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STORIA DEL DIRITTO MODERNO

PRIMA LEZIONE (26/02)

Vediamo l'eredità che il 1600 lascia al secolo successivo, partendo da quelle che erano le
organizzazioni giuridiche europee nel 1600, soffermandosi sulle loro caratteristiche.
Com'era organizzata la società in europa? Quali sono i retaggi?
Vediamo che nel 1600 la popolazione è ancora soggetta a mille poteri, è una società che tendeva
a segregare i deboli; ad esempio i pazzi, i mendicanti, i malati, venivano chiusi nelle prigioni in
modo indistinto, in prigione si segregavano coloro che potevano creare problemi nella società.
Foucalut scrive sulle prigioni nell'ancien regime che mette in risalto tale aspetto, perchè non
esiste ancora il concetto di prigione come luogo di correzione, perchè tale concetto nasce poi nel
700. Questo è un aspetto della società del 600 che verrà poi preso in considerazione e poi risolto
attraverso le idee degli illuministi e filosofi e poi applicato nella realtà statale.
Il 600 è una società caratterizzata dal lavoro agricolo; si inizia a parlare di industrie
manifatturiere in alcuni paesi a fine 700, e i lavoratori agricoli erano lavoratori che non
lavoravano sulle proprie terre, che appartenevano ai signori feudali, a comunità, che se volevano
coltivare erano però legati a servigi che dovevano rendere al comune, o al signore feudale, vi
erano ad esempio le cd corveè, o parte del raccolto che andava al proprietario reale delle terre.
Tale realtà viene conosciuta e si tramanda come secondo servaggio, che era una schiavitù di
fatto; dove si sviluppa tale sistema? Soprattutto prende piede in quelli stati dove non abbiamo
monarchie non ancora accentrate come la Boemia, Polonia, i territori balcanici, l'Austria -qua è
vero che abbiamo un impero, ma l'imperatore non controlla tutto il territorio-.
Tale ordine sociale si sviluppa in tali territori perchè lo sviluppo sociale, segnato dalle carestie, fa
sì che i capitolati formati grazie ai commerci, con le crisi economiche si reinvestono nella terra,
facendo aumentare i latifondi, e la necessità di una nuova servitù della gleba. Chi aveva
accumulato i capitali con il commercio e l'attività manifatturiera, reinveste di nuovo tali capitali
nell'agricoltura, e li tramutano in titoli di diritto od oneri nei confronti dei lavoratori, oneri che
gravano sul fondo. Ad esempio, sul fondo vediamo che tanti contadini coltivano gratuitamente il
fondo per poterci abitare sopra se hanno la casa sul fondo, oppure sono obbligati a dare parte
del raccolto, ecc.
Tale tipo di società si sviluppa anche dove è più netta la distinzione in ceti e dove la borghesia
cittadina è più forte, e si distingue dai contadini; qua si sviluppano questi legami forzati dei
contadini alla terra. E questo diciamo è un tipo società che si sviluppa in alcuni territori
dell'Europa del 600, mentre in altre abbiamo uno sviluppo delle monarchie assolutistiche, qua
allora si nota un accentramento di potere nelle mani del principe (come nello stato sabaudo ad
esempio). Dal 600 all'interno dello stato, del territorio, si sviluppa una organizzazione
burocratica centrale - una delle caratteristiche del medioevo è infatti la mancanza dello stato,
una pluralità dei poteri che esercitano su uno stesso territorio, e il fatto che lo stesso imperatorie
o re non ha il pieno controllo del territorio, perchè devono venire a compromessi con i signori
feudali, la chiesa, i comuni- . Quindi, dove abbiamo tali monarchie assolute, vediamo che si
sviluppa la burocrazia, e soprattutto inizia ad esserci una grossa attività legislativa da parte del
principe - sia esso imepratore, re o duca - ; tali istituzioni sono in Francia, penisola iberica e in
alcuni stati italiani come quelli dell'italia meridionale.
Nel mondo germanico invece l'accentramento burocratico arriva più avanti, perchè qua si aveva
un potere forte di ceti; l'Austria ad esempio vede una suddivisione dei ceti nei tre ordini (nobiltà,

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chiesa e borghesia), ed erano molto forti, e toglievano potere alle autorità centrali, ai principi e
allo stesso imperatore.
Tale accentramento del potere però fa aumentare le spese, anche quelli militari, per far
rispettare tale potere all'esterno e all'interno dello stato, e quindi devono aumentare le spese, e
quindi le tasse (allora dazi, decime, prestazioni personali..), facendo aumentare il peso dello stato
sui singoli individui.
Tale idea di centralizzare e razionalizzare il potere e la sua gestione, che avrà un apice nel 700,
fa comprendere anche però come vi era la necessità di semplificare l'organizzazione e i
meccanismi dello stato perchè i sistemi giuridici del 600 erano troppo complicati.
Inizia quindi l'idea di razionalizzare a partire dalle leggi, e nasce poco per volta l'idea di
codificazione del diritto. Cosa si intende per codificazione del diritto? La codificazione del diritto
implica l'unificazione e la razionalizzazione del diritto (si distilla per ogni materia un codice, che
diventa come unica fonte di diritto per regolamentare quella materia).
Quindi vediamo che tali stati tendono ad imporre l'assolutismo per avere uno stato forte, e il
modo più facile è proprio creare uno stato assoluto e con l'affermarsi dell'assolutismo - che avrà
culmine nel 17 secolo - si rompe l'equilibrio giuridico all'interno di ciascun stato territoriale a
favore di un potere unico centrale.
La realtà medievale di queste forze pluralistiche e centrifughe, era mantenuta in equilibrio dal
principe o re; il suo ruolo era quello non di svolgere un potere assoluto, ma di mediare fra le
varie forze, e il principe, fino al 600, aveva il ruolo giurisdizionale, di amministrare la giustizia.
Ma la giustizia era amministrata non secondo le leggi del sovrano, ma tramite le leggi del
sovrano e anche quelle dei vari ceti, e quindi il suo ruolo era quello di mantenere il potere sul
territorio. L'equilibrio salta invece quando il principe non vuole più mediare ma imporsi come
unico sul territorio; salta quando vuole eliminare gli altri poteri. Per accentrare, bisogna però
razionalizzare il sistema legislativo, e accentrare le fonti del diritto. Tutto ciò mira a far diventare
il principe il monopolista della sovranità, ad acquisirla. E come fa? l'unico sistema è indebolire
ed emarginare poco per volta gli ordinamenti particolari, per limitare il potere della chiesa ad
esempio, togliendole dei privilegi, o dei signori feudali. Oppure avere una buona burocrazia, e
cioè un insieme di uffici e funzionari posti fra loro in ordine gerarchico, ed è importatissima -
caratteristiche principali dello stato moderno - perchè, per togliere il potere a qualcuno gli si
pone al di sopra di esso un altro potere superiore. Ad esempio, per indebolire i signori feudali,
bisogna fare in modo che l'amministrazione della giustizia sia fatta dal sovrano e non più dai
signori feudali, ed è lì che nasce l'appello. Se una delle parti può fare appello, ultima voce è del
sovrano che può cassare e controllare la decisione degli altri tribunali. Ecco perchè i sovrani
tendono a legiferare sempre di più ampliando il loro potere legislativo, perchè si imporrà la
norma che i signori feudali possono legiferare, ma non contro le norme sovrane, e quindi si
controlla anche il potere legislativo.
In tale epoca quindi, anche la figura del sovrano nel 17 secolo inizia a cambiare. Se nell'epoca
medievale il monarca era un superiore feudale, ma era anche esso stesso un signore, ora invece
si considera il titolare di un potere diretto, tende a concentrare nelle proprie mani la legislazione,
l'amministrazione, e la giurisdizione.
La legislazione diventa sempre più espressione non della consuetudine, o della volontà dei ceti,
ma della volontà del sovrano, e tali fenomeni si hanno in Francia, Spagna, nei territori ereditatii
della monarchia austriaca, dove il sovrano tende a mettere da parte il diritto consuetudinario,
sviluppato nei secoli attraverso la vita giornaliera e tramite regole spontanee, e farà acquistare
terreno alla propria legislazione. Il diritto consuetudinario rimane presente e vigente, ma è tale

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perchè approvato dal sovrano, resta nella dottrina e cultura giuridica, ma inizia dal 600 in poi a
prevalere la legge sulla fonte, e la legge che prevale è quella sempre più sovrana.
L'affermazione del potere assoluto avviene anche con l'accentramento amministrativo e
giurisdizionale: cosa vuol dire?
Per la giurisdizione, si accentra l'amministrazione della giustizia; come eredità del medioevo,
sopravvivono una miriade di giurisdizioni che derivano anche dalle immunità, dai fori
privilegiati, dai privilegi cetuali, e ad esempio i signori feudali avevano dei tribunali appositi ad
esempio, e avevano una giurisdizione particolare, e lo stesso territorio feudale aveva delle
immunità (ad esempio non si poteva entrare con l'esercito, o per prelevare delle tasse), come del
resto aveva la chiesa, e non c'era unità della giurisdizione. Dobbiamo però intenderci sul termine
giurisdizione, perchè tale termine ha diversi significati a seconda delle epoche storiche. Prima del
18 secolo, ad esempio, con il termine iurisdictio si intendeva la titolarità del potere giuridico di
applicare e produrre diritto in modo coercitivo, e quindi vediamo una mescolanza tra competenze
giurisdizionali e amministrative.
Dal 18 secolo in poi invece, nasce la tendenza a unificare le giurisdizioni, e come? Si istituiscono
ad esempio degli uffici centrali supremi, e si cerca un organizzazione burocratica sotto la quale
cadono e ricadono tutte le giurisdizioni particolari, e ciò avviene attribuendo una posizione
gerarchica, ma soprattutto si attribuisce a ciascun ufficio o funzionario, delle competenze
specifiche - nel medioevo c'era invece una commistione fra le competenze, ad esempio esistevano
nei territori sabaudi i vari consigli, ma avevano competenze vaste, da quelle politiche a quelle
giurisdizioni - .
In campo giudiziario abbiamo infatti la dottrina per cui la giustizia emana dal sovrano, la si
amministra in suo nome; i tribunali "d'appello", creati nel 1700 e si sviluppano lungo il 700 e
800 sono formati da giudici togati (di professione, laureati in legge, mentre quelli feduali erano
formati dai fedeli del signore feduale, come i tribunali delle comunità e dei comuni). Ad esempio,
si impone la necessità che tali soggetti siano laureati in utroque iure, e i supremi tribunali sono
formati da personaggi competenti che potevano cassare le sentenze dei tribunali inferiori che
non seguivano gli indirizzi del principe, e con tale sistema tribunali inferiori tendono ad
adeguarsi all'interpretazione dei tribunali superiori, e si devono quindi uniformare, visto che i
tribunali superiori avevano anche un ruolo di interpretazione della legge. Nell'800 si è poi
affermato tale sistema (che la giustizia emana dal sovrano) e i giudici amministrano la giustizia
in nome del sovrano, tant'è che quando i giudici dei supremi tribunali interpretano e applicano
una legge al caso concreto, devono prima di emanare la sentenza, farla confermare dal re, che ha
l'ultima parola.
Di fatto, tali tentativi di unificazione delle legge, sono però per lo più formali che sostanziali,
perchè nel 1600 pochi sovrani hanno la forza di eliminare tali forze centripete a elimiare le forze
centripete, nel 1700 si afferemerà invece lo stato.

La situazione in europa, fra 600 e 700 è però variegata.


L'Inghilterra è stata da sempre considerata la patria della democrazia perchè precoce
nell'accentramento, e fin da dopo l'anno 1000 si è creato un equilibrio costituzionale, e la
costituzione è data da tutti tali provvedimenti basilari, che sono stati fatti tramite un
compromesso fra monarchia e i ceti privilegiati, che sono coloro che poi formano nel parlamento
la camera dei lords, la camera alta; è uno degli stati dove si è formato prima l'accentramento, e
nasce come uno stato quasi nazionale.
In Svezia l'accentramento si è formato nel corso del 600 tramite la figura nel monarca, e con una

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forte dipendenza della magistratura, che nel 700 è subordinata alla volontà del monarca.
Negli stati germanici, stati più piccoli, i tribunali del 600 700 sono ancora organizzati secondo lo
stato dei ceti, che sono ancora forti; i ceti sono molto forti e quindi il monarca deve farci i conti e
gli stessi tribunali sono organizzati in base ai ceti, e non abbiamo il principio di uguaglianza di
fronte alla legge, e non si affermerà nemmeno nell'800.
Nei grandi stati invece come la Prussia del nord o Baviera del sud si sviluppano poteri forti che
sono controllati dal monarca.
In Francia, la giurisdizone viene accentrata tramite i grandi tribunali, el courts de parlament.
Questi grandi tribunali non sono di formazione regia, ma sono tribunali che giudicano secondo
le consuetudini locali, quindi rispettando la legge locale. Non c'è una court che prevale sugli
altri, abbiamo diverse court che poco per volta aumentano la loro giuridizione sul territorio, alle
spese degli altri tribunali minori, che non scompaiono, restano ma sono sottomessi.
In Italia invece, i grandi tribunali (tribunali centrali per il Tarello), nascono nel '500 e assumono
maggiore influenza diventando autorevoli, ma sono fondati per lo più dal potere centrale, dal
principe, che ci mette dei giudici di sua fiducia, e sono giudici togati, e prendono nomi diversi in
base ai luoghi (rote nel Lazio, sacro regio consiglio nel Regno di Napoli, senati del Regno di
Sardegna...).
In Italia, con la loro affermazione, il principe inizia a poter controllare la giustizia, e i tribunali
supremi sono anche gli organi della interpretazione della legge. E ciò è importante perchè
interpretano la legge secondo gli indirizzi regi, anche perchè se un magistrato di un tribunale
supremo voleva fare di testa sua, il principe lo poteva far dimettere e lo sostituiva. Quindi si è
sicuri che l'interpretazione è quella del principe, e le sentenze che vengono emanate, con
interpetazione innovativa, vengono a funzionare come precedente e su fattispecie simili si applica
quella interpretazione, si afferma il precedente. Quindi, tramite tali meccanismi, nel 1700 c'è la
tendenza del diritto come quello voluto dal sovrano e la giurisdizione è direttamente o
indirettamente amministrata nel suo nome; con tali principi avviene poi anche l'accentramento
del potere.

Con l'affermazione dell'assolutismo nel '700, c'è il culmine di tale accentramento del potere nelle
amni del sovrano, e inizia anche ad affermarsi la necessità di teorizzare la giusta causa dello
stato assoluto, iniziano a nascere delle espressioni culturali dell'assolutismo. Uno dei primi
teorizzatori dello stato assoluto è Hobbes; è il teorico dell'assolutismo, e secondo Hobbes il fine e
scopo dell'uomo è quello di ottenere la pace e la sicurezza sia dell vita che dei propri beni.
È un filosofo che si radica nel giusnaturalismo del 600, e un punto basilare è quello di dividere
la società in due momenti: lo stato di natura e lo stato civile.
Lo stato di natura, situazione primordiale, è uno stato dove l'uomo è libero, che però è
raffigurata come situazione di paura, violenza - Hobbes qua ha poca fiducia nella natura umana
-, e gli individui, non potendo coesistee a lungo nello stato di natura, essendo homo ominis
lupus, per poter assicurare la pace e la prosecuzione della specie umana, bisogna passare allo
stato civile, che assicura la pace. Come si fa a fare questo passaggio, a fare questo stato civile?
Atraverso un contratto sociale, con il quale gli uomini pongono i diritti nelle mani di un
individuo, che diventa il sovrano e tale sovrano ha il compito di mantenere la pace fra gli uomini.
Quando si è formato lo stato civile però, gli individui non possono più pretendere i diritti, è il
sovrano che li gestisce, perchè è un sovrano che ha solo diritti e nessun dovere. Le azioni del
sovrano sono per definizione giuste, e tutto il diritto positivo, che si viene a sviluppare nello stato
civile, deriva dalla volontà del sovrano e dalla sua interpretazione.

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Hobbes ha anche introdotto però delle garanzie agli individui, ha introdotto il positivismo politico:
riconosce che tutto il dirtto è nelle leggi dello stato, e quindi introduce delle garanzie in campo
penale, in quanto non può essere comminata a nessuno nessuna pena se non è prevista dalla
legge (nulla poena sine lege), e questa è una garanzia per i sudditi, perchè quello che non è
contemplato dalla legge non è punito. Nasce da qui il formalismo hobbesiano, la teoria
penalistica di Hobbes, per cui per Hobbes i comportamenti sediziosi e sovversivi sono tali solo
quando sono proibiti dalla legge del sovrano, e non per loro qualità intrinseche, ad esempio
distingue tra delitto e peccato, andando a dire che un fatto è reato perchè lo dice la legge,
distinguendo dalla morale.
Hobbes distingue cioè fra legge di natura e legge invece positiva, poste dallo stato, ma allora le
leggi di natura vigono solo nello stato di natura oppure no?
Hobbes parla di leggi di natura in due sensi:
- primo senso: interpreta la legge di natura come quei principi e comportamenti che esistevano
prima della creazione dello stato civile;
- il secondo senso di legge di natura invece, è delle leggi interpretati come regole di
comportamento razionale per l'alta conservazione degli uomini nello stato di natura. Questo
comportamento razionale è la regola di "stare ai patti", e le leggi di natura sono regole di
comportamento razionale per la conservazione del sovrano nello stato civile. Quindi per hobbes
c'è coincidenza di regole nei due stati, anche se cambia il soggetto da conservare (uomo nello
stato di natura e sovrano nello stato civile).
Le leggi naturali quali sono? Sono individuate secondo un criterio utilitaristico, servono ad
esempio per la conservazione dei soggetti e del sovrano, e in base a tale concetto utilitaristico,
considera anche la punizione nel campo penale.
Perchè? Quando il diritto penale non era amminsitrato dallo stato, la pena era la vendetta.
Hobbes mette in risalto ad esempio, la razionalizzazione della vendetta, perchè la vendetta serve
ed è buona per perseguire un bene futuro: nella sua opera "de cive", Hobbes parla della sesta
legge di natura che è la pena, la vendetta, e dice che la vendetta è legge di natura che serve per
correggere il reo e per il bene futuro. E tale concetto ritorna anche nel Leviatano, dove la
vendetta è la settima legge di natura. In cosa consiste la razionalità? Serve per
l'autoconservazione ed è una pena applicata anche dal sovrano nello stato civile.
Quindi, carattersitiche:
- utilitarismo,
- formalismo,
- legalismo (nulla poena sine legge, è reato ciò che è prescritto dalla legge).

SECONDA LEZIONE (04/03)

HOBBES

Ci occupiamo di Hobbes, che è stato uno dei primi giuristi che ha teorizzato lo Stato assoluto.
Abbiamo visto che le principali caratteristiche di queste dottrine di Hobbes erano l'utilitarismo e
il legalismo. Dal punto di vista della dottrina penale Hobbes aveva introdotto una netta
suddivisione fra quello che era in lato morale e il lato invece penale, cioè aveva separato la
morale dal diritto. Vedremo che ci saranno molti giuristi del ‘700 che faranno la stessa cosa. In
base a questo principio della separazione tra morale e diritto si erano caratterizzati alcuni
assiomi caratteristici di tutta la dottrina positivistica, in particolare l’assioma che è un crimine

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solo la violazione di un comando sovrano, quindi solo la violazione della legge. Secondo Hobbes e
secondo questo assioma, tutti i crimini sono peccati, ma non tutti i peccati sono crimini, quindi
ci possono essere dei settori, delle azioni che dalla dottrina ecclesiastica sono considerati dei
peccati, ma non è detto che la dottrina dello Stato civile e il diritto dello stato civile, cioè il diritto
positivo posto dal sovrano per volontà del sovrano sia per forza un crimine, cioè viene creata per
la prima volta quella che è la laicizzazione del diritto penale, di fronte a una tale dottrina bisogna
anche stabilire la definizione di pena. La pena è la punizione per il crimine e il soggetto che può
punire è la pubblica autorità. viene considerato crimine la violazione della legge, quindi se
dovessimo dare una definizione di pena secondo Hobbes la pena è il male inflitto dalla pubblica
autorità a chi ha disobbedito alla legge. Qual è lo scopo della pena? Lo scopo della pena è
spingere gli uomini a obbedire alla legge. Quindi in una concezione simile della pena si
cominciano a notare i primi germi di quella che sarà la dottrina penalistica che si sviluppa nella
seconda metà del '700, la pena che deve avere lo scopo correttivo e deterrente. Fino al '700
cambia il concetto di pena e di prigione, fino al '700 cioè fino agli utilitaristi la prigione era un
punto di segregazione dove rinchiudere tutti coloro che davano fastidio nella società, coloro che
potevano nuocere alla società. Con le dottrine illuministiche che si diffondono sempre più la
pena comincia ad essere concepita come un elemento correttivo e deterrente, cioè la pena deve
correggere il reo, oltre a tener lontano le persone dal commettere reati per timore di essere
puniti. La conseguenza di tutta questa impostazione è di nuovo l'applicazione di quell'assioma
noto come "nulla pena sine lege". Se non c'è una legge che contempla il reato non si può punire e
questa garanzia nei confronti dei sudditi può portare a un'altra conseguenza, è una garanzia che
oggi è sempre molto presa in considerazione in qualsiasi sistema legislativo che è la garanzia
della irretroattività della legge, quindi non si può punire una persona se nel momento in cui
avesse commesso il reato, non c'era la legge che contemplava il reato, di conseguenza quindi
tutta la dottrina penalistica di Hobbes introduce la garanzia dell'irretroattività della legge. Il
concetto che la pena è buona rimanda alla pena che corregge e intimidisce il suddito, quindi da
un lato c'è la correzione, dall'altro è un principio che deve intimidire e nella pena incomincia
anche ad essere introdotto il principio di proporzionalità della pena, cioè la quantità della pena
deve essere razionale, cioè proporzionale al reato. Nella visione di Hobbes, visto che è il
teorizzatore dello Stato assoluto, quindi che il re una volta che ha il titolo di re ha il potere
assoluto. Secondo Hobbes la pena può essere sia stabilita dalla legge, sia arbitraria,
naturalmente eseguita secondo l'arbitrio del sovrano e Hobbes fornisce anche un'idea di quella
che è la quantità razionale della pena, cioè al pena sia che sia scritta dalla legge sia che sia
arbitraria deve procurare al reo un male maggiore del bene che il reo si è procurato
commettendo il reato. Questo è un principio molto terra a terra ma molto saggio. Pensiamo
ancora oggi quante volte ci sono dei reati che continuano a venire commessi, magari non penali,
magari nel campo civile perchè è più conveniente commettere il reato e rischiare che non
ubbidire alla legge. Per esempio l'apertura dei negozi e la sua regolarizzazione-->un negozio per
esempio tiene aperto o chiude nel momento in cui dovrebbe tenere aperto, ad esempio in agosto
perchè dice che piuttosto prende la multa, ma evidentemente non è abbastanza la multa, gli
conviene risparmiare, tenere chiuso e farsi le vacanze; se la multa fosse più alta si guarderebbe
bene dal chiudere il negozio quando sarebbe aperto. In conclusione possiamo dire che la teoria
di Hobbes è la prima teoria dell'assolutismo e racchiude in sé tutti quegli elementi sul diritto
penale che sono caratteristici dei regimi assoluti, contiene il principio imperativistico, cioè che la
legge è un comando del sovrano, comprende il formalismo cioè che i crimini sono dei
comportamenti vietati dalla legge e puniti dall'autorità e c'è il principio della secolarizzazione del

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diritto penale che viene totalmente separato dalla morale sulla base del criterio che bisogna
conservare il sovrano. Ricordiamoci che Hobbes vive ancora alla fine del '600, si è passato tutto
il periodo delle guerre di religione, questa necessità di dividere la morale dal diritto scaturisce
dal quadro storico del '600--> il '600 è un secolo che è costellato di guerre di religione e molte
volte anche i sovrani si facevano le guerre per motivi religiosi; ci sono lotte continue tra
protestanti e cattolici, tutta l'Europa è costellata da queste guerre e quindi è un modo come un
altro per riuscire a dividere la politica e quindi anche la stabilità di un regime politico da
problemi religiosi.

