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ROMA
Caput mundi
di Raoul Elia
Uno dei più misteriosi e per questo inquietanti riti romani è certamente quello connesso al “turpe
sepulcrum”, come lo definisce Properzio1, della vergine Tarpea2 e alla rupe che dalla sventurata
fanciulla prese il nome, la rupe Tarpeia o Saxum Tarpeium. Del rito sappiamo poco, e quel poco che
si sa è alquanto frammentario.
Si sa che ancora in età imperiale si usava gettare dalla rupe intestata alla fanciulla i criminali
ricadenti in una serie di categorie di crimini abbastanza varie, fra cui spiccavano certo i traditori
della patria. Si sa inoltre che il sepolcro della vergine in origine era riposto nell’area del
Campidoglio ove sorse in seguito il tempio di Giove Ottimo Massimo, e che era oggetto di
lustrazioni e libagioni.
Del mito invece abbiamo molte più informazioni.
Livio narra infatti che la fanciulla fosse la figlia del guardiano della rocca, tale Spurio Tarpeio, non
altrimenti identificato.
Questa è la leggenda nella versione di Igino: “Sabini, cum in animo haberent populo romano bellum
indicere, Tito Tatio imperum detulerunt, qui contra Romam exercitum admovit. Cum vero arcem
Romanam capere vi non posset, corrupit auro filiam custodis, ut portam aperiret et parvam manum
Sabinorum in eam immitteret. Pollicitus est etiam id quod Sabini in brachiis sinistris gerebant.
Puella, putans Sabinos sibi daturos esse armillas laevi brachii, patriam prodidit et partam hostibus
aperuit. Sed hostes, ubi in arcem ingressi sunt, puellam sub scutis, quae sinistra manu gerebant,
obruerunt. cum tamen mortem effugisset, Romulus, ut ea puniret, de rupe praecipitavit, quam
Tarpeiam ex eius nomine appellaverunt”3.
Questa, invece, quella riportata da Tito Livio negli Ab Urbe condita Libri: “Nouissimum ab Sabinis
bellum ortum multoque id maximum fuit; nihil enim per iram aut cupiditatem actum est, nec
ostenderunt bellum prius quam intulerunt. Consilio etiam additus dolus. Sp. Tarpeius Romanae
praeerat arci. Huius filiam virginem auro corrumpit Tatius ut armatos in arcem accipiat; aquam
1 “Tarpeium nemus et Tarpeiae turpe sepulcrum / fabor et antiqui limina capta Iovis”, Prop. Elegie, IV, 4, vv. 1-2;
2 La bibliografia meno recente sul mito di Tarpea e sulle sue possibili interpretazioni è assai cospicua: qui mi limito a
segnalare i contributi di Pais 1895; Sanders 1904; Krappe 1929; Momigliano 1938, pp. 21-28; Dumézil 1947; La Penna
1956; Picard 1957a, pp. 107-116; Devoto 1958; Hetzner 1963; Poucet 1967, pp. 8493, 113-121; Ampolo, Manfredini
1988, pp. 315-318; Calderini 1995-1997; Haudry 2002, pp. 65-90; Fraschetti 2002, pp. 64-67. Le fonti letterarie relative
a Tarpea e al suo mito sono utilmente raccolte in Sanders 1904, pp. 2-31; Lugli 1969, pp. 113-121; Carandini 2010, pp.
72-103;
3 I Sabini, avendo in animo di iniziare un guerra contro il popolo romano, affidarono il potere a Tito Tazio, che mosse
l'esercito contro Roma. Non potendo in verità prendere la rocca romana con la forza, corruppe con l'oro la figlia del
custode, perché spalancasse la porta ed facesse entrare attraverso quella il piccolo gruppo dei Sabini. Promise anche ciò
che i Sabini portavano sulle braccia sinistre. La fanciulla, pensando che i Sabini le avrebbero dato anche i braccialetti
del braccio sinistro, tradì la patria e aprì la porta ai nemici. Ma i nemici, quando entrarono nella rocca, colpirono la
fanciulla con lo scudo, che portavano nella mano sinistra. Essendo sfuggita alla morte, Romolo, per punirla, la gettò
dalla rupe, che nominarono in seguito dal suo nome Tarpea. Trad. dell’autore;
Figura 1: Immagine dell’affresco realizzato sulla copertura della cosiddetta Tomba
del Tuffatore, 480-470 a.C.Paestum
forte ea tum sacris extra moenia petitum ierat. Accepti obrutam armis necavere, seu ut vi capta
potius arx videretur seu prodendi exempli causa ne quid usquam fidum proditori esset. Additur
fabula, quod volgo Sabini aureas armillas magni ponderis brachio laevo gemmatosque magna
specie anulos habuerint, pepigisse eam quod in sinistris manibus haberent; eo scuta illi pro aureis
donis congesta. Sunt qui eam ex pacto tradendi quod in sinistris manibus esset derecto arma petisse
dicant et fraude visam agere sua ipsam peremptam mercede4.
Perché Livio, a differenza di Properzio, non la chiami vestale è facile da comprendere, nel momento
in cui si ricorda che lo storico patavino attribuisce a Numa l’istituzione del sacerdozio delle vestali5 .
Molto meno chiaro è il senso del collegamento fra mito (ovvero la morte per schiacciamento sotto
gli scudi) e rito (precipitazione dei criminali dalla rupe omonima).
4 Un’ulteriore guerra venne portata (a Roma) da parte dei Sabini, e fu quella di gran lunga più dura; che nulla fu fatto
sotto l’impulso dell’ira o della cupidigia, né essi lasciarono sospettare l’intenzione di muover guerra prima di iniziarla.
Inoltre alla prudenza s’aggiunse l’inganno. Comandava la rocca romana Spurio Tarpeio. Tazio corruppe con l’oro la
giovane figlia di costui, inducendola a far entrare nella rocca alcuni armati: proprio allora, per caso, ella era uscita fuori
dalle mura ad attingere acqua per i sacrifici. Entrati che furono, la uccisero seppellendola sotto le armi, o perché
preferissero far credere che la rocca era stata presa con la forza, o per dare un esempio che dimostrasse come non ci si
debba mai fidare d’un traditore. Aggiunge inoltre la leggenda che, poiché i Sabini portavano comunemente.sul braccio
sinistro braccialetti d’oro di gran peso e al dito bellissimi anelli gemmati, ella avesse pattuito come compenso ciò che
portavano nella mano sinistra; perciò furono ammucchiati su di lei gli scudi invece dei doni d’oro. V’è chi sostiene
invece che, pattuendo che le consegnassero ciò che avevano nella mano sinistra, ella chiedesse senz’altro le armi, e che,
sembrando ch’ella tramasse un inganno, venisse uccisa col compenso che aveva richiesto. Traduzione dell’autore;
5 anche Varrone la considera una vestale. Cfr. Varro, De ling. L., 5, 41;
La precipitazione da una rupe non è prerogativa unica dei Romani. E’, anzi, variamente attestata
nella Grecia antica, ad esempio nella democratica Atene. Lo analizza compiutamente Eva Cantarella
nell’opera dedicata ai supplizi, cui si rimanda per amor di brevità6.
Ciò che emerge chiaramente che, si nella versione greca che in quella romana, la morte per
precipitazione ha, nell'antichità, una chiara funzione sacrificale ed espiatoria.
Come ricorda anche l'affresco della Tomba del Tuffatore (vedi fig. 1), gettarsi significa proiettarsi
da un mondo all'altro. Ovviamente di propria volontà o per effetto delle azioni (rituali) di altri non è
importante per quanto riguarda l’accesso, almeno.
Nei miti greci, infatti, gettarsi assume spesso carattere espiatorio, sebbene, in molti casi, nella
tradizione esista anche una forte componente ordalica7.
In ogni caso, precipitare dalla rupe era a Roma una forma di damnatio capite molto diffusa,
contrariamente a quanto si ritiene.
