettica come «opera necessaria della ragione». A
condizione, però, che si riconosca che l’opposizione non appartiene soltanto
alla ragione, ma alla determinazione stessa, al positivo. L’unità degli oppo-
sti è appunto lo speculativo, cioè il pensare.
Quello, per cui il concetto si spinge avanti è quel n e g a t i v o , dianzi accennato, che ha
in sé; cotesto è il vero elemento dialettico. La d i a l e t t i c a , che venne trattata come
una parte separata della logica e che, quanto al suo scopo e al suo punto di vista, rimase,
si può dire, interamente disconosciuta, acquista con ciò una ben altra dignità. - Anche la
dialettica platonica, persino nel Parmenide (e altrove ancor più direttamente), in parte
ha unicamente per intento di risolvere e confutare di per sé delle affermazioni limitate,
in parte poi ha per resultato in generale il nulla. Ordinariamente si prende la dialettica
come un procedimento estrinseco e negativo, che non appartenga alla cosa stessa, ma
abbia la sua radice nella semplice vanità, come smania soggettiva di dare il crollo e di
distruggere tutto ciò che v’ha di stabile e vero, o per lo meno come un procedimento ta-
le, che conduca a nient’altro che a proclamare la vanità dell’oggetto trattato dialettica-
mente.
Kant pose la dialettica più in alto, ed è questo uno dei suoi maggiori meriti. Egli le tolse
quell’apparenza di arbitrio, che ha secondo l’ordinario modo di rappresentarsela, e la
mostrò come u n ’ o p e r a n e c e s s a r i a d e l l a r a g i o n e . In quanto la dialettica
s’intendeva come arte di gettar polvere negli occhi e produrre delle illusioni, si suppo-
neva senz’altro che giuocasse un giuoco falso, e che tutta la sua forza non istesse che a
nasconder l’inganno; si supponeva che i suoi resultati venissero ottenuti solo per sorpre-
sa e fossero un’apparenza soggettiva. Le esposizioni dialettiche di Kant nelle antinomie
della ragion pura non meritano per vero dire gran lode, a considerarle in particolare,
come più ampiamente si farà nel seguito di quest’opera; ma l’idea generale, che Kant
pose per base e fece valere, è l ’ o g g e t t i v i t à della a p p a r e n z a , e la n e c e s s i t à
della c o n t r a d d i z i o n e appartenente alla n a t u r a delle determinazioni del pensie-
ro. Ciò accade, per vero dire, dapprincipio in quanto queste determinazioni vengono ap-
plicate dalla ragione alle c o s e i n s é ; ma, appunto, quello, ch’esse sono nella ragio-
ne e riguardo a ciò che è in sé, è la loro natura. C o l t o n e l s u o l a t o p o s i t i v o ,
questo resultato non è se non l’interna n e g a t i v i t à di quelle determinazioni, l’anima
loro moventesi di per sé, il principio, in genere, di ogni vitalità naturale e spirituale. Ma
in quanto ci si ferma al lato astratto-negativo della dialettica, il resultato è semplice-
mente la nota affermazione che la ragione è incapace di conoscer l’infinito; - resultato
singolare, questo, poiché l’infinito è il razionale, di dir che la ragione non è capace di
conoscere il razionale.
In questo elemento dialettico, come si prende qui, epperciò nel comprendere l’opposto
nella sua unità, ossia il positivo nel negativo, consiste lo s p e c u l a t i v o . (pp. 38-39)
5
(SL, p. 42)
(SL, p. 43)
Alla fine del capoverso Hegel inserisce una notazione importante: cia-
scuna forma è an sich l’intero concetto: il concetto puro è tutto in ogni sua
parte, seppure an sich: cioè è sviluppo, divenire, movimento:
(SL, p. 44)
1. Inizio e fondamento
(SL, p. 51)
(SL, p. 51)
(SL; p. 51)
Che significa che Fondamento e Inizio sono lo stesso? Nella Logica que-
ste due categorie si distinguono, perché l’Inizio è una categoria dell’Essere
(ed è l’Essere stesso nella sua semplicità), mentre il Fondamento è una cate-
goria dell’Essenza (è l’Essere che si è riflesso in sé e, per così dire, duplica-
to). Tuttavia, Inizio e Fondamento non si distinguono davvero, perché ciò
che il pensiero trova come Fondamento della realtà è quello stesso con cui
inizia: nel Fondamento l’Inizio ritrova sé stesso, non si fa altro da sé stesso.
L’Essere indeterminato è lo stesso Fondamento, ma questo è quello come
riflesso in sé.
Ora Hegel torna sulla questione dell’Inizio. Ripete che l’Inizio sembra
dover essere o mediato o immediato; e rinvia per ciò alla trattazione
dell’Enciclopedia. E soprattutto afferma, con una frase famosa e forte, che
non vi è determinazione che non sia, al tempo stesso, tanto mediata quanto
immediata:
(SL, p. 52)
In questa scienza dello spirito che appare si parte dalla coscienza empirica, sensibile.
Questa è il vero e proprio sapere immediato. In quella scienza si esamina che cosa si
contenga in questo sapere immediato. (SL, p. 53).
Affinché ora, partendo da questa determinazione del sapere puro, il cominciamento resti
immanente alla scienza di esso, non v’è da far altro che considerare, o, meglio, non v’è
da far altro, scartando tutte quelle riflessioni od opinioni che si hanno, che accogliere,
soltanto, c i ò c h e c i s t a d i n a n z i. [nur aufzunehmen, was vorhanden ist]
(SL, p. 54).
Qui il cominciante è l’essere [Hier ist das Sein das Anfangende] mostrato come quello
che è sorto [entstanden dargestellt] per via di mediazione [durch Vermittlung], e pro-
priamente per via di una mediazione tale, che è nello stesso tempo il suo proprio toglier-
si [welche zugleich Aufheben ihrer selbst ist]; colla presupposizione del puro sapere
qual resultato del sapere finito, cioè della coscienza. Ma se non si deve fare alcuna pre-
supposizione, se il cominciamento stesso si deve prendere immediatamente, allora esso
si determina solo per ciò ch’esso dev’essere il cominciamento della logica, il comincia-
mento del pensare per sé. Non si ha altro, allora, salvo la risoluzione [Nur der En-
tschluss … ist vorhanden] (che si può riguardare anche come arbitraria) di voler consi-
derare il pensare come tale. Così il cominciamento dev’essere un cominciamento asso-
luto o, ciò che in questo caso significa lo stesso, un cominciamento astratto. Non può
così presupporre nulla, non deve esser mediato da nulla, né avere alcuna ragion d’essere
[Grund]. Anzi, dev’esser esso stesso la ragion d’essere o il fondamento di tutta la scien-
za. Dev’esser quindi semplicemente un immediato, o, meglio, soltanto l’immediato
stesso. Come non può avere una determinazione di fronte ad altro, così non può nem-
meno avere alcuna determinazione in sé, non può racchiudere alcun contenuto, perché
una tal determinazione o contenuto sarebbe una distinzione e un riferirsi di diversi l’uno
dall’altro, epperò una mediazione. Il cominciamento è dunque il puro essere. (SL, p.
55).