Ora, un altro tema riguardo al '700 che affronta il Tarello è quello del rapporto tra lex e
interpretatio: il '700 è caratterizzato proprio dal cambiamento del rapporto tra lex e
interpretatio, quel rapporto che era stato molto importante e si era sviluppato per tutto il
Medioevo, ci ricordiamo che l'interpretazione della legge è un'interpretazione fondamentale nel
campo del diritto che deriva dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente. Quando ci si trova di
fronte al Corpus iuris civilis e a tutto il sistema del diritto comune che bisogna applicare a delle
realtà concrete, è difficile applicare norme d secoli precedenti a una realtà nuova e di
conseguenza sempre di più nascono istituti nuovi e leggi nuove attraverso la trattazione dei
giuristi perchè il giurista che si trova a dover decidere un caso e non si trova la norma precisa da
applicare a quel caso, deve vedere qual è la norma giuridica che ha sottomano e che può
attraverso un ragionamento giuridico essere applicato al caso specifico. Quindi l'interpretatio si
era sviluppata tantissimo nel corso del Medioevo. Nel '700 troviamo che si sviluppa questo
processo di accentramento del potere nelle mani del sovrano che tende a diventare assoluto. Il
sovrano assoluto cosa deve fare per essere realmente assoluto? Controllare bene tutti i poteri
dello Stato, compreso quello legislativo e quello dell’amministrazione della giustizia. Nel ‘700
però troviamo ancora la coesistenza con questo potere assoluto del re di organizzazioni
particolaristiche perché nel Settecento troviamo ancora la suddivisione dei ceti della popolazione
che hanno una grossa importanza, soprattutto quello ecclesiastico e quello aristocratico e nel
settecento inizio d'essere importante quello borghese. Troviamo le giurisdizioni speciali, troviamo
che ancora in vigore il diritto feudale, che sono ancora signori feudali, le comunità che hanno
delle loro specifiche autonomie e i sovrani assoluti non hanno ancora la forza nel Settecento di
accentrare tutti questi poteri, quindi devono arrivare dei compromessi. Questi compromessi si
riflettono nel cambiamento di rapporto tra lex e interpretatio: anzitutto la lex consiste
nell’intervento legislativo del sovrano, quindi dalle leggi sovrane, poi nel ‘700 un'altra base della
legge è costituita dalle consuetudini ma oltre a questo alla base del diritto comune c’è il Corpus
iuris civilis; oltre a questi due elementi ci sono le leggi statutarie che sono le leggi che osservano
i comuni, c’è quindi una grande massa di fonti del diritto. Naturalmente nel ‘700 la fonte del
diritto che tende ad imporsi sulle altre è la legge de sovrano, che dovendosi imporre deve
ricoprire il più ampio arco di discipline possibile, infatti i sovrani nel ‘700 si danno molto da fare
a legiferare perché tutto quello che non è coperto dal sistema della legge sovrana ricade nel
diritto comune, quindi viene regolamentato dalle consuetudini, dal diritto feudale, dagli statuti e
così via. Nel ‘700 da chi è data invece l’interpretazione della legge? È un organo dello Stato
ormai, una volta erano i giuristi che davano l’interpretatio, dal ‘500 in poi le cose sono cambiate
con la nascita dei supremi tribunali che si sviluppano in tutta Europa dal ‘500 in poi composti
da giudici nominati dal sovrano che quindi seguono gli indirizzi del sovrano e che in primo piano
mettono la legge sovrana e poi le altre fonti come fonti sussidiarie e dato che sono giudici
nominati dal sovrano tendono a seguire gli indirizzi interpretativi del sovrano. Ora l’interpretatio

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arrivata nel ‘700 è perlopiù rappresentata da quelle norme emesse dai supremi tribunali o dai
giuristi perché sappiamo che i supremi tribunali emettevano sentenze inappellabili, si potevano
fare ricorsi solo al parere del sovrano e nel ‘700 avevano ormai assunto il valore di precedente,
cioè se un supremo tribunale riguardo una determinata fattispecie aveva determinato in un
certo modo, quell’interpretazione diventava norma per tutte le fattispecie simili. Quindi capite
che i Supremi tribunali cominciarono con l’affermarsi del precedente anche a divenire creatori di
diritto, di norme legislative. È vero che queste norme legislative dovessero essere approvate dal
sovrano, ma dato che i supremi tribunali seguivano l’indirizzo del sovrano, il sovrano la maggior
parte delle volte le approvava. Ora, in genere l’interpretatio è considerata sussidiaria alla lex. Il
Tarello fa notare (e su questo la professoressa non è d’accordo) ch i grandi tribunali tante volte
per opporsi all’accentramento realizzato dai sovrani del ‘700 allargavano sempre più il campo
dell’interpretazione a spese della lex. Ora, secondo la Casana questo non succede molto spesso,
cioè che ci si allarghi così tanto nell’interpretazione, anche perché se un tribunale attraverso la
propria interpretazione dava origine a una nuova norma giuridica, dato che i giudici dei supremi
tribunali agivano in nome del sovrano, il sovrano poteva semplicemente non approvare, cioè le
leggi elaborate dai supremi tribunali dovevano passare attraverso l’approvazione sovrana, è
anche vero che alle volte il sovrano è lontano e non può stare dietro a tutte le norme che
vengono emesse, ma tendenzialmente i giudici dei supremi tribunali tendono ad assecondare
l’accentramento dei sovrani e non a opporvisi perché erano giudici nominati dal sovrano e se
agivano in modo contrario alla sua volontà, aveva il potere di destituirli. Succede qualche volta
che i giudici non agiscano secondo gli indirizzi sovrani. Succede per esempio nel Regno di
Sardegna sotto Vittorio Amedeo II: c’è una causa contro un povero mugnaio che utilizza un
mulino ad acqua, a questo punto il signore feudale, il sovrano devia le acque del fiume e il
mugnaio non può più produrre il pane perché non ha più l’acqua che fa girare il mulino. A
questo punto non paga più al signore feudale i tributi che doveva pagargli, il signore feudale gli
fa causa, la causa va a finire di fronte al senato che era il supremo tribunale del Regno di
Sardegna e il mugnaio viene condannato perché i giudici ragionano secondo la loro
interpretazione, il re non è d’accordo con questa sentenza, i giudici giudicano di nuovo che
decidono nello stesso modo perché le fonti del diritto che dispongono li portano a giudicare in
quel modo lì. Si rifiutano insomma di cambiare la sentenza e Vittorio Amedeo II li fa imprigionare
tutti quanti. Peccato che i senatori che giudicano successivamente giudicano nello stesso modo
di quelli precedenti perché gli strumenti che hanno a disposizione sono quelli e quindi giudicano
seguendo pedissequamente la legge e non secondo equità. Alla fine Vittorio Amedeo II muore,
viene sostituito e il mugnaio viene condannato. Ci sono però dei casi di resistenza, ma sono una
minima parte. Da questa disputa tra lex e interpretatio nel corso del XVIII secolo derivano diversi
dubbi. Prima di tutto, molti di questi giuristi, intellettuali e filosofi cominciano a portare avanti
delle campagne per la certezza del diritto e così anche i sovrani. Ci si rende conto che tutte
queste fonti giuridiche, questo continuo rapporto tra legge e interpretatio che è sempre una base
del diritto e anche molto importante, crea una grossa incertezza nel diritto ed è per questo che
molti sovrani cominciano nel corso del XVIII secolo a fare molti interventi legislativi per cercare
di fare raccolte legislative con lo scopo di rendere il più chiaro possibile la legge in vigore.
Ricordatevi i movimenti che fanno capo a “Daghessò” (non si scriverà certo così, ma non ho ben
capito il nome), che è uno degli autori di raccolte legislative divise per materie che vengono
considerate in Francia addirittura dei codici antesignani; il Muratori che col suo libro sui difetti
della giurisprudenza critica profondamente il sistema, l’incertezza del diritto che era in vigore,
quindi da un lato si registrano questi tentativi di chiarificare la legge con grandi raccolte da

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parte del sovrano o da proposte che provengono da storici, giuristi, filosofi, ecc… Poi un’altra
conseguenza per porre fine a questa conclusione, ci sono molti tentativi da parte dei sovrani
assoluti di limitare l’autonomia dei grandi tribunali. Questo avviene in Francia, in Savoia, a
Napoli, in Austria, in Prussia, nel Regno di Sardegna e così via. Si sviluppa poi tutta una
dottrina che incomincia ad avanzare dei principi, a imporre dei principi che non vi possono
essere dei casi dubbi o non previsti dalla legge, cioè la legge deve prevedere tutti i casi. Il maggior
esponente di questo indirizzo è Leibniz. D’altro lato si sviluppa anche la dottrina della natura
puramente meccanica della decisione giudiziaria, cioè il giudice non deve interpretare, il giudice
deve applicare la legge, la norma. Sviluppano questa dottrina personaggi come Montesquieau,
Beccaria, Filangeri e un altro principio che viene a sviluppare la dottrina nel corso del XVIII
secolo e quello che il diritto di fatto deve essere del tutto riformato, deve essere riscritto ex novo.
Uno dei primi a sostenere queste idee è Voltaire e sulla scia di queste idee si sviluppa il
movimento che porterà alla codificazione; di fatto lo spirito della codificazione è creare una
raccolta di leggi esaustiva completa per ogni disciplina, quindi per il diritto civile, il diritto
penale, la procedura civile, la procedura penale e il diritto commerciale che poi successivamente
confluirà nel diritto civile. Di fatto nel corso del XVII secolo il conflitto tra lex e interpretatio non
può essere risolto che in un solo modo, quello di decidere di subordinare un eliminato all’altro: è
più importante la lex o l’interpretatio? Dal ‘700 in poi in Europa prevale la lex, poi se proprio non
c’è la lex si fa ricorso all’interpretatio. Dov’è che ancora oggi prevale l’interpretatio? In Inghilterra
e nei Paesi anglosassoni dove prevale l’interpretatio degli organi giudiziari, sono gli stessi
tribunali che interpretando la legge che è rappresentata dalla consuetudine, dalla tradizione e da
alcuni brevi testi legislativi, crea nuove norme. Quindi vediamo che questa suddivisione e questa
interpretazione su che cosa consiste il diritto nel corso del ‘700 si sviluppa in modo diverso nei
Paesi di origine anglosassone e nel resto dell’Europa. Vediamo adesso brevemente quella che è la
situazione dei vari Stati durante il XVIII secolo, cioè nel ‘700 partendo dalla Francia. Nel XVIII
secolo vediamo che la Francia è ormai da più secoli un grande Stato nazionale con una
giurisdizione e amministrazione piuttosto accentrata perché la Francia è uno dei primi Stati
nazionali che si formano in Europa perché in fondo il grosso nucleo fondamentale della Francia
si forma alla fine della Guerra dei Cento Anni nel XII secolo, però in Francia benché ci siano una
giurisdizione e un’amministrazione piuttosto accentrata nel ‘700 non c’è unitarietà del diritto,
anzi c’è una grande frattura nell’unitarietà del diritto e nel corso della fine del Settecento e
Ottocento in Francia ci sono molte resistenze a tutti i tentativi di unificazione del diritto, tutti i
tentativi di unificare il diritto prima della Rivoluzione francese falliscono. C’è un accentramento
sovrano, ma ci sono anche una miriade di forze centrifughe che impediscono questo reale
accentramento, però in Francia, Stato dove si sviluppa maggiormente l’assolutismo, si crea
anche un elemento particolare, uno sviluppo grande nel ‘700 della borghesia che comincia a non
rispecchiarsi più nelle istituzioni e nelle dottrine vigenti perché non rispecchiano quelli che sono
i propri interessi di vita. In Francia nel ‘700 c’è ancora profondamente la vigenza del diritto
comune scritto. Ci sono ancora diritti consuetudinari e una grande influenza del diritto
consuetudinario sul diritto scritto. Ricordatevi tra l’altro che questo provoca un sistema giuridico
complesso e complicato dove spesso si trovano norme di diritto consuetudinario che confliggono
e che sono contrarie a norme di diritto canonico e talvolta a norme del diritto feudale, ne deriva
una grande complicazione sia dal punto di vista dei soggetti del diritto sia dal punto di vista dei
contenuti del diritto sia sotto il punto di vista della giurisdizione e della tutela dei diritti. Per ciò
che riguarda i soggetti del diritto nel ‘700 la Francia è ancora divisa in Paesi e quindi i soggetti
che seguono il diritto consuetudinario e quelli che seguono il diritto scritto: i Pais de droit

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coutumier e i Pais de droit ecriti Pais de droit coutumier sono quelli a sud di Parigi e Parigi,
quelli del droit coutumier a nord di Parigi, quindi questa è già una dicotomia perché ci sono dei
soggetti che seguono un diritto e altri che ne seguono un altro. Poi ci sono i soggetti di religione
cattolica e quelli di non religione cattolica, tutto questo implica nel diritto norme diverse nel
regime familiare, successorio e patrimoniale e poi ci sono perché sono ancora molto forti in
Francia quelli che si chiamano i ceti, in Francia si chiamano gli stati generali che sono quelli che
scateneranno poi la Rivoluzione francese, ci sono soggetti nobili, non nobili, il clero, ciascuno di
questi ha capacità e relazioni giuridiche differenti. Questo quindi è una grande complicazione nel
campo del diritto privato, ma queste complicazioni che si riscontrano nel campo del diritto
privato le ritroviamo anche nel campo del diritto penale. Nella seconda metà del Seicento c’erano
stati dei tentativi di razionalizzare il diritto penale con le ordonances criminelle di Luigi XIV.
Erano una raccolta di leggi che riguardavano soprattutto la procedura e i tribunali, ma ance qui
nel campo del diritto penale persiste un contrasto tra diritto penale comune e particolare. Il
diritto penale particolare era applicato in determinate situazioni e che comprendeva norme del
diritto canonico che non rientravano nel diritto comune. Il diritto penale insomma in Francia
non è assolutamente unificato voi pensate semplicemente se un ecclesiastico avesse compiuto
un crimine, veniva giudicato da tribunali ecclesiastici secondo le norme del diritto ecclesiastico e
non dai tribunali civili. Non solo, ma per ciò che riguarda il diritto mercantile, ci rendiamo conto
che è un altro diritto particolare che crea una grande confusione perché il diritto mercantile è un
diritto speciale applicata a una determinata classe di persone, cioè applicato ai commercianti.
Nel ‘600 e ‘700 il diritto mercantile è ancora soggettivistico, cioè applicato nei confronti di coloro
che sono mercanti, non nei confronti di coloro che compiono azioni mercantili e quindi è ben
diverso perché i mercanti avevano tutta una loro giurisdizione speciale e questo succede un po’
in tutta Europa. Tutta questa organizzazione giuridica naturalmente non piace e non adatta alle
esigenze di una classe borghese, che ha bisogno di chiarezza, di unità di soggetti giuridici e di
unità di diritto. In Francia nasce il primo codice civile e si dice che il codice civile è un codice
prettamente borghese ed è vero perché chi ha scatenato la Rivoluzione era stata la borghesia, chi
aveva creato una frattura col sistema giuridico precedente era stata la borghesia, il codice
rispecchia le esigenze della classe emergente che era stata la borghesia. Alla fine del ‘700 i
territori germanici sono frammentari anch’essi, il diritto pubblico è quello dettato dall’Impero,
però esistono diritti pubblici particolari. Il diritto romano, che è alla base del Corpus Iuris Civilis
in Germania, è il diritto che funge da diritto comune ed è considerato nel ‘700 non il diritto base
ma il diritto suppletivo dei diritti particolari territoriali cioè dei Landrecht, le suddivisioni
territoriali tedesche e i diritti particolari dei Landrecht comprendevano sia il diritto privato sia il
diritto pubblico, era un po’ come per noi gli statuti delle città che erano applicate alla città,
erano le norme che rispecchiavano il diritto comune applicato nelle città che avevano norme di
diritto pubblico e di diritto privato, però i diritti territoriali dei Landrecht erano molto più estesi.
In Germania il Land, cioè la suddivisione territoriale in senso giuridico, era formato dai principi
territoriali, poteva essere un gran duca, un principe, un re, non importa, e dai ceti territoriali dei
signori, nei territori germanici i ceti erano molto importanti, avevano un grandissimo potere, sia i
principi sia i signori territoriali avevano delle proprie organizzazioni burocratiche e allora il
governo dei territori germanici era basato su un equilibrio tra i vari poteri del territorio, tra i vari
ceti. In pratica i ceti erano rappresentati dai signori feudali, dal principe, dalle corporazioni dei
cittadini, cioè dalla borghesia e colui che sorvegliava su questo equilibrio era l’imperatore che di
fatto non aveva un potere assoluto sul territorio, l’imperatore in questo periodo aveva il compito
di mantenere l’equilibrio e di mediare tra tutte queste forze attraverso il potere giurisdizionale,

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cioè dell’amministrazione suprema della giustizia. Era quindi la figura del mediatore, non di
sovrano assoluto che controllava il territorio, però negli ultimi decenni del Seicento i principi
tendono a promuovere l’uniformità giuridica nei territori del proprio Stato. In che modo cercano
di creare questa uniformità giuridica? Cominciando a legiferare e rendendo il diritto romano
comune sempre più un diritto suppletivo perché maggiore era l’area su cui spaziava la
legislazione regia, minore era l’area in cui poteva dire la sua il diritto romano comune perché
naturalmente la legislazione regia viene posta al primo posto, però nonostante si facciano questi
tentativi all’interno delle singole circoscrizioni territoriali, dei singoli Stati germanici tedeschi di
uniformazione attraverso la legislazione regia, manca di fatto un centro di produzione normativa
capace di razionalizzare il diritto germanico. I principi sovrani, i principi territoriali sono troppo
deboli per riuscire a unificare il diritto completamente e l’imperatore a sua volta rivolge le proprie
attenzioni ai domini ereditari austriaci perché non riesce a controllare tutto il territorio, quindi
nei territori germanici l’assolutismo monarchico si affermerà soltanto con Federico II di Prussia e
Giuseppe II d’Austria, quindi nella seconda metà del ‘700.

Nei territori italiani la situazione è meno complicata di Francia e Germania perché la penisola è
divisa in piccoli Stati dove quindi è più facile mantenere il controllo della situazione. Perlopiù nel
‘700 in numerosi Stati italiani si sente l’esigenza di riforme, nel Regno di Napoli, nei territori
Sabaudi, in Toscana e nello Stato Pontificio. In tutti questi territori coesistono un diritto
comune, che però ormai è diventato suppletivo, cioè residuale come fonte del diritto, ci sono i
diritti particolari, ci sono le consuetudini e la legislazione regia. C’è la tendenza di accentrare il
potere attraverso una maggior produzione da parte dei sovrani, quindi di legislazione regia.
Spesso si trovano in questi Stati dell’Italia dei rapporti tra il diritto generale che è il diritto
proprio dello Stato, il diritto regio dei singoli Stati, unito al diritto comune divenuto diritto
suppletivo, ci sono contrasti tra questo diritto generale e il diritto canonico perché la Chiesa
continua ad avere un proprio diritto e certi settori sono regolamentati prevalentemente dal diritto
canonico. Pensiamo ad esempio ai settori come la famiglia e il matrimonio nello specifico, la
materia matrimoniale in genere è regolamentata dal diritto canonico, la disciplina del clero è
regolamentata dal diritto canonico, però il clero molte volte si trova a che fare con lo stato civile e
qui molte volte ci sono dei contrasti. I contrasti più gravi anche nei territori italiani sono in
materia penale, anche perché la materia penale è quella più scottante, proprio come contrasti
tra diritto canonico e diritto generale. Ad esempio un treno su cui c’è un grosso scontro è il
diritto d’asilo nei luoghi sacri: se un delinquente perseguitato dallo Stato si rifugiava in una
Chiesa, lo Stato non poteva continuare a perseguire costui perché era nel territorio della Chiesa
dove, sulla base degli accordi tra Stato e Chiesa, esisteva il diritto d’asilo. La Chiesa aveva
moltissime immunità in campo penale in materia di reati religiosi: c’erano dei reati religiosi che
riguardavano anche il campo civile che erano regolamentati esclusivamente dalla Chiesa.
Ricordiamoci che la Chiesa nel ‘700 aveva ancora i tribunali della Santa Inquisizione, ma in
questi tribunali passavano anche i civili. In certi Stati vengono aboliti, ma in altri restano, quindi
vediamo che anche nei territori italiani esiste una pluralità di soggetti del diritto perché c’è il
clero che è un soggetto di diritto con privilegi e immunità, ci sono i commercianti che seguono il
diritto mercantile che quindi sono giudicati dai tribunali commerciali per il semplice fatto che
sono commercianti. Poi ci sono ancora delle differenti discipline soggettive legate ai ceti,
soprattutto in campo privatistico e penale. Un signore feudale non era giudicato dal tribunale
ordinario, ma dal tribunale feudale fatto da suoi pari e così via, quindi vediamo che nel
Settecento comincia a sentirsi questa esigenza di unificazione del diritto e di unificazione dei

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soggetti del diritto, ma siamo lungi dall’avere l’unificazione.

Il discorso fatto finora vuole mettere in risalto il fatto che le problematiche che nascono nel ‘700
sono problematiche che alla lunga mirano a sboccare nella codificazione. Il sistema del diritto
codificato, che sboccherà in codificazione solo nel 1804 con la codificazione del codice civile da
parte di Napoleone, aveva lo scopo di portare all’unificazione legislativa, quindi di racchiudere
all’interno dei codici tutte le norme che riguardavano una specifica materia e questo voleva dire
abolire tutte le altre fonti del diritto. Ha un altro risvolto l’imposizione del diritto codificato, cioè
si impone la statualizzazione del diritto, cioè è soltanto lo Stato che decide che cos’è Diritto e
con la statualizzazione del diritto, il Diritto tende a identificarsi con la legge. Mentre in epoca
romana vediamo che Diritto e Legge erano due cose separate: il Diritto era più dottrina, mentre
la Legge era la norma emanata dall’autorità costituita, nel momento in cui si afferma il
positivismo giuridico e la statualizzazione del diritto il Diritto tende ad identificarsi con la legge.
Il sistema del diritto codificato porta a una razionalizzazione e riorganizzazione del diritto. Il
sistema del diritto codificato non nasce da un giorno all’altro ma vediamo che ha radici nel
pensiero giusnaturalista, d’altra parte Hobbes era un giusnaturalista. Il giusnaturalismo che è
quella dottrina storica, filosofica, giuridica che si sviluppa nel corso del Seicento ha diverse
caratteristiche ed è composta da una serie di dottrine eterogenee e differenti tra loro. Esistono
infatti vari filoni del giusnaturalismo, esiste il filone giusnaturalista, quello razionalistico, quello
positivistico, quello volontaristico, però quale può essere la definizione generale del
giusnaturalismo? Il giusnaturalismo è un indirizzo teorico, quindi una dottrina se vogliamo, che
presuppone l’esistenza di norme superiori a quelle positive, cioè a quelle poste dall’autorità
costituita e con un raggio di utenza più ampio di un ordinamento singolo, cioè il diritto naturale
preesiste al diritto positivo posto dallo Stato ed è un diritto che non riguarda solo uno Stato, ma
è generale, abbraccia tutti gli ordinamenti giuridici. Tra il 1600 e il 1700 ci sono diversi filoni
giusnaturalistici che influenzano la codificazione, il filone che si impone nel ‘700 è quello
razionalistico, coloro che aderiscono al filone razionalistico vedono e concepiscono il diritto
naturale come un sistema ordinato in modo logico e scientifico. Costoro che aderiscono a questo
filone conferiscono al legislatore ai teorici del diritto il compito di razionalizzare il diritto positivo
e direi che all’interno di questo filone giusnaturalistico razionalistico si possano identificare tre
filoni differenti: due di area germanica e uno di area francese. Il primo filone di matrice
germanica è legato al pensiero di Pufendorf, di Thomasius, di Coceius. Nel pensiero di costoro
prevale la concezione volontaristica del diritto, cioè il diritto si identifica con la volontà sovrana,
cioè con le norme poste dal sovrano, cioè il diritto che vuole il sovrano, che può essere il sovrano
in persona o il Parlamento a seconda dei regimi politici. Fa parte di questo primo filone il
concetto di separazione tra diritto e morale. Questo tentativo di separazione tra diritto e morale
avrà un forte influsso nei tentativi di codificazione in Prussia (poi vedremo alla fine del corso
quali sono questi tentativi di codificazione) e anche avrà un forte influsso sulla codificazione
austriaca, in particolare sul progetto Martini che sarà il progetto che porterà alla promulgazione
del primo codice austriaco del 1811. In Italia in realtà questo filone di matrice germanica fondato
sul razionalismo ha una scarsa influenza. A questo filone si ispirano soltanto i primi riformatori,
che si hanno per esempio in Toscana come un Poppeo Neri. Il secondo filone di questa corrente
giusnaturalistica razionalistica è sempre di area germanica e vede i principali rappresentanti in
Leibniz e Wolff. Leibniz e Wolff influenzano a fondo la codificazione prussiana e influenzano a
fondo la maggior parte delle codificazioni sul modo di formulare la norma. Non solo. Questo
secondo filone influenzerà moltissimo anche la cultura giuridica dell’800 perché influenzerà

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quelle due scuole giuridiche che si espanderanno dopo la codificazione in Italia che saranno la
scuola filosofica dell’esegesi che sarà quella che influenzerà la codificazione e la scuola storica
del diritto, che è contro la codificazione e avrà il maggior rappresentante in Savigny. Soprattutto
questo secondo filone di area germanica influenzerà quell’indirizzo che tenderà ad elaborare
principi generali del diritto cioè una parte generale del diritto da cui far derivare le singole
norme, cioè influenzerà enormemente il secondo modello di codificazione dell’Ottocento, che sarà
il modello di codificazione austriaca che si contrapporrà a quello napoleonico. Il terzo filone
infine è di origine francese, vede i principali esponenti nei padri della codificazione francese, cioè
in Domat e Poithier. Costoro mirano a elaborare un sistema giuridico ordinato e razionale
derivando certi istituti dalla tradizione romanistica, che è rielaborata sulla base del diritto
naturale. Quindi è proprio da questo terzo filone che deriverà la codificazione francese dove ci
sono profondi elementi di tradizione romanistica e anche elementi di tradizione del diritto di
base, di diritto naturale. Il ‘700 vede anche, al di là di queste dottrine, una grossa evoluzione
dell’istruzione giuridica. Nel XVII secolo vediamo che l’unitarietà dell’istruzione giuridica si
frantuma. Fino al 1600 l’istruzione giuridica veniva insegnata attraverso le cd. arti liberali del
trivio e del quadrivio. Le arti del trivio erano la grammatica, la retorica e la dialettica; il quadrivio
era rappresentato dall’aritmetica, dalla geometria, dall’astronomia e dalla musica. Il diritto non
era insegnato come materia a sé stante prima del 1100, ma veniva insegnato all’interno della
dialettica e della retorica, quindi all’interno delle arti del trivio. Ora, nel ‘500 questo modo di
insegnare il diritto si frantuma perché mentre questo sistema esisteva prima in tutta Europa,
ora dal ‘500 in poi l’area giuridica francese comincia a differenziarsi dalle altre. Siamo nel
momento in cui si sviluppa l’umanesimo giuridico. In questo periodo nelle Università spagnole
comincia ad essere insegnato il diritto canonico e quindi non solo più il diritto civile. Alcune
dottrine nel corso del ‘600 come il diritto criminale e le procedure incominciano ad essere
insegnate non tutte insieme, ma proprio come procedura e come diritto criminale, cioè
cominciano ad emanciparsi dal diritto civile. Nelle università di area germanica gli statuti delle
università incominciano a prevedere l’insegnamento di materie specifiche, non del diritto in
genere, ma materie su temi specifici, come quello sulle persone, sui testamenti e sui contratti,
quindi l’insegnamento si fa più specifico. Nel ‘600 si è passati attraverso la riforma e la
controriforma e questo provoca dei grandi mutamenti negli insegnamenti perché nell’Università
calvinista non si insegna più il diritto canonico, per esempio, viene abolito. Si può dire che nella
seconda metà del 1600 l’unità dell’istruzione giuridica è frantumata.

TERZA LEZIONE (05/03)

In seguito alla riforma di Luigi XIV, allo studio del diritto romano-canonico si aggiunge quello
che si chiama le droit frances, il diritto francese. Ma cosa diavolo è questo diritto francese? (È
quello che poi oggi la storiografia moderna chiama diritto patrio) E’ il diritto che di fatto viene
applicato in quella zona, ossia, per quello che riguarda la Francia, è il diritto che deriva dalle
ordinanze emanate dai re francesi, quindi dalla legislazione regia, ed è il diritto che deriva dalle
consuetudini territoriali, consuetudini che ormai nella Francia di Luigi XIV erano già state
consolidate in libri, e poi qual è il terzo elemento del diritto oltre appunto al diritto regio, le
consuetudini? L’interpretatio dei grandi tribunali, cioè l’interpretazione che i grandi tribunali
avevano dato soprattutto del diritto romano. I grandi tribunali in Francia si chiamano Court de
Parlements, da non confondere con i parlamenti medievali che sono le assemblee dei ceti
privilegiati, e da non confondere con il parlamento che è l’organo legislativo. In Francia si

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chiamano Court de Parlements come per esempio invece in Toscana e negli stati romani si
chiamano Rote, negli Stati del regno di Sardegna si chiamano senati, quindi sono termini diversi
che hanno accezioni diverse.
In seguito appunto all’affermazione del cosiddetto diritto patrio, in Francia detto “droit frances”,
vediamo che avviene un ridimensionamento del diritto romano e del diritto canonico
logicamente, diventano un diritto residuale. Al primo posto viene messo il diritto cosiddetto
patrio, in questo caso il diritto francese, e perché viene fatto questo? Perché c’è un tentativo da
parte di Luigi XIV di rendere più pratico il diritto, cioè il diritto deve essere studiato e imparato,
l’istruzione giuridica deve essere diffusa per rispondere alle esigenze pratiche, e allora tanto vale
insegnare all’università il diritto che viene usato dagli avvocati, dai magistrati, dai tecnici del
diritto, dai professionisti del diritto.
Chiaramente, il droit frances è diverso dal diritto dell’impero, dal diritto del regno di Sardegna, e
così via, perché? Perché come prima fonte del diritto, di fatto, viene messa la legislazione regia,
quella che risponde ai bisogni del territorio. Questa è più o meno la situazione che noi
incontriamo in Francia tra diciassettesimo e diciottesimo secolo.
Andiamo nei paesi di area germanica. Anche qui si sente il bisogno di rispondere a esigenze
pratiche, nella prima metà del ‘600, si tende a riordinare la materia, a riordinare il diritto, e
questo riordino dà luogo a nuovi corsi da introdurre nelle università. Nella seconda metà del
‘600, in area germanica lo studio, le trattazioni di diritto romano lasciano maggior posto alle
trattazioni di quello che è il diritto odierno, cioè si tiene ora in Germania molto più conto,
piuttosto che del corpus iuris civilis, dell’uso forense che si fa del diritto romano, cioè come il
diritto romano viene utilizzato nei grandi tribunali perché anche qui erano nati i grandi tribunali
(c’è il grande tribunale camerale, quello che dà l’interpretazione del diritto), quindi in primo
piano viene messa la giurisprudenza dei grandi tribunali e viene posto di nuovo in primo piano
lo studio del diritto territoriale, quello che io adesso chiamo patrio, cioè il diritto che di fatto si è
sviluppato sul posto, che viene utilizzato sul posto. E così che di nuovo c’è questa necessità in
tutti gli Stati che oggi diremmo di modernizzare l’apprendimento e lo studio del diritto, e nella
seconda metà, quindi alla fine del ‘600, nelle università si incominciano a istituire corsi che
prendono il nome di “corsi di diritto odierno”. Noi potremmo chiamarli diritto contemporaneo,
diritto moderno. Questo diritto odierno è il diritto che realmente viene utilizzato sul posto, ed è
un insieme di fonti che comprendono la legislazione imperiale, comprendono le consuetudini
locali che sono state messe per iscritto, comprendono soprattutto l’interpretazione che i grandi
tribunali fanno del diritto romano per applicarli al caso concreto. E allora che ne è del diritto
romano (quello che noi chiamiamo il diritto romano classico, il corpus iuris civilis)? Resta
vigente a titolo di diritto comune, è il diritto che copre tutto il territorio, e che in ogni singola
circoscrizione territoriale viene utilizzato e interpretato dal tribunale locale per gli scopi concreti,
cioè per risolvere le cause concrete. Capite che la tipologia di cause che si presenta nel ‘600 è
molto diversa da quella che si presentava all’epoca romana o nel VI secolo quando è stato fatto il
corpus iuris civilis, per cui attraverso l’interpretazione c’è questa operazione di adattamento del
diritto romano alla realtà allora attuale.
Nella seconda metà del ‘600 poi ancora viene introdotto all’università lo studio del diritto
naturale perché ricordatevi che il ‘600 è l’epoca in cui si sviluppa quella corrente politico
-filosofica - giuridica letteraria che prende il nome di giusnaturalismo basata appunto sulla
concezione del diritto naturale, cioè di norme che preesistono al diritto positivo. La prima
cattedra di diritto naturale viene istituita nel 1660 a Haidelberg e viene ricoperta da Pufendorf,

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nel corso poi del XVIII secolo vediamo che altre cattedre di diritto naturale si formano un po’ in
tutta Europa, a Pavia, a Napoli, a Modena, in Spagna, in Portogallo.
Non le troviamo in Francia perché ricordatevi che la Francia a fine ‘600-700 è lo Stato più
assoluto che esista in Europa, e quindi qui quello che si impone è il diritto regio, che diciamo è
al top delle fonti del diritto francese. In Francia però non viene insegnato direttamente il diritto
naturale ma vediamo che si diffonde tutta la trattatistica germanica sul diritto naturale, quindi
diciamo che non entra dalla porta ma entra dalla finestra il diritto naturale anche in Francia.
Uno dei primi dunque rappresentanti di questo nuovo filone di studio del diritto, cioè quello del
diritto naturale è colui che ha avuto la cattedra ad Haidelberg per l’appunto di diritto naturale
Pufendorf, Samuel Pufendorf. Esaminiamo adesso la dottrina.