Dalla rupe Tarpeia venne quasi gettato il triste Coriolano, reo in seguito di aver tradito la patria, ma
per aver offeso i tribuni della plebe (e la loro sacrosanctitas), mentre Manlio Capitolino, pur se
forse innocente, morì precipitando dall’infame saxum per aver tentato di instaurare la tirannide8 ; il
tribuno Sesto Lucilio venne gettato dalla rupe per aver tradito la plebe e anche un console, Spurio
Cassio, fu precipitato e saxo per la sua proposta di legge in favore dei socii9 . Quindi, dalla rupe
venivano precipitati i traditori della patria.
Ma non solo.
Dalla triste rupe vennero gettati anche 370 disertori, teste Livio10 e in seguito gli ostaggi di Taranto
e Turi11. Anche il/la colpevole di incestum12 , sebbene questo non valga per la vestale incesta13 , che
invece veniva sepolta viva14. Inoltre, secondo due disposizioni decemvirali riportate dall’erudito
Aulo Gellio, erano precipitati e saxo i colpevoli di furto, se di condizione servile, sorpresi in
flagranza di reato (fur manifestus) e il falso testimone15.
Come si può vedere, contrariamente a quanto si ritiene di solito, dalla rupe non venivano precipitati
solo i traditori della patria, né tanto meno tutti i traditori venivano puniti solo con la precipitazione.
Seneca, ad esempio, fa riferimento ai proditores16 . E sono proditores, per Livio e Valerio
Massimo17, i figli di Bruto, che avevano tentato di restaurare la monarchia, sebbene il loro crimine
(procuratio regni) sarebbe da ascrivere piuttosto ad un altro istituto giuridico, la perduellio; tuttavia,
ragionando in termini generali, non è per niente facile tracciare un netto confine fra i crimini di
6 Cantarella 2005;
7 ancora Cantarella 2005, passim;
8 Liv Ab Urbe cond. L., VI, 20, 12;
9 Dion. Hal., Ant. Rom., VII, 21 segg. Ma in Valerio Massimo il console viene punito in casa dal padre tramite
fustigazione. Cfr. Val. Max., Fac. Mem., V, 8, 2. Vedi anche Liv., Ab Urbe cond. L.,II, 41, 10;
10 Vedi anche Liv. Ab Urbe cond L., XXIV, 20, 6 e XXV, 7, 13;
11 Liv. Ab Urbe cond L., XXV, 8 segg.;
12“incesti damnata et praecipitata de saxo vixit”, Quin. Inst., VII, 8,3, ma anche “Sex. Marius Hispaniarum ditissimus
defertur incestasse filiam et saxo Tarpeio deicitur”, Tac., Ann., VI, 19;
13 sulla vestale incesta, cfr. Salvadore 2012, https://www.academia.edu/10510693/La_Vestale_incesta e Fraschetti 1984,
http://www.persee.fr/doc/efr_0000-0000_1984_act_79_1_2531;
14 sulla vestale incesta, cfr Amadore 2002;
15 per la falsa testimonianza cfr.Aul. Gell., Noc. Att., XX, 1, 53 (XII Tab 8, 23); per il furto Aul. Gell., XI, 8, 8 (XII Tab
8, 14) reati entrambi connessi alla violazione di una tipologia di fides. Cfr. Cantarella 2005 pp. 249-52;
16 Sen., De Ira, I, 16, 6;
17 Liv., Ab Urbe cond. L, II, 5,5; Val. Max., Fac. Mem., V, 8, 1;
proditio (da cui proditores) e perduellio18, ma si è visto che il colpevole di procuratio regni come
Spurio Cassio, può essere punito con la fustigazione, come visto sopra.
A meno di non voler ricorrere a soluzioni complesse come quella elaborata dalla Cantarella19, che
comunque dà spiegazione dell’uso della rupe come strumento di supplizio capitale, non
dell’intestazione della stessa alla vergine traditrice né del rapporto con il mito eziologico.
Che legame intercorre fra la morte di Tarpea, schiacciata dagli scudi sabini, e i criminali gettati
dalla Rocca omonima? Perché è evidente che un legame deve essere esistito, dato che, da un lato, il
testo liviano e quello di Igino hanno tutta l'evidenza di una spiegazione eziologica, dall'altro la
drammatica vicenda della giovane traditrice mal si concilia, anche in età storica, con la genia di
criminali "precipitati" dalla rupe Tarpeia, se non supponendo un legame antichissimo, che neanche
Livio e gli altri autori di età tardo repubblicana ed augustea conoscevano e riuscivano a interpretare.
Ma da questo cul de sac non se ne esce. Come si può dimostrare il collegamento escludendo
l'evidenza, che è l'unica prova apparente di relazione?
Proviamo a lavorare per gradi.
Innanzitutto, concentriamoci sul rapporto fra il mito e il rito.
Primo punto di contatto e sicuramente il nome: da una parte, la giovane che tradisce Roma aprendo
le porte ai nemici si chiama Tarpea, figlia di un non altrove nominato L. Spurio Tarpeio, presunto
guardiano della rocca, nominato da Romolo in persona. Dall'altra, la rupe Tarpeia o Saxum
Tarpeium, da cui venivano precipitati i criminali resisi colpevoli di crimini come laesa maiestas,
proditio ma anche incestum20 e altri21.
Un qualche collegamento esisterà, ma forse non è di tipo eziologico-urbanistico.
La collocazione della tomba di Tarpea presso il Saxum omonimo22, infatti, potrebbe dover essere
intesa in senso inverso. Il Saxum non prese il nome dal mito, come sembrerebbe ritenere il corpus
degli scrittori romani, ma dalla collocazione della tomba. Sotto il Saxum, infatti, la tomba sarebbe
stata spostata in seguito. Anche In Servio (Nota: Serv., Aen., 8, 348;) e in Festo23 la denominazione
di Saxum Tarpeium viene spiegata con la presenza della «sepultam Tarpeiam», ad indicare che non
l’azione mitica dello schiacciamento/seppellimento ma la sepoltura, il sepulcrum definito “turpe” da
Properzio24 , a dare il nome alla rupe.
18 Proditio: erano così definiti i delitti militari [vedi desèrtio; transfùgium], configurati in periodo repubblicano: essi non
furono previsti né disciplinati da alcuna legge, ma furono enucleati in via consuetudinaria, sulla base di prassi seguite
nella vita militare. L’accertamento della responsabilità e l’irrogazione delle pene (a seconda della gravità, pene corporali
od anche la pena capitale), fissate anch’esse dalla consuetudine, erano riservate ai comandanti militari. La (—)
consisteva, in particolare, nell’abbandono di una posizione al nemico o, comunque, nel tradimento (si pensi, ad es.,
all’abbandono al nemico di una città assediata, o di un borgo fortificato, o di una posizione strategica, senza opporre
resistenza). Fonte: http://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&id=2439&dizionario=3
Perduellio: nel diritto romano repubblicano, il reato di perduellio includeva una serie di fattispecie punibili con la
condanna a morte, che andavano dalla diserzione allo spionaggio, dall'associazione sovversiva all'insurrezione armata
contro i poteri dello Stato. Nel diritto romano classico, tali fattispecie furono comprese nel reato di lesa maestà dello
Stato. Nel diritto italiano, sono esplicitamente contemplati nella Costituzione i reati di alto tradimento o attentato alla
Costituzione; http://www.brocardi.it/P/perduellio.html
19 Cfr. Cantarella 2005, passim;
20 sull’incestum, cfr Fraschetti e Eckstein;
21 vedi supra;
22 per una collocazione della rupe ricavata dalle evidenze archeologiche, cfr. Pais, 1901;
23Fest., 464 L. P. Carafa ha proposto alcune integrazioni in Carandini 2010, p. 228. Ad ulteriore riprova, a conclusione
del passo (purtroppo mutilo) di Festo viene menzionato un locus funestus (il Saxum e/o la tomba stessa) che non si volle
fosse congiunto al Capitolium: «noluerunt funestum locum r[………..] Capitoli coniungi»;
24 Prop., IV, 4, 1. P.L. Tucci ha ipotizzato di identificare il luogo di culto di Tarpea in un’area quadrata, orientata
secondo i punti cardinali, individuata al di sotto della navata della chiesa di S. Maria in Aracoeli (Tucci 2006, pp.