La persuasione [Die Einsicht], che l’assoluta verità [das Absolut-Wahre] debba esser un
resultato, e viceversa, che un resultato supponga un primo vero, il quale però, poiché è
primo, considerato oggettivamente, non è necessario, e dal lato soggettivo, non è cono-
sciuto, - cotesta persuasione ha recentemente condotto a pensare che la filosofia possa
solo incominciare con una ipotesi ed un problema, e che quindi il filosofare non possa
esser sulle prime altro che un cercare. Ora ad una tale opinione, ripetutamente sostenuta
da Reinhold negli ultimi tempi del suo filosofare, si deve render questa giustizia,
ch’essa muove da un vero interesse riguardante la natura speculativa del cominciamento
filosofico. L’esame di questa maniera di vedere offre in pari tempo l’occasione di fornir
qualche spiegazione preliminare intorno al significato dell’avanzamento logico in gene-
rale, poiché quella maniera di vedere si connette subito coll’andare innanzi [auf das For-
tgehen]. Infatti essa riesce a dire che in filosofia l’andare innanzi è piuttosto un andare
indietro e un fondare, per mezzo di che, soltanto, si giunge a vedere come quello con
cui si era cominciato non sia semplicemente qualcosa che si è assunto ad arbitrio, ma sia
nel fatto per un lato il vero, e per l’altro il primo vero (SL, p. 56).
Bisogna riconoscere che è questa una considerazione essenziale (che risulterà poi me-
glio dentro la logica stessa), - la considerazione cioè che l’andare innanzi è un tornare
addietro al fondamento, all’originario ed al vero, dal quale quello, con cui si era inco-
minciato, dipende [abhängt], ed è, infatti, prodotto [und in der Tat hervorgebracht wird].
- Così a partir dalla immediatezza, colla quale incomincia, la coscienza vien ricondotta,
per la sua via, al sapere assoluto come alla sua più intima verità. Quest’Ultimo, il fon-
damento, è poi allora anche quello da cui sorge il Primo, quel Primo che dapprincipio si
affacciava come immediato (SL, p. 56).
Così [come nella Fenomenologia], meglio ancora, si conosce lo spirito assoluto (che si
mostra qual concreta ed ultima altissima verità di ogni essere) come quello che al termi-
ne dello sviluppo liberamente si estrinseca e si emancipa nella forma di un essere im-
mediato [als am Ende der Entwicklung sich mit Freiheit entäussernd und sich zur Ge-
stalt eines unmittelbaren Seins entlassend], - si risolve cioè alla creazione di un mondo,
il quale contien tutto ciò ch’era compreso nello sviluppo preceduto a quel resultato,
mentre per questa posizione rovesciata [diese umgekehrte Stellung] tutto cotesto è tra-
mutato insieme col suo cominciamento in un che di dipendente dal resultato come dal
suo principio. L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro
immediato, quanto che l’intiera scienza è in se stessa una circolazione[sondern dass das
Ganze derselben ein Kreislauf in sich selbst ist], in cui il Primo diventa anche l’Ultimo,
e l’Ultimo anche il Primo (SL, pp. 56-57).
Ora Hegel ribadisce che il circolo non significa che il processo sia unidi-
rezionale: rivelare l’ultimo come primo non cancella il percorso che ha por-
tato al risultato. Il risultato rimane risultato, non è un colpo di pistola o
un’intuizione. Cioè, esso è determinato, è mediazione assoluta. Ma ora ag-
giunge una notazione importante: il processo, che dal primo porta
all’ultimo, non è un processo segnato da una vera alterità: ciò in cui il pri-
mo si svolge (le determinazioni logiche) non è altro da esso, ma è il suo
immanente esplicarsi. È sempre l’essere che si riconosce come assoluta veri-
tà, nella pienezza dello svolgimento:
Perciò si mostra come parimenti necessario, dall’altro lato, che quello, in cui il movi-
mento ritorna come nel suo f o n d a m e n t o o p r i n c i p i o, sia considerato qual
r e s u l t a t o. Sotto questo rapporto il primo è anche il fondamento, e l’ultimo un de-
rivato. In quanto cioè si parte dal primo, e per esatte deduzioni si giunge all’ultimo, co-
me al fondamento, questo è resultato. Oltracciò l’a v a n z a r e [Der Fortgang] da
quello che costituisce il cominciamento non è da riguardare che come una ulterior de-
terminazione del cominciamento stesso, cosicché il cominciante continua a stare alla
base di tutto quel che segue, né sparisce da esso. L’avanzamento [Das Fortgehen] non
consiste nel dedurre semplicemente un a l t r o, o nel passare in un vero altro; - ed in
quanto un tal passare ha luogo, torna poi anche a togliersi via. Così il cominciamento
della filosofia è la base che è presente [ist gegenwärtige] e si conserva in tutti gli svi-
luppi successivi, quel che rimane assolutamente immanente [das immanent Bleibende]
alle sue ulteriori determinazioni (SL, p. 57).
Per questo procedere il cominciamento perde allora ciò che ha di unilaterale in questa
determinatezza, di esser cioè in generale un immediato e un astratto; si fa un mediato, e
la linea dell’avanzamento scientifico diventa con ciò u n c i r c o l o . - Nello stesso
tempo si vede che quello che costituisce il cominciamento, in quanto vi sta come non
ancora sviluppato e come privo di contenuto, non è, nel cominciamento stesso, ancor
veramente conosciuto, e che solo la scienza, e propriamente la scienza nel suo intiero
sviluppo, è la sua perfetta, piena e veramente fondata conoscenza (SL, p. 57).
A questo punto, Hegel si pone la prima delle due obiezioni che si posso-
no rivolgere al suo modo di concepire l’Inizio: questa obiezione dice che
l’Inizio deve restare un puro Inizio, e non può essere determinato come Es-
sere. In certo modo, determinarlo come Essere significherebbe smentire la
sua natura di indeterminato. Ma Hegel proverà a dimostrare che è proprio la
stessa cosa: che quando si dice Inizio si dice Essere:
Qui interviene la parte più dura di questo testo, nella quale Hegel, in po-
che battute, ci descrive la natura dell’Inizio (e la descrive in modo un po’
diverso da quello che ritroveremo nella parte sistematica della Logica).
L’Inizio è Niente, Nichts, ma non è un puro Niente: è un Niente che deve, è
un Niente che deve farsi Essere, o meglio Qualcosa, determinazione.
L’Inizio è un deve, un dovere determinarsi. È un Niente diveniente: e dun-
que non è nulla, ma un Niente in cui già vi è l’Essere:
2
Ma, inoltre, quello che comincia è già; in pari tempo, però, non è ancora. Nel comin-
ciamento dunque, questi opposti, l’essere e il non essere, sono immediatamente uniti.
Vale a dire che il cominciamento è la loro u n i t à i n d i f f e r e n t e, i n d i -
s t i n t a (SL, p. 60).