PUFENDORF

Pufendorf vive tra il 1632 e il 1694, è professore a Haidelberg dal 1660, insegna diritto naturale
e delle genti alla facoltà di lettere di Haidelberg e questo è curioso, perché? Perché
l’insegnamento del diritto naturale incomincia a venire introdotto come materia umanistica,
come materia di cultura, ed è ancora slegato dal diritto positivo, è ancora ritenuto lo studio del
diritto naturale uno studio poco professionale, diciamo così. Pufendorf come Hobbes teorizza
la laicizzazione del diritto, cioè secondo lui le questioni religiose e morali devono essere
separate dalla sfera del diritto positivo. La sua opera principale nel 1672 è il “De iure naturae et
gentium”. Sulla scia di Grozio, sostiene lo studio e la sistemazione scientifica del diritto naturale.
Per Pufendorf, il diritto positivo è un razionale sistema di comandi e rappresenta la sfera di tutti
quegli obblighi che sono imposti dal sovrano, quindi vediamo che il diritto per Pufendorf come
già era stato per Hobbes rappresenta la volontà del sovrano. Nella sfera di ciascun individuo c’è
anche una parte di libertà, e in cosa consiste la libertà? La libertà consiste nel fare tutto ciò che
non è vietato dalla legge, ci riconduciamo quindi a tutto il ragionamento che aveva fatto Hobbes
sul diritto penale, non si può comminare nessuna pena se non è contemplata dalla legge.
Dovete pensare e dovete inquadrare il pensiero di questi personaggi, quindi anche quello di
Pufendorf, nel panorama politico dell’epoca: siamo in un momento in cui domina la politica
assolutistica, il sovrano è un sovrano assoluto nella mentalità dell’epoca e detiene il potere che
gli è stato dato e che gli deriva da dove? Dal contratto sociale, il compito del sovrano, e qui siamo
sempre sulla scia di Hobbes, deriva da questo contratto sociale che hanno fatto i cittadini con
questo individuo che diventa Re e che ha il compito di tutelare i diritti naturali dell’uomo.
Pufendorf ha una notevole fiducia comunque nella bontà delle leggi del sovrano: il sovrano non
può per Pufendorf altro che fare leggi buone, e qui appoggia la politica assolutistica, cioè le leggi
del sovrano non sono discutibili, il sovrano non fa che leggi buone. Avendo questa enorme
fiducia nella bontà delle leggi del sovrano, Pufendorf non ha bisogno di quelle garanzie che
invece prevede Locke contro gli arbitri del re: Locke lo vedremo poi meglio dice che se il
sovrano a cui sono stati dati poteri assoluti dal contratto non rispetta però può essere
praticamente spodestato attraverso il diritto di rivolta, perché se il sovrano non rispetta i patti, il
popolo ha diritto a rivoltarsi.
Che cos’è per Pufendorf la lex? Per Pufendorf, la lex è un comando superiore che obbliga un
soggetto ad agire secondo quel precetto. Ora, essendo tutti questi pensatori dei giusnaturalisti,
logicamente fanno la distinzione che fanno tutti i giusnaturalisti tra quello che è lo stato
naturale e lo stato civile, e nel campo del diritto si fa la distinzione tra diritto naturale e leggi
civili (diritto dello Stato). Nel diritto naturale per Pufendorf questo comando proviene da Dio, è

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un qualche cosa di soprannaturale. Nello Stato civile, il comando della legge civile proviene da
chi detiene il potere, quindi può essere il Re, l’Imperatore, il Parlamento se siamo in uno stato
costituzionale. In poche parole per Pufendorf allora che cos’è la legge? Cosa sono le leggi? Sono
dei comandi che provengono da un essere superiore, però il comando perché possa essere
realmente un comando come deve essere? Deve avere una caratteristica, deve avere la sanzione,
quindi le leggi sono dei comandi sanzionati, cioè che prevedono una sanzione per chi non le
rispetta. Secondo Pufendorf, ogni legge consta di 2 parti, una prima parte che stabilisce ciò che
si deve fare o non fare, una seconda parte che indica il male che viene inflitto cioè in poche
parole la pena a chi non ubbidisce al comando oppure a chi compie un’azione proibita dal
comando. Chiaramente l’autorità, cioè l’ente che impone il comando, agisce mediante sanzioni
verso chi non ubbidisce e quindi anche qui in Pufendorf, troviamo, come in Hobbes, una
concezione volontaristica della legge, la legge rispecchia la volontà dell’autorità che emette il
comando, l’autorità può essere Dio, l’autorità può essere il Re, il Parlamento, può essere
direttamente il popolo; il pensiero di Pufendorf si avvicina molto a quello di Hobbes perché a
questo punto, partendo da questa concezione volontaristica, da questo fatto che il diritto si
identifica con la legge, tutto ciò che la legge non prevede non può essere punito e questa
ricordatevi è una forma di garantismo nei confronti del suddito perché il suddito sa
perfettamente cosa può fare e cosa non può fare: il suddito che rispetta la legge per tutto il resto
che non è contemplato dalla legge può fare tutto liberamente. E nello stato naturale, cosa
succede? Nello stato naturale, secondo Pufendorf tutte quelle azioni che non sono vietate dalla
legge possono essere fatte, che non sono vietate dalla legge ma in questo caso dalla legge di Dio,
quindi tutte quelle azioni che diciamo non contravvengono alla legge di Dio, nella società civile
invece tutte quelle azioni che non sono vietate dalle leggi civili.
Da questi ragionamenti deriva l’idea che esiste una libertà naturale e da questa libertà
naturale derivano i diritti naturali cioè i diritti soggettivi, quei diritti soggettivi che verranno
teorizzati poi nel ‘700 dagli illuministi e che daranno origine alle prime carte dei diritti, dalla
carte dei diritti americane, quelle della Virginia e di Philadelphia, alle carte dei diritti francesi. In
Pufendorf, e questo si ritroverà poi proprio nelle carte dei diritti americani e in quella francese,
quello che è il diritto contrattuale e il diritto di proprietà - che diventeranno poi diciamo le basi
del pensiero e anche della codificazione francese - sono considerati diritti naturali e quindi
derivano dalla natura e non dalla legge, quindi sono preordinati al sistema sociale, sono
preordinati alla legge civile. Tenete anche presente che quando Pufendorf parla di proprietà, dato
che la formazione di Pufendorf e di tutti questi giuristi deriva dalla tradizione romanistica,
Pufendorf intende la proprietà secondo quella che è la proprietà di definizione romanistica, di
tradizione romanistica, quindi una proprietà individuale, una proprietà piena, una proprietà
assoluta, e quindi questa libertà naturale sull’uso delle cose diviene un diritto, un diritto di
natura, uno ius.
Un altro aspetto del pensiero di Pufendorf è la suddivisione tra giurisprudenza e teologia
morale: Pufendorf espone questa sua idea in un’altra sua opera, nel “De officio hominis et civis”.
In questa opera, Pufendorf espone quella che è la sua visuale del diritto di natura: secondo
Pufendorf, il diritto di natura è conoscibile dagli uomini attraverso la ragione ed è il diritto di
natura che regola la vita terrena, mentre ciò che riguarda il diritto divino, la legge morale, questi
si conoscono attraverso la rivelazione, quindi attraverso le sacre scritture e regolano la vita degli
uomini verso un fine ultraterreno. Quindi c’è una netta separazione tra diritto e legge morale, ed
è Pufendorf uno dei tanti di quei pensatori del ‘600 e del ‘700 che aprono la via a quella che si
chiama laicizzazione del diritto. Ricordatevi, e qui riconducendoci sempre a quella che è la

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scienza giuridica medievale, che il diritto per lungo tempo era stato studiato nell’ambito della
teologia, quindi in tutta la tradizione medievale il diritto era stato abbinato anche alla morale.
Per la prima volta tra ‘600 e ‘700 questa unione tra diritto e morale viene messa in discussione.
Vediamo le teorie penalistiche di Pufendorf.
Le teorie penalistiche di Pufendorf derivano da quelle di Hobbes e si vede l’influenza di Hobbes
già nella definizione di pena, cioè di come concepisca Pufendorf la pena. La pena viene vista
come un male che viene inflitto a causa di un altro male fatto, cioè a causa di una malefatta. Da
tutta l’esposizione della dottrina penalistica di Pufendorf che si avvicina a quella si Hobbes
derivano però tutta una serie di considerazioni. Prima di tutto, la pena così come viene intesa
nel diritto civile, la pena di diritto civile, non nel campo della natura, è solo quella che viene
inflitta dal sovrano, perché è quella contemplata nella legge che è la legge che rispecchia la
volontà sovrana. La pena per di più è solo quella stabilita da una legge che deve essere stata
formulata antecedentemente al fatto, quindi qui c’è di nuovo la garanzia della irretroattività della
legge. E inoltre la pena può essere solo quella che viene stabilita dalla legge, legge che deve
essere resa nota, quindi in poche parole deve essere conoscibile da tutti, quindi deve essere
ufficiale, pubblicata, scritta, vengono messe da parte tutte quelle pene che facevano parte della
consuetudine, della tradizione. E seguendo poi il pensiero utilitaristico di Hobbes Pufendorf
pensa anche che non debbano essere puniti quei comportamenti che recano un lieve danno, dice
che non si può infierire con un numero eccessivo di pene per qualsiasi cosa. Poi secondo
Pufendorf di nuovo non possono essere puniti quegli atti che riguardano la sfera morale, la legge
civile non c’entra niente con la sfera morale. E ancora secondo Pufendorf non si possono punire
comportamenti che sono troppo diffusi, che rientrano nella consuetudine, perché? Perché se si
riprendessero questi comportamenti che sono così accettati dalla comunità si rischierebbe di
provocare dei disordini pubblici, quindi di turbare la pace pubblica; naturalmente questo modo
di pensare deriva anche dal fatto che i sovrani al tempo di Pufendorf sono sì sovrani assoluti ma
non hanno ancora il pieno potere di affermare il loro potere assoluto sul territorio, ci sono troppe
forze ancora che fanno loro concorrenza, con cui devono fare i conti. Comunque, di fatto, un atto
si può definire secondo Pufendorf criminale se c’è una legge che lo considera tale e che lo abbina
ad una sanzione. Chi è però che ha il potere di decidere quella che è la pena, la qualità e la
quantità della pena verso un’azione che è considerata un crimine? È il legislatore sovrano,
tutto è affidato all’arbitrio del legislatore sovrano, notate che il legislatore sovrano può essere il
sovrano stesso, può essere il Parlamento, può essere un’assemblea, dipende dalle situazioni
politiche dei vari stati, per la maggior parte degli Stati chi decideva era il sovrano perché siamo
in tempo di comunque stati assoluti e di sviluppo dell’assolutismo.
Ricapitoliamo un momento quelli che sono i punti chiave del pensiero di Pufendorf.
Per ciò che riguarda la legge, la legge che concepisce Pufendorf è suddivisa in legge naturale e
legge civile. La legge naturale deriva da Dio, la legge civile è imposta dal sovrano e deriva dalla
volontà del sovrano. E cos’è la legge? La legge impone una serie di doveri che si qualificano come
imperativo giuridico, cioè di doveri che devono essere rispettati, se non si rispettano c’è la
sanzione. Il pensiero di Pufendorf direi che è intriso, nell’ambito del giusnaturalismo, di
razionalismo, di utilitarismo, e di volontarismo giuridico. Cosa s’intende per razionalismo?
È la ragione che dimostra la validità e la necessità delle leggi naturali come espressione della
volontà divina ed è sempre la ragione che fa capire che è possibile far corrispondere le norme
positive alla razionalità di quelle naturali. In poche parole le leggi positive devono rispecchiare
quello che è lo spirito razionale di quelle naturali e in questo consiste il razionalismo di
Pufendorf. L’utilitarismo dove emerge in Pufendorf? Emerge nella natura dell’uomo, l’uomo è

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propenso alla socievolezza, quindi a riunirsi in comunità per la propria conservazione, quindi il
fatto di vivere in comunità è un fatto che è utile all’uomo, deriva dall’utilità dell’uomo. E poi il
volontarismo giuridico, l’abbiamo già visto tante volte. Il volontarismo giuridico considera che la
legge positiva cioè il diritto dipendono dalla volontà del sovrano, rispecchiano la volontà del
sovrano, e notate bene che in tutti questi ragionamenti, così come li aveva fatti Hobbes e così
come li fa adesso Pufendorf, quello che è legge e diritto coincidono, non è più come all’epoca dei
romani che la legge era una cosa e il diritto era un’altra, oppure anche come durante il
medioevo, la legge era una norma emanata da una autorità e il diritto era formato dalla dottrina
giuridica quindi dall’interpretazione dei dottori, dall’interpretazione dei supremi tribunali. Ora
ciò che è diritto è legge, la legge corrisponde al diritto, al diritto positivo, cioè al diritto che viene
posto dal sovrano.

THOMASIUS

Vediamo ora di esaminare un altro diciamo giurista-filosofo che fa parte sempre della scuola
giusnaturalistica che è Christian Thomasius. Thomasius è considerato colui che diciamo
prosegue la strada diciamo aperta da Pufendorf. Anche Thomasius è un docente di diritto,
sempre di area tedesca, insegna a Lipsia. È successivo a Pufendorf perché vive tra il 1655 e il
1728. Nel 1706 pubblica i Fundamenta iuris naturae et gentium, i fondamenti del diritto naturale
e delle genti. È considerato Thomasius il pioniere dell’illuminismo tedesco e vediamo quali sono i
motivi centrali del pensiero di Thomasius. Anche Thomasius prosegue l’opera di Pufendorf, fa
una netta distinzione tra diritto e morale, secondo Thomasius il diritto deve essere
oggetto della scienza giuridica e la morale deve essere oggetto della teologia morale.
Nelle opere più mature la distinzione tra diritto e morale viene argomentata in questo modo,
Thomasius dice che lo scopo dell’uomo è la ricerca della felicità (tenete presente che tutte
queste dichiarazioni tra gli scopi dell’uomo, la ricerca della felicità, il diritto alla libertà, il diritto
alla proprietà privata, sono tutti diritti che verranno poi incarnati nelle dichiarazioni dei diritti
americana e francese). L’uomo ricerca la felicità e qual è la condizione imprescindibile per la
felicità? È la pace, però di forme di pace ne esistono tante secondo Thomasius. Esiste una pace
che Thomasius definisce interna e una pace cosiddetta esterna. La pace interna è quella che noi
oggi molto più semplicemente chiameremo la pace interiore, cioè la pace dell’uomo con se stesso,
e cos’è che produce questa pace interiore nell’uomo? Sono le azioni che Thomasius definisce
buone (il dedicarsi agli altri, far bene agli altri eccetera). Poi c’è la pace esterna che è la pace
invece con i propri simili, e la pace esterna è prodotta dalle azioni che Thomasius chiama giuste.
La pace esterna di fatto è una pace che esiste in natura, esiste finché non viene turbata da
azioni cattive o ingiuste. Quindi Thomasius cataloga le azioni, azioni cattive, azioni buone, ma
esistono anche un altro gruppo di azioni, quelle che lui chiama le azioni medie ed è sulla base di
questa concezione che Thomasius elabora quella che noi potremmo chiamare la teoria delle
azioni, cioè colloca le azioni degli uomini in 3 categorie.
Quali sono le 3 categorie di azioni degli uomini secondo Thomasius?
La prima categoria è quella che chiama dell’honestum, che comprende le cosiddette azioni
buone e abbraccia puramente la sfera morale del comportamento umano. Nella categoria
dell’honestus rientrano anche regole di virtù, di saggezza per la pace interiore dell’uomo. Poi c’è
la seconda categoria, quella del decorum, e la categoria del decorum comprende le cosiddette
azioni medie, cioè quelle indifferenti sia alla pace interna che alla pace esterna, non riguardano
né la pace interna e né la pace esterna. Quali sono queste azioni del decorum? Sono le regole

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sociali del buon vivere. Le azioni che fanno parte di questa categoria procurano la benevolentia,
cioè sono azioni tipo quelle della carità, della pietà, della generosità, sono azioni che
contribuiscono al buon vivere, ma non sono né buone né cattive. E poi arriviamo alla terza
categoria che è quella logicamente che per lui è più importante, la cosiddetta categoria dello
iustum, e qui rientrano tutte quelle azioni che si contrappongono alle azioni cattive e ingiuste,
rientrano quelle azioni che servono a mantenere la pace sociale, cioè a mantenere la pace
esterna, e dunque in questa categoria dello iustum rientra il diritto. E dunque sono le
regole del iustum quelle oggetto della giurisprudenza, oggetto del diritto, e perlopiù queste regole
seguono la massima che è alla base di tutte queste regole e che è una massima molto semplice
“non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te”, e questo è il principio diciamo generale
che deve regolamentare tutte le azioni che fanno parte della categoria dello iustum. E a
differenza delle regole delle precedenti categorie, quelle dello iustum sono le uniche che sono
soggette a sanzione, che sono munite di sanzione, che prospettano una sanzione, e quindi sono
soggette ad azioni coercibili, cioè le regole dello iustum devono essere rispettate senno c’è una
sanzione.
Le 3 categorie sono poste da Thomasius su 2 gerarchie di valori, e come sono divise queste
gerarchie di valori? A seconda se si considerano in relazione all’importanza del bene che
assicurano o in relazione all’importanza del male che evitano. Allora, se le 3 categorie sono
considerate in relazione all’importanza del bene che assicurano al primo posto c’è la
categoria dell’honestum, che procura la pace interiore, poi c’è il decorum e poi lo
iustum. Se invece le 3 categorie sono disposte considerando il male che evitano, al primo
posto c’è lo iustum che evita il male maggiore, cioè la guerra per esempio, al secondo
posto il decorum che evita un male medio, e all’ultimo posto passa l’honestum che evita
il conflitto interiore.
È molto pragmatico Thomasius rispetto alla realtà, è una costruzione molto macchinosa quella
di Thomasius ma è importante sotto il profilo storico politico perché è la prima espressione del
liberalismo giuridico tedesco. Il liberalismo giuridico tedesco che è rivolto alle materie
spirituali, ha come scopo quello di identificare i limiti che lo Stato dovrebbe avere nella creazione
di discipline giuridiche. Nel disegno politico di Thomasius lo scopo di una creazione giuridica è
quello di mantenere la pace, quindi lo scopo del diritto è quello di mantenere la pace, la
pace esterna, e per mantenere la pace esterna secondo Thomasius bastano poche regole, regole
che devono riguardare i rapporti tra gli individui. Al sovrano non devono interessare per nulla i
comportamenti interni, non devono interessare le coscienze dei suoi sudditi, dunque da questo
pensiero deriva innanzitutto che le azioni morali non devono essere oggetto di un obbligo
giuridico, cioè non devono essere sanzionate dalla legge in poche parole, e il secondo
assioma che ne deriva è che sono giuste solo quelle azioni che seguono il precetto giuridico e solo
queste azioni possono essere sottoposte ad una coercizione, a un obbligo, non le azioni che
rientrano nella sfera morale o anche nella sfera del decorum. Insomma, la tripartizione che fa
Thomasius dell’honestum, del decorum, dello iustum, mira a evidenziare la piena libertà di
pensiero in campo morale e religioso perché le azioni che appartengono all’honestum
riguardano il campo religioso, le azioni che appartengono al decorum riguardano il
campo morale, i rapporti fra i vari individui ma questi non possono essere oggetto del
diritto, quindi sono sottoposte a piena libertà per quel che riguarda la scienza giuridica.
Perché Thomasius si preoccupa e vuole arrivare appunto a dichiarare la piena libertà in campo
religioso e morale? Siamo alla fine del ‘600 e agli inizi del ‘700, abbiamo passato il ‘500 e ‘600
che è stato un secolo di guerre di religione, è stato un secolo di scontri, e con la scusa della

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religione e con la scusa della morale quindi c’erano state tante guerre politiche. Allora vuole far
sì che il diritto non venga contaminato da quelli che sono gli interessi politici e religiosi e così vi
spiega tutto questo astruso meccanismo in cui appunto si viene a collocare il diritto.
E vediamo come Thomasius viene a concepire il diritto naturale e il diritto positivo, essendo
un giusnaturalista fa la distinzione tra quello che è il mondo naturale e quello civile. Nella sua
opera principale, cioè nei “Fundamenta iuris naturae et gentium” Thomasius distingue tra diritto
naturale e diritto positivo. Il diritto naturale - l’abbiamo già visto precedentemente - secondo
Thomasius si conosce attraverso la ragione, e il diritto positivo come si conosce? Il diritto
positivo è quello posto da un’autorità, quindi si consoce attraverso un atto di volontà e la
pubblicazione, quindi la legge che esprime l’atto di volontà del sovrano o dell’organo deputato a
legiferare deve essere pubblicata, deve essere conosciuta da tutti. Le regole dello iustum dunque
sono formate dalla somma del diritto naturale e del diritto positivo, e qui c’è il solito
ragionamento che fanno i giusnaturalisti che si trovano poi ad un certo punto nel pasticcio di
trovare una comunicazione tra le 2 sfere, quella naturale e quella civile, perché non possono
essere 2 sfere che camminano parallelamente, e in genere in che modo collegano questa sfera
naturale con quella civile? Attraverso la ragione nel senso che si dice che ci sono delle leggi
naturali che sovrastano quelle dello Stato e che sono comprese attraverso la ragione, le leggi
civili devono essere costruite sul modello di quelle naturali, cioè in un sistema razionale, e
quindi le leggi civili possono comprendere anche certe leggi naturali. Quello che vuole dire
Thomasius comunque è essenzialmente che il diritto positivo non deve pretendere di racchiudere
e di comprendere la religione.
E Thomasius come tutti gli altri che abbiamo visto e che vedremo si sofferma molto sulla
dottrina penalistica, perché approfondisco di tutti costoro la dottrina penalistica? Perché la
dottrina penalistica è proprio la dottrina nel campo del diritto che si sviluppa e che trova il
proprio maggior sviluppo nel ‘700 sulla scia di questi pensatori, perché è proprio nel ‘700 che si
comincia a riflettere sul significato della pena, sul diritto di punire. Perché lo Stato ha diritto
di punire? Chi è che ha il diritto di punire? E quindi cominciano a nascere attorno a questo
diritto di punire proprio le prime teorie penalistiche. Mentre prima la pena era rappresentata in
qualche norma contenuta in qualche fonte giuridica, e la prigione era considerata un luogo di
reclusione per difendere la società, adesso sulla scia anche della radicazione illuministica
incomincia a nascere il problema di qual è il fine della pena, qual è l’obiettivo della prigione,
incominciano a nascere teorie della prigione che deve anche correggere e non deve essere solo
più un luogo di reclusione, e vediamo che queste prime idee cominciano a venire fuori proprio da
questi pensatori di fine ‘600 inizio ‘700. Vediamo la definizione che Thomasius dà al concetto di
pena. La dottrina penalistica di Thomasius tra l’altro rappresenta il passaggio tra le
dottrine penalistiche dell’assolutismo del ‘600 e quelle dell’illuminismo del ‘700 dove
incomincia nell’illuminismo del ‘700 a farsi largo l’idea anche che la pena deve essere
proporzionata, la pena deve anche portare il reo ad una riflessione, incominciano a farsi avanti le
idee di emendazione, il reo deve non solo stare in prigione ed essere recluso ma anche avere
possibilità di riscattarsi. Ora, nel 1688, nell’opera di Thomasius “Institutiones iurisprudentiae
divinae” si definisce la pena, troviamo la prima definizione della pena. La pena è qualcosa che
si abbatte sugli uomini a causa dei delitti che hanno compiuto e indipendentemente
dalla loro volontà. Questa definizione vediamo che comprende sia la pena divina sia la pena
umana, ma il giurista deve occuparsi solo della pena umana, e l’uomo nel punire altri uomini
secondo Thomasius deve tener presente non solo il male passato, cioè il male che è stato fatto,
ma deve anche tenere presente il bene futuro, punire quel male quale bene futuro può portare?

