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CAPITOLO 5: LE OSSERVANZE RELIGIOSE TRA DIRITTI CONFESSIONALI E

ORDINAMENTO STATALE.

5.1: I simboli religiosi nella società interculturale.


La nostra società si è trasformata in senso multiculturale e multi religioso. In questo contesto, si colloca il
sempre più frequente utilizzo di simboli, soprattutto religiosi, quale fattore di riconoscimento e
aggregazione.

Il simbolo infatti, può essere definito essenzialmente come un tipo di segno: un oggetto, un’espressione
grafica, o anche un particolare comportamento, che rappresenta un mezzo attraverso il quale si è capaci di
creare una relazione tra singolo e fede religiosa, divenendo esso stesso testimonianza diretta della stessa
appartenenza confessionale.

I simboli sono svincolati dalla lingua parlata e comunicano in maniera universale.

Il ricorso a questi ultimi però, non è sempre da tutti vissuto in maniera pacifica e concorde; bisogna infatti
considerare la valenza, allo stesso tempo, aggregativa e disgregativa del simbolo stesso.

Difatti, se già dal suo significato etimologico, la parola simbolo vuol dire “mettere/tenere insieme” con
conseguente azione aggregativa associato ad esso, d’altra parte, il simbolo“divide”tutti coloro che in quel
simbolo non si riconoscono.

Questo tema quindi, rappresenta un argomento alquanto scottante, e la sua risoluzione implica
necessariamente un’operazione di bilanciamento dei valori. Ciò significa che: da un lato, registriamo il
bisogno di integrazione proveniente da una società ormai multiculturale/religiosa, dall’altro lato, viene in
essere il rispetto del comune patrimonio della nazione.

Tale problematica, ha trovato pratico riscontro nella pronuncia del Giudice di Pace di Foligno, resa in
materia di circolazione stradale; secondo il giudice esiste una categoria di persone che possono percorrere
le strade italiane, alla guida di un auto, a velocità superiore ai limiti imposti ai restanti utenti della strada. I
titolari di tale “privilegio” sono religiosi e ministri del culto cattolico, alla sola condizione che abbiano agito
(o dichiarino di aver agito) per portare l’estrema unzione a un fedele in punto di morte.

A detta dell’autorità giuridica infatti, non si può non considerare il danno arrecato al fedele come una
violazione dei diritti della persona, garantiti al massimo livello costituzionale.

Questo però non rappresenta l’unico caso isolato di disciplina di istanze dei singoli o dei gruppi in materia di
simboli religiosi; troviamo infatti, un ulteriore esempio nel caso delle benedizioni a scuola, circa le quali, il
Consiglio di Stato ha dichiarato la legittimità della relativa pratica, a condizione che avvenga fuori dalle
lezioni e sia facoltativa.

La problematica sui simboli, assume un rilievo significativo anche riguardo le condizioni del detenuto a cui
viene riconosciuto il diritto di esporre, nella propria camera individuale immagini e simboli della propria
confessione religiosa.
5.2: Cultura, moda e religione.
La propria appartenenza religiosa può essere manifestata anche attraverso l’utilizzo di particolari capi di
abbigliamento.

I sikh ad esempio, praticanti del sikhismo indiano, sono tenuti ad osservare particolari obblighi di vestiario,
che comprendono l’utilizzo del kirpan, un pugnale emblema della resistenza al male.

L’esposizione di questo oggetto, rappresenta un caso paradigmatico delle c.d “migrazioni categoriali”.
Difatti, in relazione al contesto in cui vive l’osservatore, questo pugnale può essere considerato come un
oggetto offensivo, oppure essere trasfigurato in simbolo religioso. In ogni caso, al fine di realizzare un
bilanciamento dei valori, alcune autorità hanno considerato lecita la relativa esposizione a condizione di
mantenere la lama priva di filatura, con la punta arrotondata e riposta nel fodero.

Tuttavia, gli originari segnali che confermavano una tendenza di sostanziale apertura in materia di simboli
religiosi, hanno subito una battuta d’arresto; ciò si è verificato soprattutto dopo che, alcuni tribunali,
avevano concesso l’assoluzione di un indiano Sikh dal reato di porto abusivo di armi sulla base dell’invocata
natura di simbolo religioso del kirpan. Due successive sentenze della Corte di Cassazione hanno frenato
questa tendenza, affermando un principio opposto; la cassazione infatti, in ossequio al principio di
legalità, ritiene che il motivo religioso non costituisca “giustificato motivo”: il kirpan nonostante sia
identificativo di un’appartenenza fideistica, può costituire in astratto un pericolo ed essere potenzialmente
offensivo. La corte per cui, afferma l’obbligo dell’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo
occidentale in cui ha scelto liberamente di trasferirsi, nonché di verificare la compatibilità dei propri
comportamenti in relazione all’ordinamento giuridico in cui risiede.