L’analisi del cominciamento ci darebbe quindi il concetto dell’unità dell’essere col non
essere, - o in forma riflessa, il concetto dell’unità dell’esser differente e del non esser
differente, - oppur quello dell’identità della identità colla non identità. Questo concetto
si potrebbe riguardare come la prima e più pura (cioè più astratta) definizione
dell’Assoluto; - come infatti sarebbe se in generale ci si dovesse occupare di questa
forma di definizione, e dei nomi dell’Assoluto. In questo senso, come quell’astratto
concetto sarebbe la prima definizione di questo Assoluto, così tutte le ulteriori determi-
nazioni e sviluppi ne sarebbero semplicemente definizioni più determinate e più ricche.
Ma coloro i quali non son contenti che si cominci dall’e s s e r e perché l’essere passa
nel nulla e da ciò sorge l’unità dell’essere col nulla, guardino se, meglio che di comin-
ciar coll’essere, si possano contentar di quest’altro cominciamento, che comincia colla
rappresentazione del c o m i n c i a m e n t o, e coll’analisi di essa, analisi che sarà
senza dubbio esatta, ma intanto conduce anch’essa all’unità dell’essere col nulla SL, p.
60).
Se non che v’è da fare ancora un’altra considerazione, a proposito di cotesta maniera di
procedere. Quell’analisi presuppone come nota la rappresentazione del cominciamento.
Si è proceduto così dietro l’esempio delle altre scienze. Queste presuppongono il loro
oggetto, e assumono a guisa di postulato, che tutti ne abbiano la stessa rappresentazione
e vi possan trovare a un dipresso quelle medesime determinazioni che un po’ di qua, un
po’ di là, per mezzo di analisi, di confronti e di altri ragionamenti esse arrivano ad ad-
durre e ad assegnare riguardo all’oggetto. Ma quello che costituisce il cominciamento
assoluto, dev’essere egualmente un che di altrimenti noto. Ora se è un concreto, epperò
qualcosa che sia in sé molteplicemente determinato, questa r e l a z i o n e, ch’esso è in
s é, vien presupposta come un che di noto. Vien con ciò data come un che
d’i m m e d i a t o, c i ò c h e i n v e c e e s s a n o n è, perché è relazione solo
come relazione di diversi, epperò contiene in sé la m e d i a z i o n e. Oltrediché nel
concreto entra l’accidentalità e l’arbitrio dell’analisi e del vario determinare. Che ven-
gan rilevate queste determinazioni piuttosto che queste altre, dipende da quello che cia-
scuno t r o v a nella sua immediata e accidentale rappresentazione. La relazione conte-
nuta in un concreto, in una unità sintetica, è una relazione n e c e s s a r i a solo in
quanto non sia t r o v a t a, ma anzi venga a p r o d u r s i mediante il proprio movi-
mento dei momenti, per il quale ritornano in cotest’unità, - movimento che è l’opposto
del procedere analitico, di un’attività cioè estrinseca alla cosa stessa, e tale da cader nel
soggetto.
In ciò sta poi più particolarmente che quello, con cui si deve cominciare, non può essere
un concreto, non può esser qualcosa che contenga d e n t r o d i s é una relazione.
Perocché cotesto presupporrebbe dentro di sé un mediare ed un passare da un primo ad
un altro, mediare e passare che avrebbe per resultato il concreto stesso come divenuto
semplice. Ma il cominciamento non ha da esser già esso stesso un primo ed un altro.
Quello, che è in sé un primo ed un altro, contiene già un essere andato innanzi. Quello,
che costituisce il cominciamento, il cominciamento stesso, bisogna quindi prenderlo
come tale che non si possa analizzare, bisogna prenderlo nella sua semplice, non riem-
pita immediatezza, epperò c o m e e s s e r e, come l’assolutamente vuoto (SL, pp.
60-61).
Ché se poi, per non potersi acquietare nella considerazione dell’astratto cominciamento,
si volesse dire che non si debba cominciare col cominciamento, ma addirittura colla
c o s a, allora questa cosa non è altro che quel vuoto essere. Perocché quel che sia la co-
sa, questo è, che deve manifestarsi solo nel corso della scienza, e che non può esser pre-
supposto prima di essa come già noto (SL, p.62).
8. Essere, nulla, divenire
1. Essere
Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a se stesso [è soltanto simi-
le a sé stesso], ed anche non dissimile di fronte ad altro; non ha alcuna diversità né den-
tro di sé, né all'esterno.
Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse
posto come diverso da un altro, 1’essere non sarebbe fissato nella sua purezza.
E dunque:
Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l’essere non è, anche qui, che que-
sto vuoto pensare.
L'essere, l'indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla.
2. Nulla
Nulla, il puro nulla. È semplice simiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di de-
terminazione e di contenuto; indistinzione in se stesso.
Per quanto si può qui parlare di un intuire o di un pensare, si considera come differente,
che s'intuisca o si pensi qualcosa oppur nulla. Intuire o pensar nulla, ha dunque un si-
gnificato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o
piuttosto è lo stesso vuoto intuire e pensare, quel medesimo vuoto intuire e pensare ch'e-
ra il puro essere.
Anzi tutto, Hegel ci ricorda che essere e niente sono lo stesso. Partiamo
dalla constatazione della loro identità. Abbiamo visto, infatti, che il porsi
dell’essere è un immediato rivelarsi del niente, e che, parimenti, il porsi del
niente è un immediato rivelarsi dell’essere. L’uno passa nell’altro, ma que-
sto passare non è dialettico: perché il passaggio dialettico è fondato sulla
negatività, cioè sull’alterità, e qui invece non si può parlare di differenza,
quindi determinazione:
Il vero non è né l'essere né il nulla ma che l'essere - non passa, - ma è passato, nel nulla,
e il nulla nell'essere.
Ora torniamo sul nodo della differenza, e sul modo di concepirla: cioè sul
significato dell’essere passato. Essi – scrive Hegel – non sono lo stesso, c’è
una differenza, ma una differenza di natura affatto particolare. Sono assolu-
tamente diversi (e qui significa indeterminatamente, immediatamente); ma
sono inseparabili nella loro diversità; nel senso che ciascuno di loro non
passa nell’opposto, ma sparisce in esso. È passato, sparisce: tutti modi per
dire che ciascun termine è proprio questo sparire, è proprio questo non es-
serci più.
In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi
ch'essi non son lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche insepa-
rati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto.
***
Sintesi conclusiva
# Quindi, Hegel ha tratto la conclusione: l’Essere “è nulla, né più né meno che nulla”.
In quanto indeterminato, immediato, e quindi indistinto, l’Essere naufraga nel Nulla, è
Nulla.
! In primo luogo, Hegel ha ripetuto che Essere e Nulla sono lo stesso. Quando si pensa
Nulla, si pensa lo stesso che l’Essere:
Nulla, il puro nulla. È semplice simiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di de-
terminazione e di contenuto; indistinzione in se stesso.
Sia che pensiamo l’Essere, sia che pensiamo il Nulla, noi pensiamo la stessa cosa. Ma
possiamo dire solo così? Questo è il problema che si apre. Perché sembrerebbe che ab-
biamo dato due nomi alla stessa cosa (sinonimia). Se la cosa non si distingue in sé, il
logo naufraga nell’indistinto, comunque possiamo nominarlo con il suono della voce.
Occorre vedere se, in questa situazione, proprio nulla (oltre il nome) si distingue nella
cosa.
" Intuire o pensare nulla – si presti attenzione – non è nulla. Ma Essere. Il Nulla è.