66-67);
Lo spostamento del sepolcro è attribuito all'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, cui è attribuita
la ristrutturazione dell'arx al fine di realizzare l’opera che avrebbe marcato definitivamente la
potenza della dinastia25 , la costruzione del grande tempio di Giove Ottimo Massimo (completato,
secondo la stessa tradizione, solo nel primo anno della repubblica, il 509 a. C.) spostando le edicole
delle altre divinità (tra cui era collocata, secondo il brano di Plutarco, la sepoltura di Tarpea).
Il testo plutarchiano si sofferma soprattutto sulla “scorrettezza” compiuta da Marte, Terminus e
Iuventas, che, interrogati dagli auguri, non vollero essere spostati dalla rocca26.
“Le ‘spoglie’ di Tarpea furono invece traslate de plano sull’Arx”27 : «Sepolta dunque Tarpea in quel
luogo, il colle fu chiamato Tarpeo, finché il re Tarquinio non consacrò il luogo a Giove e allora i
resti mortali furono trasferiti altrove e il nome di Tarpea sparì; a parte una rupe, sul Campidoglio,
che ancor oggi chiamano Tarpea e da cui scagliano i malfattori»28.
Solo dopo questa traslazione, si intuisce, avvenuta con significativi procedimenti rituali che
adombrano un'azione di cui non devono esserci spettatori, svoltasi verosimilmente di notte e con
veli ad oscurare il materiale trasferito, il Saxum deve essere stato verosimilmente chiamato
Tarpeium29 , sebbene Varrone30, ma solo lui, ricolleghi espressamente rupe, morte e tomba.
E’ ragionevole ritenere, dunque, che la valenza negativa del saxum sia da imputarsi alla vicinanza,
alla presenza mortifera del turpe sepulcrum. La leggenda avrebbe funzione eziologica e sarebbe più
tarda, forse ideata per spiegare un arcaismo il cui senso originale era ormai andato perduto.
A favore di questa interpretazione vi sono molti fattori, fra cui il più importante è il fatto che i
cittadini di Roma abbiano onorato fino almeno all’età imperiale la vergine, tanto che ogni anno le
vestali (chissà perché proprio le vestali…) si recavano sulla sua tomba per porgerle delle offerte31 e
che sia stata eretta una statua in suo onore32 . Difficilmente questi onori potrebbero conciliarsi con il
suo statuto di traditrice della patria. Anzi, la presenza della tomba nell’area sacra del Campidoglio,
insieme ad altri elementi, ha spinto alcuni a vedere in Tarpea una rappresentazione di una antica
dea, variamente identificandola, di volta in volta, con Roma stessa, Diana, Luna ecc…33.
34Le fonti letterarie relative a Tarpea e al suo mito sono utilmente raccolte in Sanders 1904, pp. 2-31; Lugli 1969, pp.
113-121; Carandini 2010, pp. 72-103;
35 Tito Livio, Ad urbe condita, I, 20;
36 A proposito dell’anice in quanto scudo di forma particolare, Ovidio ricorda che « Idque ancile vocat, quod ab omni
parte recisum est, /Quemque notes oculis, angulus omnis abest. ». “Chiama ancile quello che è reciso da ogni parte e se
lo guardi, quaunque angolo scompare”. Traduzione dell’autore. Vedi anche la ricostruzione in fig. 2;
37 Borgna 1993, p. 29;
38 Serv., Aen., 7, 188 e 8, 664; Plut., Numa, 13;
39 Marcattili 2005 p. 12;;
«Con tale denominazione (si intende ovviamente
l’ancile, NdA) l’arma risulta coinvolta nelle
descrizioni di sistemi cultuali che riguardano
soprattutto [...] atti di dedica, purificazione,
espiazione, propri del rito del trionfo, della
cerimonia dell’offerta delle spoglie, dei riti che
celebrano il passaggio dalla guerra alla pace, dal
campo di battaglia alla città, e la reintegrazione
sociale del cittadino in armi»40.
Di certo, fra gli spolia hostium, offerti alla
divinità come attestazione della vittoria
ringraziamento per l'appoggio divino concesso,
non potevano certo mancare gli scudi. D'altra
parte, il "trasporto di cataste di armi e bottini, in
effetti, doveva costituire un ingrediente
essenziale e spettacolare della processione
trionfale diretta al colle capitolino"41. Dunque, è
probabile che l'edicola dedicata a Marte
ospitasse cataste di armi, soprattutto scudi, come
omaggio alla divinità. Si trattava, dunque, di
immagini aniconiche, di veri e propri feticci, e
tale, come è ovvio, doveva essere anche il
‘simulacro’ di Moles Martis, nient’altro che una
catasta (o più cataste) di armi e/o preziosi
predati e consacrati42.
Sulla natura di questa fanciulla non ci può aiutare neppure l’iconografia, quasi del tutto perduta.
Con una eccezione, peraltro significativa.
M. Emilio Lepido, in occasione della guerra contro i Liguri, consacrò il tempio di Iuno Regina in
Circo43, aedes in cui era dedicato uno scudo ligusticum, nel contesto spaziale ed architettonico della
porticus Metelli. Ora, nella stessa porticus Q. Metello Macedonico dedicò un tempio a Iuppiter
Stator44 sembra fosse presente un’immagine di certo assai particolare, anche perché poco diffusa:
una Tarpeiae effigies45.
Ora, occorre chiedersi: perché inserire nella porticus, in luogo centrale e politicamente
fondamentale per l’identità romana, prima delle strategie tardo repubblicane ed augustee di
ristrutturazione46 una effige della traditrice per antonomasia?
E perché, rimanendo in tema iconografico, la scena del supplizio di Tarpea è riportata nel fregio
della Basilica Emilia?
delle insegne partiche47 e per il reditus augusteo48 , come anche nel famoso verso del denario dell’89
a.C. di Titurius Sabinus, in cui il motivo della morte di Tarpea parrebbe riprodurre una compresenza
di Romani e Sabini, entrambi responsabili del seppellimento della vergine, compresenza che,
secondo Pais49, è presente anche nel fregio50.
Cosa suggerisce l’iconografia?
Innanzitutto, che il seppellimento sotto gli scudi, oltre che un hapax, è anche un elemento rituale
che, almeno iconograficamente, riuniva membri di entrambi gli eserciti contendenti. E va
sottolineato, solo gli eserciti perché non vi è traccia di sacerdoti.
Poi che sembra esserci un’allusione evidente ad una componente sacrificale, consacrativa51 o per lo
meno nel senso dell’apoteosi (cioè dell’ascesa al cielo dell’essere umano divinizzato), con la
vergine che ascende in cielo (sembrerebbe questo il senso di movimento, sia nel fregio, sia nel verso
della moneta augustea), con Tarpea che assume in modo abbastanza definito (almeno nel fregio)
l’iconografia della dea lunare (ad esempio, il mantello aperto e le braccia levate e aperte, come
nell’iconografia della statua in bronzo di Luna in volo custodita presso lo Staatliche Museen di
Berlino52 o il tondo dell’Arco di Costantino53.
Cosa dire?
Che, è evidente, la vergine era connessa ad un rito al quale chiaramente i milites delle legioni
romane partecipavano attivamente. Forse tale rito si svolgeva in occasione del reditus delle legioni,
dato che questo spiegherebbe il fatto che fossero utilizzate gli scudi, evidentemente sottratti ai
47erano le insegne delle legioni perse durante la sfortunata campagna partica del triumviro Crasso, morto proprio
durante questa spedizione funesta;
48 RIC, I2, 299; RSC, 494; Penny Small 1994, p. 846, n. 3;
49 Pais 1906, p. 97 contra Furuhagen 1961, p. 143, nota 4;
50 già notata da Furuhagen 1961, pp. 143-144;
51 David 1984 ricorda (pp. 135-136) come anche il lancio dalla Rupe Tarpea fosse a sua volta una forma di
consacrazione: «Primitivement, ce type de mort prenait le sens d’un abandon, d’une consécration aux dieux». Cfr.
anche Torelli 2007-2008; Cantarella 1991, pp. 238-263;
52 Gury 1994, p. 709, n. 34;
53 Gury 1994, p. 711, n. 52;
Figura 5: La Rupe Tarpeia oggi
Figura 6: Foto del fregio della Basilica Aemilia con punizione di Tarpea
nemici uccisi. Un rituale che si compie sotto lo sguardo attento ed interessato di Marte, identificato
dal Marcattili come “il destinatario ultimo di quanto si sta celebrando sull’Arx”54 .