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Da questa idea appunto che dal male passato bisogna cercare di tirare fuori un bene futuro
deriva una nuova definizione di pena, e la nuova definizione di pena è la seguente , la pena
consiste nell’infliggere un male o un dolore da parte di un superiore a un inferiore
contro la volontà di quest’ultimo e a causa di un delitto di quest’ultimo ha compiuto; la
pena deve essere rivolta al miglioramento comune dei cittadini, la pena quindi come
emendazione. Questa definizione della pena si riferisce alle pene umane inflitte nella società
civile, e quali sono i fini della pena allora? Il fine della pena è la sicurezza e il miglioramento, cioè
la pena deve conferire sicurezza alla società civile, però deve portare anche a un miglioramento
del reo e dei cittadini (dei cittadini perché lo vedano come esempio) per il bene futuro, cioè per
una maggior sicurezza futura, quindi vediamo che questa emendatio, che questo miglioramento,
implica anche la sicurezza futura, ed è qui che nascono le prime teorie sulla prigione che non
deve solo punire, non deve solo segregare ma la prigione deve anche educare. Nello stato di
natura la pena è la vendetta e nello stato di natura lo scopo di questa vendetta qual è? Tu mi
cavi un occhio io ti spacco tutto perché? perché così in futuro tu te ne guardi bene dal cavarmi
un altro occhio, cioè lo scopo della vendetta è che il delinquente deve avere in futuro timore della
parte lesa, e questo è ciò che succede nello stato di natura. Nello stato civile la pena è un
male invece inflitto da un superiore quindi dal re o dal magistrato per migliorare la
situazione dei cittadini, tu hai ammazzato uno e io ti devo infliggere una pena che ti
spinga la prossima volta a non ammazzare più in primo luogo, in secondo luogo la pena
che io do a te deve servire da esempio e da deterrente per gli altri cittadini perché non
compiano la stessa azione. Ora, Thomasius con tutte queste osservazioni invita i sovrani a
non comminare pene per pura vendetta e anche invita il sovrano a non comminare pene per
comportamenti di poca importanza, poco gravi, perché la pena deve essere proporzionale (qua
non siamo ancora all’idea che la pena deve essere proporzionale al delitto commesso), la pena
deve essere proporzionale all’utilità del sovrano. È la solita storia, anche con un bambino,
se uno continua a coprire di castighi un bambino per qualsiasi cosa faccia, il bambino non
ascolta poi più, i castighi devono essere mirati sulle azioni più gravi.
Nel 1706 Thomasius termina il suo sistema teorico giuridico con la pubblicazione di appunto
“Fundamenta iuris naturae et gentium”. Qui appunto con quella separazione che abbiamo visto
prima delle regole tra honestum decorum e iustum, separa le regole giuridiche da quelle
religiose morali da un lato e da quelle dell’opinione sociale dall’altro. Il decorum rispecchia le
regole dell’opinione sociale. Da tutto questo discorso, avete visto che per molti punti Thomasius
si ispira ancora a Hobbes, ma per Hobbes la volontà positiva del sovrano era l’unico criterio di
giustizia, sia giustizia politica sia giustizia etico religiosa sia giustizia sociale. Per Thomasius
invece la volontà positiva del sovrano è l’unico criterio di valutazione ma soltanto nel
campo dello iustum, cioè solo nel campo del diritto. In poche parole, il sovrano di
Thomasius ha meno poteri del sovrano di Hobbes, il campo d’azione del sovrano di Thomasius è
più ristretto, riguarda il campo dello iustum, per il resto il cittadino è libero. Per Hobbes il
diritto, in particolare il diritto penale era totalmente secolarizzato, perché? Perché il diritto
positivo assorbiva ed eliminava la morale religiosa e tutto il diritto penale di origine religioso,
quindi per Hobbes esiste solo il diritto positivo. Per Thomasius invece il diritto e in particolare il
diritto penale è secolarizzato non perché abolisce le altre regole ma perché si distingue dalle
regole di condotta religiosa, dalle regole di condotta sociale.

QUARTA LEZIONE (11/03)

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Continuiamo con la dottrina di Thomasius. Eravamo rimasti su quelle che sono le conseguenze
del pensiero di Thomasius e vediamo adesso quelle che sono le sue altre principali opere in
materia penalistica oltre alla sua opera principale “fundamenta iuris naturae et gentium”.
Thomasius già prima di scrivere i “fundamenta” aveva trattato degli specifici temi in materia
penalistica. Nel 1685 era uscito il “de crimine bigamiae” sul delitto di bigamia: Thomasius in
questa sua opera mette in evidenza che la proibizione della bigamia (che era proibita nella
società di allora e anche nella nostra) non risiedeva nel diritto di natura, ma era punita dalla
legge positiva perché turbava la pace sociale esterna. Per Thomasius, dato che divide morale e
diritto, la bigamia è una materia chiaramente condannata dalla chiesa e quindi deve giustificare
questo fatto per cui la bigamia sia anche condannata dal diritto positivo. Thomasius dice che la
bigamia non risiede nel diritto di natura, quindi non è una di quelle materie che dovrebbe
regolamentare la legge positiva rifacendosi al diritto di natura ma dato che minaccia la pace
sociale è oggetto della legge civile.
Nel 1697 Thomasius scrive un’altra opera monografica di carattere penalistico “an heresis sit
crimen”à “se l’eresia è un crimine”. Quale sarà la posizione di fronte all’eresia di Thomasius? Per
prima cosa si pone già una domanda: ma l’eresia è un crimine, un delitto, un reato penale?
Thomasius dice che l’eresia non va punita dal sovrano perché è uno sviamento dell’intelletto e
non della volontà, l’eresia è una opinione e quindi non va punita dalla legge positiva.
Nel 1701 scrive “de crimine magiae” in cui sostiene anche qui che la magia non può essere
punita perché la magia non è un oggetto concreto, manca l’oggetto della magia. La magia è un
comportamento considerato malvagio dalla morale religiosa e dalla superstizione, di
conseguenza non deve riguardare assolutamente la legge dello stato, la legge civile.
Nel 1705 pubblica il “de tortura” – “sulla tortura”. È un’opera in due grandi capitoli:
1. Nel primo capitolo Thomasius illustra l’istituto della tortura giudiziaria. La tortura era
proprio un istituto giudiziario, uno strumento per ottenere le prove ammesso dalla legge. La
tortura giudiziaria veniva applicata per cercare di estorcere al presunto reo la confessione
considerata “prova regina” durante il ‘700. Thomasius conclude il primo capitolo del suo libro
esortando a non utilizzare mai questo mezzo inquisitorio.
2. Il secondo capitolo serve a Thomasius per sostenere e giustificare la tesi secondo cui la
tortura giudiziaria deve essere abolita. Quali sono le argomentazioni che Thomasius porta in
proposito?
 La tortura è di fatto una pena, non può essere considerato uno strumento per
l’acquisizione delle prove, e di conseguenza come si fa ad applicare una pena a una
persona che è innocente? La pena in genere si infligge dopo che c’è stato il processo e
dopo che c’è stata la sentenza mentre la tortura giudiziaria è qualcosa che si applica
prima della condanna del presunto reo. Questa è una delle argomentazioni che
Thomasius pone in essere per giustificare l’abolizione della tortura.
 In secondo luogo deve essere abolita per ragioni di morale e di umanità. Più che la morale
per ragioni umanitarie: Thomasius risente già di quelle posizioni umanitarie che si
svilupperanno successivamente soprattutto con l’illuminismo che spingeranno la
penalistica verso delle direzioni meno assolute. In materia penale si dirà che se non ci
sono prove concrete nel dubbio il Reo deve essere assolto oppure se non c’è concordanza
tra i giudici deve essere inflitta al reo la pena minore, quella meno pesante (sono teorie
che rientrano ancora oggi nel campo penale). Queste concezioni umanitarie in campo
penale per cui l’uomo deve essere considerato come individuo che merita rispetto e che

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non può venir condannato prima di una sentenza di condanna incominciano a trapelare
proprio alla fine del ‘600- inizio ‘700.
 Altro motivo per cui non deve essere usata la tortura: spesso, dice Thomasius, viene
usata dal sovrano con scopi di vendetta. Siamo sempre nel campo nelle guerre per
impedire le vendette contro opinioni diverse, contro religioni diverse e cosi via.
 Va abolita la tortura perché viola la libertà di autodifesa. Colui che viene torturato non
può difendersi e quindi viene recepito da Thomasius un principio che stava nascendo in
quel periodo vale a dire “diritto alla difesa”.
 Sotto tortura anche un innocente può confessare il falso quindi può essere condannato
un innocente.
Queste posizioni che affronta Thomasius nei confronti della tortura chiaramente sono posizioni
che lo fanno rientrare tra i filosofi del secolo dei lumi. Incomincia già a recepire e crea le dottrine
umanitarie: la dottrina per cui non si può essere condannati prima di avere una sentenza
definitiva in altre parole non si possono condannare gli innocenti e cosi via.
Si può vedere che nel ‘700, dal pensiero di Thomasius e di Puffendorf, si gettano le basi per lo
sviluppo dell’età contemporanea. Incominciano a essere affrontati e accettati quegli aspetti
fondamentali che poi influenzeranno enormemente le nostre attuali concezioni ideologico -
culturali. Quali sono questi aspetti fondamentali che si sviluppano poi successivamente e che
troviamo adesso nel ‘700?
 In primo luogo che si diffonde una cultura attenta ai diritti individuali. Fino ad allora si
era ragionato per ceti, erano i ceti che contavano in altre parole gli ordini privilegiati
(clero, nobiltà, rappresentanti dei comuni cioè la borghesia) mentre adesso al centro della
riflessione giuridica e al centro della riflessione penalistica (la vera penalistica trova le
basi adesso nel ‘700 e si sviluppa durante ‘700) ci sono i diritti individuali: uno vale
perché è un individuo non perché appartiene a un determinato ceto, a una determinata
classe sociale (di classe non si può ancora parlare perché il termine “classe” è stato
forgiato da Marx quindi si parla di “ceti”).
 Nel ‘700 si sviluppa un nuovo concetto di natura che porta ad affermare che gli uomini
sono per natura uguali e liberi. Quello che troviamo scritto nella dichiarazione dei diritti
del 1789 o ancora prima nella dichiarazione dei diritti americana del 1776 la libertà e
l’uguaglianza sono diritti naturali che appartengono ai singoli individui e la libertà
implica anche la libertà di possedere: la proprietà che diventerà il centro del codice civile
napoleonico, viene intesa come un diritto naturale. Ormai entra in completa crisi quella
che è la società dei ceti.
 Si sviluppa nel ‘700 quello che si chiama il moderno “giusnaturalismo” e il
“giusrazionalismo” da cui deriverà un fenomeno che si svilupperà dalla rivoluzione
francese in poi e soprattutto dall’800 in poi che si chiama “costituzionalismo”. La prima
costituzione che si è avuta è la costituzione americana del ‘700 dove ritroveremo tutti
questi concetti.
Il razionalismo e il giusnaturalismo rappresentano le basi di quella che si chiama la
“questione penale”: si creano dibattiti intorno alla questione del crimine, del processo
penale, trattamento del reo, e si incomincia a porre la questione “perché lo stato ha il
diritto di punire?”
Le dottrine di questi filosofi che abbiamo esaminato fino adesso e anche di altri riporta alla
ribalta anche un altro grande problema di tutta la storia mondiale: il rapporto tra stato e chiesa.
Perché?
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Su questo principio di uguaglianza che si incomincia a intravedere o quantomeno propagandare,
di fronte alla realtà del tempo si vede che l’uguaglianza proprio non c’è soprattutto nei confronti
degli ecclesiastici. I privilegi della chiesa erano già stati risolti dai protestanti: in questi paesi si è
affermato il potere civile del sovrano rispetto a quello temporale della chiesa privandola di
numerosi privilegi. Inoltre nei paesi protestanti fin dal 1700 si era sviluppata la dottrina “eius
regius cuius religio”: la religione del re è la regione degli abitanti ovvero dello stato. Questo
implica il fatto che dove c’è un re cattolico i privilegi della chiesa erano più. Nei paesi cattolici la
chiesa tutela enormemente lo status quo mentre la nuova cultura scaturita dal pensiero
giusnaturalistico del ‘600-‘700 si schiera in funzione anticlericale e mira ad ampliare i diritti e le
competenze dello stato laico a scapito della chiesa. Nel ‘700 si sviluppa quel fenomeno che
prende il nome di giurisdizionalismo: teoria politica del ‘700 che si sviluppa sulla scia del
pensiero dei filosofi illuministi la quale sostiene che “nel campo temporale è lo stato che detta
legge e ha la preminenza sulla chiesa”. La chiesa si deve occupare di cose spirituali e non di cose
temporali. Comincia cosi a nascere l’immagine dello stato laico: sulla base di questa immagine le
competenze legislative dello stato aumentano, si sviluppa questo giurisdizionalismo che sono
questi tentativi dello stato di contenere i poteri e i privilegi ecclesiastici (durante il ‘700 nei paesi
di area Germanica abbiamo una grande imposizione dello stato nei confronti della chiesa. Nel
‘700 viene abolito e vengono cacciati da più stati d’Europa i gesuiti perché rappresentavano uno
degli ordini attraverso cui la chiesa esercitava il suo potere temporale. Tutta l’educazione
scolastica era in mano ai gesuiti che formavano le giovani leve e quindi gli stati li cacciano
proprio in virtù di questa politica giurisdizionalistica).
Iniziano quindi nel ‘700 i primi tentativi di autonomia dello stato e di laicizzazione della cultura.
Non a caso è dal ‘700 che deriva la cultura laica odierna: attenzione! Cultura laica non vuol dire
negare la religione bensì risolvere i problemi prescindendo dalle credenze religiose e sostenendo
la separazione tra stato e chiesaà alla chiesa il suo campo e allo stato il suo campo.
Sul piano politico si assiste in alcuni paesi al diffondersi di quello che si chiama l’assolutismo
politico: affermazione del potere assoluto del sovrano che in taluni territori è “illuminato” in altre
parole ispirato a criteri di riforme per limitare i privilegi della nobiltà e del clero. Prendiamo i
paesi di area germanica: Maria Teresa d’Austria, Giuseppe II e suo figlio furono dei grandi
riformatori. In area anglosassone si sviluppano in questo periodo moltissimi ordinamenti
parlamentari.
Tra questi due estremi si sviluppano i paesi dove non arrivano per niente le riforme e quello per
l’eccellenza è la Francia dove si sviluppa un assolutismo che non è illuminato. Infatti proprio in
Francia scoppierà la rivoluzione che manderà all’aria tutto l’assetto politico europeo.
Sul piano storico-politico cosa provoca il pensiero del giusnaturalismo/giusrazionalismo del
‘600-‘700? Sul piano giuridico si sviluppano dei fenomeni particolari:
1. Un primo fenomeno è il costituzionalismo: l’idea che i rapporti tra stati e cittadini debbano
essere regolamentati da una carta costituzionale che diviene una base di convivenza civile.
2. Il secondo fenomeno è che si passa da ordinamenti di diritto comune in cui la tradizione
romanistica ha dominato fino ad allora a ordinamenti di diritto codificato. Si pongono le basi
della codificazione che si realizzerà integralmente nel 1804 con il codice civile napoleonico.
3. Si sviluppa nel ‘700 il giuspositivismo: l’idea che il diritto coincide con la legge posta dallo
stato che può essere il re, il parlamento, un’assemblea costituzionale. Questo provoca
l’aumento del fenomeno legislativo da parte dello stato e lo stato incomincerà a ordinare
consolidazioni: raccolta scritta e riordino scritto di tutte le leggi in vigore. Dalla
consolidazione si passerà poi alla codificazione: riordino totale e nuovo del diritto e delle

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raccolte che diventeranno per quella materia le uniche fonti del diritto. Fino a quando ci
sono le consolidazioni continua a restare in vigore il diritto comune: tutte le fonti del diritto
quindi il corpus iuris civilis, il diritto feudale, il diritto statutario, le consuetudini che si sono
consolidate in raccolte scritte continueranno a restare in vigore. Con l’entrata in vigore della
codificazione invece tutte queste raccolte non saranno più valide: la materia civile sarà
regolata esclusivamente dal codice civile, quella penale da codice penale e cosi via.

Passiamo adesso a esaminare altri importanti pensatori del ‘700: Leibniz e Wolf.

LEIBNIZ

Leibniz di fatto è conosciuto anche molto spesso perché è un celebre matematico. Oltre a un
celebre matematico è anche un filosofo del diritto. Vediamo la concezione della giurisprudenza
in Leibniz. Secondo Leibniz la giurisprudenza deve essere una scelta esatta: da buon
matematico cerca di elaborare un sistema di scienza esatta. La giurisprudenza si svolge secondo
Leibniz secondo procedimenti sistematici/logici che si possono dimostrare e secondo metodi
matematici. Questa è la concezione che egli espone nel 1667 nella sua opera “il nuovo metodo di
imparare e insegnare il diritto”. Secondo Leibniz il sistema del diritto è un sistema che deve
essere unitario, razionale e completo. Sono molto importanti queste tre caratteristiche del
pensiero giuridico di Leibniz perché sono quelli che introdurranno alla codificazione. La
codificazione non è altro che unitarietà, razionalità del diritto, deve essere una raccolta
esaustiva per la materia che tratta.
Secondo Leibniz questo sistema unitario, razionale e completo del diritto si costruisce partendo
da dei semplici principi definiti da lui incontrovertibili (assoluti, chiari) che chiama “assiomi”.
Secondo Leibniz questi assiomi sono in grado di generare nuovi principi più specifici in grado di
ricoprire ogni questione particolare. Questo è quello che si definisce il “modo geometrico” del
diritto: a prima vista può sembrare che Leibniz sia solo un matematico che fa le sue
lucubrazioni ma non è vero perché questi principi sono quelli su cui si baserà poi il sistema
codificato. L’idea di principi generali da cui si possono dedurre dei principi particolari e più
specifici è la base del codice civile austriaco del 1811, secondo modello di codificazione accanto
al modello napoleonico. Secondo Leibniz la giurisprudenza deve essere universale, in altre
parole deve abbracciare tutti i comportamenti umani: sia quelli interiori, sia quelli religioni sia
quelli sociali e questo lo dice in polemica con Thomasiusàper Leibniz se un’azione è giusta lo è
sotto il profilo morale, religioso e giuridico. Leibniz tende a non fare nessuna differenza tra
diritto e morale: diritto e morale sono uniti. Questo razionalismo di Leibniz si contrappone in
fondo a quello che era il “volontarismo” di Thomasius perché Leibniz fa rientrare nella
giurisprudenza anche la sfera morale. Infatti, concependo la giurisprudenza come universale
scienza di ragione, è chiaro che non si sottrae ad essa la sfera morale delle azioni umane, cosi
come - dice Leibniz – al dominio della ragione non si sottrae il sapere teologico. È chiaro che chi
faceva la suddivisione come Thomasius tra sfera della ragione e sfera del diritto poneva la
religione sotto la sfera teologica: era la teologia che si preoccupava della religione.
Nel 1667 esce la sua opera “il nuovo metodo di imparare e insegnare il diritto” in cui elabora la
propria concezione del diritto. Leibniz è un giusnaturalista quindi deve cercare di mettere in
comunicazione il mondo della natura, lo stato di natura con lo stato civile: i principi del diritto
sono da ricercare nella volontà divina perché Dio stesso è vincolato dalle regole della natura
come da quelle della giustizia. Dio ha strutturato le regole della natura e le regole della giustizia

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in modo tale da renderle leggibili e comprensibili agli uomini attraverso la ragione, attraverso
regole basate sulla matematica e sulla geometria. Questo pensiero va sotto il nome “di geometria
giuridica” che caratterizza il pensiero di Leibniz.
Leibniz è un conservatore, non distingue tra morale e religione, è contro ogni laicizzazione della
giurisprudenza (al contrario di quelli che erano stati appunto Hobbes, Puffendorf, Thomasius
ecc..) e vediamo che non ha quelle istanze liberiste che avevano caratterizzato la dottrina di
Puffendorf e soprattutto di Thomasius. Come mai da contro personaggi come Puffendorf e
Thomasius? Perché secondo lui il diritto deve essere composto in una unità coerente e razionale,
non in un complesso di regole astratte. Naturalmente Leibniz quando fa tutti questi
ragionamenti ha davanti agli occhi tutto il diritto positivo vigente in Germania di allora e il
diritto romano comune. Leibniz di fatto non vuole rinnovare il diritto, vuole ordinarlo, vuole
riordinare il diritto positivo e non cambiarlo anche se lancia delle idee che cambieranno il diritto
eccome. Leibniz è un conservatore riguardo alla politica del diritto però è un innovatore nei
metodi di pianificazione razionale e di riordinamento formale del diritto. Leibniz non è un
progressista dal punto di vista del contenuto della sostanza del diritto, è un progressista dal
punto di vista della disposizione del diritto. Qual è la sua grande intuizione? Anticipa l’idea della
completezza dell’ordinamento giuridico, idea che si affermerà con la codificazione.
Il metodo per ottenere il riordino del diritto è un metodo che rispecchia quella che si chiama la
“struttura grammaticale della norma”: secondo Leibniz il compito del legislatore è quello di
individuare tra tutte le norme vigenti quelle che rappresentano la rigorosa enunciazione di una
verità. Cos’è questa verità? La verità è dedotta da una preesistente regola già enunciata come
vera e in cosa si identifica questa regola preesistente già enunciata come vera? In quella che
avevamo chiamato “l’assioma”.
In questa enunciazione di verità (che poi sarebbe la regola positiva), la norma deve essere
formulata come una proposizione grammaticale: in altre parole deve presentarsi come unione di
un predicato a un soggetto attraverso una copula. Il predicato rappresenta il diritto o il dovere, il
soggetto è il soggetto giuridico e la copula è l’elemento che unisce il diritto/dovere al soggetto
giuridico.
Questa struttura grammaticale della norma rende possibile la costruzione di un sistema
logicamente ordinato e matematicamente organizzato dei dati vigenti. Leibniz non vuole
inventare delle nuove norme bensì dice che bisogna disporre queste norme in un ordine
coerente, razionale, logico, ordinato matematicamente. In tale sistema si fissano le
“proposizioni-verità” di partenza: si fissano i principi generali dai quali deriveranno le norme
particolari attraverso deduzioni logiche.
Il compito del giurista consiste proprio nel definire le proposizioni di partenza e di indicare le
singole eccezioni. Leibniz propone allora di redigere un insieme di leggi dello stato, un codice
molto breve e chiaro del diritto romano germanico (per diritto romano germanico si intende il
diritto di tradizione romanistica, il “corpus iuris civilis” unito a quelle che erano le tradizioni, la
legislazione germanica del tempo ovvero quello che noi chiamiamo oggi il “diritto patrio”à la
rielaborazione che viene fatta del diritto locale).
Uno dei punti principali della dottrina di Leibniz è la polemica che sviluppa nei confronti di
Thomasius e di Puffendorf e sulla separazione tra diritto e teologia. Quali sono le
argomentazioni che adduce Leibniz? Per Leibniz la giustizia (che Thomasius aveva messo un po’
in disparte) non è una virtù negativa ma positiva perché consiste nel fare il bene, e quindi la
giustizia consiste anche nella carità intesa come propensione a godere della felicità altrui.
La sapienza, a sua volta, è intesa come idoneità a conoscere le vere cause della felicità.

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Qual è la conseguenza di tutti questi assiomi? Soltanto il sapiente può conoscere cosa serve
alla perfezione dell’uomo e quindi alla sua felicità. Dunque per Leibniz ci sono tre buone ragioni
per praticare la giustizia:
1. La prima ragione è rappresentata dalla utilità che è il livello più basso della giustizia.
L’utilità è caratterizzata da quella che egli definisce la “prudenza”.
2. La seconda ragione che è di un livello medio (si rifà alla suddivisione di Thomasius) è per il
“piacere di fare il bene”. La giustizia si pratica per il piacere di fare il bene. Questa è la
giustizia in senso proprio.
3. Il terzo livello, che è il livello più alto, il livello superiore è la giustizia praticata per amore di
Dio.
Ora i tre gradi delle azioni umane che Puffendorf e Thomasius istituivano tra diritto, morale e
religione sono semplicemente -secondo Leibniz - tre gradi della giustizia quindi sono tre gradi
del medesimo elemento (la giustizia). Quali sono le conseguenze di tutto questo ragionamento?
La giustizia è una sola e la giurisprudenza ha per oggetto la giustizia nel suo complesso.
Il primo livello della giustizia è incarnato, realizzato nello “ius strictum” in altre parole nella
norma giuridica che ha come precetto di non fare male a nessuno, come fine la tranquillità e
realizza quella che Leibniz chiama la “giustizia contrattuale o commutativa”: dare l’uguale per
l’uguale.

SCHEMA: PRIMO LIVELLO DELLA GIUSTIZIA


Ius strictum: precettoà non fare male a nessuno GIUSTIZIA COMMUTATIVA
fineàla tranquillità dare l’uguale per l’uguale
si realizza nello stato di natura

Il secondo livello della giustizia è il cosiddetto “diritto equitativo” o “equità” o anche “ius
societatis”. Il precetto che guida questo secondo livello è quello di dare a ciascuno il suo, il fine è
la comodità. Il secondo livello realizza quella che si chiama “giustizia distributiva”: dare l’uguale
all’ugualeàdare secondo il merito, il bisogno o il rango.

SCHEMA: SECONDO LIVELLO DELLA GIUSTIZIA


diritto equitativo o equità: precettoà dare a ciascuno il suo GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA
fineà comodità dare l’uguale
all’uguale
si realizza nello stato sociale

Il terzo livello è il diritto dell’amore di Dio in altre parole quello che si chiama lo “ius pietatis”. Ha
come precetto quello di vivere onestamente e pienamente e come fine la salvezza. Il terzo livello
realizza quella che si chiama la “giustizia universale”.

SCHEMA: TERZO LIVELLO DELLA GIUSTIZIA


diritto equitativo o equità: precettoà vivere onestamente GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA
fineà la salvezza
si realizza in società con Dio

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Questa suddivisione riprende quella del Thomasius ma a differenza di quest’ultimo riunisce
tutto sotto l’obiettivo della giustizia.
Lo strictum ius, il primo livello, si realizza nello stato di natura. Tutti gli uomini nello stato di
natura sono uguali e i loro rapporti sono regolati dall’eguaglianza del termine di scambio:
contratti, vendetta ecc.. e questa uguaglianza assicura la tranquillità.
Il diritto equitativo, il secondo livello, si realizza quando si passa allo stato sociale. Nello stato
sociale gli uomini rinunciano all’uguaglianza che dominava nello stato di natura e i rapporti
sono regolati dall’eguaglianza per eguali situazioni sociali, secondo il principio che a ciascuno è
attribuito ciò che spetta al suo stato sociale.
Il terzo livello, diritto dell’amore di Dio, si realizza nel momento in cui gli uomini entrano nella
società con Dio. In società con Dio i rapporti sono regolati da quello che Leibniz chiama il “pio
vivere” (vivere in modo pio, vivere piamente) e soprattutto dalla obbedienza alla legge di Dio.
L’entrata in società con Dio avviene più facilmente quando la stessa società è ordinata in modo
armonico con la società divina. In poche parole Leibniz capovolge quella ideologia giuridica che
aveva dominato fino ad allora per cui il diritto naturale era gerarchicamente superiore al diritto
positivo o volontario.
Perché Leibniz fa tutto questo ragionamento cosi contorto? Il suo obiettivo (e ci riesce con questo
sistema) è quello di dare al diritto consuetudinario germanico maggiore importanza nel sistema
del diritto. In poche parole vuole imporre in cima alla piramide delle fonti del diritto il diritto
consuetudinario germanico, il diritto locale quello che noi chiamiamo “diritto patrio” (la
tradizione romanistica rielaborato dalle consuetudini locali e anche dalla legislazione regia).
Il secondo aspetto notevole della dottrina di Leibniz è che egli vuole razionalizzare il diritto
secondo un metodo preciso: quello della formulazione di proposizioni chiare e vuole riordinare il
diritto vigente attraverso principi generali. Leibniz non vuole dare più tante norme specifiche,
vuole individuare dei principi generali da cui si deducono le norme specifiche. Questa è
l’impostazione del codice Austriaco del 1811 a differenza di quello Napoleonico (molto lungo) che
cercava di ricoprire con le proprie norme tutte le fattispecie che si potevano presentare nella
realtà.