Nella logica, non si trova mai il nulla come nulla, ma si trova sempre il nulla come esse-
re. Questo significa che l’Essere, naufragando nel Nulla, è rimasto in sé stesso: non
siamo usciti dall’Essere. Se il Nulla è, l’Essere, passando nel Nulla, passa in sé stesso.
Qui, nella conclusione sul Nulla, bisogna prestare la massima attenzione. Nella identità
di Essere e Nulla, il Divenire non si è di fatto manifestato. La conclusione sembra
smentire la presenza di un Divenire. Perché il Divenire, comunque lo si pensi, esige
qualcosa come la differenza. Perché l’Essere entri nel Divenire, deve in qualche modo
distinguersi.
Però, se guardiamo bene, qualcosa è accaduto. Non siamo rimasti fermi alla pura iden-
tità dell’Essere. Qualcosa è successo, una specie di storia si è sviluppata. Infatti:
l’Essere è naufragato nel Nulla come in sé stesso; il Nulla si è rivelato, non come ciò
che dichiara di essere, cioè niente assoluto, ma come Essere. Perciò, abbiamo detto,
l’Essere è naufragato in sé stesso: ma tuttavia è naufragato. E questo naufragare somi-
glia a un movimento. Non è solo un movimento di nomi, ma una specie di movimento
dlela cosa stessa.
Dunque: Essere e Nulla non si sono distinti determinatamente, siamo rimasti
nell’indistinto; tuttavia sono naufragati, spariti, l’uno nell’altro come nell’identico, re-
stando lo stesso. L’identico, diciamo così, non è rimasto del tutto fermo, è entrato in un
certo movimento.
3. Perciò, nel paragrafo sul Divenire, Hegel riespone, mette a fuoco, questo reci-
proco naufragare. Afferma infatti quattro cose, in una (fin troppo) rapida successione.
" Ma, in secondo luogo, Hegel sottolinea che questa identità si è pure manifestata co-
me una specie di passare. Non come un passaggio dialettico, perché il passaggio dialet-
tico esige la distinzione; ma come un passaggio più puro, assoluto. Scrive così:
Il vero non è né l'essere né il nulla ma che l'essere - non passa, - ma è passato, nel nulla,
e il nulla nell'essere.
Ecco: l’Essere nicht übergeht, sondern übergegangen ist. L’Essere non passa, non salta,
perché qui non c’è distinzione, siamo nell’identità. Passare, in senso dialettico, signifi-
ca: passare in Altro. Ma è passato: è un passato che non si offre mai come presente. Per
dirlo nella maniera più semplice, quando io penso l’Essere, ho già pensato Nulla.
L’Essere non passa nel Nulla, ma è Nulla.
Allo stesso modo, il Nulla non è mai presente come puro Nulla, ma solo come Essere.
L’indistinto, il vuoto, si presentano nel logo solo come forma dell’indistinto, del vuoto.
Il Nulla, come Nulla, è stato fin dall’inizio neutralizzato: in questo senso, restiamo
sempre nell’Essere. Il Nulla è ontologizzato.
# L’essere già passato dell’uno nell’altro indica che l’identità non è ferma, ma è una
specie di movimento. Ma se il movimento c’è, allora non sono soltanto lo stesso, sono
anche diversi. Si osservi con molta attenzione questo passaggio dal movimento alla dif-
ferenza: Hegel non deduce il movimento dalla differenza, ma, al contrario, deduce la
differenza assoluta dal divenire. In quanto l’identità non è ferma, ma è un essere passa-
to, allora si apre una differenza assoluta nell’essere.
Solo che questa diversità non è distinzione, ma è assoluta: “essi sono assolutamente di-
versi”. Che la diversità sia assoluta, significa che non è mai presente: è una diversità in-
determinata, che non si può davvero dire, ma che consiste solamente nell’atto dello spa-
rire l’uno nell’altro. Quando penso l’Essere, sparisce, o meglio è già sparito nel Nulla:
penso Nulla, quindi sono lo stesso; ma siccome l’essere sparisce, naufraga, nel Nulla,
nel passare i due termini accennano a distinguersi. Assumono anche, nell’identità, un
significato diverso: ma in senso assoluto, cioè indeterminato, in maniera che non fanno
due, non arrivano a distinguersi. Scrive infatti:
In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi
ch'essi non sono lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche insepa-
rati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto.
$ Infine, Hegel trae l’ultima conseguenza da questo discorso. Possiamo dirla così: nella
sua verità, l’Essere è soltanto questo sparire. Se uno mi chiede: cosa è l’Essere? Devo
rispondere: è lo sparire nel Nulla. Questa è l’unica definizione che possiamo dare
dell’indeterminato.
Ciò significa: l’Essere è il Divenire. Ma come vedremo nel passaggio al divenuto, alla
determinazione, questo puro movimento non dissolve l’Essere, ma permane nell’Essere.
Infatti il Nulla è; dunque nello sparire, nell’annientarsi, nel cadere nel Nulla, in verità
l’Essere permane presso di sé.
Il vero risultato, dunque, è il seguente: che l’Essere diviene. Non è un fermo, immobile
A=A, che (come pensava Parmenide) esclude il divenire: ma è il divenire stesso. E que-
sto è un risultato definitivo della logica: ogni essere, anche l’essere determinato, ogni
determinazione, porta con sé questo movimento della vita, del divenire. Se non si capi-
sce che l’Essere è il Divenire, non si entra nella dialettica; perché sfugge l’energia che
intimamente muove ogni essere, la inquietudine che attraversa ogni ente, ogni cosa.
Hegel scrive:
Qui Hegel ribadisce che Essere e Nulla sono inseparabili [die Ungetren-
ntheit], cioè sono solo momenti del Divenire.
Il divenire non è l'unità che astrae dall'essere e dal nulla, ma, come unità
dell'essere e del nulla, è questa unità determinata, ossia questa unità in cui è
tanto l'essere, quanto il nulla.
Ma in quanto l'essere e il nulla son ciascuno come non separato dal suo altro,
non sono.
Sie sind also in dieser Einheit, aber als Verschwindende, nur als Aufgehobe-
ne.
Nel capoverso precedente, Hegel aveva detto che Essere e Niente sono
solo momenti, un dileguare, un eclissarsi; ma aveva anche sottolineato noch
unterschiedenen, che sono ancora diversi, pur nel loro eclissarsi. Ora ri-
prende questo unterschiedenen, e dice: Nach dieser ihrer Unterschiedenheit
sie aufgefa!t; intesi, considerati come, presi secondo, ecc. La distinzione
c’è, non si può togliere: il Divenire si fonda su quella differenza sparente
degli eguali. A questo punto bisogna scrutarla a fondo.
Ma intanto, dice Hegel, ciascun momento è in essa, in derselben, nella
distinzione, als Einheit mit dem anderen. Ciascun momento è uno col suo
altro. Ciascun momento è distinto (e questa distinzione è ineliminabile), ma
la distinzione consiste nell’essere uno con il proprio altro: con l’atto
immediato dell’identificarsi con il distinto.