Si deve dunque dedurre che il mito di Tarpea è connesso a "un rituale molto antico connesso ai
bottini ed alle congeries armorum, dunque ai cumuli di armi sottratte al nemico? E’ probabile, o
almeno questo è quanto permette di dedurre l’iconografia di Tarpea. Tuttavia, rimangono
perplessità, anche nell’individuazione delle funzione del rituale.
Le armi venivano forse consacrate per “finalità apotropaiche"? Carattere espiatorio? Oppure
avevano, come suggerisce Marcattili, funzione ctonia connessa alle divinità ctonie lunari55?
Oppure, sempre come suggerisce Marcattilli, “il tradimento di Tarpea potrebbe nascondere la realtà
scomoda di evocationes56 – o almeno così le avevano percepite i Romani – subite dal principale
baluardo difensivo della città in periodi storici diversi”57?
Bibliografia:
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IDENTITA’
romane
RICOSTRUIRE IL PASSATO
CON GLI STRUMENTI DEL
FUTURO
Odissea - il viaggio, la ricerca
Anno VI (2017) n. 11 - Supplemento a La Ciminiera Anno XIX (2017) Numero 1, collana curata da Raoul Elia
La Ciminiera, mensile di cultura, informazione e pensiero del Centro Studi Bruttium, registrato presso il
Tribunale di Catanzaro n. 50 del 24/07/1996
Email: info@centrostudibruttium.org
Sito web: www.centrostudibruttium.org
Redazione:
Raoul Elia
Adriano Gaspani
Roberto Murgano
Maria Bianco
Graziella Frangipane
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Premessa
La tradizione religiosa della Roma antica, soprattutto dell'età arcaica e monarchica, è tutt'altro che
chiara e ben definita. Da una parte le fonti a disposizione dei ricercatori sono per lo più di epoca
tarda, per cui molte informazioni sono da prendere con le consuete “molle”, dato che, in molti casi,
gli autori non sono in grado di dare una spiegazione coerente dei riti osservati e riportati. Dall'altra,
le rilevanze archeologiche sono tutt'altro che esaustive, vista la tradizionale difficoltà di effettuare
ricerche nell'area urbana e la stratificazione urbanistica che caratterizzano la città dei sette colli.
D'altro canto, ancora da definire sono anche i rapporti che intessevano i Romani con la religione
arcaica, il rapporto con la tradizione etrusca e latina, la dislocazione di molti luoghi di culto arcaici
e la funzione dei pochi conosciuti, per lo più connessi con gli ormai scomparsi luci, o boschi sacri.
Su queste relazioni, profonde quanto antichissime e quindi forzatamente misteriose è dunque
difficilissimo elaborare teorie coerenti e complessive, sebbene possa risultare estremamente
interessante individuare, almeno sommariamente, i percorsi carsici della religione romana delle
origini. Un esempio di questi riti arcaici poco conosciuti ma densi di collegamenti alla religione
romana delle origini e alle religioni dell'area laziale e toscana è il rito degli Argei.
61 Per una bibliografia parziale v. F. Graf, « The Rite of the Argei - Once Again », ΜΗ 57-2 (2000) 94, n. ι.;
62 Cfr., a proposito, Dumezil, 1976, p. 449;
63 Sulla definizione di sacraria esistono due versioni differenti. Per Aulo Gellio (Au. gell., N. A., 7, 12, 5 (= fr. 4 hu.))
«sacellum est locus parvus deo sacratus cum ara., mentre per Festo (Fest., sacella, 422 l) «sacella dicuntur loca dis
sacrata sine tecto». La marcata discrepanza tra le due fonti è risolta da Coarelli 1983, pp. 124 ss., accordando
fiducia alla definizione di Trebazio: non tutti i sacella che conosciamo sono a cielo aperto, mentre tutti sono
provvisti di un’ara per la celebrazione del rito; alcuni ne hanno più di una, come il sacellum Mutini Titini sulla Velia;
64 Ovid., F. 5,621-660. Dionigi 1,38,3;
cultura romana tradizionale, dato che coinvolge le sacerdotesse vestali, la Flaminica dialis, ovvero
la moglie del Flamen, sommo sacerdote di Giove Ottimo Massimo, a un punto di vista istituzionale,
da un punto di vista topografico la per noi fumosa struttura urbanistica della Roma quadrata,
l'organizzazione rituale e il rapporto intercorrente fra religio, luci e divinità oracolari.
65 Plut., Numa, 9, 6;
66 Scullard 1981, p. 120;
67 la diatriba sul numero è molto lunga e complessa. Sui trenta si pronuncia molto dubbioso Bloch R., 1970-76, p. 589:
“Ogni anno, il 15 maggio, Pontefici e Vestali lanciavano nel Tevere, dal Ponte Sublicio, ventisette o trenta manichini
di giunco, detti Argei”; sui ventisette si ferma invece la voce dell'enciclopedia italiana Treccani, curata da Plinio
Fraccaro, seguendo l'indicazione varroniana: "Argeorum sacraria erano 27 cappelle sparse per le quattro regioni
serviane della città; alcuni le chiamavano Argei o anche Argea". M. Grant oscilla fra 24 e 27 (Grant 1971 p. 221),
Palmer (Palmer 1970 p. 84) punta decisamente sui 27 mentre G. Forsythe, dopo aver proposto un numero di 27
(Forsythe 2005 p. 131) seguendo B. Nagy (Nagy 1992), Ulpiano (Ulp. Dig., I.8 e I.9.2;) e Varrone (Varr. De Ling.
Lat., V, 8), propende infine per 39: “a group of pontiffs, vestals, and magistrates progressed solemnly through the
city to collect from specific sites thrice nine scarecrow-like figures called argei” (Forsythe 2012 p. 40 e succ.). Per
una più puntuale disamina, cfr. Sabbatucci D., 1988, pp. 102-103;
68 Varro, De Ling. Lat. V, 8: “E quis prima scripta est regio Suburana, secunda Esquilina, tertia Collina, quarta
Palatina”;
69 Forsythe 2005 p. 131;
sacelli, cioè delle vere e proprie costruzioni, tanto meno edifici appositamente realizzati, ma
piuttosto dei loci scelti per ospitare (forse anche di volta in volta) i fantocci, e questo spiegherebbe
l'assenza di tracce archeologiche e la confusione delle fonti nel numero e nella posizione dei
fantocci, come testimonia anche Holland: “the nature of the places called Argei is nowhere
described, though Ovid (F., 3, 791) promises an explanation of the istitution”70 . Inutile dire che
Ovidio, non si sa se a causa dell'esilio augusteo, non ha mantenuto la sua promessa, purtroppo.