WOLF

Vediamo adesso il continuatore della dottrina di Leibniz: Cristian Wolf. Egli vive tra il 1670 e il
1754, è un matematico, un filosofo e un giurista. La sua scuola che si chiamerà “scuola
Wolfiana” diventa molto celebre perché divulga gli aspetti sistematici e metodologici del pensiero
di Leibniz. Wolf accetta come la maggior parte dei giusnaturalisti la teoria contrattualistica dello
stato: lo stato civile nasce in seguito a un contratto e questo contratto tra sovrano e popolazione
può essere di varia natura.
Wolf insiste sul fatto che il diritto di natura deve ancorarsi anch’esso al metodo scientifico.
Questa è la peculiarità molto importante di Wolf: pone al centro del mondo giuridico non più i
ceti ma l’individuo-soggetto di diritti naturali innati. L’individuo diventa il fulcro del sistema di
norme-proposizioni che Wolf viene a delineare (sistema che deriva dalla dottrina di Leibniz).
Quali sono gli aspetti notevoli della dottrina di Wolf? Segue la dottrina di Leibniz ma individua
come destinatario delle norme (che impongono doveri o istituiscono diritti) un tipo unico e
indeterminato di soggetto giuridico. Questo cosa implica? Se il soggetto giuridico è uno solo
(concetto basilare della codificazione: il codice sarà indirizzato a un unico soggetto giuridico, non

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ai ceti, non a soggetti giuridici privilegiati, determinati ma a uno solo) questo implica
l’uguaglianza giuridica. L’individuo diventa il principio ordinatore del sistema giuridico.
Quali sono i legami con Leibniz? Wolf ha lo stesso atteggiamento ideologico e politico: accetta
l’organizzazione politica dei principati tedeschi perché sono razionali. Non fa guerra al sistema
legislativo di allora bensì lo appoggia.
Wolf rifiuta la distinzione tra morale, religione e diritto. Si può dire che Wolf ha lo stesso
atteggiamento metodologico di Leibniz: accetta il diritto vigente ma cerca di razionalizzarlo e di
predisporlo all’interno di schemi logico/deduttivi. Al centro del sistema giuridico di Wolf c’è
l’uomo naturale che non è altro che il soggetto logico/grammaticale di Leibniz. In definitiva al
centro c’è l’uomo naturale e un insieme di obbligazioni naturali: le obbligazioni sono i diritti e i
doveri. Quali sono alcune di queste obbligazioni naturali che Wolf individua? Il rispetto della
vita, l’obbedienza all’autorità, il procurare del bene… queste sono tutte obbligazioni (diritti e
doveri) connaturati con l’essenza dell’uomoàsono obbligazioni naturali.
Che rapporto c’è tra i diritti naturali e obbligazioni naturali? I diritti naturali sono definiti come
“elementi necessari per adempiere agli obblighi naturali”. Wolf vede il soggetto giuridico, l’uomo,
detentore solo di quei diritti naturali che sono necessari per adempiere le obbligazioni naturali.
Da questa distinzione tra diritti naturali e obbligazioni naturali ne deriva una correlazione tra
diritto e dovere. Inoltre la presenza di diritti impone anche una posizione di eguaglianza tra i
soggetti dei diritti: in poche parole l’uomo naturale ha degli obblighi naturali che adempie
attraverso i diritti naturali (diritti naturali innati): In primo luogo le obbligazioni naturali sono
uguali per tutti. Di conseguenza anche i diritti sono uguali per tutti: ciò che è lecito a uno è
lecito a tutti, tutti devono fare o non fare le stesse cose. Tutti hanno gli stessi diritti àquesto fa
pensare che non ci sono limiti ai diritti? No! L’estensione dei diritti trova un limite nell’eguale
diritto altrui. Il mio diritto naturale è uguale al diritto naturale di un altro individuo e io devo
rispettarlo. Tutto il sistema di Wolf è retto da leggi di uguaglianza e di reciprocità: “se io ho un
diritto ce l’hai anche tu, se io non devo fare una cosa non la devi fare neppure tu ecc.. --> il mio
diritto trova limite nel rispetto del tuo diritto”. Questo sistema retto da leggi di uguaglianza e di
reciprocità da origine a ogni diritto di libertà e di sicurezza. Il diritto di libertà è la “facoltà di
fare” mentre la sicurezza è il “divieto per tutti di turbarla”. Tutti questi sistemi di uguaglianza, di
reciprocità, di diritti di libertà e di sicurezza permettono, nella società naturale, la felicità
dell’uomo.
Orbene, questa è la società naturale ma la società civile come nasce? Deriva da un contratto. Lo
stato, per Wolf, non è altro che una società perfezionata per soddisfare le esigenze della vita
fisica, spirituale, attraverso la organizzazione del potere. Qual è il fine, lo scopo del potere?
Assicurare il bene comune e la sicurezza comune. L’individuo da solo, nella società di natura,
non può procurarsi quanto necessita per il proprio benessere. Il benessere dell’individuo nello
stato sociale, nella società statale (sono tutti sinonimi) è garantito dal diritto positivo:
prolungamento e riflesso del diritto naturale che si incarna in nuove leggiàle leggi positive.
Dal pensiero di Wolf, che si rifà alla scuola di Leibniz, deriverà la scuola Wolfiana. La scuola
Wolfiana è molto importante per quella che sarà la codificazione e avrà molta importanza sulla
struttura del codice. Quali sono i risultati finali, le parti importanti di questa scuola che
approfondirà il pensiero di Wolf?
1. In primo luogo l’enucleazione (nascita, creazione) di una parte generale del diritto,
destinata a contenere le categorie, le definizioni e i principi teorico/generali fondamentali
dai quali far derivare tutta la normativa specifica da applicarsi alle fattispecie concrete.

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Questa parte generale del diritto per Leibniz derivava dagli assiomi, dai principi generali..
per Wolf derivava dai diritti naturali, dalle obbligazioni naturali che poi venivano
trasportate nella società statale.
2. La seconda conseguenza del pensiero della scuola Wolfiana: il centro del diritto diventa il
soggetto giuridico, un unico soggetto giuridico. L’unicità del soggetto giuridico è una
tipica caratteristica della codificazione. Proprio sul soggetto giuridico come centro del
diritto poggia la parte generale del diritto, i principi generali. Mettere il soggetto giuridico
unico al centro del sistema porta in primo piano il diritto privato rispetto al diritto
pubblico.
La codificazione nasce come rapporti tra privati. Mentre fino ad allora in qualsiasi
raccolta legislativa veniva in primo piano il diritto pubblico adesso incomincia a prendere
maggiore consistenza e importanza il diritto privato che a sua volta verrà consolidato
nella codificazione.
3. Un terzo risultato della scuola Wolfiana è quello per cui conferendo alla parte generale
un’impostazione soggettivistica (individuo al centro) vengono in parte superate le
classificazioni romanistiche di “personae/res/actiones” su cui si era basato il diritto fino
ad allora.
Le forme di ordine sistematico inventate per costruire questa parte generale del diritto,
ossia del diritto privato, sono ottenute attraverso la rielaborazione, la riformulazione degli
schemi dispositivi giustinianei, quindi dal corpus iuris civilis. Il diritto privato (categorie,
schemi e definizioni) è ripreso tutto dal diritto romano.
4. La sistematica di Wolf porta a un’altra caratteristica che si realizzerà con la codificazione:
la separazione tra diritto sostanziale e diritto processuale. Prima della codificazione, in
tutte le raccolte legislative, il diritto processuale e il diritto sostanziale erano mescolati.
Solo con la codificazione avverrà la netta separazione tra diritto sostanziale e diritto
processuale. Si creerà questo sulla scia della impostazione data dalla scuola Wolfiana.

QUINTA LEZIONE (12/03)

LEZIONE IN FRANCESE, DEL PROFESSOR CHENE

Il professor Chene, ordinario di storia del diritto all’Università di Paris Descartes parla della
figura del re dalla’ancien regime all’assolutismo. Le istituzioni meno moderne sono delle
istituzioni che sono organizzate intorno a un punto centrale, e tutto si organizza attorno a una
persona centrale che si chiama re e intorno a una parola che ha una risonanza particolare,
l’ordine. Si scopre che il termine re ha un valore evocativo,evocatore forte, più forte che sua
dimensione istituzionale e nella monarchia francese questo termine ha un valore più forte che
nelle altre monarchie. Il re è “magico”, è una dimensione un po’ irrazionale, lo si sa bene a
livello intuivo. Dunque se si parla del re i giuristi ne fanno un’istituzione, un diritto, ma è molto
più di questo, è un’altra cosa. Noi andiamo a richiamare la mistica di questo termine,la mistica
reale, l’insieme delle credenze, delle idee, dei valori che vengono evocati dalla parola re.
Dietro le diverse evocazioni cosa c’è? Cosa è irrazionale, cosa è politicamente possibile? La prima
cosa, la principale, se noi vogliamo parlare del re noi dobbiamo parlare d’amore, il primo
sentimento è l’amore per il re, quando amiamo proviamo del trasporto, della riconoscenza
ispirata dal ben fare (azioni positive) del re , la riconoscenza per quello che riceviamo dal re. Il re

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distribuisce le sue buone azioni e si prova per lui un trasporto, una tenerezza che gli
attribuiscono una divinità che ci tocca attraverso la sua misericordia.
La misericordia che è l’amore che porta verso il più debole. È fortemente connotata da amore,
affettività, riconoscenza, misericordia. Nel 1789 al momento della rivoluzione viene redatto le
cahier de doleance, un manifesto contro la monarchia. È sempre lo stesso discorso : si rivolge al
re e attende dal re la soluzione dei problemi. È una costante di tutto l’ancien regime. In materia
di storia delle istituzioni, in materia di storia del diritto qual è la prima forma di autorità? La
prima autorità che accettiamo è il padre, ed il re è un padre. Il padre è il pater familias, un
genitore, è colui che ci ha generato; il re è il padre-genitore ed è necessario rimarcare che un re
che non ha figli non è un buon re: il re deve avere dei figli ed essere un vero genitore (succede
ancora nelle famiglie attualmente regnanti). Il padre è forte, è la prima immagine dell’autorità, e
naturalmente il re è l’immagine dell’eroe per eccellenza, è erculeo, non conosce la fatica, è l’uomo
dei superpoteri, insuperabile. Come si rappresenta il re? E’ spesso abbigliato all’antica, un eroe
dell’antichità con la tunica e le armi dell’antichità; un re abbigliato come ercole e capace di fare
altrettanto. Come fare di meglio nella sua rappresentazione: bisogna cercare qualcosa di più
forte di più brillante, il sole. Il re è il sole, è quel che c’è di più favorevole, di più bello in
circolazione. Il re di Francia è quindi il sole di cui ha tutte le connotazioni : attraversa il cielo sul
suo carro, ha tutte le connotazioni che per la cultura antica rappresentano quel che c’è di più
forte.
Ancora più forte è il re che guarisce e dall’antichità è anche arrivata la credenza che il re abbia
dei poteri di guaritore, dei poteri taumaturgici. Questo raduna schiere di malati nei pressi del
palazzo reale ed ancora nel 18° secolo c’è una coorte di malati che viene a farsi toccare dal re che
ha poteri soprannaturali. Il personaggio del re è costruito su mattoni irrazionali, si fonda sulla
propaganda, si basa sulla rappresentazione e su una rappresentazione molto forte. Ha anche dei
connotati molto positivi e ne abbiamo un esempio in Enrico IV del 15° secolo, nel corso delle
guerre di religione che videro i protestanti contrapporsi ai cattolici. Enrico IV era un re duro, che
faceva le guerre alla testa della sua armata, un inimmaginabile seduttore ma è anche un padre
di famiglia attento . Enrico IV è il re che vuole che la gente sia contenta, è il re che vuole che
tutte le domeniche in ogni famiglia venga fatto bollire un pollo per avere una vita confortevole.
Enrico IV, questo re guerriero , è riuscito a far passare quest’ immagine di sé; la propaganda ha
cominciato ad illustrare, a presentare. Con quest’idea, la propaganda va ad incontrare un’antica
concezione, l’idea del re come dio vivente , il potere del re è giustificato dalla volontà divina.
Questa concezione, si traduce, si esprime attraverso dei gesti perché la popolazione, per lo più
analfabeta, possa comprendere. E il gesto è il sacro, e il sacro è qualcosa di eccezionale che ha
radici molto lontane, nel popolo di Israele, Samuele viene svegliato di notte da Dio che gli indica
che doveva consacrare il re di Israele, e Saul diventerà il primo re di Israele . Dio utilizza l’umile,
che ha tradizionalmente fra gli antichi un potere purificatore, per segnare la sua scelta con un
segno divino e per portare a compimento la sua missione. Questo tratto si trova dai Visigoti in
poi, nella monarchia spagnola ed in molte monarchie europee ed arriva miracolosamente anche
alla monarchia francese. E’ il momento della cerimonia che segna la presa di potere, indica che
il re è legittimato dalla volontà di Dio e sono i gesti degli ecclesiastici che esprimono e
garantiscono la volontà divina. Dio l’ha voluto ma il popolo partecipa alla designazione del re e in
questo momento il popolo dimostra che è d’accordo con la scelta di Dio. Nello spirito del 16°
secolo l’investitura è una sorta di rappresentazione di questa doppia volontà e il re si impegna a
rispettare la scelta e la religione della comunità, fa l’unità del suo popolo. Il re si impegna ad
essere il protettore di questa comunità e a garantire le tradizioni, le culture di questa comunità,

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del suo popolo. Si impegna ed è garante. Qui emerge il pericolo dell’irrazionale: se non rispetta
questo impegno, non rispetta le tradizioni e la religione della sua comunità, il re perderà la sua
legittimità e diventerà senza appello un tiranno. Queste responsabilità sul versante irrazionale
portano poi a denunciare il tiranno, portano a teorizzare il tirannicidio.
Il re strinse alleanza con il capo del partito protestante. In questo contesto vengono esaltate le
opinioni che non credono più alla legittimità del re. La figura di un re, Enrico IV amato, adorato,
un re di guerra e d’amore è “eliminata” da un re disarmato che stringe alleanza con i Paesi
Bassi, con gli stati protestanti del Nord dell’Europa contro la Spagna, la grande potenza. La
religione è il primo movente di questo comportamento esecutivo; a partire da questo momento
scatta una sorta di reazione, di rovesciamento, le vecchie idee restano ma sono formulate in
modo più rigido: non si può ammettere che il popolo partecipi in qualche modo alle scelte del re,
è inammissibile, è molto pericoloso. Nella teoria politica del 17° secolo il re è divinizzato, il re ha
l’autorità, porta sulla propria fronte un carattere divino e chi dice questo, sono i vescovi, è la
Chiesa, la chiesa stessa che lo dice e lo teorizza. Il re attinge il suo potere direttamente da Dio,
senza intermediari. Si continua a praticare il sacro ma il sacro non fa più il re, si accontenta di
constatare quello che lui dichiara; il sacro non fa che alimentare la credenza che esiste un potere
divino attribuito direttamente.
Non si resiste al re come non si resiste a Dio.
Tutto sarà sanzionato con estrema severità, atrocemente; un malcapitato che si è gettato sul re è
stato ucciso in condizioni abominevoli, con supplizi . Il re ha ricevuto il suo trono da Dio stesso,
e ribellarsi contro la sua autorità era come ribellarsi a Dio. Nessuno aveva il diritto di
partecipare a questa autorità legittimata da Dio, poiché era stata conferita dalla provvidenza
divina. Tutta la resistenza al re è criminale. Quest’idea che fa del re una specie di divinità fra gli
altri soggetti per la Chiesa è quello che è più conforme all’interesse generale, al bene comune.
Questo tipo di monarchia, una sorta di adattamento alle situazioni politiche, è la monarchia
assoluta che scatenerà la Rivoluzione. C’è un regime che con forza mira al bene comune,
all’interesse generale. La teoria politica, la dottrina, le idee politiche servono da fondamento al
diritto.
L’espressione giuridica di queste idee che si trova in tutte le monarchie è che il re è il sovrano.
Il concetto giuridico è quello della sovranità: è espressione di un potere che non ha superiori.
Questo è un concetto, una nozione che abbiamo ereditato dal diritto romano; è l’espressione che
deriva dal potere dell’imperatore romano. E’ un’ espressione che i giuristi hanno conservato per
designare l’espressione più alta del potere. La prima caratteristica è che si tratta di un potere
che non ha dei superiori. Luigi XIV offre l’immagine stessa, completa di un sovrano che incarna
pienamente l’idea del monarca assoluto, è colui che non è inferiore a nessuno degli altri regimi
della terra. Questo per esprimere un concetto di sovranità che non conosce dei poteri che non
sono consentiti. Un potere superiore e perpetuo, il potere non è della persona ma appartiene a
un’istituzione, che è perpetua; il re incarna una funzione che è dotata sovranità. Quando la
persona non c’è più ce ne sarà un’altra ad incarnare la funzione. Un potere perpetuo è un potere
che dura perché non è attaccato a delle nozioni astratte. Nella teoria dell’assolutismo è un potere
che non si ripartisce. La monarchia dell’ancien regime è una monarchia senza separazione dei
poteri, il monarca detiene tutti i poteri e questi poteri non si ripartiscono. Questa concezione
della sovranità è come il concetto geometrico del punto, che è indivisibile.
Questa concezione di un potere che non si ripartisce, della sovranità non si divide va a
modificare un certo numero di abitudini che erano tradizioni nella monarchia francese.
Dimostra che i magistrati, i giudici di questo parlamento trarranno dal loro potere una capacità

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di resistere al re. Essi delibereranno delle rimostranze allora il re ricomincia, insiste e finalmente
riesce a far passare la sua volontà. E’ un breve momento in cui il re combatte con i suoi
magistrati per provare di imporre un testo che loro non accettano. Questa formalità è una
conquista importante fra il 17°e il 18° secolo.
Altro potere forte è quello dei “pubblici ufficiali”, di coloro i quali erogano un servizio, sono dei
servitori, durante l’ancien regime sono tutti coloro che servono il re, che spesso svolgono la loro
attività nel campo della giustizia, della finanza. Molti di loro, i ministri, i servitori della
monarchia, sono nominati dal re. Il re non sceglieva la persona ma se la trovava per effetto del
sistema esistente. Il sistema messo in atto 16° secolo era un sistema di patrimonialità del
servizio. Se si desiderava diventare giudice, servire il re, servire lo Stato occorreva comprare la
funzione e quando la si voleva cessare la si rivendeva al vostro successore. Il figlio se voleva
poteva ereditare la funzione del padre. Il servizio del re obbediva a questo sistema.
Altra attribuzione fatta dal re attraverso questi “pubblici ufficiali” è arbitrare la pace e la guerra,
il grande affare del re. La specialità del re è la guerra. Gli autori ci spiegano che fare la guerra è
conseguenza di un potere di giustizia, il re che fa la guerra non perpetua mai un’aggressione,
usa la violenza perché è giusto che lo faccia per fare rispettare una giusta decisione. Questa
associazione fra il potere di giustizia ed il potere di muovere guerra serve a giustificare l’uso della
violenza: il re ha quindi il potere di rendere giustizia, è un re giustiziere. Non è un aggressore,
non è un difensore è il difensore delle cose giuste. Il re ha dunque il potere di rendere giustizia.
Nel medio evo il re è colui che rende giustizia e che ha il potere di farlo. C’è una sorta di antica
associazione fra chi rende giustizia e chi comanda. Quest’idea, a partire dal 16° e soprattutto 17°
secolo, è un’ idea del passato: lo stato è quello che fa la legge e che deve amministrare la
giustizia, e che è l’idea più moderna. Questo potere di muovere la guerra ha delle conseguenze
molto moderne. Nessuno qui ha il diritto di portare un arma, nessun cittadino può essere
armato se non ha un permesso. Sono finite le armate private, finito il potere dei signori della
guerra. Nel 16° secolo si combatte in nome del re, dello stato . Il contrario della violenza è
l’armata ed è monopolio dello stato. Il re rende l’ultima giustizia, il più elevato livello giudiziario è
il re. L’attribuzione di questo potere di giustizia rimane ancorata nei testi degli antichi. Si dice
che la giustizia decolla dall’idea che il re è fondamento della giustizia. Ogni magistrato, ogni
giudice prende quando prende una decisione, non la prende autonomamente ma la prende in
nome del re che è quello che dà forma legittima al potere del giudice. Le eccezioni sono rarissime
e la giustizia è un affare del re. Il re che non vuole delegare, se vuole trattenere la giustizia, lui
può farlo si dirà che c’è una giustizia delegata che è la corte ordinaria, e ogni volta che il re lo
desidera creerà una giurisdizione particolare che giudicherà di ciò che è possibile. Al contrario,
nell’ancien regime non ci sono giurisdizioni eccezionali, ci sono semplicemente una delegazioni e
non ci sono differenze quando dei giudici speciali sono designati per degli affari sensibili. Qual è
il potere che permette di dare valore alla moneta? Questo potere permette al re di fissare il valore
della moneta, che è una prerogativa sensibile. Ad esempio, nella monarchia dell’ancien regime è
il re che definisce il valore della moneta, il re fissa dunque il valore della moneta; per rendere
l’idea all’inizio del 17° secolo la moneta pesa 4,5 grammi di argento. Tutta la vita economica è
subordinata all’organizzazione monetaria ed il re, fissando il valore della moneta, è responsabile
delle risorse del reame e della sua prosperità. Soprattutto a partire dal 17° secolo che questo
insieme di attribuzioni economiche è il mercantilismo. Nel 17° secolo c’è una sorta di presa di
coscienza economica da cui nasce l’idea che il re è responsabile della prosperità del suo reame,
cerca le risorse per il suo regno. Se il re può tutto, può decidere le regole , il re è responsabile

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della prosperità del reame, la conseguenza è che il re può decidere di tutto e quindi decide anche
dell’amore.
Il re può decidere a 360°.
I teorici più esaltati sul ruolo del re diventano confusi e questo non è bene per il re perché ci
sono delle tradizioni nel regno, ci sono gli Stati Generali possono non essere d’accordo.
Il re decide quindi da solo e dunque il re è politicamente il più forte ma quando sarà in difficoltà
la situazione sarà più delicata. Precisamente questa questione, che non è mai stata regolata,
presuppone che a partire dalla metà del 18° la monarchia subirà la rivoluzione. In un paese che
si è arricchito, dove lo sviluppo ha iniziato la rivoluzione industriale, quando tutti si sono
arricchiti il solo che non si è arricchito è il re, è lo stato. Il livello di pressione fiscale non è mai
stato così basso come nel periodo immediatamente antecedente al 1789 e la monarchia è
paralizzata. Sull’altra costa atlantica i coloni inglesi si sollevano ed inizia la guerra d’America, la
Francia partecipa e per pagare la guerra moltiplica le spese . La rivoluzione è quindi un modo
per riformare lo stato e per trovare le risorse necessarie.

SESTA LEZIONE (18/03)

Oggi esaminiamo quali sono le conseguenze della scuola wolffiana e poi vedremo di esaminare il
pensiero di colui che viene considerato “padre della codificazione francese” cioè Jean Domat.
Incominciamo con la scuola wolffiana: è quella scuola che deriva dalla dottrina e dal pensiero di
Wolff, che abbiamo visto l’altra lezione. Wolff e Leibniz fanno parte del filone del razionalismo
giuridico tedesco, precisamente il secondo filone tedesco.
La scuola Wolfiana cerca di inquadrare la normativa vigente in modo sistematico: cerca di
creare un sistema.
Cosa intendiamo per sistema?
Il sistema , in ambito giuridico, deve essere prima di tutto un insieme ordinato di proposizioni
giuridiche (questa definizione di sistema rispecchia chiaramente il pensiero di Leibniz).
Le proposizioni giuridiche possono essere di due tipi:
1. Proposizioni che attribuiscono un diritto o un dovere a un certo tipo di soggetto.
2. Proposizioni che attribuiscono caratteristiche o facoltà interne a un certo diritto o interne
a un certo tipo di diritti.
Questo ordine sistematico da che cos’è formato?
È formato da quelli che Leibniz chiamava “assiomi generali” ovvero quelle definizioni generali
dalle quali si deducono delle proposizioni particolari.
Se vogliamo tradurre tutte queste parole in una definizione pratica possiamo dire che:

Assiomi generali: gli assiomi generali sono nel diritto i principi generali da cui derivano tutte le
regole specifiche.
Questa impostazione è tipica della scuola Wolfiana, chiaramente Wolff assorbe molto da Leibniz
quindi sarebbe più corretto chiamarlo “filone di Leibniz - Wolff” .
Quali sono i risvolti, nel campo del diritto, di questa impostazione Leibniziana - Wolffiana?
1. Il fu il primo a porre in primo piano il diritto privato rispetto a quello pubblico.
La parte generale deve racchiudere:
 Le definizioni generali

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 I principi generali
Cosa intendiamo con principi e definizioni generali?
Rientra in questa parte: per esempio la teoria della proposizione giuridica di Leibniz, le
definizioni generali di beni, la teoria del soggetto giuridico ( dell’unicità del soggetto giuridico);
tutti questi principi costituiscono quella che viene definita come parte generale del diritto.
Questa parte generale, quando verrà formulata, vedremo che ricalca molto da vicino lo schema
romanistico Gaiano della divisione in personae, res e actiones quindi possiamo dire che non è
poi così originale.
Il primo codice che applica questa impostazione della scuola Wolffiana-Leibniziana sarà il Codice
Austriaco del 1811, che venne formulato proprio con una parte di principi generali da cui poi si
deducono le norme particolari.
Questo schema del Codice civile Austriaco del 1811 sarà il secondo modello di codice che si
contrapporrà al Code civil di Napoleone del 1804.
Torniamo alle caratteristiche del filone Wolffiano-Leibniziano:
2. Il secondo risvolto fu’ la rappresentazione delle proposizioni giuridiche come attribuzioni
di diritti e doveri a soggetti (qui ritroviamo Leibniz), questi diritti e doveri sono predicati del
soggetto.
I diritti e i doveri, considerati predicati dei soggetti, sono qualità che si staccano dalla tutela cioè
sono qualità a parte: la tutela dei diritti , la tutela giudiziaria dei diritti che prenderà sempre più
posto all’interno dei codici, viene rappresentata come una parte speciale del diritto privato.

Tutela dei diritti: parte speciale del diritto privato.

Cosa vuol dire questo?


Oggi la parte del diritto che è addetta per la maggiore alla tutela dei diritti è quella processuale,
mentre nella parte generale si enunciano i diritti. Dunque questa è la prima volta che si fa’ una
separazione netta tra diritto sostanziale e diritto processuale.
Questa distinzione è una caratteristica tipica della codificazione.
Le raccolte legislative anteriori alla codificazione erano come una grande “miscuglio”: c’erano
norme di diritto processuale legate a norme di diritto sostanziale, c’era il diritto civile mescolato
al diritto penale.
Adesso per la prima volta viene, attraverso questi ragionamenti teorici-giuridici, separato il
diritto processuale dal diritto sostanziale e questa sarà un’influenza della Scuola Wolffiana-
Leibniziana sulla codificazione.
Nella seconda lezione abbiamo parlato della divisione del diritto in tre grossi gruppi, due di
influenza germanica e l’altro di influenza francese: Leibniz e Wolff espongono le teorie del
secondo filone di origine germanica.
Il primo filone ricordiamo che era quello che separava il diritto dalla religione, dalla morale ed è
quello legato a Pufendorf e Thomasius.
Quindi con Leibniz e Wolff abbiamo il pensiero di questo secondo filone di origine germanica che
però non avrà una grande influenza in Francia e in Italia, ma avrà un maggiore impatto nei
Paesi dell’area germanica come per esempio l’Austria ( infatti il codice civile austriaco del 1811 si
rifarà proprio a questo filone).