Il divenire contiene dunque l'essere e il nulla come due unità tali, che ciascu-
na è essa stessa unità dell'essere e del nulla; una è l’essere come immediato e
come relazione al nulla; l’altra è il nulla come immediato e come relazione
all'essere.
Lo sguardo si volge ora di nuovo al Divenire come unità dei due momen-
ti, e loro essere. Il Divenire contiene (enthält) due unità, i due momenti, dal-
la cui differenza non possiamo fare astrazione. Eppure ciascuna non si di-
stingue dall’altra, entrambe sono l’unità dei due momenti. L’un momento,
l’Essere, è il dileguare nel Nulla, e dunque unità di Essere e Nulla; l’altro
momento, il Nulla, è il dileguare nell’Essere, e dunque, parimenti, unità di
Essere e Nulla. E tuttavia, in questo identificarsi, essi non possono abdicare
la differenza. È piuttosto un identificarsi, il gesto dell’essere identici, del
farsi identici: l’istante (se di istanti potessimo parlare) del loro sparire
nell’altro. Per questo, Hegel conclude:
3. Nascere e perire.
I due indirizzi non si tolgon via reciprocamente; non è che l'uno di essi tolga
via, in maniera estrinseca, l'altro: ma ciascuno si toglie via in se stesso; ed è
in se stesso il suo proprio contrario.
Qui entriamo nel momento magico della logica, quello in cui dall’Inizio
indeterminato deve scaturire il Dasein, la determinatezza, la differenza,
l’alterità, il negativo. È uno di quei passaggi che vale l’intera opera. Come
sappiamo, Hegel lo ha preparato lungamente, configurando essere e nulla
come momenti dileguantesi, ma non per questo annullati nell’unità del dive-
nire.
Das Gleichgewicht, worein sich Entstehen und Vergehen setzen, ist zunächst
das Werden selbst. Aber dieses geht ebenso in ruhige Einheit zusammen.
(C1) – La stessa cosa del „dileguare del dileguare“ viene ora espressa diver-
samente da Hegel. La formulazione muta, ma il concetto resta lo stesso. Il
Divenire è lo sparire dei suoi momenti: che l’Essere sparisca nel Nulla e che
il Nulla sparisca nell’Essere, questo, e soltanto questo, è il Divenire. Poiché
il Divenire tiene in sé i momenti (nascere e perire), accade che esso è in ge-
nerale il loro sparire. Non solo lo sparire dell’Essere nel Nulla, o del Nulla
nell’Essere, ma lo sparire di entrambi, l’uno nell’altro.
(C3) – Ma pensare così, pensare in un solo atto, senza il tempo, il tavolo che
è e il tavolo che non è, equvale a formulare una contraddizione: per pensare
la sparizione, il tavolo deve, nello stesso tempo e sotto il medesimo riguar-
do, essere e non-essere. Se fosse, non sparirebbe, ma semplicemente sareb-
be. Se non fosse, avremmo il nulla, e il tavolo non ci sarebbe mai. Senza il
prima e il poi, il tavolo non può essere né non-essere; ma, parimenti, deve
essere e non-essere. Questo divenire, questo sparire, è dunque l’unione di
momenti opposti; è contraddizione.
4. La quieta semplicità.
Ora, abbiamo di fronte l’essere sparito. Si ricordi: l’Essere non passa nel
Niente, ma è passato. Ma questo essere passato, lo abbiamo visto, non è nul-
la. Se non è nulla, è essere. E non è più l’Essere puro, ma l’Essere come u-
nità con il Niente, il divenuto, il risultato del divenire, il divenire osservato
nel suo orizzonte di essere, come quiete. È essere determinato, determina-
zione, Dasein.
(D1) Questo [Das: il] resultato è l’essere sparito, ma non come nulla.
(D2) Così sarebbe soltanto un ricadere [der Rückfall: la ricaduta, la recidiva
in termini giuridici] nell'una delle determinazioni già tolte, non un resultato
del nulla e dell'essere.
(D3) Esso è l'unità dell'essere e del nulla, in quanto è divenuta [zur: addive-
nuta alla] una quieta semplicità.
(D4) Ora [Aber: ma] la quieta semplicità è essere, però [jedoch ebenso: ma
altrettanto] non più per sé, ma come determinazione dell’intiero.
Das Resultat ist das Verschwundensein, aber nicht als Nichts; so wäre es nur
ein Rückfall in die eine der schon aufgehobenen Bestimmungen, nicht Resul-
tat des Nichts und des Seins. Es ist die zur ruhigen Einfachheit gewordene
Einheit des Seins und Nichts. Die ruhige Einfachheit aber ist Sein, jedoch
ebenso nicht mehr für sich, sondern als Bestimmung des Ganzen.
(D2) – Ora Hegel ci spiega perché l’essere-sparito non può essere nulla. Se
l’essere-sparito fosse nulla, questo nulla non sarebbe il risultato del divenire,
ma uno dei suoi termini: quel termine che, essendo già passato nell’essere, è
il divenire stesso. Se l’essere-sparito fosse nulla, la contraddizione persiste-
rebbe, e non si distruggerebbe. Infatti, quando noi diciamo das Verschwun-
densein, l’essere-sparito, noi evochiamo l’essere: diciamo è sparito. Ora la
domanda è: perché questo essere dello sparito, che è e non è nulla, non è
tuttavia quello che stesso Essere che persiste nella contraddizione, essendo
già passato nel Niente? Come e perché sfugge al movimento del divenire
puro, configurandosi piuttosto come quiete.
(D3) – Cosa significa qui quieta semplicità? Cosa significa divenuto rispetto
all’inquietudine del divenire? Perché il divenuto si distingue dal divenire?
Questo divenuto non è assenza di divenire, ma è l’orizzonte che lo trattiene
in sé. Il divenire è questa sfrenata inquietudine, questa contraddizione e que-
sto movimento puro: ma tutto questo è, e non è nulla. Questo essere, e non
essere nulla del divenire (della contraddizione) è propriamente il divenuto
che trattiene in sé il divenire, la quiete che trattiene in sé l’inquietudine,
l’identico che include il diverso e il negativo. Il divenire non è nulla: esso è;
e in quanto è, costituisce l’orizzonte di sé stesso.
(D4) – Il divenire è, non è nulla. Ma questo essere del divenire non è esat-
tamente lo stesso essere che era già passato nel nulla. Questo essere – ecco
la pretesa di Hegel – non passa nel nulla, ma contiene in sé il suo proprio
passare nel nulla. È l’essere del passare stesso. Se noi dicessimo che questo
essere passa nel nulla, diremmo qualcosa di esatto: ma questo suo passare
nel nulla, a sua volta è, e non è nulla. L’essere passa nel nulla: ma così non
si limita a includersi nel proprio movimento, ma lo include in sé, include il
proprio stesso movimento, il proprio dileguare. L’essere passa nel nulla, ma
questo passare è, è ancora essere, e non nulla.
Da un lato l’essere è nulla (il für sich dell’essere); ma, d’altro lato, vi è que-
sto essere nulla dell’essere, questo essere del passaggio, del divenire, che
include sé stesso: che è, e non è nulla. Questo essere – dice Hegel – è la “de-
terminazione dell’intero”.