L’utilizzo di questi simboli religiosi nello spazio pubblico si pone in diretta relazione anche con l’art 5 della l.
152/1975, il quale vieta l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il
riconoscimento della persona. A tal riguardo il consiglio di stato, ha evidenziato che la ratio della norma,
diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è quella di evitare che l’utilizzo di caschi o altri mezzi possa avvenire
con la finalità di evitare il riconoscimento. Tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasione di
manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che
tale uso comportino.

Quindi, quanto al burqa, il citato art 5 consente che una persona indossi il velo per motivi religiosi o
culturali, le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di
manifestazioni e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove
necessario a tale fine. Questa interpretazione però, non esclude che in determinati luoghi, possano essere
previste regole comportamentali diverse con il suddetto utilizzo, purché basate su un criterio di
ragionevolezza.

A confermare l’attualità dei principi enunciati, vi sono le recenti controversie intervenute dopo gli attentati
terroristici di matrice islamica in Europa. Un esempio di ciò trova realizzazione nel caso di una delibera
effettuata presso la Regione Lombardia elaborata in seguito ad un interrogazione del Gruppo Consiliare al
presidente della Giunta Regionale in previsione di possibili attacchi in territorio italiano, riguardante il
divieto di indossare il burqa e il niqab in luoghi ad alto rischio, quali edifici istituzionali, strutture pubbliche
regionali ecc. In risposta all’interrogazione, la Giunta Regionale ha disposto che vengano adottate misure
idonee al rafforzamento del sistema di controllo che vietino l’utilizzo di caschi protettivi, o di qualunque
altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona.
La delibera in oggetto, è stata poi successivamente impugnata con ricorso presso il Tribunale di Milano; i
ricorrenti chiedevano di accertare il carattere discriminatorio della delibera e la revoca della stessa,
affermando che il provvedimento adottato dalla Regione Lombardia fosse contrario alle disposizione
dell’art 9 CEDU, in materia di libertà religiosa.

Il tribunale di Milano ha rigettato il ricorso sull’assunto art 9, specificando che l’esigenza di garantire la
pubblica sicurezza è prevista dal legislatore nazionale; la delibera in esame infatti, non pone un divieto
generalizzato di indossare capi di abbigliamento che coprono il volto, ma si limita a prevedere che in luoghi
pubblici non vengano indossati capi che impediscano l’identificazione delle persone che ai detti luoghi
hanno accesso.

Sembra quindi, non potersi applicare tale principio al di fuori delle ipotesi segnalate di tutela dell’ordine
pubblico; compete ai giuristi infatti, fornire gli strumenti per il bilanciamento dei principi citati, libertà
religiosa e ordine pubblico, tenendo conto del regime di pluralismo confessionale e culturale e
dell’esistenza di una laicità aperta e condivisa.

Timori di attacchi terroristici e esigenza di tutela di altri principi ordinamentali hanno dato vita, negli ultimi
tempi, a diverse controversie giudiziarie nazionali e internazionali.

Controversie come la vicenda giuridica scaturita in Francia dal divieto che l’azienda Costa Azzurra ha
imposto ad alcune donne islamiche di indossare il c.d burkini, costume integrale islamico, in zone adibite
alla balneazione. La sentenza successiva, resa dal Consiglio di Stato francese, ha definitivamente composto
la questione sospendendo l’efficacia dell’ordinanza produttrice del divieto, precisando che essa rappresenta
una violazione grave del diritto di libertà religiosa.

L’ordinamento italiano invece, in materia di simboli religiosi individuali, ha manifestato una progressiva e
sostanziale apertura, con l’unico limite generale quello dell’ordine e della sicurezza pubblica. Si consente ad
esempio, il rilascio della carta d’identità a donne di religione islamica con foto che la ritraggono col viso
coperto, diversamente da altri paesi come la Francia, che proibisce l’uso all’interno della scuola pubblica
degli oggetti e degli abbigliamenti che manifestino in modo troppo ostentato una precisa appartenenza
religiosa.