IL RAZIONALISMO GIURIDICO FRANCESE

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Vediamo adesso di analizzare il terzo filone cioè quello del razionalismo giuridico francese.
In Francia, come abbiamo già detto, le teorie della Scuola Wolfiana non ebbero una larga
diffusione, qui infatti grande diffusione ebbero le teorie di coloro che sono considerati i padri del
codice francese: Jean Domat e Pothier.
In Francia, a differenza di quanto era accaduto in Germania, il filone razionalistico non arriva a
creare una parte generale del diritto, ma invece mira a creare un ordine razionale per descrivere
ed esporre le norme : il codice francese infatti è costruito attraverso una casistica.

Casistica: elenco di casi a cui vengono affiancate delle sanzioni.

Viene scelto di seguire questa strada dell’ordine razionale per due motivi:
1. Prima di tutto perché l’ordine si trova nella ragione, è la ragione stesa che stabilisce
l’ordine e dunque è indipendente dalla norma. L’ordine è un elemento razionale ed essendo tale è
indipendente sia dalle norme naturali che dalle norme artificiali ( norme create dallo Stato).
2. Inoltre il concetto di ordine si può applicare a qualunque complesso di norme.
L’ordine è legata alla ragione, ma la ragione a sua volta è legata alla natura in quanto la natura
è concepita come ragione : anche nella natura c’è un ordine razionale; La ragione è concepita
come giustizia.
Quindi all’interno della nozione di ordine sono compresi tutti e tre questi elementi:
 Natura
 Ragione
 Giustizia
Questi sono i principali concetti di quello che viene chiamato razionalismo moderno: la natura
si identifica nella ragione, la ragione si identifica nella giustizia.
Tutti e tre questi elementi si manifestano nell’ordine.
La giustizia ha inoltre un grande vantaggio: può essere rappresentata attraverso schemi
geometrici.
Quindi qual è lo scopo del diritto positivo?
Bisogna costruire il diritto positivo all’interno di queste regole di giustizia, se il diritto positivo
rispetta queste regole di giustizia significa che è stato ricondotto dentro l’ordine rigoroso che la
ragione natura ha assegnato alle regole positive.
In poche parole: il diritto positivo deve soddisfare la giustizia, la giustizia è compresa nella
ragione naturale.
In Francia dunque compiono questo lavoro di razionalizzazione, nell’ambito del diritto positivo,
due filosofi del diritto ovvero Jean Domat e Robert Joseph Pothier.

JEAN DOMAT

Jean Domat vive tra il 1625 e il 1696, la sua principale opera è “Les loix civiles dans leur ordre
naturel” (cioè le leggi civili nel loro ordine naturale ).
Si tratta di un’opera divisa in due parti che venne pubblicata tra il 1689 e il 1694, esce in un
primo momento come opera anonima a Parigi, è in tre volumi ed è preceduta da un “traitè des
loix” cioè un trattato di leggi, che non è un’opera autonoma, ma è l’introduzione generale alle
altre due parti: “les loix civiles” e “ les droit public”.
La seconda parte s’intitola “les droit public” ed esce postuma nel 1697.

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Les loix civiles è la parte più importante e il suo obbiettivo è quello di mettere in ordine tutto il
diritto vigente. Ma cosa intendiamo per diritto vigente? Cioè qual è il diritto vigente, tra le
tante fonti del diritto, usato da Domat?
È quello che noi ormai chiamiamo “ diritto patrio” cioè il diritto vigente nella sua regione , quel
diritto territoriale: il diritto privato.
Nel XVII secolo il diritto privato consisteva nel:
 Corpus Iuris Civilis secondo l’interpretazione forense, ovvero dei grandi tribunali;
 comprendeva il diritto penale, più in particolare il diritto penale comune cioè quel diritto
penale che si era formato attraverso gli apporti romanistici, canonistici, della legislazione
regia, attraverso la prassi seguita da grandi tribunali, dal diritto penale locale nato dalla
consuetudine del posto.
 Il diritto corporativo mercantile e finanziario cioè quel diritto che si era formato attraverso
le nuove ordinanze, dalla prassi normativa e dall’applicazione della stessa.
La categoria dell’ordine in Domat serve per fare entrare nel diritto privato il diritto romano
francese e per far entrare nel diritto pubblico il diritto feudale e le nuove Ordonnance .

Diritto romano francese: quel diritto di tradizione romanistica, ma che era nato sulla base
delle consuetudini francesi.

Dunque Domat cerca, prima di tutto, di separare il diritto privato dal diritto pubblico ( sempre
sulla base comunque del diritto patrio, il termine diritto patrio non lo ritroviamo nel Tarello!).
Noi sappiamo però che non è così semplice separare il diritto privato dal diritto pubblico sulla
base delle tradizioni locali perché bisogna ricordarsi innanzitutto che la Francia era ancora
divisa tra le Pais de droit ecrit a sud, e le Pais de droit coutumier a nord.
Ora la prima cosa da fare per ottenere una cosa del genere , ovvero la separazione del diritto
privato dal diritto pubblico, era quello di fare concordare tutte le numerosissime discordanze che
c’erano tra i differenti nuclei normativi.
Quale può essere il criterio per cercare di fare concordare i principali nuclei normativi?
Principale strumento di organizzazione e di conciliazione è la ratio Legis cioè il senso profondo
della legge, che Domat appunto chiama “L'esprit des lois”: in ogni disposizione, secondo Domat,
vive questo “esprit del tutto” .
Cioè secondo Domat l’eterogeneo ammasso di diritto romano francese si compone idealmente in
un corpus naturale, unitario, ordinato e razionale.
In poche parole Domat contrappone l’ammasso disordinato di leggi civili, vigenti all’epoca,
all’ordinato assetto naturale delle leggi, che non è reale, ma che Domat dice che si può
realizzare.
Dunque lo scopo del diritto positivo per Domat è proprio questo: rispecchiare nel diritto positivo
l’ordine razionale delle leggi naturali.
Tutto questo diciamo che va bene in teoria perché nella pratica applicare questa teoria alla
Francia del tempo diventa molto difficile e complicato.
L’intenzione di Domat è proprio quella di amalgamare quegli eterogenei e contraddittori
complessi normativi all’ora vigenti in un unitario tessuto connettivo di interdipendenze e
concordanze, in poche parole: proponeva di cercare le concordanze tra tutte le leggi civili del
tempo cercando la ratio, ovvero attraverso la ricerca dell’esprit di ciascuna norma.
In ciascuna norma si ritrova lo spirito del sistema cioè un principio di unità che collega e
concilia il singolo precetto con tutte le altre norme.
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Quindi l’ambizione di Domat è di creare un sistema di norme connesse tra di loro che
rispecchiano tutte la medesima ratio legis e che siano esaustive nel campo civile.
Questa sarà la grande innovazione introdotta poi dal codice; abbiamo già visto quali sono le
innovazioni introdotte dai codici:
 Unicità del soggetto giuridico di fronte alla legge
 Ha l’ambizione di introdurre l’esaustività cioè tutte le norme in campo civile che sono
racchiuse nel codice sono le uniche che restano in vigore.
Tutte le altre fonti del diritto, su quel soggetto, vengono abolite; quindi con la codificazione si
crea un sistema chiuso di leggi ed è in fondo quello cui aspirava Domat.
Per fare tutto questo però Domat deve fare tutta una serie di operazioni concettuali :
1) Secondo Domat tutte le norme vigenti si possono collegare a due specie fondamentali
 Le leggi immutabili sono le leggi naturali
 Le leggi arbitrarie sono le norme che l’autorità legittima può stabilire o abolire, a
seconda delle circostanze, ma senza violare lo spirito delle leggi naturali e senza offendere i
principi dell’ordine sociale. In poche parole sono le leggi del diritto positivo.
Ricordiamoci che Domat fa’ sempre parte del filone giusnaturalista quindi effettua sempre la
suddivisione tra ciò che è legge naturale, legge civile e stato naturale e stato civile.
2) Le leggi immutabili, ovvero quelle naturali, a loro volta derivano da due leggi che sono
connaturati negli uomini e che quindi ha da quando nasce:
 La prima è la legge immutabile che spinge gli uomini alla ricerca del sommo bene, cioè di
Dio.
 La seconda è la legge immutabile che comanda agli uomini di amarsi tra di loro.
Di fatto diciamo che la seconda legge rientra un po’ nella prima perché se gli uomini si amano
tra di loro sono anche spinti nella ricerca del sommo bene, cioè Dio.
Secondo Domat da questi due principi generali, che sono principi innati, derivano le altre leggi
naturali attraverso un processo di concatenazione generale.
Come si fa’ però a far derivare delle leggi naturali da queste due regole madri?
Si fanno derivare attraverso la ragione umana; è la ragione umana che deriva da queste due
regole madri naturali le altre leggi naturali.
Però la cosa non è così semplice: mentre i due principi generali sono connessi alla natura umana
,fin dal momento della loro nascita, le regole che derivano, invece, da questi due principi generali
non sono insiti negli uomini fin dalla nascita, ma si rivelano agli uomini attraverso la ragione
gradualmente e lentamente, cioè attraverso un apprendimento.
Dunque la ragione di Domat si evolve in modo sperimentale, attraverso l’esperienza, e accumula
poco per volta il suo patrimonio di conoscenze scientifiche.
È dentro questo ordine di idee che Domat elabora alcuni punti fermi che sono fondamentali per
tutto il ragionamento giuridico dello stesso:
1) La ragione umana è venuta a formare poco per volta, accumulando nei secoli le proprie
esperienze, il deposito di leggi naturali e immutabili.
Questo deposito di leggi naturali viene scoperto poco per volta grazie all’esperienza.
2) Questo deposito risulta, per la massima parte, costituito dalle leggi naturali che regolano
le relazioni tra privati, dunque sono regole di diritto privato.
Da ciò si deduce che il diritto pubblico, per la maggior parte, è un diritto arbitrario, mutevole,
estraneo al diritto naturale perché è prodotto soprattutto dal legislatore per fini di opportunità
politica e questa cambia nel tempo e nello spazio.

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3) Le leggi civili di diritto privato naturale si rivelano quasi tutte come nozioni di diritto
privato romano.
Certamente il nostro diritto privato è di derivazione romanistica perché deriva i suoi istituti
principali dal diritto romano; allora Domat identifica questo diritto privato naturale nel diritto
romano.
Il diritto romano dunque è quel deposito di cui si è parlato prima.

In Domat dunque c’è un’identificazione del diritto naturale con il diritto privato, e a sua volta
questo diritto privato naturale si identifica nel diritto romano.
Il diritto romano è un deposito che si è formato in maniera “alluvionale” dal sovrapporsi
disordinato di principi generali e regole particolari, che hanno creato un po’ di confusione in
termini di chiarezza dando origine a una situazione del diritto piuttosto confusa.
Domat si propone di mettere ordine proprio all’interno di questo deposito poco ordinato e poco
razionale e naturalmente riconosce l’assoluta superiorità del diritto romano in quanto deposito
delle leggi naturali.
Sulla base di questa concezione scrive l’opera “les loix civil” :
 Il primo volume, che costituisce l’opera preliminare, è diviso in tre titoli
1) Il primo titolo tratta delle regole di diritto in generale
2) Il secondo titolo delle persone
3) Il terzo titolo delle cose
Dunque vediamo che in questa parte generale viene ripresa la tripartizione Gaiana, ma solo per
quanto riguarda le res e le personae infatti mancano le actiones. Le actiones le ritroviamo nella
parte prima che tratta delle obbligazioni.
 Poi abbiamo una parte “prima” che si occupa delle obbligazioni.
 Una parte seconda che tratta delle successioni.
Questi sono i tre volumi che compongono “les loix civil”, che comprendono anche il volume
preliminare.
La parte relativa al diritto pubblico è stata pubblicata postuma, quando Domat era già morto.
La parte del diritto pubblico è divisa in quattro libri:
 Il primo tratta del governo e della polizia generale dello Stato
 Il secondo tratta dei funzionari pubblici
 Il terzo libro tratta dei crimini e dei delitti
 Il quarto dell’ordine giudiziario
Il quarto libro è diviso in due parti:
I. Una prima parte tratta della procedura civile
II. La seconda parte tratta della procedura penale.
In questa divisione notiamo che per la prima volta il diritto sostanziale viene diviso dal diritto
processuale.
Per ciò che riguarda il diritto privato viene ricalcata la suddivisone Gaiana di res, personae,
actiones.
Per quanto riguarda la parte privatistica possiamo notare che è molto significativo il libro
preliminare della parte generale del diritto.
Questa tendenza a creare una parte generale dei principi generali l’abbiamo riscontrata già a
partire dai giuristi tedeschi ed è una tipica inclinazione della filosofia giusnaturalista.
Badiamo bene però che questa parte generale verrà usata poi nel codice francese in maniera
diversa di quanto avvenne nel codice tedesco.
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Nel progetto di preparazione al codice Portalis , che è stato uno dei membri della Commissione
che ha progettato il codice, aveva prospettato un libro preliminare dove dovevano essere
racchiusi tutti questi principi generali.
Il libro preliminare poi di fatto, nella redazione ultima del codice civile, viene ridotto a sei articoli.
In poche parole possiamo dire che i francesi alla fine aboliscono questa parte generale, la
trattano in maniera talmente breve che si può dire che in concreto la aboliscono. Però possiamo
notare che la previsione nel progetto di una parte generale è tipicamente frutto dell’influenza dei
giusnaturalisti.
Dunque la differenza vera è propria è questa: nei tedeschi questa influenza giusnaturalistica
crea non solo la base della codificazione, ma permane durante il processo di codificazione; nei
francesi invece tende a scomparire nel progetto finale del codice.
Se guardiamo lo schema dell’opera di Domat possiamo vedere che nell’ambito del diritto privato
manca di fatto la proprietà e i diritti reali ( parte invece molto presente nella codificazione
francese); dunque manca una parte specifica dedicata alla proprietà e ai diritti reali.
Un’altra osservazione su questa parte privatistica è la netta distinzione tra le qualità naturali
delle persone ( sesso, età, stato civile ecc.) e le qualità non naturali cioè quelle qualità dette “
arbitrarie” perché vengono prodotte dallo Stato e possono essere cambiate arbitrariamente dallo
stesso in base alle circostanze di opportunità politica (la condizione di suddito, di cittadino, di
straniero, lo stato di libertà o servitù ecc.).
Perché Domat mette in risalto questa distinzione tra qualità naturali e qualità arbitrarie?
Perché le qualità naturali sono molto importanti per il diritto privato, mentre le qualità arbitrarie
sono importanti per il diritto pubblico.
In conclusione per riassumere il pensiero di Domat possiamo dire che: il diritto di ragione è il
diritto privato e Domat intende in diritto privato come il diritto degli individui, congegnato
ovviamente secondo quella che è la mentalità borghese.
Quindi si ritrovano le pensiero di Domat già molte di quelle basi e quei principi che andranno poi
a confluire nel codice civile napoleonico del 1804.
Dunque Domat fu un grande precursore della codificazione.
Il secondo precursore della codificazione è Pothier.

ROBERT JOSEPH POTHIER

Vive a cavallo tra 1600 e il 1700. Di fatto Robert Pothier è il continuatore dell’opera di Domat ed
è considerato il vero padre del codice civile francese.
Questo perché i redattori del codice civile francese presero moltissimo dalle sue opere: certi
articoli del codice civile francese sono presi pari dalle opere di Pothier.
Qual è l’obbiettivo di Pothier?
Pothier parte dall’impostazione ideologica di Domat per formulare un’impostazione pratica: deve
sistemare questo diritto francese all’interno di un ordine naturale.
Cerca dunque di sistemare proprio il diritto consuetudinario secondo lo schema di Domat :
cercherà di fare ciò nella sua opera, pubblicata nel 1740, “Coutumes d' Orleans” e le
“coutumes” in francese sono proprio le consuetudini.
Teniamo sempre presente la complessa situazione della Francia ( la suddivisione in dei Pais de
droit coutumier e Pais de droit ecrit) , ora nel tentativo di unificare il diritto tutti questi giuristi
da dove partono?

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Non partono dal diritto scritto, dal diritto comune frutto dell’interpretazione del Corpus iuris
civilis, ma partono dalle consuetudini perché sono quelle che hanno influenzato maggiormente
quello che abbiamo detto prima essere il “diritto patrio” ( Domat aveva basato tutti i suoi
ragionamenti sul diritto patrio).
Dunque Pothier incomincia unificando le coutumes d’Orleans perché Orleans era una città
grande, di una certa importanza, creando questa versione commentata delle coutumes
d’Orleans.
In una sua successiva opera, le “pandectae in novum ordinem digestae” ( il digesto era anche
detto pandette ed indica la dottrina) pubblicate tra il 1748 e il 1752,Pothier cerca di elaborare in
chiave razionalistica il Digesto.
Riassumendo: nella sua prima opera cerca di dare un ordine logico alle consuetudini, partendo
dalle consuetudini d’Orleans, nella seconda cerca invece di rielaborare in chiave moderna-
razionalistica il Digesto questo perché nel Digesto si trovano tutti quegli istituti che poi vanno
applicati nella legge positiva.
Dunque sviluppa questa seconda opera con una grande casistica, cercando di unificare i vari
diritti ,sia quello scritto, che quello consuetudinario.
Quindi è attraverso la dottrina che cerca l’unificazione di tutto il diritto francese, questo perché
si sente ormai l’esigenza di un diritto unico( quindi non una pluralità di fonti del diritto che
vengono applicate a seconda di dove ci si trova e che tante volte contengono delle norme in
contraddizione tra di loro).
Questa necessità di unificare il diritto per altro era già stata sentita molto prima, tanto è vero
che erano state emanate le ordinanze del D'Aguesseau, che avevano cercato in alcuni campi del
diritto ( per quello che riguardava il commercio, le successioni ed altri casi) di creare una
raccolta legislativa unica.
Nel corso del ‘700 troviamo moltissimi di questi tentativi di unificazione del diritto relativo in
relazione a determinate materie, per cui alla codificazione non si arriva dall’oggi al domani, ma è
un processo molto lungo.
Pothier giunge alla descrizione di un diritto unico attraverso quella che si può definire la
“terminologia unificata”: la terminologia giuridica, la cui base è sempre costituita dalla
terminologia romanistica, prende in prestito in parte da alcune definizioni concettuali del Domat
e in parte queste definizioni vengono ricostruite dallo stesso Pothier.
Dunque attraverso l’impostazione di Domat, Pothier cerca di unificare anche la terminologia.
La metodologia di Pothier però in che cosa consiste?
Consiste nell’unificazione descrittiva ( perché è ancora uno studio quello di Pothier) dei diritti
distinti: il diritto costumier , il diritto scritto, consuetudini locali ecc., ciascuno ha una sua
terminologia e cerca di unificarla.
Quindi Pothier sottopone sia il diritto scritto che quello consuetudinario ad una revisione che
rendeva più sfumate le differenze tra i due mondi giuridici, le rendeva più sfumate di quanto lo
fossero nella realtà.
In altre parole potremmo dire che Pothier applica la terminologia romanistica per definire dei
concetti che in parte sono differenti da quelli romanistici; quindi dal diritto romano prende la
terminologia e cerca di applicarla uniformemente.
Dopo aver fatto questi studi teorici, dal 1761, Pothier incomincia a pubblicare una lunga serie
di trattati su diverse materie di diritto privato , cioè su discipline specifiche di diritto privato :
scrive dei trattati sulle obbligazioni, sulle successioni, sulla proprietà; e in questi trattati
vengono rielaborati soprattutto materiali del diritto consuetudinario francese.

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In ciascuna monografia le consuetudini disomogenee sono sottoposte a un trattamento
unificativo: da tutto questo groviglio di consuetudini discordanti si cerca di far emergere una
base giuridica unitaria, quella che in Domat era chiamata la ratio legis, e cerca di creare dei
principi generali uniformi che collegano le varie consuetudini tra di loro, e le consuetudini al
diritto romano.
Quindi dal diritto romano in sostanza prende la terminologia e tutte quelle parti, quegli istituti
che possono essere applicati alle consuetudini locali.
Con questo sistema di riordino incominciano a nascere vari trattati sulle materie specifiche,
materie privatistiche che offriranno poi materiale per costruire e creare il codice civile francese
del 1804.
È importante capire che dal pensiero teorico di questi giuristi, filosofi illuministi viene tratta
proprio la materia di quei principi che condurranno poi alla codificazione.
Certamente tutto questo lavoro teorico, che era stato fatto prima, è quello che costituisce la base
poi della codificazione.

SETTIMA LEZIONE (19/03)

GRUPPI RELAZIONI LEZIONE IN FRANCESE


Gruppo 1:
Troviamo una ritualità volta a consolidare e volta a rendere quasi divina la figura del re. In
particolar modo con il passare dei secoli nella figura del monarca francese possiamo individuare
quattro termini chiave: cuore, amore, misericordia e bontà d’animo.
I sudditi provano un attaccamento forte perché il re personifica il regno. Il re è associato all’idea
di cuore e amore, ma non in senso lato, bensì nel senso più ecclesiastico/religioso del termine,
appunto la “misericordia”.
Un’altra figura associata al re è quella di padre in senso romano: pater familias, autorità garante
e protettrice dell’unità familiare; è anche legato all’aspetto dell’amore, considerando i cittadini
come figli e il re come padre. Padre anche inteso come generatore di prole e quindi continuatore
della dinastia, aspetto essenziale per la monarchia francese (Re Luigi XIV). Questo era il
desiderio e massima ambizione per ogni madre di Francia: le fonti dell’epoca ci dicono che ogni
madre di Francia desiderava che la propria figlia passasse anche solo una notte in compagnia
del Re, era considerato un grandissimo onore per la famiglia o il casato.
Altro paragone importante è quello con l’eroe: il re è una figura divina, che travalica il semplice
essere umano. L’eroe per eccellenza è ercole, figura che affronta molte fatiche e vive diverse
avventure. Altre figure con cui viene spesso rappresentato il re nell’arte sono gli dei: Giove e
Apollo. Apollo, in particolar modo, è il dio del sole, portava il carro dorato, e si fa una
similitudine con il re che con la propria luce rischiarava le giornate del regno (?).
Altra metafora è quella del guaritore: “il re tocca, Dio ti guarisce”. Quasi con poteri divini, doti
taumaturgiche per eccellenza. Anche i re Carolingi guidati da Cristo sanavano i corpi dei malati.
(non si ricorda di cosa parla l’immagine, forse Enrico III che benedice un proprio suddito, evento
raro. Ah no Enrico IV scusate)
Enrico IV incarna tute le doti sopracitate: il padre, il guerriero, l’eroe e il seduttore (infatti ebbe
moltissimi figli illegittimi.) Visto come padre amorevole, desideroso di aiutare i giovani.
Aneddoto importantissimo: avrebbe avuto piacere che tutti i propri sudditi passassero la
giornata della domenica con i propri familiari degustando il pollo, una pietanza ricca.(?)
I numeri di Enrico IV:

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-1589 eredita la corona di Francia
-1610 tirannicidio perché decide di porre una tregua alla famosa guerra di religione che
“martorizzava” la Francia di quegli anni e si pensò che questo tirannicidio fosse giusto in quanto
tradiva gli ideali dei francesi (??)
Torniamo al 1589, Enrico IV prende la corona di Francia: fu il primo sovrano a ricoprire un ruolo
di spicco all’interno dello stato di Francia. Aveva una madre calvinista che si era appunto
convertita alla religione calvinista e lo aveva educato in quel modo. Da sottolineare secondo chi
espone perché lui, con madre calvinista e successivamente ugonotto, decide infine di
abbracciare la religione cattolica e fu proprio per questo che decise di porre fine alle sanguinose
guerre di religione che devastavano l’Europa e fu proprio per questo che nel 1610 fu ucciso da
parte di un prete cattolico, che “sicuramente essendo un esaltato religioso” sosteneva la teoria
del legittimo tirannicidio, della quale discorrerà tra poco.
Allora, quello che hanno detto fin’ora riguardante la mistica regale è sicuramente fondamentale
per capire quella che poi sarà la visione da parte del popolo dei francesi del loro re.
Fondamentale ma non sufficiente: non bastava per i francesi che il loro re fosse un “primus inter
pares” (il professore ha usato le parole “nec pluribus impar”, cioè “assolutamente inarrivabile”),
ma vi era bisogno di un altro fattore, ossia di quella che viene chiamata la legittimazione divina.
Legittimazione divina che non ritroviamo solo nel regno di Francia. Altri esempi possono essere
l’Impero Bizantino o, ripercorrendo i secoli all’indietro, “l’impero Egizio”. Però in questo caso
sicuramente la legittimazione divina per il re francese “intercorreva” da Dio. Quindi appunto il re
per grazia di dio ricopre quello che era il proprio posto, da solo per quanto personalità illustre
non avrebbe avuto le doti necessarie o la forza d’animo necessaria per ricoprire questa carica.
Un esempio citato dal professore è appunto la legittimazione divina di Saul, re biblico, da parte
del signore, che si può ritrovare appunto nel primo libro di Samuele (nella Bibbia, Antico
testamento) dal cap. 8 al cap. 10 e appunto le prime frasi di questa citazione dicono
“contestualmente” che un giorno prima dell’arrivo di Saul il Signore aveva avvertito Samuele e gli
aveva detto: ”domani a quest’ora ti manderò un uomo del paese di Beniamino e tu l’ungerai
come capo del mio popolo, Israele. Ed egli salverà il mio popolo dalle mani dei filistei”. Quindi è
molto importante, possiamo vedere che la legittimazione da parte di Dio per Saul non avviene
solo mediante una frase, ma mediante il gesto dell’unzione, cioè l’utilizzazione del crisma. Un
olio profumato importante che veniva utilizzato già da parte del popolo di Israele e poi più tardi
da parte dei vescovi e dello stesso Papa della Chiesa Cattolica. Possiamo anche rilevare che
analisi chimiche hanno scoperto che lo stesso crisma, cioè lo stesso olio, usato per ungere i
supremi re di Francia era quello usato per ungere i sovrani del popolo di Israele. Quindi un
legame ancora più forte, importante con la figura del re e la figura di Dio. Oltre alla
legittimazione divina, un altro aspetto fondamentale è la legittimazione da parte del popolo.
Perché come si può vedere nel XVI secolo, il re, una volta investito della sua carica da parte di
Dio, doveva ricevere l’acclamazione popolare. Questo non vuol dire, come dicevano i
giusnaturalisti, che dovesse esserci un patto o contratto tra il re e il popolo, ma una volta che il
re saliva al trono, occorreva che il popolo legittimasse anche lui la sua scelta, lo approvasse.
Sicuramente una delle maniere più usate per l’approvazione era quella del plebiscito: il re una
volta nominato (ma da chi?) usciva in piazza o comunque si faceva accogliere tra la popolazione e
questa, come si può vedere ancora oggi (ma dove? dove abiti, nel principato di monaco?),
inneggiava il suo nome e toccava la sua corona. Anche qui troviamo una gestualità molto
importante: il tocco della corona da parte del popolo. Così come il re è toccato da dio, deve essere
toccato anche dal popolo. [intervento della professoressa Casana: il termine più corretto forse è

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acclamazione e non plebiscito]
Però cosa succede? La legittimazione popolare comporta un rovescio della medaglia: infatti
qualora il re non rispetti i suoi compiti (non non rispetti il suo patto tra lui e il popolo, ma
semplicemente i suoi compiti di re: il ruolo del buon sovrano, i compiti di padre, la figura
dell’eroe), il popolo e quindi i singoli cittadini diventano dei passivi (?) tirannicidi. Se il re non è
in grado di rivestire il suo compito, il popolo può sollevarsi e deporlo o addirittura ucciderlo. Due
casi importantissimi sono quelli di Enrico III ed Enrico IV: di Enrico IV si è già parlato, ma anche
Enrico III fu assassinato, anzi accoltellato, anche lui da un fanatico religioso, ma per motivi
leggermente diversi. Nel 1589 trova la morte ma non perché riuscì a porre fine alle guerre di
religione, ma anzi, perché essendo un sovrano molto abile e poco figura di spicco (???), era
riuscito nel suo regno a incontrare, quindi a dover sedare, ben tre guerre di religione. E si era
trovato a scontrarsi con partiti sostenuti addirittura da potenze straniere, come per esempio il
Partito dei Malcontenti e quello della Lega cattolica. Ed è per questo motivo proprio che avvenne
il tirannicidio: lui non fu in grado di tenere unito quello che poi diventerà lo stato francese. Nella
slide viene presentata l’uccisione di Cesare, le famose idi di marzo, proprio durante le quali
Cesare trovò la morte per mano dei suoi pari, però comunque sottoposti. La seconda slide invece
raffigura la mantide religiosa, perché uccide il proprio partner, quindi può essere un paragone
abbastanza “simpatico”. [brusio]
Importantissimo perché questa legittimazione di stampo popolare finisce per rendere quella
popolare, una posizione scomoda. Le persone intorno al re iniziano a temere il potere del popolo:
si vede quindi necessario sviluppare la dottrina della legittimazione divina in modo che non sia
più necessaria quella popolare. In questo modo, però, viene potenziata l’importanza della Chiesa
cattolica e del papa: si arriva infatti a un punto in cui la legittimazione divina non è solo più
gestuale, ma si esegue con la materiale benedizione del papa.