L’essere, come vedete, acquista un primato sul niente: quello che abbiamo
detto significa, infatti, che il nulla non si può pensare che come essere (co-
me essere del nulla). Ma che per l’essere le cose non stanno proprio così:
l’essere è nulla, ma non può sprofondare fino in fondo nel nulla, perché con-
tinua a essere in questo essere il nulla. L’essere è, e non è il nulla: Ma que-
sto nulla che l’essere non è, è; è incluso nell’essere che lo distingue da sé.
L’essere non può essere senza distinguersi dal nulla (senza dire: io non sono
nulla); ma questo nulla da cui si distingue è lo stesso essere che pretende di
distinguersi. L’essere non potrebbe costituirsi senza questo atto di distinzio-
ne: ma tanto la distinzione è necessaria, quanto non si costituisce mai come
distinzione. Si rimane nell’essere, anzi in questa pretesa differenziante
dell’essere, che non è mai eliminata e mai soddisfatta. L’essere è questa pre-
tesa inquieta (questo divenire): ma tuttavia include tutti i termini di questa
pretesa. Necessita della differenza, ma la toglie nell’atto stesso di porla.
5. L’essere determinato.
Arriviamo così alla conclusione del paragrafo. Ora Hegel annuncia dav-
vero il capitolo successivo, l’essere determinato, il Dasein. Vediamo:
Das Werden so [als] Übergehen in die Einheit des Seins und Nichts, welche
als seiend ist oder die Gestalt der einseitigen unmittelbaren Einheit dieser
Momente hat, ist das Dasein.
1. La negazione
In primo luogo, il nulla non può trovare nel determinato (nel qualcosa)
un opposto. Se il nulla fosse opposto al qualcosa, la conseguenza sarebbe
che il nulla non sarebbe nulla, ma una negazione determinata, un limite o un
termine. Si potrebbe dire che l’opposto dell’essere è il non-essere: ma il
non-essere è propriamente il divenire, cioè la relazione del nulla all’essere
(anche se qui il termine «relazione», come sappiamo, va inteso in modo par-
ticolare). E qui Hegel insiste sul fatto che, quando parliamo di nulla, dob-
biamo intendere il nulla assoluto, senza determinazione, senza relazione e
senza opposizione. E tuttavia il nulla si rivela come non-essere, cioè come
un opposto di natura affatto peculiare, che anzi è la base di ogni opposizione
(e lo vedremo nei passaggii successivi).
Per prima cosa, dunque, Hegel chiarisce la differenza tra il nulla e la ne-
gazione determinata:
Veniamo all’ultimo punto. Nel primo punto, abbiamo visto che il nulla
non va confuso con il qualcosa, con la negazione determinata. Ora, però, il
nulla mostra di avere una relazione profonda con il qualcosa, con la realtà
determinata, di esserne la base (la negatività). La coscienza ordinaria, spiega
Hegel, fa fatica ad ammettere che essere e nulla siano lo stesso. Sembra un
paradosso. Ma, in realtà, il paradosso è negare quella identità, perché ogni
ente empirico, ogni cosa, cioè ogni determinazione, dimostra questa identi-
tà. Nulla è concepibile senza la negazione, cioè senza il nulla che sta alla
sua radice. E qui il nulla si mostra come la base e la radice del non-essere,
cioè dell’alterità e della determinazione.
Ogni cosa, dunque, manifesta l’unità dell’essere e del nulla. E non a caso
Hegel riprende qui l’espressione adoperata nella parte introduttiva su imme-
diatezza e mediazione:
Qui, appunto, sorge la questione più complessa, che riguarda la relazione
che occorre pensare tra il nulla e la negazione determinata (oppure, ed è lo
stesso, tra il divenire e il mutamento). Hegel definisce il mutamento come
una “determinazione ulteriore” del divenire originario; e parla di “posto, ri-
flesso essere” e di “posto, riflesso nulla”. Ancora, l’essere e il nulla devono
essere considerati come la abstrakte Grundlage, la “base astratta”, del posi-
tivo e del negativo reali.
NOTA – Ho iniziato ieri la lettura della prima nota, solo avvicinandomi alla questione prin-
cipale che vi viene considerata, cioè la prova ontologica. Nella prima parte della nota, ab-
biamo però incontrato alcuni passaggi notevoli. Ricordiamoli brevemente:
1) In primo luogo, Hegel torna sul problema della negazione, cioè sulla categoria del
nulla. E, in sostanza, chiarisce tre aspetti. Anzi tutto, il nulla non può essere consi-
derato come l’opposto di qualcosa: in senso stretto, qui non c’è alcuna opposizio-
ne, perché, come sappiamo dalla logica dell’essenza, l’opposizione presuppone la
distinzione, mentre qui siamo nell’indistinto. Secondo: il nulla, Nichts, non deve
essere scambiato con il non-essere, Nichtsein, perché questo include già l’essere, e
dunque indica il divenire. Il non-essere è il nulla già passato nell’essere, e dunque
presuppone il divenire al puro nulla: il nulla è das bloße Nicht, il semplice Non.
Infine, con riferimento a Platone, abbiamo osservato che, per Hegel, il nulla è la
radice della negazione determinata, dell’alterità: perciò, a rigore, non può essere
congedato, perché se l’indeterminato non rimane alla base del determinato, questo
non si accende nel movimento, non entra nella dialettica. Proprio questo aspetto
segna la conclusione dell’intero discorso, come si legge alla p. 73.
2) Poi ci siamo soffermati sugli esempi storici della prima triade: Parmenide, il bud-
dismo, Eraclito. Ma abbiamo osservato che molto di più Hegel aggiunge a propo-
sito di due esempi ulteriori. In primo luogo le dottrine della reincarnazione, o me-
tempsicosi: in queste dottrine l’essere passa nel nulla e viceversa, ma nella forma
rappresentativa del tempo. Abbiamo perciò notato come in Hegel il divenire assu-
ma almeno tre significati, l’uno iscritto nell’altro: il divenire puro, quello logico e
determinato (dialettica), quello empirico, dove la negazione è ordinata dal tempo.
La relazione tra questi tre aspetti costituisce un postulato essenziale dell’intera fi-
losofia di Hegel.
3) L’esempio ulteriore riguarda le grandi teorie del cosmo e della materia: l’eternità
del mondo (ex nihilo nihil fit; atomismo, Epicuro, Lucrezio); la dottrina ebraico-
cristiana della creazione (omnia ex nihilo facta sunt; Agostino). L’eternità del
mondo è un panteismo, un sistema dell’identità, che non riesce a entrare nel dive-
nire, sia che guardi al nulla sia che guardi all’essere. Quindi la dottrina della crea-
zione segna un progresso: ma, anche qui, nella forma della rappresentazione, cioè
nell’elemento esteriore del tempo. Tuttavia la rappresentazione della creazione de-
ve contenere ein Punkt, un punto, “in cui l’essere e il nulla coincidono, e la diffe-
renza loro sparisce” (p. 72).
Questi tre punti sono solo un preludio alla questione più grande e difficile che Hegel affron-
ta in questa nota: quella della prova ontologica della esistenza di Dio.