Ciò fa comprendere come l’uso di simboli religiosi sia fondamentale per identificare la propria
appartenenza ad un gruppo e come, tale mezzo di espressione debba essere necessariamente protetto.

La questione però, assume interessanti spunti di riflessione, quando si ritrova ad essere contestualizzata nel
mondo lavorativo; per evitare infatti che, il simbolo di appartenenza possa mettere a rischio la posizione
stessa del lavoratore, si avverte l’esigenza di tutelare, da un lato, l’esercizio della libertà religiosa e,
dall’altro, la libertà di iniziativa economica.

5.3: I tatuaggi religiosi.


L’esposizione dei simboli religiosi sul corpo ha interessato negli ultimi tempi, l’esplicazione dell’attività
lavorativa all’interno del personale dell’esercito.
Lo Stato Maggiore dell’esercito ha emanato al riguardo una direttiva, con la quale ha previsto apposite
norme dirette a regolamentare questo fenomeno al fine di prevenire e contenere situazioni che possano
incidere sul decoro dell’uniforme.

Del resto, l’uniforme dell’esercito italiano, oltre a fungere da indice di inequivocabile appartenenza ad un
settore specifico della PA, costituisce anche un simbolo di valori fondamentali, tra i quali l’uguaglianza. Ne
consegue che agli appartenenti alle forze armate è richiesta una particolare cura dell’aspetto esteriore che
”non può essere snaturato da tatuaggi o da piercing”.

Inoltre, all’interno dell’attuale scenario internazionale, i militari si trovano spesso ad agire in aree
geografiche contraddistinte dalla presenza di popolazioni con usi, costumi, culture e religioni talvolta
molto diversificati.

Pertanto, l’eventuale presenza di segni esteriori dell’individuo potrebbe causare un senso di diffidenza da
parte degli appartenenti ad altri paesi; per evitare queste dinamiche è stato vietato al personale di apporsi
tatuaggi o piercing in parti visibili del corpo.

Inoltre, sono stati proibiti su qualsiasi parte del corpo, i tatuaggi che abbiamo contenuti osceni, con
riferimenti sessuali, razzisti, di discriminazione religiosa o che comunque possano portare discredito alle
forze armate.

Prima dell’introduzione di questa direttiva,i tatuaggi, qualora estesi, venivano inquadrati all’interno della
categoria delle “imperfezioni”.

In ambito confessionale invece, l’Ufficio Rabbinico della Comunità Ebraica ha ricordato che la Torà vieta la
pratica del tatuaggio poiché incidendo sul proprio corpo un segno che rimarrà con sé per sempre, l’uomo
indica qualcosa che va oltre il tentativo di abbellire il proprio corpo e conferisce uno spazio esagerato alla
ricerca della bellezza. Inoltre, attraverso il tatuaggio , l’uomo vuole introdurre un cambiamento nell’aspetto
naturale del corpo umano, che è creazione divina.

5.4:L’esposizione dei simboli religiosi collettivi.


Più controversa invece, è la questione dei simboli religiosi collettivi della religione cattolica,crocifisso o
presepe, esposti in luoghi pubblici.

Con l’accordo di revisione del concordato infatti, questa disciplina ha cominciato ad essere messa in
discussione, laddove si è espressamente riconosciuto non più in vigore il principio della religione cattolica
come sola religione dello Stato italiano.

Infatti, solo la modifica da ultimo richiamata avrebbe direttamente travolto le norme relative all’affissione
del crocifisso nelle scuole pubbliche.

Nel 1988, il Consiglio di Stato ha ritenuto queste disposizioni legittimamente operanti, il cui fondamento
deve essere ricercato nel significato storico-culturale del crocifisso.

Dal canto suo, la Corte Costituzionale, con l’ordinanza 13 Dicembre n 389, ha dichiarato la manifesta
inamissibilità della questione di legittimità costituzionale riguardante le norme sui servizi dell’istruzione
relativi a scuole di ogni ordine e grado, in riferimento al principio di laicità dello Stato.
Il motivo principale che ha indotto la Corte a ritenere manifestamente infondata la questione di
costituzionalità di quelle disposizioni, consisteva nel fatto che, esse rappresentavano norme prive di forza
di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale né, di conseguenza,
un intervento della Corte Costituzionale.