Gruppo 2:
La nozione di sovranità è riscoperta nel Medioevo, come conseguenza del potere di imperium
(comando). Questo potere trova la sua dimensione più assoluta nel 1600: ci sono tre aspetti
interessanti.
1)la portata dell’imperium: il potere sovrano è maggiore della somma del potere dei sudditi (nec
pluribus impar), che porterà a uno sviluppo diacronico dell’idea moderna di stato.
2)la perpetuità del potere sovrano: bisogna distinguere tra la nozione di “corona” dalla persona
fisica del re. Il re in quanto soggetto mortale ha una vita limitata e quindi un potere limitato
temporalmente, la Corona invece è perpetua.
3)l’indivisibilità del potere, in quanto l’idea della separazione tra i poteri è molto successiva
(Montesquie)
Il soggetto che incarna questi tre caratteri è Luigi XIV. La conseguenza dell’assolutismo è il
modificarsi di abitudini, di tradizioni precedenti, che risalgono al medioevo.
La prima conseguenza dell’assolutismo, quindi, riguarda gli Stati Generali: il sovrano convocava
gli stati generali, che erano composti da ordini. Gli ordini erano tre: nobiltà, clero e il terzo
ordine (che durante il periodo rivoluzionario verrà chiamato terzo stato). Quello dei comuni
rappresenta una categoria residuale, rispetto agli altri due. Quelli che non sono nobili o
ecclesiastici, appartengono al terzo ordine.
Ci si pone nel contesto di una società corporativistica –quella medievale- in cui l’individuo non
aveva un valore di per sé, ma contava solo se inserito all’interno di uno status.
E il re usufruiva e per abitudine convocava gli stati generali in particolare per ottenere quella

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sorta di autorizzazione dalle rappresentanze della società medievale per aumentare l’imposizione
fiscale, per chiedere nuove tasse. Quindi il re non era completamente libero, il suo potere non
era del tutto assoluto, perché non poteva arbitrariamente -senza questa autorizzazione- imporre
nuove tasse. E del resto, durante tutto il medioevo, i rappresentanti degli ordini acconsentivano
alla maggiorazione dell’imposizione fiscale perché ne avevano un ritorno. Ritorno era la spendita
di denaro pubblico in particolare per il rafforzamento dell’esercito e la sicurezza dei sudditi.
Quando il potere diventa più assoluto, quando viene concepito come indivisibile, il sovrano
smette di convocare gli stati generali: l’ultima convocazione, non a caso, è del 1614. E non vi
sarà più alcuna convocazione fino al momento in cui il malcontento (soprattutto borghese,
nascente nel terzo ordine) sarà tale che il sovrano, per evitare la rivoluzione, sarà costretto a
convocare nuovamente gli stati generali, nel 1788-1789, che come sappiamo sono le date della
Rivoluzione Francese. E’ quindi da mettere in luce come, quando il potere sovrano diviene
assoluto, il sovrano non si sente più in dovere, per consuetudine, per prassi, per tradizione
monarchica, di convocare gli stati generali per imporre tasse, e così abbiamo un buco temporale
che va dal 1614 al 1789.
La seconda conseguenza di questa tensione al rendere assoluto il potere sovrano ha anche
un’altra evoluzione nei rapporti tra la chiesa francese (gallicana) e la Chiesa di Roma.
Questi rapporti sono stati definiti nel concordato di Bologna del 1516, che consacra una
progressiva emancipazione della chiesa francese da quella romana. Il sovrano si propone come
protettore dei fedeli francesi, ha il potere di nomina dei vescovi, mentre resta in capo al papa la
competenza inerente all’investitura spirituale vescovile (oltre al compito di declinare il dogma e
l’ortodossia).
Il termine “regalien” indica il potere del sovrano (ancora oggi è usato per indicare il dominio dello
stato sui cittadini). Il potere sovrano è assoluto, ma è necessario individuare delle categorie
all’interno delle quali incanalare questo potere. Dal XVII secolo si è studiato entro quali limiti
definirlo, e sono stati trovati 5 settori, ambiti del “potere regalien”:

1)Potere di fare le leggi:


questo è un potere assoluto, nel senso che riguarda ogni materia, non ha limiti, e gli atti del
sovrano sono le ordonance e gli editti. Il sovrano ha anche il potere di escludere se stesso o altri
soggetti dall’applicazione di queste norme, tanto che gli editti hanno il nome di privilegi (“privata
legem”, il re è un soggetto super partes e può decidere a chi applicare queste norme). Le cose
cambiano nella seconda metà del 1700: infatti il re per pubblicare queste norme doveva passare
attraverso le Court de Parlament – i tribunali supremi- che le pubblicavano in registri,
predecessori delle nostre gazzette. Questo procedimento si chiama interinazione. Nella prima
metà del 1700 ogni privilegio veniva pubblicato senza alcuna opposizione. Nella seconda metà
del 1700 il re perde consenso, perde potere, che invece è acquistato da queste Corti: la
situazione si inverte, i giudici rimandano gli atti che non gradiscono al sovrano e si rifiutano di
interinarli. Nasce una lotta tra poteri: tra quello che fino a quel momento era considerato come
assoluto del re, e l’altro, quello dei giudici supremi, sempre più importante. Infatti quando
rimandano indietro questi atti, il re, se è ancora convinto della giustizia e della bontà dell’atto,
deve rimandarlo alla corte, minacciando di sollevare questi giudici dal loro incarico in caso di un
secondo rifiuto. Questo ovviamente diminuisce notevolmente il prestigio del sovrano.
2)Potere di creare ufficiali:
nomina di pubblici ufficiali, con il compito di amministrare il regno, sono burocrati che
inizialmente sono soggetti fedeli al sovrano perché nominati da lui, e quindi seguiranno le sue

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direttive. Si è però sviluppata la prassi di vendere queste cariche, con la conseguenza che i nobili
e i ricchi potevano acquistare queste cariche, e lo stato è stato governato dai ricchi, che non
facevano certo gli interessi del terzo stato, della parte più debole della popolazione. Al re
rimaneva una possibilità di tenere il controllo, imponendosi in caso di nomina non gradita,
sollevando dall’incarico colui che aveva acquistato la carica e a lui sgradito.
3)Potere di fare la guerra/pace:
il re storicamente viene conosciuto e immaginato come un condottiero, colui che è a capo delle
armate. Il re fa la guerra soltanto per prendere e porre in essere le decisioni che ha prese,
decisioni che per loro natura sono giuste. Quindi se il re pone in essere una decisione giusta,
deve farla rispettare, e lo fa anche attraverso la guerra (a livello esterno).
una conseguenza della monopolizzazione in capo allo stato sovrano del potere di fare la guerra, è
il venir meno delle bande di ventura. Se si pensa all’Italia del 1400, epoca delle Signorie, salta
subito all’occhio che queste per farsi la guerra prendevano dei capi di bande, mercenari, e li
utilizzavano per combattere. Nel momento in cui lo stato moderno assume il potere militare, ha
un esercito proprio di cui il re è condottiero, ovviamente viene meno la funzione delle compagnie
di ventura. Questo è un aspetto molto moderno dello stato.

4)Potere di dire giustizia:


potere più tipico del sovrano, che risale già all’epoca medievale. Potere di fare giustizia nei casi
concreti: nel medioevo nessuno pensava che il re potesse fare le leggi, ma tutti sapevano che il re
era colui che applicava la giustizia, Molto spesso veniva applicata in suo nome, ovviamente. Il re
viene conosciuto spesso con l’appellativo “fontana di giustizia”, persona dalla quale sgorga la
giustizia stessa. A partire dal 1500 in Francia e in altri paesi europei, si sviluppano le corti
sovrane, con giudici nominati dal re, i quali fanno la giustizia in nome del re. Il re delega il
proprio potere di fare giustizia. Questo rende sempre più residuali o comunque diminuisce
grandemente l’importanza sia dei tribunali feudali, sia dei tribunali ecclesiastici. Ora, un potere
che il re manteneva in capo a sé era quello di ritenere le cause che riteneva importanti: decideva
la causa e ovviamente non c’era appello.
5)Potere di battere moneta/tassazione/imposizione fiscale:
per quanto riguarda il battere moneta, era il re a decidere quanto doveva pesare la moneta, se
fosse fatta d’oro o d’argento. Ad esempio, nel 1600, il re aveva deciso che la libbra dovesse
pesare 4,5 grammi d’argento. A partire dal 1600 si affaccia l’idea che il re sia responsabile (non
nel senso che ne risponda a qualcuno, ma che sia di sua competenza) dell’andamento economico
dello stato. Rimane però una questione da capire: se sia o meno compito del re occuparsi
dell’imposizione fiscale, se possa decidere autonomamente di imporre delle nuove imposte. Fin
quando ci furono gli Stati Generali, questi venivano convocati precipuamente per chiedere la
possibilità di imporre nuove tasse. Siccome, come sappiamo, dal 1614 gli Stati Generali non
sono più convocati, il re questo potere se lo prende de facto. Luigi XIV spenderà una cifra
ingentissima, ad esempio. Tuttavia i sudditi sanno che tale potere in realtà storicamente non
appartiene al re, perché la tradizione imponeva che il re li sentisse mediante le loro
rappresentanze, sull’opportunità di imporre o meno nuove tasse. Questo i sudditi se lo
ricorderanno nella seconda metà del 1700 con un re debole, Luigi XVI, che proverà di nuovo a
convocare gli Stati generali, ma questo porterà a una diversa piega degli eventi: la rivoluzione.
Nel momento in cui scoppia la rivoluzione, l’imposizione fiscale in Francia era ai livelli più bassi
da secoli, perché il re non aveva la forza di imporre nessuna tassa. La rivoluzione scoppia però
perché la distribuzione del carico fiscale era del tutto diseguale, gravando del tutto sul terzo

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stato.

RESIDUO LEZIONE 19/03

Tra gli ispiratori del Code Civil, per quanto riguarda il filone francese, troviamo Voltaire.

VOLTAIRE

Non è un filosofo, non è un giurista, è un pubblicista. Può essere considerato il Ferrara del XVIII
secolo, è un provocatore. Però attraverso le sue provocazioni ha avuto nel mondo, nell’Europa
del diciottesimo secolo una certa influenza.
Voltaire vive tra il 1694 e il 1778. E’ uno dei principali rappresentanti del’illuminismo francese.
Educato dai gesuiti, fa qualche studio giuridico che abbandona presto, è un filosofo di fatto. Tra
il 1726 e il 1728 viene esiliato in Inghilterra, dove viene a contatto con il liberalismo e
l’empirismo inglese, ed è qui che pubblica le sue lettere sugli inglesi, dove ammira la tolleranza
inglese e il governo parlamentare.
L’Inghilterra che si considera il primo stato costituzionale, ma che di fatto non ha mai avuto una
costituzione scritta, perché la costituzione inglese si basa su quella che è la tradizione e su
alcuni documenti che risalgono al XIII secolo, come la carta dei diritti, che costituiscono la base
della tradizione costituzionale inglese.
Voltaire è un illuminista ma non un democratico: ha una concezione aristocratica ed elitaria non
tanto della società, quanto della cultura. Ha un’idea della supremazia dei pochi che pensano, è
un cultore della ragione, ma in lui si ritrovano anche tutti i pregiudizi e gli eccessi di questo
culto. Uno dei valori di fondo di tutti i discorsi di Voltaire è la libertà su tutti i piani.
Non una libertà a livello metafisico, non quello che è comunemente inteso come “libero arbitrio”,
che anzi nega. Lui intende una libertà di azione: nella vita economica, nella società, nel mondo
della cultura. Libertà di pensiero, di credenze religiose. Libertà di fare ciò che si può, non ciò che
si vuole.
Su questa scia Voltaire in molti dei suoi articoli (anche provocatori e atti a suscitare scandalo)
invoca la libertà e attacca tutti quei pregiudizi che, secondo il suo modo di vedere, ostacolavano
il progresso umano. Tra questi organismi, questi pregiudizi, in primo piano c’è la Chiesa, vista
come principale nemico del progresso umano, perché controlla la cultura. Con lo sviluppo dello
stato assoluto, l’ordine dei gesuiti è quello su cui più si accaniscono le riforme degli stati. Perché
detenevano il monopolio del campo culturale, ergo la formazione dei giovani, di coloro che
avrebbero formato la classe dirigente futura, e in secondo luogo perché erano pieni di privilegi ed
erodevano parte del potere assoluto che gli stati volevano per se stessi. In quasi tutti gli stati
europei viene infatti abolito l’ordine dei gesuiti (poi ripristinato nel 1800), per il troppo potere
esercitato. La chiesa quindi controlla la cultura e con il diritto canonico sottrae grandi settori
disciplinari al controllo dello stato, per esempio la disciplina del matrimonio. In Francia il
matrimonio inizia a essere disciplinato dalla dottrina civile solo con Napoleone.
Voltaire giudica i privilegi del clero come innaturali: è chiaramente un giusnaturalista, quindi
rimane la divisione tra diritti naturali e diritti invece dello stato.
I privilegi sono diritti innaturali: non solo, ma in molti suoi articoli mette in risalto come le
ricchezze e le rendite fondiarie della chiesa minaccino lo sviluppo dell’economia pubblica. Una
sottrazione di ricchezza alla società. Condanna anche i rituali religiosi in quanto si appoggiano a
un sistema dogmatico, che andava contro la ragione. Nonostante tutto questo, Voltaire difende a

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spada tratta la libertà religiosa: ce l’ha con l’imposizione della religione cattolica, con la forza
della chiesa cattolica, ma rispetta e predica la libertà religiosa. La religione è molto utile
socialmente perché (vista la sua scarsa fiducia nelle masse) la credulità delle masse è
comprensibile, il fanatismo religioso è incomprensibile e comunque la religione nella società
funziona da collante, aiuta a mantenere l’ordine.
Partecipa anche alla polemica borghese e antifeudale: Voltaire in molte sue pagine difende la
libera gestione della proprietà, riconosce la libertà di possedere. Però non propone una
distribuzione della proprietà in modo egualitario: lui è aristocratico in tutti, ma propone delle
aperture. Per esempio, il diritto di proprietà per quelli che sono i coloni e i conduttori agricoli
contro –ma questa è una polemica non a difesa del diritto di tutti a possedere, ma contro i
feudali. I feudali danneggiano l’economia del paese e Voltaire è un imprenditore. I conduttori
agricoli, infatti, fanno rendere la terra e sviluppano l’economia.
Il suo motto era “libertà e proprietà”. Questo pensiero si può comprendere meglio, se si pensa al
fatto che Voltaire era un benestante, un ricco. Fin da giovane aveva accumulato grandi ricchezze
in una residenza in campagna, dove produceva sete, pizzi, orologi che smerciava. Inoltre
prestava soldi con interessi ai personaggi della nobiltà: siamo nel 1700, la nobiltà era ormai la
classe dirigente in discesa, mentre la borghesia era in ascesa. I nobili avevano grandi feudi, ma
ormai la ricchezza era quella in denaro, che si ricavava dal commercio e dalla produzione.
Quindi molti nobili si trovano in decadenza, con necessità di denaro, e Voltaire, che il denaro lo
produceva con queste sue attività, inizia a fare il prestasoldi alla nobiltà (non solo francese ma
anche tedesca). Ha soldi in numerose banche europee, è un vero imprenditore, con tutti i risvolti
positivi e negativi che questo comporta.
Questo suo modo di vivere può far comprendere meglio certe contraddizioni del suo pensiero, per
esempio rispetto al concetto di uguaglianza. Questo concetto inizia a nascere proprio in questo
periodo, e Voltaire non propugnava l’uguaglianza, in modo più assoluto. In molti suoi libri
superficialmente si potrebbe pensare a un impegno per l’uguaglianza: non è vero. Si tratta di un
falso costruito sulla sua figura, l’uguaglianza non è tra le sue battaglie. Invece a modo suo è
anche lui un promotore della codificazione, perché si batte per la formazione di un codice penale.
Tutto il suo pensiero mira ad abolire la pluralità di fonti del diritto: non propugna l’uguaglianza
sociale, ma propugna l’uguaglianza giuridica. In alcuni suoi scritti è presente quest’idea
dell’uguaglianza giuridica, ma poi viene abbandonata. Invece sono numerosi gli accenni a
un’idea “contro l’uguaglianza sociale”. Voltaire ammette come necessaria la disparità della
condizione economica tra gli individui, ammette una diversità genetica e intellettuale tra le varie
razze. Ci sono differenze tra le varie razze, è una questione del tutto naturale. In alcuni scritti
arriva a dichiarare l’inferiorità del popolo ebreo. Tutti quei principi d’uguaglianza che gli vengono
attribuiti non esistono. Ha anche un atteggiamento di disprezzo nei confronti delle masse
popolari perché le considera immature: con questo pretesto si giustificava quindi il desiderio di
un potere aristocratico.

Al di là del quadro generale, per esplorare il concetto di diritto in Voltaire, si deve partire dalla
sua concezione di giustizia. Secondo lui, esisteva una giustizia naturale, razionale e universale.
Esisteva un auto evidente senso di ciò che è giusto e ingiusto, congenito in tutti gli uomini dal
momento della nascita. Caratteristica che deriva dalla natura: insiste molto su questo, perché a
questo senso congenito si contrappongono le leggi positive, che nulla hanno di naturale. La
giustizia regolata dalla natura è fatta di pochi divieti essenziali (Domat), consiste nella norma
“non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”. Voltaire mette in risalto come le leggi umane

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non sempre rispettino questa condizione naturale di giustizia. Le leggi e le raccolte
consuetudinarie delle Coutumes francesi sono spesso confuse, contraddittorie, sovrabbondanti.
Condanna la frammentazione del diritto e la diversità della giurisprudenza. Anche lui spinge
verso una codificazione, un riordino delle fonti del diritto.
Propone quindi la creazione di un diritto nuovo per ottenere la vera libertà. E propone una legge
che deve essere “chiara, coerente, precisa”. Questi tre termini saranno poi spesso utilizzati dai
sovrani quando inizieranno a parlare di codificazione. La implora contro l’interpretazione che
corrompe tutte le leggi: questo è un attacco alla giurisprudenza dei giudici dei supremi tribunali,
che nel 1700 avevano raggiunto un’enorme influenza. Stessa critica che Muratori farà in ambito
italiano. Con queste affermazioni ci si domanda se Voltaire alludesse alla codificazione:
probabilmente si, almeno per il diritto penale e processuale. Secondo lui il nuovo diritto avrebbe
dovuto essere promulgato dal sovrano: un diritto statuale, proveniente dallo stato, e questo
sovrano illuminato doveva basare la sua politica del diritto unicamente sulla ragione. Voltaire
era sostenitore dell’assolutismo illuminato, della possibile conciliazione tra garantismo e
statalismo, considerando che la legge che proveniva da un monarca illuminato non poteva che
essere giusta e certa (non confusa). Il compito del sovrano illuminato era quello di garantire
libertà e felicità al suo popolo con la promulgazione di un codice. Voltaire espone queste sue idee
in un momento in cui la ricerca della codificazione era radicata in tutta Europa, quindi lo fa
anche un po’ pro domo sua. Tant’è che cerca di trovare un impiego presso le grandi corti sovrane
d’Europa (Federico II Prussia, Caterina II Russia) invano. Era un personaggio un po’ scomodo,
non lo avrebbero mai preso al loro servizio.

OTTAVA LEZIONE (25/03)

Parlavamo di Voltaire la scorsa volta, in particolare della sua concezione sulla codificazione
criminale. Voltaire vorrebbe riformare il diritto e la procedura penale sulla base del principio di
legalità, già espresso da vari filosofi del diritto dell’illuminismo. Per Voltaire il reato e la sanzione
vanno previsti dalla legge e se non c’è una legge che li contempla non possono essere puniti.
Incomincia a essere considerata la concezione moderna del diritto penale, quella per cui nella
società bisogna infliggere pene proporzionali al diritto, mentre nel medioevo le pene erano
applicate secondo una tipologia per cui per il reato c’erano varie pene senza prendere in
considerazione il caso concreto, per esempio chi ruba una mela andrebbe punito come chi ruba
una macchina. Inoltre per gli illuministi le pene devono essere proporzionali ma anche il più miti
possibile: si fa avanti l’idea che la pena debba essere un emendamento, il reo deve capire e
correggersi. La repressione penale va fatta con razionalità, per Voltaire la razionalità coincide
con la laicità del diritto, devono essere puniti dallo stato civile solo quei crimini che vanno contro
la società, non quelli contro la religione che sono peccati e vanno puniti nella dimensione
religiosa, i peccati vanno depenalizzati per Voltaire e lasciati alla giustizia divina. Voltaire
condanna poi le pene atroci: per esempio i ceti, la berlina (esporre il reo nella piazza incatenato).
Voltaire propone delle radicali riforme di stampo garantistico, per esempio critica l’ordonance
criminale di Luigi 14 e tutto il sistema probatorio lì contenuto. Infatti il sistema probatorio allora
era così: c’era un elenco preciso delle prove e del loro valore, in mancanza di una prova
convincente dell’inquisito si poteva essere condannati sulla base di mezze prove, cioè prove non
piene, che insieme venivano considerate però una prova piena. Esempio la testimonianza della
donna era una mezza prova, di un nobile una prova piena. Voltaire contesta questo regime
probatorio. Poi nel sistema delle prove c’era la prova regina ovvero la confessione, alla quale si

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arrivava con la tortura principalmente, Voltaire afferma che la tortura può essere usata solo in
casi eccezionali, come per i recidivi, ma non troppo frequentemente come si faceva allora. Poi
Voltaire scrisse un commentario sui “delitti e le pene” di Beccaria, dove propone di diminuire la
pena di morte, che dovrebbe essere sostituita dai lavori forzati quando possibile, ma non abolita.
Nel campo processuale si batte per un garantismo processuale, e propone l’umanizzazione del
diritto penale, cioè di applicarlo verso esseri umani considerati come tali. Voltaire poi si impegna
più volte nella denuncia di vari errori giudiziari, uno di questi suoi impegni riguardava il
processo contro Giancals, un commerciante di Tolosa accusato di aver ucciso il figlio perché non
voleva che si convertisse al cattolicesimo. Il padre viene torturato e giustiziato, dopo che il marito
fu giustiziato la vedova andò da Voltarie il quale riuscì a farlo riabilitare ma ormai era stato
ucciso. La barre: nel 1766, un certo la barre di 19 anni ammette di aver profanato un crocifisso,
è accusato anche di blasfemia, i giudici lo condannano e la condanna viene confermata dal
parlamento di Parigi e viene condannato al taglio della lingua e poi alla decapitazione e al rogo
del cadavere. Voltaire intanto iniziò una campagna per la riabilitazione, senza successo e il
giovane venne fatto secco. Voltaire non è un vero e proprio giurista dunque, proprio nel 700 e
con gli illuministi comunque la penalistica risorge, ci si comincia a porre il problema di rendere
il campo penale un campo dipendente dallo stato e di abolire quel sistema per cui la penalistica
poteva essere un fatto privato, i crimini devono poter essere giudicati dallo stato, ma ci si chiede
da dove derivi questo diritto dello stato a condannare a morte. Sono questi i temi principali che
prendono piede durante l’illuminismo, Montesquie è un grande esponente. Cos’è l’illuminismo?
Non ha una definizione univoca, è una corrente di pensiero, più un atteggiamento mentale che
una dottrina, si sviluppa verso la metà del 700 e abbraccia la filosofia, la letteratura e il diritto.
Uno degli elementi principali dell’illuminismo è la ragione, il primato della ragione sulla
tradizione, sulle credenze che affondano le loro radici sulla tradizione, che invece era un
elemento base del medioevo. I re per esempio derivavano tutti dalla stessa famiglia per
tradizione, la tradizione era centrale, ora no.
Si fanno sempre più avanti le idee per cui con la ragione si può andare verso il progresso, per
trovare il benessere e trovare la felicità. Ragione, progresso, benessere e felicità: i principali
elementi dell’illuminismo. Il progresso però non è guidato dalla provvidenza come si diceva
durante il medioevo, deriva da un progetto razionale, l’agire umano è un agire giusto e virtuoso
quando persegue la felicità. Vediamo che il desiderio di felicità assume il ruolo di una norma
etica, è una regola etica di condotta. Gli illuministi pensano anche di poter fabbricare un nuovo
tipo di uomo attraverso una educazione programmata, allora per fare questo nuovo uomo
bisogna andare verso nuove riforme, l’illuminismo infatti è anche stato un periodo di grandi
riforme. Secondo gli illuministi bisogna riformare secondo i principi di natura le istituzioni per
poter creare una vita sociale ordinata, lo stato civile diventa uno strumento giuridico per il
raggiungimento del bene comune, lo stato politico viene a svolgere una azione etica. Questo
pensiero porta a grandi risvolti per la concezione del sovrano, che è tale per contratto sociale e
non più per volontà divina. Questo contratto sociale prevede che il sovrano debba assicurare il
bene dei suoi sudditi, per far questo bisogna ridurre il potere ecclesiastico e ci vuole una
razionalizzazione anche in campo religioso, la religione diventa uno strumento utile per
instaurare una certa disciplina sociale. La religione viene calata ora in una concezione
utilitarista. L’illuminismo coinvolge anche il diritto dando luogo all’illuminismo giuridico, cioè
una forma razionale della vita degli uomini e il diritto diventa uno strumento per una loro
rigenerazione. Varie interpretazioni dell’illuminismo giuridico, Cattaneo e Tarello ne propongono
alcune. Cattaneo mette in risalto i fondamenti constanti dell’illuminismo giuridico, cioè i punti

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che si trovano sempre nell’illuminismo giuridico, quindi per lui l’illuminismo giuridico si basa
sul volontarismo, la base del diritto positivo. Altro punto comune a tutte le forme di illuminismo
giuridico è il rapporto tra diritto positivo e naturale, il diritto positivo è la traduzione storica dei
diritti naturali individuali. E il diritto positivo consiste in un atto di volontà che è la volontà del
legislatore statuale ed è una volontà ispirata a ragione. Per gli illuministi secondo Cattaneo il
diritto è solo la norma positiva e vi è un rapporto di equilibro con la norma naturale e positiva:
con la ragione la norma naturale è trasformata in diritto positivo. Altro punto base è il
razionalismo su cui si basa tutta la concezione illuministica del diritto naturale, l’illuminismo
afferma un diritto naturale razionale e formato da un insieme di principi universali di giustizia e
gli illuministi pensano ad un insieme di diritti naturali della persona. Per gli illuministi la
ragione è la fonte di giustizia che riconosce alla persona il diritto naturale alla vita, sicurezza alla
proprietà e alla libertà di azione e di pensiero. Per Cattaneo questo razionalismo e volontarismo
trovano nelle varie sfaccettature dell’illuminismo. Tarello invece non mette in risalto l’omogeneità
del pensiero illuministico delle varie dottrine illuministiche, ma le differenti funzioni ideologiche
che le dottrine illuministiche hanno avuto nella politica dei diritto attuate nei vari stati.
Distingue l’illuminismo di area germanica da quello francese. Per Tarello nell’area germanica le
varie dottrine illuministiche ispirano l’azione dei vari governi e vengono applicate nel governo
dello stato. L’applicazione di queste dottrine illuministiche sboccano qui nell’assolutismo
illuminato, vengono usate dai sovrani assoluti per rafforzare il potere ma anche per fare bene ai
loro sudditi. In Francia l’illuminismo resta sul piano teorico, questo fa si che in Francia si
sviluppano dottrine in opposizione all’assolutismo e sfoceranno poi nella rivoluzione francese.
Del resto la Francia fino ad allora era sempre stata molto chiusa alle riforme. Uno dei principali
pensatori dell’illuminismo giuridico fu Montesquie.