Ai tempi di Aulo Gellio, la funzione pubblica della processione agli Argei era segnata dalla
presenza della Flaminica Dialis. La Flaminica dialis era, nell'antica Roma, la moglie del Flamen
dialis, il sacerdote preposto al culto di Giove Ottimo Massimo, suprema divinità della Roma
repubblicana, e in quanto tale rivestiva un'importanza particolare dai riflessi pubblici di notevole
rilievo. Il flamine diale, infatti, era circonfuso da grande sacralità in quanto personificazione vivente
di Giove (di cui celebrava i riti) e godeva di grandi onori, ma, proprio per la sua funzione, era
sottoposto a molteplici limitazioni, divieti e obblighi, che in parte si estendevano alla propria
moglie. Secondo Aulo Gellio (Aul. Gell., X, 26-30), anche la flaminica dialis doveva osservare
divieti simili a quelli del marito (eaedem ferme caerimoniae sunt flaminicae Dialis), più altri suoi
particolari (alias seorsum aiunt observitare): doveva portare una veste colorata (quod venenato
operitur), doveva mettere un germoglio di una “arbor felix" nello scialle (et quod in rica surculum
de arbore felici habet), non doveva salire più di tre scalini se non si trattava di una scala "greca",
cioè coperta da entrambi i lati (et quod scalas, nisi quae Graecae appellantur, escendere ei plus
tribus gradibus religiosum est atque etiam), quando partecipava alla processione degli Argei non si
doveva ornare la testa, né pettinare i capelli (cum it ad Argeos, quod neque comit caput neque
capillum depectit). Dunque, la sacerdotessa, per l'occasione, della processione neque comit caput
neque capillum depectit71 : l'atteggiamento della sacerdotessa e la sua acconciatura «si direbbero
segni di lutto - nota Sabbatucci -, quasi che andasse a visitare delle tombe: in effetti, secondo una
tradizione, gli Argei erano cosi chiamati, 'perché in essi vi erano sepolti certi illustri uomini
argivi'»72. Se ne deduce dunque, che il termine argei sia associato dal Sabbatucci agli antichi
abitanti della Grecia. Ma su questo ritorneremo in altra occasione.
Analizziamo invece gli elementi relativi alle processioni.
Escludiamo anche la funzione delle vestali e della Flaminica dialis, per il momento.
Concentriamoci sullo svolgimento della processione, così come si può evincere dal testo
varroniano.
Di una delle due processioni non sappiamo quasi nulla, oltre alla data di svolgimento. È solo una
possibile deduzione, per quanto plausibile, che si svolgesse nei luoghi e nelle forme dell'altra
processione. Il percorso di quest'ultima, invece, per quanto i suggerimenti di Varrone e Ovidio siano
utili, appare non meno complesso da tracciare. La processione si sviluppava, infatti, all'interno dello
spazio della Roma quadrata, la mitica suddivisione voluta dall'altrettanto mitico re Servio Tullio, di
cui, peraltro, non rimane alcuna traccia archeologica (come del resto della forma urbis augustea) e
che di solito viene associata al Septimontium73, entità pre-urbana tutt’altro che certa e anzi oggetto
di diatriba da tempo.
La disposizione dei simulacri proposta da Varrone è alquanto eterogenea e non consente una chiara
interpretazione antropologica come anche urbanistico-achitettonica. Il riferimento alla Roma
quadrata è legata all’accenno dello stesso Varrone, che indica la dislocazione dei fantocci
79 “Epicadio riferisce che, essendo stato ucciso Gerione, Ercole, per condurre come vincitore i suoi armenti attraverso
l'Italia, secondo i bisogni della circostanza aveva costruito il ponte Sublicio ed aveva gettato nei fiume dei simulacri di
uomini in corrispondenza del numero dei compagni che aveva perso per le disgrazie delle sue peregrinazioni. E così
quei simulacri, trascinati fino al mare dal corso dell'acqua, venivano restituiti alle terre native, invece dei corpi dei
defunti. Da ciò rimase tra le sacre cerimonie il costume di riprodurre tali simulacri”. Trad. dell'autore;
80 Bloch R., 1970-76, p. 589;
81 cfr. Seppilli 1990, pp. 65-69 e la nota 60 Galliazzo 1994, pp. 57-58;
82 Ovidio, Fasti, V, 419-ss.. Sulle feste dedicate ai Lemures, vedi anche infra;
83Gli oscilla, generalmente maschere di cera ο di terracotta, sono verosimilmente assimilabili alle «teste isolate» votive
e funerarie, nonché alle iuvila, statuette fittili con volto femminile frontale, anch'esse con carattere votivo, sacre a
Giunone. Gli oscilla erano impiegati anche nei Liberalia del 17 marzo, dedicati a Libero, dio della rinascita, e nelle
Feriae Latinae, dedicate invece all'arcaico Giove ciclico in prossimità dell'equinozio d'autunno. Cfr. Del Ponte, 1998;
84 Ma secondo me, ritengo essere più veritiera quella origine che ricordo aver riportato poco sopra. Dopo che una più
felice interpretazione aveva insegnato che capi non di viventi ma fittili (cioè statuine di coccio) e che φωτός non solo
uomo ma anche lume (o luce) significavano, i Pelasgi, iniziarono ad accendere ceri a Saturno e nel sacello di Dite,
collegato (o attaccato) all'ara di Saturno a portare certi "oscilla" al posto delle loro teste. Trad. dell'autore;
Festo, infatti, ricollega il rito del 15 maggio ad un altro rito antichissimo e per niente conosciuto,
ovvero quello detto sexagenarios de ponte, cioè (getta) i sessagenari dal ponte: “depontani senes
appelabantur qui sexagenarii de ponte deiecebantur”85. Il brano riporterebbe a qualche antico
sacrificio rituale umano (non indicato altrove e solo accennato in Ovidio) in cui si usava gettare
forse i vecchi (cioè gli over 60, in quanto fuori dalla vita pubblica) dal ponte Sublicio stesso, poi
forse corretta con l'esclusione dei vecchi dal diritto di votare.
La spiegazione di Festo sull'origine della processione è connessa alla conquista da parte dei Galli di
Roma, avvenuta nel 390 a.C.. Secondo questa spiegazione, data la carestia conseguente la sconfitta,
per ridurre la popolazione romana a dimensioni compatibili con le risorse disponibili, si prese la
decisione di gettare gli anziani dal ponte. Ma un figlio, mosso da pietà filiale, avrebbe nascosto il
padre, sostituendolo con un fantoccio. Secondo questa versione, dunque, il termine argei
deriverebbe dal luogo in cui il figlio nascose il padre (arceo).
Tuttavia, vale la pena di far notare che:
1) l'azione rituale del buttare i sessagenari è identica a quella di gettare i fantocci;
2) dalla processione di marzo a quella di maggio passano 60 giorni;
3) il rito del sexagenarios de ponte non è attestato da altri autori, né da prove archeologiche.
Forsythe86 associa i due riti, ritenendo che i 60 anni corrispondessero ai 60 giorni e che quindi i
sessagenari siano proprio gli argei-fantoccio, ma questo cambio di unità temporali (giorni per anni)
non sembra in alcun modo giustificato.
In tutti i casi, tutte queste interpretazioni, ancorché più o meno deboli, si concentrano sull'aspetto
sacrificale, puntando su un vetusto e presto sostituito sacrificio umano.
Tuttavia, vale la pena di sottolineare che gli unici sacrifici umani ricordati dalla tradizione romana
sono di schiavi (il più celebre è quello del Foro Boario), a meno di non considerare un sacrificio
umano il seppellimento della vestale “incestuosa”. E Livio, del sacrificio boario, dice espressamente
essere minime sacro romano, cioè poco connesso alla religione romana. Ma lasciamo questo rito, di
cui si parla altrove più dettagliatamente.
Non bisogna dimenticare che il culto di Ercole (o per lo meno di un eroe e semidio dalle
caratteristiche simili che poi verrà associato alla figura dell’eroe dorico) era diffusissimo nell’Italia
antica, come dimostrano le varie leggende raccolte tra i vari popoli della Saturnia Tellus87, da lui
percorsa in due occasioni (ma l'una vale l'altra, ovviamente, né c'è nelle fonti grande chiarezza):
1) di ritorno con i buoi di Gerione,
2) alla ricerca del giardino delle Esperidi.
In questi suoi pellegrinaggi, Ercole avrebbe compiuto numerosissime imprese, tanto che il campo di
intervento dell'Ercole italico è molto più ampio di quello dell'Eracle greco: “Eletto nume protettore
delle acque sorgive, e venerato come protettore dei viandanti, dei pastori e dei mercanti: la presenza
di immagini di animali, bovini, ovini e volatili, riprodotti in miniaturizzazione in sostituzione del
reale, farebbe pensare alla protezione richiesta al nume da parte dei pastori che probabilmente con
le loro greggi migravano lungo il valico appenninico posto nelle vicinanze. I resti delle numerose
armi, assieme alla rappresentazione di guerrieri e giovani armati, richiamano invece la richiesta di
protezione da parte dei militari, che in gran numero devono essere passati nei pressi del lago. La
presenza infine di parti anatomiche del corpo umano sembra indirizzare alla richiesta di una grazia
o all’offerta votiva al dio di una parte del corpo dove poteva essere avvenuta una guarigione”88.