E’ comprensibile, tuttavia, nell’incertezza della legge che non impone espressamente ma nemmeno esclude
la presenza di crocifissi nel luoghi pubblici, che venga a crearsi una certa confusione interpretativa.

In tale fattispecie, due ordini di diritti entrano in conflitto: il diritto dei genitori di un bambino non cattolico
ad avere una scuola pubblica laica e senza riferimenti simbolici a specifiche confessioni religiose, ed il diritto
dei cattolici a rivendicare le radici culturali e religiose che hanno influenzato l’identità nazionale.

Sotto quest’ultimo profilo, la presenza nelle scuole pubbliche dell’altro simbolo per antonomasia della
religione cattolica, il presepe, assume particolare rilevanza. Esso infatti, ha generato molteplici interventi di
organi amministrativi competenti per la gestione scolastica.

Tra questi, il Direttore Generale dell’Ufficio Regionale per il Veneto, in data 4 dicembre 2015, ha inviato ai
dirigenti scolastici una comunicazione inerente la questione delle iniziative scolastiche connesse alle
festività natalizie con particolare riferimento alla presenza di simboli cristiani all’interno delle scuole. La
comunicazione, ha ritenuto che tali simboli non si pongono in contrasto con la libertà religiosa e con la
laicità dello Stato.

Lo stesso direttore ha pertanto invitato all’organizzazione delle festività natalizie negli edifici scolastici con
tradizionali allestimenti, eventi e segni religiosi; essendo questi simboli delle pace, di cui è veicolo il
messaggio cristiano.

5.5: I simboli religiosi nella giurisprudenza civile.


La problematicità dell’utilizzo dei simboli religiosi si è manifestata nella società italiana con
riferimento alla vicenda dell’esposizione del crocifisso nei seggi elettorali.

Ci si è chiesto infatti, se l’esposizione del crocifisso, simbolo della cristianità, potesse essere lesiva
del diritto di libertà religiosa o condizionare il buon esercizio del diritto di voto.

A tal riguardo, numerosi sono stati gli interventi delle Corti italiane, le quali, con giurisprudenza
conforme hanno ribadito che la presenza del crocifisso nei locali adibiti a seggi per le consultazioni
elettorali o referendarie non costituisce elemento tale da condizionare od influenzare la
formazione dell’opinione politica, non pregiudicando il libero esercizio del diritto di voto.

Sempre nel medesimo ambito, la Corte d’Appello di Parigi, ha sostenuto che la rimozione di un
crocifisso da un seggio elettorale da parte di un presidente del seggio non vale in alcun modo a
menomare il giudizio valutativo d’idoneità formulato al momento del’assegnazione degli incarichi
di presidente del seggio elettorale.

Anche nelle aule di giustizia la presenza del crocifisso ha finito per creare non pochi problemi,
ingenerando preoccupazioni circa l’efficace svolgimento dell’amministrazione giudiziaria. In realtà
sino ad oggi, il rifiuto da parte di alcuni magistrati di assolvere le propria funzione giudicante in
aule ove era presente in crocifisso, non aveva nai inciso negativamente sul compimento di atti
d’ufficio a c.d rilevanza esterna.

Difatti, l’inadempienza , si era sempre risolti in semplici dinieghi interni all’organizzazione


giudiziaria integranti violazioni di meri doveri di servizio a c.d rilevanza interna, i quali avevano
trovato risposta esclusivamente sul piano disciplinare.

La possibile incidenza negativa sul corretto svolgimento dell’amministrazione di giustizia, ha invece


indotto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione a confermare la rimozione della magistratura di
un appartenente in quanto, il reiterato rifiuto di svolgere le udienze sia in aula ove fosse presente
il crocifisso, sia in altra appositamente allestita e priva del simbolo della croce, andava oltre
l’interesse soggettivo del richiedente, sconfinando nell’area dei diritti altrui nonché degli interessi
diffusi che non possono far capo al singolo cittadino.

Peraltro, nella medesima pronuncia la Suprema Corte argomenta anche sul problema della
possibile collocazione di altri simboli religiosi all’interno delle aule di giustizia esprimendo, la
persistente impossibilità di uno specifico intervento normativo.

Oltre a ciò, la presenza del crocifisso nelle aule di giustizia deve essere riguardata anche sotto atro
profilo, in quanto è stata più volte considerata una possibile caratterizzazione in senso
confessionale dell’amministrazione della giustizia, derivata dalla mancata rimozione dei
crocifissi.

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