12. La prova ontologica
Ciò di cui il maggiore non si può pensare non può essere soltanto nell’intelletto. Infatti,
se fosse solo nell’intelletto, noi potremmo pensare che esista anche nella realtà, ed ecco
che questo secondo sarebbe maggiore del primo. Di conseguenza, se ciò di cui nulla di
maggiore si può pensare è solo nell’intelletto, ne deriverebbe che ciò di cui il maggiore
non si può pensare e ciò ciò di cui il maggiore si può pensare sono la stessa e identica
cosa. Questo non può certamente ammettersi.
Si osservi che la prova di Anselmo non riguarda il Dio persona della tra-
dizione ebraico-cristiana, ma la semplice idea di un’entità superiore, di un
principio che regge tutto. Infatti, Anselmo deve poi aggiungere: “E questo
sei Tu, o Signore Dio nostro”.
La tesi di Anselmo, che risale al 1077, venne confutata dal monaco fran-
cese Gaunilone nel Liber pro insipiente. Gaunilone formulò, sostanzialmen-
te, due obiezioni. In primo luogo, affermò che non ogni idea della mente è
un concetto: concetti sono solo quelli a cui associo un significato che ho po-
tuto inferire dall’esperienza. Se “cavallo” è un concetto, “cavallo alato” non
è un concetto: così, l’espressione di Anselmo “ciò di cui non si può pensare
il maggiore” non costituisce un concetto. In secondo luogo, Gaunilone con-
testava che dal concetto si possa dedurre l’esistenza; e ricorreva al celebre
esempio dell’isola perfettissima: “se io penso un’isola perfettissima, allora
questa esiste anche nella realtà?”. L’esistenza dell’isola non può essere de-
dotta dal suo concetto.
Kant arriva qui a distinguere l’essere della cosa (la cosa pensata con tutti
i suoi predicati, che però include anche la sua eventuale esistenza) e
l’esistenza della cosa, cioè la sua relazione con uno stato dell’esperienza.
Ora, qual è, qui, il rapporto tra essere ed esistenza? Si potrebbe osservare
che (1) l’essere si distingue dal’esistenza, ma nello stesso tempo include
l’esistenza, perché la cosa esistente (in modo sintetico) non è meno essere,
anzi vi coincide quanto alla determinazione; (2) l’esistenza è dunque
l’essere che si realizza, che si fa sintesi, che entra in una relazione totale con
gli enti; che da possibile, in sé, si fa per sé, esistenza compiuta. (3) Kant di-
ce che
Ma cosa significa qui uscire da esso? So müssen wir doch aus ihm he-
rausgehen. Uscire dal concetto significa uscire dalla totalità delle sue de-
terminazioni, e realizzare lo Stesso (l’identico oggetto, il concetto, a cui
l’esistenza non aggiunge la benché minima determinazione) nell’esistere.
Ma la cosa-che-esiste, l’essere-che-esiste (e che include l’esistenza) non è
altro che la cosa che si è costituita attraverso le forme pure della sensibilità e
le categorie pure dell’intelletto.
È questa dunque la differenza, che bisogna tenere ferma, tra essere ed en-
te: l’ente è determinazione (l’ente, la cosa, il qualcosa, l’empirico ecc. sono
per Hegel questo, determinazioni). E a questo, solo a questo, dobbiamo dare
il nome di esistenza: l’esistere (anche l’esistere rappresentativo) è determi-
nazione. La costituzione d’essere dell’ente è la relazione (la mediazione,
l’alterità, la negatività): se distruggi un granello di polvere ecc. Ma la costi-
tuzione ontologica dell’essere non è la relazione.
5. Siamo già al centro dei due grandi esempi che Hegel propone in questa
nota: la prova ontologica di Dio e i cento talleri di Kant.
Questo vale per i cento talleri, come vale per Dio. Hegel riassume così:
***
NOTA - Abbiamo visto che Hegel considera insufficiente la formulazione della prova an-
selmiana, anche se vuole salvarne la sostanza speculativa. Per questo ingaggia un vero cor-
po a corpo con la critica di Kant. La conclusione possiamo forse sintetizzarla così:
1. Anche per Hegel, come per Kant, l’essere e l’esistenza si distinguono. Ma l’essere
non è il concetto solo possibile della cosa (come il concetto dei cento talleri, o di
Dio), bensì l’indeterminato. Mentre l’esistenza non è qualcosa che si aggiunge e-
sternamente al concetto solo possibile, ma è il concetto stesso, la determinazione,
in quanto dedotta dall’indeterminato.
2. Di conseguenza, ciò che Kant chiama concetto (i cento talleri solo pensati) non è
affatto un concetto, ma una rappresentazione. Questo significa: se si vuole parlare
dei cento talleri, questi sono sempre e solo reali ed esistenti; mentre il concetto so-
lo possibile è una astrazione dell’intelletto, che segue e non precede la condizione
di esistenza. I cento talleri sono proprio quelli del mio patrimonio; quelli solo pen-
sati sono una susseguente astrazione dell’intelletto. Il possibile è l’ombra della re-
altà, la segue.
3. In ultimo, questo vale in un certo senso per l’idea di Dio. L’idea di Dio si distin-
gue da quella dei cento talleri, perché Dio indica l’infinito (cioè la totalità delle de-
terminazioni), mentre i cento talleri indicano il finito, cioè una parte astratta
dell’infinito. Ora, se l’astrazione non ha realtà, l’infinito è l’esistenza stessa, è
l’universale concreto.
" La distinzione, che compare ancora nella seconda nota, tra la differenza
opinata di essere e nulla e la differenza così come si realizza nella cosa stes-
sa, cioè nel divenire.
# Infine, nella terza nota, Hegel definisce l’indeterminato come una “per-
fetta astrazione”, di cui “viene lasciata dalla scienza dietro le spalle” la E-
rinnerung, il ricordo.
1. Giudizio e concetto
guardare: essa rivela la vera natura della Cosa, pur senza poterla dire ade-
guatamente. Il giudizio dice infatti che sono eins und dasselbe, uno e lo
stesso, proprio mentre li nomina come diversi.
Il giudizio è contraddittorio, e per questo si risolve. Ma qui è il punto: co-
sa vuol dire risoluzione? Ciò che abbiamo di fronte non è niente, ma il mo-
vimento dello sparire, il movimento del contraddirsi, l’atto dell’annullarsi.