85 Fest. p. 14 L;
86 Forsythe 2012, pp. 47-48;
87 Cfr. Del Ponte 2003, Mastrocinque 1994;
88 Ducci 2003, p. 16;
Il rito e il mito
Sull'interpretazione del rituale, ci sono pareri discordanti anche fra i contemporanei: "la cerimonia
originariamente aveva anche lo scopo di provocare la pioggia" secondo Fraccaro; secondo
Zavaroni, invece, “gli Argei di maggio si possono considerare la celebrazione di Lemuria di Stato
officiati alla presenza dei pontefici, dei magistrati e delle vestali”89, o meglio, una cerimonia che si
fa statale nella misura in cui vi partecipano sia i magistrati che i collegi sacerdotali più importanti
per la vita della Res publica, cioè i pontefici e le vestali. “Quindi il rito degli Argei di maggio è
dettato dal desiderio di pacificare i lémures poiché, sempre secondo Porfirione, un lemure qui
posterorum suorum curam sortitus, placato et quieto numine domum possidet, Lar dicitur
familiaris90 . Gettare i simulacri dei lémures91 nel Tevere significa indicare loro la via per
l'Altromondo”92. Forsythe propende invece per un ruolo apotropaico dei fantocci: “the
anthropomorphic figures were probably designed to divert the attention of hostile spirits in
springtime, and once the Lemuria had passed the community rid itself of the pollution by casting
away the rush puppets”93 . Harmon invece, puntando sul fatto che gettare nel Tevere corrisponda, in
altri riti, ad una forma di espiazione/purificazione94, in particolare quando vengono gettati nel fiume
i purgamenta dell'aedes Vestae, azione compiuta anch'essa dalle Vestali95. Lo stesso Harmon
contesta la teoria di L. Holland96 che vede nella processione degli Argei un culto della fertilità
(“harvest/fertility rituals”). Palmer, infine, collega, anche se con molta incertezza, “argei” a “the
primitive significance of thatching” [ovvero (coprire con la) paglia] che può essere usata per
aggiustare o rappresentare figurativamente (to hut and figure)97 . Clerici sostiene l'origine di Argei
da arx (rocca) e la ricollega quindi all'istituzione dei Giochi Capitolini nel 390 a. C.98 .
Una esaustiva ricostruzione della querelle sull'etimologia e sull'età del rito è disponibile comunque
in Forsythe 2012, p. 40 e ss. e analizzarla ulteriormente in queste pagine porterebbe fuori strada.
Occorre inoltre rilevare che “I Romani usavano offrire doni con una presenza monetale sempre più
marcata, alle divinità, non solo in ambito sacro, ma anche in occasione di passaggi angusti, quali
ponti, valichi, ecc. ai quali riconoscevano una valenza sacrale. Non è però chiaro se le offerte
fossero lanciate al dio Terminus per la buona riuscita del transito fisico in un luogo angusto, ovvero
nel caso di presenza d’acqua, alle divinità o alla ninfa del luogo, anche se i due aspetti cultuali
convivono”99. Visto lo stretto collegamento che c’è tra l’entrata agli inferi e l’acqua, è possibile che
il lancio di monete questo fosse una sorta d’incantesimo che serviva a discendere nell’Ade e ad
entrare in contatto con il mondo dei morti100 . Tuttavia, dal punto di vista archeologico, vi sono vari
101 Per una discussione critica dei casi riportati nel testo, si vedano i convegni “Il Mostro e il Sacro. Coordinate mitiche
e rituali della difformità fra emarginazione e integrazione” (Roma 29-30 marzo 2006), c.s. e “Sepolti tra i vivi. Evidenza
ed interpretazione di contesti funerari in abitato (Roma 26-29 aprile 2006), c.s.;
102 Brelich 1967, pp. 6-14;
103 Cfr., in proposito, Filippi 2005;
104 Gallone 2000; Gusberti 2000; Carandini 2003, I, tav. XIV-XVI;
105 Cfr. Carafa;
106 Cfr. Brocato et al. 1995[2000]: 146-148, 159-160;
107 Relazione di P. Fortini tenuta alla British School di Roma nel 2002;
108 cfr. Chiaramonte Treré 1991, p. 702;
109 cfr. Cantarella 2005 pp. 266-86;
110 sul parricidio, cfr. Thomas 1981 e Nardi 1980;
111 Cic., De Invent., II, 50, 149. Cfr. anche Cod. Theod. IX, 15, 1 e Cod. Iust. IX, 17, 1;
112 Forsythe 2012 p. 28;
evidente anche nella storia della vestale Claudia Quintia (Liv., V,15.11, Ov., F. IV, 305-328) e della
pietra della Magna Mater di Selinunte. La vestale, ingiustamente accusata di comportamento non
virtuoso (e quindi a rischio incestum), per dimostrare la propria innocenza, disincagliò con le sue
sole forze la nave che portava la statua della dea (ovvero, secondo Livio, la pietra che la
rappresentava), arenatasi lungo il Tevere.
Aldilà del racconto ovidiano e liviano e del suo significato etico, è evidente il contesto rituale, con
la vestale che può muovere la pietra della dea che nessun altro può toccare perché nefas113 , oppure,
secondo il modello indicato dalla Cantarella, l’ordalia della vestale114.
Inoltre, vale la pena di ricordare che il rapporto con i Mani, con i Lares, i Lemures e in generale con
il mondo ctonio era a Roma appannaggio di figure maschili, per di più dotate di potestas, se non di
imperium. I riti familiari erano gestiti in assoluto segreto dal pater familias, che trasmetteva
oralmente e solo al figlio erede i segreti cerimoniali per ingraziarsi la protezione dei Lari, gli spiriti
degli antenati. E' vero che lo stesso Catone, nel De Agri cultura, ricorda al fattore di far officiare i
riti familiari alla moglie115, ma non si riferisce ai riti centrali, quanto piuttosto all'azione
purificatrice della domus e della villa dopo i riti.
Del resto, anche durante i Lemuria116 . Il rituale dei riti familiari prevedeva la partecipazione attiva
del pater familias, il quale aveva il compito di gettare alle sue spalle alcune fave nere per il numero
simbolico di nove volte, recitando una formula propiziatoria (haec ego mitto; his redimo meque
meosque fabis), poi sbattere piatti di bronzo, sempre nove volte, recitando un'altra formula rituale
(Manes exite paterni!)117 . Alle vestali rimaneva il compito di preparare la mola salsa, pasta salata
fatta con il primo farro, con cui veniva ricoperta la vittima da “immolare”, sostanza che le vestali
evidentemente potevano manipolare senza interdetti.
Le vestali avevano invece alcuni singolari “poteri”, come il diritto di chiedere la grazia per il
condannato a morte che avessero incontrato casualmente e quello di essere sepolte entro il pomerio,
Per quanto concerne il primo potere, l'incontro con il condannato a morte era nefas ed era
compensato dalla decisione della vestale. Riguardo al secondo, invece, si può dedurre che le loro
ceneri, a differenza di quelle degli altri morti, non erano nefas. In entrambi i casi, dunque, la vestale
dimostra una capacità purificatrice, sia nei confronti degli altri, sia nei confronti di se stessa; in
particolare, il seppellimento entro il pomerio suggerisce che nel caso dei suoi resti mortali non
occorrano particolari azioni purificatrici o, comunque, che non permanga il rischio che, da morta,
possa tornare come lemure e, pertanto, poteva essere seppellita entro il pomerium, interdetto a tutti
gli altri. Infine, vi è una stretta connessione fra le vestali e i cerali, il farro in primis, come si è visto
sopra, ma anche il grano e i pani, come dimostrano i Vestalia, nella descrizione di Ovidio (Ov. F.
VI, 309-28).
In tutti i casi, l'azione rituale connessa agli argei non sembra parlare di morti e di seppellimento,
come, probabilmente, sembrano aver inteso i commentatori di età classica, ma piuttosto di
un'attività purificatoria, demandata alle vestali in quanto “purificatrici” ufficiali della comunità
romana.
113 Cfr., in proposito, Takacs S. A., 2008 p. 46, sebbene con altra interpretazione;
114 Cfr. Cantarella 2000;
115 Cat. De Agri cul., 143, 1-3;
116Le Lemuria o Lemuralia erano delle feste dell'antica Roma, che venivano celebrate il 9, l'11 e il 13 maggio, per
esorcizzare gli spiriti dei morti irosi, appunto chiamati lemures. La tradizione voleva che ad istituire queste festività
fosse stato lo stesso Romolo per placare lo spirito del fratello Remo, da lui ucciso. Ovidio, infatti, con invenzione
etimologica coraggiosa ancorché inaccettabile, fa discendere Lemuria da Remuria, cioè i riti in onore di Remo (Ov. F, V,
743 e ss.). Questa etimologia, però, è stata giustamente scartata dagli studiosi contemporanei, anche se l'origine del
termine rimane incerta;
117 Cfr. Ov., F., V, 440 e ss.;
Tuttavia, occorre far notare che, in tutti i casi, l'azione purificatoria delle vestali avviene sempre in
connessione con il fiume Tevere, in cui viene "smaltito" l'oggetto di interdetto. Non credo sia un
caso. Il fiume rappresenta Roma, nel senso, anche, che è stata la sua più importante risorsa e il suo
punto di accesso privilegiato, posizione mantenuta, almeno nel carattere rituale, anche dopo che gli
interessi romani si erano spostati verso l'entroterra e avviati al dominio sulla penisola ed oltre. Il
Tevere, con le sue acque, accoglie le divinità "evocate", come la Magna Mater di cui sopra, così
come accoglie i cadaveri dei condannati e i fantocci o i purgamenta delle vestali. Ciò che cambia, è
la direzione, verso Roma nel primo caso, da Roma verso il nulla negli altri. Se ne può dedurre,
quindi, in via del tutto ipotetica, che l'azione purificatrice della vestale si configuri,
nell'immaginario giuridico-religioso dei Romani, come atto di deposizione, in modo non dissimile
dal seppellimento. In altre parole, gettare in acqua equivarrebbe a seppellire.
Tipologie argive
La struttura dei loci varroniani è, come si è detto più sopra, alquanto varia e contraddittoria: alcuni
risultano infatti disposti lungo le mura cittadine, ma questi luoghi non sembrano avere una funzione
particolare o un valore storico religioso; altri invece sono collocati dall'erudito latino vicino a templi
(apud aedem, ma occorre ricordare che l'aedes sacra è, in genere, più che un vero e proprio tempio,
quanto piuttosto un'area consacrata in genere recintata e con un'ara di pietra, talvolta con una
statua), ma anche qui non è chiaro il rapporto fra il tempio e il locus, né dal punto di vista storico-
cronologico (quale dei due è venuto prima? In che rapporto temporale sono fra di loro?), né da
quello funzionale (in che rapporto funzionale sono fra loro? Il locus è connesso al tempio attraverso
la divinità? Sono approcci rituali e religiosi differenti?). Altri due avrebbero avuto proprie strutture,
in tabernolae, uno, infine, doveva essere un edificio solitario collocato in un recinto augurale.
Alcuni sono posti a ridosso di mura, il che farebbe pensare al massimo ad una piccola edicola.
Ugualmente, quando Varrone indica "Cespius mons sexticeps apud aedem Iunonis Lucinae" intende,
presumibilmente, indicare il tempio solo come una indicazione logistica, senza voler cioè collegare
il fantoccio deposto all'area recintata (è questo il significato precipuo) con l'ara dedicata alla dea
Giunone (qui, con l'appellativo significativo di Lucina, da lucus, bosco sacro).
Ma il fatto che Varrone non accenni a riferimenti edilizi ed architettonici non fa che confermare
l'idea che i sacelli dovessero essere al massimo tabernacoli, neanche sembra possibile parlare di
aedes (che è la definizione latina del recinto sacro, come si diceva più sopra) men che meno di veri
e propri templi "strutturati" (che erano comunque molto rari in età arcaica come anche in tutta l'età
repubblicana).
Che tipo di spazio è dunque quello definito dalle fonti? Riprendiamo un attimo Varrone.
L'erudito latino indica una topografia variegata e dispone una sequenza di questi loci sacri, come se
questi fossero delle "stazioni" di passaggio della processione. E' questo in particolare in senso dei
vari princeps, terticeps ecc..., formule arcaiche che verosimilmente si riferiscono alla posizione
lungo il per corso della processione dei Loca argeia.
Inoltre, se si bada alle strutture, non è possibile definire una tipologia di luogo sacro per gli argeia
loca, non essendovi chiare indicazioni nelle fonti su strutture organizzate e mancando totalmente o
quasi riferimenti archeologici. E' dunque probabile poter ritenere, almeno come ipotesi di lavoro
plausibile, che i luoghi in questione non fossero spazi destinati al sacro, preclusi alla vita
quotidiana, ma solo luoghi utilizzati in determinate occasioni e in determinati periodi dell'anno a
tale fine. La topologia definita da Varrone, dunque, è segnata dalla precarietà e dalla periodicità; è
probabile che i fantocci fossero collocati in aree altrimenti utilizzate nel resto dell'anno e che questi
luoghi acquisissero valore sacro solo in occasione della deposizione degli Argei stessi.
Erano loci o erano luci?
D'altro canto, Varrone dà un'indicazione topologia essenziale che, ai più almeno, è passata
inosservata: molti dei luoghi di deposizione dei fantocci sono posti in prossimità (cis) di luci, cioè
di boschi sacri118 a qualche divinità.
Infatti, quando descrive le stazioni della processione relative alla regione detta Esquilina, Varrone
(Da notare che all'elenco manca la “seconda fermata”, che forse Varrone non ritrovava più nella
topografia della Roma tardo repubblicana e che forse per questo ha omesso) riporta:
“Secundae regionis Esquiliae119 .(...) In sacris Argeorum scriptum sic est:
Oppius mons princeps Esquilis cis lucum Fagutalem, sinistra quae secundum moerum est.
Oppius mons terticeps, cis lucum Esquilinum, dexterior via in tabernola est.
Oppius mons quarticeps cis lucum Esquilinum, via dexterior in Figulinis est.
Cespius mons quinticeps cis lucum Foetelium, Esquiliis est.
Cespius mons sexticeps apud aedem Iunonis Lucinae, ubi aeditumus habere solet” (Varr. De Ling.
Lat., V,8).
Ora, 5 stazioni su 5 indicate sono in qualche modo ricollegate a boschi sacri, in prossimità dei quali
venivano collocati i fantocci secondo Varrone. Uno presso il Lucus fagutalis, tre presso il Lucus
esquilinus, uno presso il Lucus foetelius. L'ultimo indicato, sul monte Cespio, è collocato invece
presso un recinto sacro, ma, come si è detto più sopra, riconnesso ad un aspetto “boscoso” della dea
Giunone, visto che l'aedes è Iunonis Lucinae, di Giunone Lucina, ovvero di Giunone protettrice dei
boschi. Tuttavia, la prossimità dei loca argeia ai luci romani non è un dato valido per tutte le quattro
regioni. Nelle altre tre, infatti, predomina la collocazione presso templi e sacelli. Ma sarà vero?