Il giudizio, guardato concettualmente, è ciò che si va annullando: è, dunque;
è questo movimento dell’annullarsi. E ciò esprime, propriamente, il diveni-
re: quel divenire che il giudizio non riusciva a dire:
2. La differenza opinata
Cosi l'intiero, vero resultato, che qui si è ottenuto, è il divenire, che non è sol-
tanto l’unilaterale o astratta unità dell'essere e del nulla. Ma consiste in que-
sto movimento [in dieser Bewegung], che il puro essere è immediato e sem-
plice, che perciò esso è parimenti il puro nulla, che la differenza loro è, ma
insieme anche si toglie e non è [sich aufhebt und nicht ist]. Il resultato affer-
ma dunque anche la differenza dell'essere e del nulla, ma come una differen-
za solo opinata [aber als einen nur gemeinten]. [81]
4
Cosa significa qui opinare? Che l’essere sia altro dal nulla, non si può
dire secondo il concetto, secondo la verità: coloro che volessero (i filodossi)
sostenere la realtà di questa differenza, dovrebbero provarci: e vedrebbero
che essa non è posta: entrambi sono lo stesso indeterminato. Dunque solo
l’opinione, solo ciò che non è nella cosa, solo un terzo, può vedere la diffe-
renza: la differenza è nell’opinione, non è nella cosa:
S’intende, o si opina, [Man meint] che l'essere sia anzi l'assoluto altro che il
nulla, e niente è più chiaro che la loro assoluta differenza, e niente sembra più
facile, che di poterla assegnare. Ma è altrettanto facile convincersi che ciò è
impossibile e che cotesta differenza è ineffabile [DaB er unsagbar ist]. Quelli
che vogliono star fermi alla differenza dell’essere e del nulla, si provino a di-
re [anzugeben: indicare, dichiarare] in che consiste. Se l'essere e il nulla aves-
sero qualche determinatezza, per cui si distinguessero, allora, come fu
accennato, sarebbero un essere e un nulla determinati, e non già quel pu-
ro essere e quel puro nulla, che qui sono ancora. La lor differenza è
quindi intieramente vuota. Ciascuno dei due è in egual maniera l'inde-
terminato. La differenza non sta perciò in loro stessi, ma solo in un ter-
zo, nell’intendere o nell’opinare [Ihr Unterschied … bestehet daher nicht
an ihnen selbst, sondern nur in einem Dritten, in Meinen]. [81-82]
3. La perfetta astrazione
Prima di tutto, quando Jacobi si fissa [sich… festsetzt] così nello spazio,
nel tempo, e anche nella coscienza, assoluti, cioè astratti, bisogna dire
che in questo modo egli si trasporta e si mantiene in qualcosa di empiri-
camente falso [in etwas empirisch Falsches]. Non si dà, ossia non esiste
empiricamente nessuno spazio né tempo [Es gibt, das heisst empirisch
vorhanden ist kein Raum und Zeit], che siano una spazialità e una tempo-
ralità illimitate, nessuno spazio né tempo che nella lor continuità non
sian riempiti di un esistere e di un mutamento variamente limitati, per
modo che questi limiti e mutamenti appartengono inseparabilmente alla
spazialità e temporalità; così pure la coscienza è riempita di un determi-
nato sentire, rappresentare, bramare, ecc.; essa esiste inseparabilmente
connessa con un certo particolar contenuto Oltracciò il passare empirico
s’intende di per sé [Das empirische übergehen versteht sich ohnehin von
selbst]. La coscienza può darsi bensì per oggetto e contenuto lo spazio
vuoto, il tempo vuoto, e perfino la coscienza vuota, o il puro essere ; ma
non vi si ferma [aber es bleibt nicht dabei]; anzi non solo esce, ma si
spinge fuori di una tal vuotezza verso un contenuto migliore, cioè in
qualche guisa più concreto (e per quanto un contenuto sia d'altronde cat-
tivo, da questo lato esso è sempre migliore e più vero). Appunto un tal
contenuto è in generale un contenuto sintetico, intendendosi sintetico nel
suo senso più generale. Parmenide viene ad aver da fare coll'apparenza e
coll'opinione, cioè col contrario dell' essere e della verità, e parimenti
Spinoza cogli attributi, i modi, l’estensione, il moto, l’intelletto, la volon-
tà, ecc. La sintesi contiene e mostra la non verità di quelle astrazioni.
Queste vi stanno in unità col loro altro, epperò non come sussistenti per
sé, non come assolute, ma semplicemente come relative. [89]
passata in un secondo Inizio. Essa, così, non sarebbe né inclusa nella verità
(rivelandosi parte del concreto) né critica (nella sua aspirazione di essere il
Tutto della verità). In sé stessa – spiega Hegel – l’astrazione è nichtig (nulla,
futile). Essa è l’opposto di sé. Ma cosa significa qui opposto? Noi sapevamo
che l’astratto è l’opposto di sé in quanto Niente. Ma qui, opposto non è il
Niente, ma il determinato, ciò che non è astratto. Qui, oltre la prima triade,
Hegel comincia a offrirci lo sguardo lungo del passaggio al Dasein, quasi
accorciato nella dialettica indeterminato-determinato. Leggiamo:
Quello di cui si tratta non è però di far vedere la nullità empirica dello
spazio vuoto etc [Das Aufzeigen (mostrare) der empirischen Nichtigkeit
des leeren Raum aber ist es nicht, um das es zu tun ist]. Astraendo, la co-
scienza si può ad ogni modo riempire anche di quell’indeterminato, e le
astrazioni fissate [festgehaltenen] sono i pensieri del puro spazio o tem-
po, della pura coscienza, del puro essere. È il pensiero del puro spazio
etc, vale a dire il puro spazio ecc in se stesso [an ihm selbst], quello che
si deve far veder come nullo [als nichtig], nel senso cioè ch'esso è già
come tale il suo proprio opposto, che già come considerato in se stesso
[an ihm selbst] il suo opposto è penetrato in lui, ch’esso è già di per sé
l’esser uscito da sé stesso, cioè la determinatezza [dass … er schon für
sich das Herausgegangensein aus sich selbst, Bestimmtheit sei] [90]
Nella pura riflessione del cominciamento, qual vien fatto in questa Lo-
gica coll’essere come tale, il passaggio sta ancora nascosto [ist der Ue-
bergang noch verborgen]. Poiché l'essere vien posto soltanto come im-
mediato, il nulla vi prorompe solo immediatamente. Ma tutte le deter-
minazioni susseguenti, come subito l'esserci, son più concrete. Nell'es-
serci è già posto ciò che contiene e produce la contraddizione di quelle
astrazioni, e quindi il loro passare. Nell'essere, in quanto è quel sempli-
ce, quell’immediato, il ricordo ch'esso è un resultato della perfetta astra-
zione, e quindi già per questo negatività astratta, Nulla, vien lasciato dal-
la scienza dietro le spalle [wird die Erinnerung, dass es Resultat der vol-
lkommenen Abstraktion, also schon von daher abstrakte Negativität,
Nicht ist, hinter der Wissenschaft zurückgelassen]. [90]
Con quel ricordo ci si può rappresentare (o anche, come suol dirsi, spiega-
re e rendere intelligibile) il passaggio dall'essere nel nulla come un che
di facile e triviale, nel senso cioè che quell'essere, di cui si è fatto il co-
minciamento della scienza, sia certamente il nulla, in quanto che si può
astrarre da tutto, e quando si è astratto da tutto, non resta nulla. Se non che,
si può soggiungere, il cominciamento non è così un affermativo, non è
l'essere, ma appunto il nulla, e il nulla è allora anche la fine, per lo meno
quanto l'essere immediato, anzi anche meglio di questo. La più breve è
di lasciar andare simili ragionamenti, guardando invece di che natura
siano i resultati che pretendono ottenere. Che il resultato di un tale ragio-
7
nare, dunque, fosse il nulla, e che quindi si dovesse cominciare col nulla,
(come nella filosofia cinese), è cosa per cui non varrebbe la pena di alza-
re un dito, perché prima che si fosse alzato, cotesto nulla si sarebbe dal
canto suo cambiato in essere [91]