Dei loci della prima regione Varrone rivela pochissimo, solo una delle “stazioni”: “primae regionis
quartum sacrarium scriptum sic est: Caeriolensis: quarticeps circa Minervium qua in Caelium
montem itur: in tabernola est”. Il quarto argeo della prima regione, corrispondente al Palatium
serviano, si trova dunque nel Locus Caeriolensis, vicino al tempio di Minerva in direzione del
monte Celio (in Caelium montem itur). Il Palatium varroniano si può ricollegare topograficamente,
con buona approssimazione e stando alle fonti archeologiche e letterarie, allo spazio (considerevole,
circa 16.810 mq) compreso tra Palatino, Velia e Celio. Questo spazio era probabilmente occupato
però anch'esso da un bosco, il lucus Streniae120. Di questo bosco sacro si sa solo “che era in
connessione con il sacello di Strenia121, divinità associata da alcuni con nuovo anno, prosperità e
118 Cfr., a proposito del ruolo sacro dei luci romani, Serv. ad Aen., I, .314: “Lucus est arborum multitudo cum religione,
nemus composita multitudo arborum, silva diffusa et inculta”;
119 Varro. Ling. 5.47-50;
120 Coarelli 1999;
121 Un sacello dedicato alla dea quae faceret strenuum (August. iv. 16), doveva trovarsi nella valle del Colosseo,
menzionato da Varrone come inizio della Via sacra (Varro, De Ling Lat v. 47; Fest. 293). Del bosco sacro parla solo
Simmaco (Ep. X. 35; BC 1905, 210) sostenendo che il sacello era confinante con lucus, ma il testo non fornisce
ulteriori informazioni per ritrovarlo. Secondo Festo, il sacello era collegato alla via sacra e ai riti e ad una
processione risalenti ai tempi di Romolo: “Sacram viam quidam appellatam esse existimant quod in ea foedus ictum
sit inter Romulum ac Tatium: quidam quod eo itinere utantur sacerdotes idulium sacrorum conficiendorum causa.
Itaque ne eatenus quidem, ut vulgus opinatur, sacra appellanda est a regia ad domum regis sacrificuli, sed etiam a
regis domo ad sacellum Streniae, et rursus a regia usque in arcem” (Festo, 290);
buona fortuna122, collocato ad uno dei «capita» della Sacra via in prossimità delle Carinae”123.
Del percorso all'interno della terza regione si conoscono queste stazioni:
Collis Quirinalis: terticeps cis aedem Quirini.
Collis Salutaris: quarticeps adversum est Apollinar cis aedem Salutis.
Collis Mucialis: quinticeps apud aedem Dei Fidi; in delubro, ubi aeditumus habere solet.
Collis Latiaris: sexticeps in Vico Insteiano summo, apud auguraculum; aedificium solum est.
Qui si può vedere una disposizione più variegata.
Vi compare anche l'unico fra i sacrari degli Argei, a quanto sostiene Varrone, ad essere una
costruzione vera e propria (aedificium solum est), mentre la quinta stazione, sul Colle Muziale, si
trova presso un tempio o più probabilmente un recinto sacro (aedem) all'interno di un delubro, una
struttura sacra, distinta dal tempio vero e proprio, di solito consistente in un'edicola con simulacro.
Tutti e quattro, comunque, sono posti nelle vicinanze di templi o recinti (in effetti, Varrone utilizza
il termine aedes in modo molto particolare, ora come sinonimo di tempio (aedem Salutis si riferisce,
verosimilmente, al Tempio della dea Salute), ora più probabilmente come recinto sacro (aedes
Romuli, come si vedrà in seguito).
Il sesto luogo è invece ancora una volta caratterizzato da un elemento che si riferisce all'ambito
profetico, caratterizzato dalla stessa forma degli Auguracula dell’Arx e, probabilmente, anche del
Quirinale: una piattaforma livellata, cui si accedeva tramite gradinate. Il simulacro era collocato nei
pressi di questa pedana (apud auguraculum) ma doveva avere una struttura stabile (aedificium),
sebbene non per forza chiusa.
La quarta ed ultima regione, detta Palatina, che collega i colli Velia e Cermalum (Huic Cermalum et
Velias coniunxerunt), presenta, nella ricostruzione di Varrone, solo due sacrari (che però sono,
verosimilmente, le ultime due stazioni):
Germalense: quinticeps apud aedem Romuli.
Et
Veliense: sexticeps in Velia apud aedem deum Penatium.
In questo caso, la collocazione dei due loca Argeia è vicina a due strutture, l'aedes Romuli e l'aedes
deum Penatium, di grande antichità, probabilmente costituiti almeno al principio della città, quando
ancora il Palatino non era compreso nella struttura politica e religiosa di Roma, da due recinti sacri.
Anche il nome dei due colli sembra essere molto antico. Varrone ricollega il Cermalum (che lui
chiama Germalum, appunto) ai due gemelli fondatori di Roma124, Velia all'attività dei pastori e alla
tosatura delle pecore125.
122 Palmer 2009, p. 101. A questa divinità vengono ricondotti il nome e la tradizione dello scambio di doni augurali
(strēna) durante le festività latine dei Saturnalia (17-23 dicembre in epoca domizianea);
123 Capanna - Amoroso 2006, p. 89. Carinae postea Cerionia, quod hinc oritur caput sacrae viae ab Streniae sacello
quae pertinet in arce<m>, qua sacra quotquot mensibus feruntur in arcem et per quam augures ex arce profecti
solent inaugurare. Huius sacrae viae pars haec sola volgo nota quae est a foro eunti primore clivo (Varro, De ling.
Lat. V, 47);
124 Germalum a germanis Romulo et Remo, quod ad ficum ruminalem, et ii ibi inventi, quo aqua hiberna Tiberis eos
detulerat in alveolo expositos (Varro, op. cit. V, 48);
125 Veliae unde essent plures accepi causas, in quis quod ibi pastores Palatini ex ovibus ante tonsuram inventam vellere
lanam sint soliti, a quo vellera dicuntur (Varro, Ibidem);
manichini di giunco, detti Argei”126 . Questa procedura, da molti connessa alla devotio, in mancanza
di altri elementi, viene identificata come una forma di sacrificio sublimato, o per sostituzione, a
riprova dell'esistenza, ancorché le fonti siano discordi sull'argomento, di sacrifici umani nella Roma
arcaica e protostorica. Tuttavia, la procedura della devotio sembra indicare altre strade sacrificali,
compreso il concetto di auto-sacrificio (in età storica, la devotio era, in particolare, il sacrificio del
console in battaglia) e rimane non chiarito il significato della paglia dei fantocci, del loro numero e
della funzione “sacrificale”. Infatti, risulta impossibile adattarvi la strategia del “capro espiatorio”,
poiché la processione, come si evince dalle fonti antiche, Varrone in primis, era tenuta
periodicamente e non saltuariamente, ad esempio nei momenti di crisi e di pericolo, come invece
può spiegare, almeno in parte, il rito del sacrificio nel Foro Boario di due coppie di schiavi. Nè
tanto meno vi si possono vedere forme di sacrifico rituale alle divinità protettrici, soprattutto il
Tevere, in mancanza di una qualunque testimonianza a favore o riferimento parallelo.
Un indizio importante potrebbe darlo, invece, paradossalmente, proprio il tanto contestato numero
dei loca argeia, in particolare il 27.
La distribuzione dei 27 sacelli sembra essere abbastanza documentata dalle ricerche archeologiche,
sebbene con parecchi distinguo e punti poco chiari. Una possibile distribuzione è ampiamente
analizzata in Palombi 1999, con varianti proposte da Capanna Amoroso 2006, a cui si rimanda.
Sembra comunque assodato che la processione “procedesse”, come dimostra la “presunta” (vista
l'incompletezza della lista varroniana) distribuzione delle stazioni processionali, lungo la strada
“segnata” dai 27 sacelli fino al centro rituale della Roma antica, la cosiddetta “via sacra”.
La via sacra che, come è ormai assodato dagli studiosi, va considerata come una via extraurbana
risalente all'età pre-monarchica. Si può dunque dedurre che anche la processione, distribuita lungo
questa via, non risalga all'età della Roma quadrata, come sostengono alcuni, ma alla preistoria della
capitale, quando la Roma di Augusto non era neanche nei più rosei sogni e la Roma di Romolo,
invece, ancora lontana, era poco più (nel migliore dei casi) che una aspirazione ed un'idea, l'idea che
probabilmente guidò il sinecismo dei vari pagi distribuiti sui colli romani, dal Trimontium al
Septimontium127, poi riscritti, ritualmente e politicamente, dalla Roma monarchica di Romolo e
Numa Pompilio.
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