MONTESQUIE

Nasce nel 1689 e nuore nel 1755. Fu presidente del parlamento di Bordot, un supremo tribunale
e fu presidente per motivi di ereditarietà delle cariche da suo padre; ciò lo mise in contatto con le
strutture dello stato. Era molto attirato dalla storia inglese, ammirava il periodo in Inghilterra la
gloriosa rivoluzione del 1688, che porta poi alla promulgazione del Bill of rights, che insieme alla
magna charta del 1615 costituiscono la base del parlamentarismo inglese. Nel 1681 pubblica il
romanzo “le lettere persiane”, in questa opera scrive in modo impietoso sui difetti della società
francese contemporanea, nel 1788 pubblica “l’esprit de loy” sulla legislazione, le forme di
governo ma non è dedicato specificatamente alla Francia né alla separazione dei poteri, che
venne esposta da Montesquie in una piccolissima parte del libro (ma venne poi comodo ai
sovrani illuminati e ai liberali dell800 recuperare e rivalorizzare queste teorie). Montesquie è un
fautore della monarchia temperata e cita come esempio l’Inghilterra, perché il sistema
costituzionale inglese si basa sull’equilibrio dei poteri, capace di evitare la tirannide e garantire
tolleranza e libertà. Montesquie farà poi un pesante attacco ai sistemi pubblici dell’Italia, dove
per lui domina un tiranno collettivo. Sostiene che la monarchia debba essere temperata e
limitata dalla camere come in Inghilterra. Il pensiero di base è creare di fatto un sistema di
poteri plurimi che si bilanciano tra di loro per evitare l’arbitrio di una solo persona ed è
considerato per questo il padre del liberalismo. Vuole un potere legislativo forte per limitare
quello dei giudici, i quali devono essere solo la bocca della legge. Nel diritto comune invece i
giudici giudicavano e con le loro interpretazioni vincolanti con valore di legge creavano le norme.
Nel medioevo erano invece i giuristi, ora invece il grosso potere era nelle mani dei giudici. Per

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Montesquie invece il potere legislativo deve essere molto forte, se non c’è un potere legislativo è il
giudice che con l’interpretazione deve arrangiarsi. Quindi il pensiero di fondo dell’esprit de loy è
quello di una monarchia moderata, è presente una ideologia penalista laica e garantista, anche
Montesquie infatti sostiene che sono solo le azioni esterne ad essere passibili di persecuzione, le
opinioni e il pensiero no. Un’opera comunque ambigua, può essere collocato sia come padre del
liberalismo sia come conservatore, poi a volte monarchico, a volte repubblicano e il suo pensiero
è così ampio che a seconda delle parti del libro prese in considerazione si potrebbe sostenere
qualunque tesi. Tarello quando parla di Montesquie evidenzia questa polivalenza del suo
pensiero. Le leggi per Montesquie sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose,
le leggi sono le regole che determinano i rapporti tra tutti gli esseri secondo una necessità
naturale, una logica della natura.
Le leggi dello stato di natura per Montesquie sono l’istinto di pace, la ricerca di sostentamento,
l’attrazione sessuale cioè la legge sull’amore, le disposizioni sulla socievolezza, tutto questo fa
parte delle leggi naturali. Le leggi positive sono considerare come rapporti necessari che derivano
dalla natura delle cose, per la prima volta la legge positiva viene vista come necessaria e
naturale, mentre vediamo che dai filosofi precedenti la legge positiva era sempre stata vista in
contrapposizione alla legge naturale, sempre considerata come legge arbitraria, Montesquie
invece mette da parte il razionalismo e il volontarismo perché per lui la legge positiva è una legge
naturale. Le leggi positive sono quelle relazioni naturali che si creano nello stato di società,
caratterizzato da ineguaglianza e conflitto. Il contenuto delle leggi positive non è sempre lo stesso
per lui, ma è condizionato da variabili come i fattori geografici, culturali, politici e dunque le leggi
positive per queste variabili cambiano di paese in paese, di tempo in tempo. Montesquie mette in
risalto la relatività delle leggi. Lo spirito della legge, cioè la ratio legis, deriva dal rapporto tra la
legge e tutte quelle variabili di cui parlavo prima. Queste teorie attecchiscono presso alcuni
sovrani illuminati come Caterina seconda di Prussia che nella seconda meta del diciottesimo
secolo afferma che le leggi migliori sono quelle che più sono adeguate a costituire il popolo che le
usa. Una che è buona per un popolo può essere cattiva per un altro. Esempio Leopoldo secondo
di Austria, da imperatore, chiede che in Normandia non si faccia il codice penale dell’impero ma
se ne faccia uno lombardo. La prima variabile che incontra la formazione delle leggi è la forma di
governo, ciascun tipo di governo richiede tipiche tipologie di leggi e non altre. Esempio il diritto
di voto è impensabile in uno stato autocratico. Secondo Montesquie in relazione ad ogni tipo di
governo si genera nella popolazione un valore fondamentale che guida il comportamento
collettivo, se non c’è corrispondenza della legge alla forma di governo si arriva al declino e alla
decadenza della popolazione dello stato. Vediamo le diverse forme di governo per Montesquie: lui
mette in risalto il relativismo della legge, non vanno tutte bene sempre e ovunque, ci sono
variabili che le condizionano, la prima è la forma di governo. Nel governo repubblicano il potere
appartiene al popolo e nasce la democrazia, o viene dato solo ad una parte del popolo e allora
aristocrazia. La virtù, cioè l’amore della patria e delle leggi è il valore fondamentale in questo
contesto. Le leggi devono creare condizioni di uguaglianza giuridica, economica, combinare pene
proporzionate ai delitti che vanno applicate da tribunali popolari. Il secondo tipo è il governo
monarchico, dove ogni potere deriva dal monarca che governa secondo leggi fisse che ne limitano
il potere. Le leggi qui sono leggi che favoriscono l’ineguaglianza dei ceti sociali, sono leggi che
proteggono le prerogative dei ceti e tutelano l’ordine gerarchico delle famiglie. In uno stato
monarchico allora c’erano vari istituti come il fedecommesso che in effetti tutelavano le
disuguaglianza. In un governo monarchico avevano poi importanza i ceti privilegiati che facevano
da tramite tra la base e il popolo. Il sentimento che domina qui è l’onore. Il terzo tipo di governo

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è quello dispotico, qui il potere è esercitato da una sola persona, è il governo assoluto, non ci
sono leggi fisse, la struttura del governo è ridotta al minimo tanto chi decide è uno solo. Qui
domina la paura, perché nello stato dispotico i sudditi ubbidiscono per paura ed è usta per
evitare rivolte.

NONA LEZIONE (26/03)

Dopo aver illustrato brevemente quelli che sono i 3 tipi di governo, Montesquie passa a parlare
della libertà perchè la libertà è uno degli elementi che condizionano enormemente le forme di
governo.
Secondo Montesquie tutte le forme di governo e quindi di fatto tutti gli Stati, hanno come
obiettivo quello di conservarsi e nell’ambito di quelle tipologie di governo / Stato che abbiamo
visto Montesquie fa ancora un’altra considerazione: considera gli Stati che possono essere:

 MODERATI
 NON MODERATI.

Gli Stati moderati Sono quelli che, attraverso qualche meccanismo costituzionale che controlla il
potere politico, realizzano un certo grado di libertà.
Per esempio questo può avvenire nelle forme di governo repubblicano e monarchico.
Montesquie mette in luce che anche all’interno degli Stati liberali il livello di libertà può essere
più o meno accentuato.
Ovviamente Montesquie elabora tali teorie con riferimento alla realtà che lo circonda ed ha come
esempio dello Stato che realizza quella che Montesquie chiama la libertà integrale: l’Inghilterra
perchè gli altri Stati secondo Montesquie realizzano una libertà più o meno limitata  si parla di
libertà politica.
Proprio queste idee hanno creato di M l’immagine come uno dei padri del liberalismo.
M la libertà la intende come la intendeva Voltaire, la libertà non è fare tutto ciò che si vuole, ma
è da intendersi che si può fare tutto ciò che la legge permette.  quindi il cittadino ha il dir di
compiere qualsiasi azione non vietata dalla legge  questa è una forma di GARANTISMO DELLA
LIBERTA’.

È il fatto che l’individuo sappia con certezza quello che può fare, perchè la legge non lo proibisce.
Garantismo della libertà vuol dire che ogni suddito ha la tranquillità che ciascuno è sicuro.

SICUREZZA: è un’altra caratteristica che deve assicurare lo Stato.


Vediamo quali sono le considerazioni politiche che Montesquie fa sulla libertà, perché va bene
parlare di libertà, ma cos è che rende possibile la libertà?

Qua arriviamo alla teoria della separazione dei poteri.


Sono due le cose che rendono possibile il conseguimento della libertà:
1. Lo Stato deve avere un certo tipo di Costituzione, quindi non deve essere un
governo dispotico. Come deve essere la Costituzione?
Deve essere strutturata in modo da impedire l’abuso di potere  è celebre l’espressione: “ il
potere deve arrestare il potere”  quindi i poteri dello Stato devono controllarsi tra di loro.

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È da questo pensiero che nasce la teoria della separazione dei poteri che poi viene utilizzato
moltissimo, strumentalizzata moltissimo da tutta la dottrina liberale dell’800.
La libertà dei cittadini in uno Stato moderato, con una costituzione che garantisce il controllo
reciproco dei poteri, la libertà dei cittadini dipende dal bilanciamento dei tre poteri dello Stato,
cioè il potere legislativo, esecutivo e giudiziario  nessuno di questi tre poteri deve prevalere
sull’altro ed essendo bilanciati devono controllarsi a vicenda.
Questo sistema di limitazione e di controllo vicendevole dei tre poteri per Montesquie è già una
garanzia automatica di libertà e oltre che una garanzia automatica di libertà è anche una
garanzia giuridica perchè costringe ciascun corpo costituzionale a muoversi secondo lo stretto
diritto che regola l’attività, quindi anche i tre poteri dello Stato sono vincolati dalle regole del
diritto.
E poi viene ad esporre quelli che sono gli inconvenienti che nascono se non vi è questo
equilibrio, bilanciamento dei poteri  non solo bilanciamento dei poteri ma anche divisione dei
poteri perché se per esempio legislativo ed esecutivo sono uniti nel medesimo organo si rischia la
tirannide, perchè anche se il giudiziario resta a parte, il giudiziario deve giudicare anche secondo
leggi che sono fatte dall’esecutivo è chiaro che l’esecutivo lo tiene in scacco.
Secondo caso: se il potere giudiziario fosse unito al legislativo in questo caso è il giudiziario che
giudica i cittadini, ma fa anche le leggi allora vorrebbe dire che il potere sulla vita e libertà dei
cittadini sarebbe arbitrari, cioè il giudiziario fa tutto quello che vuole della vita e della libertà dei
cittadini, perchè è lo stesso giudice che fa anche le leggi.
E poi in ultimo se il giudiziario fosse unito all’esecutivo, il giudice potrebbe diventare anche un
oppressore, quindi alla base della garanzia della libertà non c’è solo il bilanciamento dei tre
poteri dello Stato, ma anche la separazione dei poteri dello Stato.
Tale teoria della separazione dei poteri di Montesquie è la teoria che viene più strumentalizzata
nell’ 800 per sostenere il sistema delle monarchie limitate, cioè delle monarchie costituzionali
contro l’assolutismo.
E dopo questo quadro generale sui tre poteri dello Stato e su come debbano essere divisi,
articolato, Montesquie passa ad esaminare ogni singolo potere:
 LEGISLATIVO
Definisce il potere legislativo cm la volontà generale dello Stato.
Montesquie argomenta questa sua definizione così: secondo lui ogni individuo per essere
veramente libero dovrebbe governarsi da se medesimo, allora bisognerebbe che tutto il corpo del
popolo avesse il potere legislativo  cosa impensabile.  dato che ciò è impensabile, tanto nei
grandi che nei piccoli stati è necessario che il popolo agisca attraverso suoi rappresentanti e ciò
avviene attraverso i propri rappresentanti.  Gli abitanti in ogni luogo devono conferire una
delega generale ad un rappresentante, ad un certo n° di rappresentanti, perchè il popolo secondo
Montesquie il popolo non sa discutere gli affari, i rappresentanti si.  Montesquie non ha una
grande concezione del popolo.
Questi rappresentanti hanno poi il compito di esercitare il potere legislativo, ma questi
rappresentanti non appartengono al popolo, ma fanno parte del corpo dei nobili, sono i nobili
che nelle loro assemblee possono prendere delle deliberazioni.
Devono avere anche il dir di veto sulle iniziative del popolo, esattamente come il popolo ha il
potere di veto sulle iniziative dei nobili.
M giustifica tale necessità di attribuire il potere legislativo al ceto nobiliare dicendo che se i
nobili avessero un voto come tutti gli altri la libertà comune genererebbe la loro schiavitù,
perché è chiaro che gli interessi dei nobili sono l’opposto di quelli che sono gli interessi del

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popolo e allora dato che la libertà comune sarebbe la schiavitù, non avrebbe interesse a
difenderla perché la maggior parte delle deliberazioni sarebbero contro di loro  fa queste
osservazioni del libro 11esimo dell’esprit des lois capitolo VI.
In poche parole i nobili hanno potere di gestire il potere legislativo perchè se il popolo facesse le
leggi le farebbe solo contro i nobili.

 ESECUTIVO
Deve essere in mano ad un monarca, cioè ad una sola persona, perchè dice che le decisioni
rapide devono essere decise da una sola persona, perchè se ci si mette a discutere non si prende
nessuna decisione.
L’esecutivo deve poter bloccare le iniziative del legislativo.  e come fa?
 Bloccando le convocazioni
 Bloccando la durata delle assemblee legislative
Questi due elementi sono poi nient’altro che il potere di sciogliere le camere nel corso della
legislatura, quindi di fatto di bloccare la durata delle assemblee legislative  il re ha il potere di
sciogliere le camere prima della scadenza della loro durata in carica.
Il re ha la facoltà di prorogare le camere, cioè di sospendere momentaneamente i lavori del
parlamento.  è uno strumento a cui ricorrono i governi per esempio durante tutte le guerre di
indipendenza.
Però se l’esecutivo può bloccare il legislativo temporaneamente, il legislativo non può bloccare
l’esecutivo, ma deve controllare che siano ben eseguite le leggi e poter giudicare i ministri del
monarca.
Non il monarca.
 GIUDIZIARIO
Con riguardo al potere giudiziario Montesquie elabora la teoria della “ giurisprudenza meccanica
e della totale sottomissione del giudice alla legge”
Secondo Montesquie il potere giudiziario deve essere formato da persone tratte dal popolo,
quindi non professionisti, per formare dei tribunali temporanei che devono durare per quanto
chiede la situazione, cioè per il tempo necessario, poi si sciolgono.
Questa idea dei giudici non professionisti tratti dal popolo darà origine successivamente
all’istituto della giuria popolare.
Quindi secondo Montesquie:
 I tribunali devono essere temporanei
 Non devono essere professionisti
e questo per assicurare l’apoliticità della funzione giudiziaria.
I due elementi di non professionalità e apoliticità, solo tali due elementi assicurano la passività
del magistrato di fronte alla legge e assicurano che il magistrato applichi la legge in modo
automatico.
Se non la applicassero in modo automatico , la applicherebbero secondo la loro interpretazione e
l’interpretazione della legge potrebbe influire sul potere legislativo, perchè potrebbero fissare e
creare nuove norme giuridiche che è proprio quello che Montesquie non vuole.
Siamo in un periodo in cui i magistrati hanno un grande potere, perchè i magistrati dei supremi
tribunali sono quei magistrati che emanano sentenze inappellabili, che creano il precedente e
con la conseguenza che con la creazione del precedente i magistrati erano arrivati ad essere
coloro che creavano nuovo diritto.
Ed è proprio contro costoro che si scagliano moltissimi pensieri di questi filosofi.
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Il magistrato deve essere solo la bocca della legge.
Tutto ciò perchè il potere giudiziario deve assicurare la
 CERTEZZA DEL DIRITTO
 E LA LIBERTA’ dei cittadini
E per poter assicurare la certezza del dir e la libertà dei cittadini deve in un certo annullarsi, il
giudice concepito da Montesquie deve essere la bocca della legge e quindi in questo modo è
attribuito alla magistratura di difendere la libertà dei consociati.
Ora vediamo come devono essere fatte le leggi.
Per potere sottoporre la magistratura alla legge bisogna che il dir sia:
 Semplice
 E chiaro
E nell’esprit des lois si dichiara che le leggi devono essere formulate con precetti chiari  questo
lo si dice nel libro 29esimo capitolo XVI, in cui si fa anche uno schema di come deve essere
elaborata la costituzione per garantire la libertà ci deve essere:
 Separazione del potere giudiziario da quello legislativo ed esecutivo
 Il giudice non deve essere un professionista
 L’interpretazione deve essere di natura meccanica, il giudice deve solo applicare il
dettato legislativo.
2. Lo stato deve avere un certo tipo di legge penale- lo stato moderato può garantire
la libertà se ha delle buone leggi penali.
In campo penale Montesquie crede in un diritto che si ispiri alla mitezza  e questa è una
caratteristica abbastanza comune a tutti i penalisti dell’area illuminista perché incominciano ad
essere diffuse queste idee umanitarie in tutti i campi e quindi anche in quello penale.
La tortura secondo Montesquie non è necessaria se non nei governi dispotici, quindi non
abolisce la tortura.
Uno degli elementi perché le leggi penali siano buone è la CERTEZZA DEL DIRITTO, il diritto
deve essere certo, cioè secondo l’idea garantista nulla poena sine lege.
Le leggi penali non solo devono essere certe, ma devono essere anche BUONE, cioè non devono
essere tiranniche, sono tiranniche quelle leggi inutili, cioè leggi che tendono a punire quei
comportamenti che sono penalmente irrilevanti.
Perché se ci sono troppe leggi penali vuol dire l’area di libertà dei singoli individui viene ridotta.
Poi sono considerate tiranniche anche quelle leggi che attribuiscono pene troppo crudeli, cioè
quelle leggi che creano una sorta di terrorismo intimidatorio.
Nelle lettere persiane riguardo a questo problema delle leggi tiranniche viene espressa una
equazione: pene troppo crudeli = tirannia  quindi le pene troppo crudeli si addicono solo ad
una tirannia.
Sono considerate tiranniche quelle pene che non sono proporzionate al delitto  qua si arriva
alla definizione di bontà della legge penale, sono buone quelle leggi che istituiscono un rapporto
tra gravità della pena e gravità del reato la pena è proporzionata al reato.
L’ossequio a questo principio proporzionalistico porta Montesquie a pensare che i delitti contro
la religione debbano essere repressi con sanzioni meramente religiosi, quindi i crimini religiosi
non devono essere presi in considerazione dalla legge penale dello Stato  LAICITA’ DELLA
LEGGE PENALE.
Per assicurare la libertà dei cittadini bisogna anche che in campo penale vi siano delle garanzie
per il cittadino.
 Non si può condannare una persona in base ad una sola testimonianza
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 Formalità processuali: perchè il processo deve garantire i dir individuali.
Tutto questo Montesquie lo specifica perchè il dir penale nel 18 esimo secolo non prendeva in
considerazione tutto questo aspetti, anzi il dir penale sostanziale nel 18esimo secolo distingueva
ancora i reati in due grandi categorie:
 I REATI PUBBLICI: essi venivano perseguiti automaticamente dal giudice o da organi
pubblici.
I reati nei confronti della figura del re il giudice interveniva automaticamente.
In campo penale comprendevano i crimini pubblici: esempio attentato al sovrano.
 I REATI PRIVATI erano perseguiti in seguito ad una accusa da parte della vittima o di un
privato  sottostavano ad un sistema accusatorio, se non vi era l’accusa il giudice non
interveniva.
A questo distinzione dei reati corrispondeva un sistema delle pene che è quello che poi nel 700
viene messo in discussione, per esempio la stessa pena poteva essere applicata a diverse figure
di reato  esempio: la pena del rogo poteva essere applicato sia se il reo era accusato di lesa
maestà divina ( in campo spirituale) , sia di lesa maestà umana ( cioè nei confronti magari del
re).
Le pene venivano suddivise per tipologia, non per quantità, non si prescrivevano tot numero di
anni di prigioni, la pena era la prigione, poi spettava al re decidere per quanto tempo il reo
doveva stare in carcere, per questo gli illuministi insisteranno poi molto sulla proporzionalità
della pena.
Esempio: la pena dei lavori forzati in genere era comminata per la vita, quindi non vi era
proporzionalità.
Tutto questo sistema penale era oggetto di trattati minuziosi, però non trattava il vero problema
penale  il problema penale viene affrontato per la prima volta con l’esprit des lois. In esso
Montesquie viene ad enunciare una teoria penale universale, nel senso che è una teoria penale
che vale per tutti, ovunque, ma se da un lato è universale è dall’altro lato anche relativa, perchè
è relativa a ciascuna forma di governo.
Le sue osservazioni penalistiche hanno uno scopo puramente utilitaristico perché hanno lo
scopo di individuare la legislazione adatta alla conservazione dello Stato, di quello Stato che si
pone come obiettivo la libertà dei cittadini.
Questo però non vale per tutte le forme di governo, perchè per esempio la forma di governo
dispotica è caratterizzata dalla mancanza di leggi fisse, le leggi le fa di volta in volta il despota a
seconda di quelle che sono le opportunità del momento.
Qualche considerazione sulle leggi penali si trova già nelle lettere persiane (opera di Montesquie
del 1721) .
In tali lettere vengono messi in risalto già diversi punti riguardo alla dottrina penale: un punto
per esempio è quello in cui si dichiara ingiusta la legge che punisce il suicidio.
Il suicidio era considerato un reato perché la chiesa lo riteneva ingiusto perchè solo dio può
decidere della vita e della morte, ma essendo che il dir deve essere laico non può essere
considerato reato.
Non è vero che più sono gravi le pene, più le leggi vengono rispettate  è una constatazione che
non è vera, per cui è meglio avere leggi più miti, se si ottiene la loro obbedienza piuttosto che
tante leggi severe che poi vengono disobbedite.
Poi contesta per es la proibizione, da parte delle leggi, del duello, perchè se le leggi dell’onore
impongono tale istituto il duello va rispettato.  il duello era stata abolito su influenza del diritto
canonico perché non si ha diritto di uccidere per farsi giustizia.
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Ora l’onore è una delle regole basilari che circolavano tra la nobiltà.
Condanna anche, e qui è una polemica nei confronti del mondo orientale, l’uso di condannare a
morte le persone a loro sgradite  questa contrasta al principio di proporzionalità tra pena e
reato.
Mentre Montesquie condanna questa usi accetta la concezione della pena come vendetta perché
dice che la vendetta:
 rientra nella legge naturale
 e perchè la ritiene razione in quanto è proporzionata al delitto.
Poi ritorna al rapporto tra del dir penale con un governo dispotico  dice che il governo dispotico
è l’unico a cui conviene avere l’unicità del magistrato, quindi non collegialità, ma un magistrato
unico.
Anche all’interno del governo dispotico esiste la proporzionalità della pena, ma in questo regime
tante volte si può derogare a tale principio di proporzionalità che invece deve essere proprio della
monarchia.
Nel regime dispotico è ammessa la regola del taglione, la punibilità dell’innocente se ciò è utile a
conservare lo Stato.  questo fa parte di quei provvedimenti per evitare le rivolte.
Nel governo dispotico deve essere conservata la tortura.
Il rapporto delle leggi penali all’interno di un regime monarchico (questo è contenuto sempre
nelle lettere persiane).
A differenza del regime dispotico la monarchia deve avere una legge fissa, predeterminata prima
del giudizio e questa legge deve essere chiara e precisa.
Altre caratteristiche della monarchia (queste cose le ritroveremo nell’esprit des lois) : separazione
del giudice dal monarca, però il giudice che delibera all’interno di una monarchia è diverso da
un giudice che delibera all’interno di una repubblica perché il giudice della monarchia non deve
deliberare meccanicamente, ma deve deliberare secondo prudenza.  ciò vuol dire che il giudice
deve tenere conto della monarchia, di quelli che sono i giudizi del sovrano.
All’interno di una monarchia le leggi penali non devono essere uniformi su tutto il territorio, ma
devono rispettare le differenze territoriali, e soggettive (cioè cetuali) , quindi le leggi penali devono
rispettare le consuetudini locali, devono essere quindi differenti a seconda dal ceto a cui sono
indirizzate.  questo perché la codificazione penale non conviene alla monarchia per la sua
conservazione.
Nelle monarchie la repressione penale deve essere attuata il meno possibile, non deve essere
troppo efficiente, troppo attiva, bisogna intervenire in campo penale solo quando è davvero
necessario, perché se la monarchia interviene troppo si “rompe”.
Le pene all’interno del regime monarchico devono essere diversificate a seconda dei cittadini, le
pene che colpiscono un nobile deve essere diversa da quella che colpisce un contadino per lo
stesso reato
E allo stesso tempo non devono essere eccessive e troppo frequenti per non creare assuefazione e
per non perdere effetto.
Bisogna evitare che dei delitti gravi restino impuniti e bisogna anche evitare la corruzione.
Per quello che riguarda la procedura secondo Montesquie all’interno di un governo monarchico
non conviene ne un sistema accusatorio, né uno inquisitorio ma propone un sistema di accusa
che dipende dal re, così è il re che decide quali delitti punire e quali no.
Questo organo di inquisizione e di accusa che dipende dal re deve portare l’accusa davanti ad un
giudice autonomo dal sovrano  il giudice sarà pure autonomo ma è il sovrano che decide quali
delitti vanno giudicati e quali no.
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Le leggi penali nel sistema repubblicano.
Le repubbliche possono essere di due tipi: democratiche o aristocratiche, però le caratteristiche
generali delle repubbliche è che devono avere una legge chiara e precisa e non devono avere un
magistrato unico, ma per lo più le magistrature devono essere collegiali per evitare la corruzione
visto che non vi è il sovrano che sorveglia.
I magistrati non possono accettare doni a differenza di quanto accade nei regimi dispotici.
Nella repubblica domina il sistema accusatorio e deve dominare l’obbligatorietà della denuncia
 i cittadini devono denunciare se sono a conoscenza di qualche reato.
Non esiste presso le repubbliche l’istituto della grazia, della clemenza che sono tipiche delle
monarchie perché attraverso tali istituti il monarca può di fatto controllare la decisione presa dal
magistrato, perchè se il magistrato condanna qualcuno e il monarca concede la grazia è lui a
decidere.
Tipiche delle repubbliche sono le leggi suntuarie.

Sono le leggi sui costumi, cioè quelle leggi che reprimono i costumi della popolazione.
Però per quello che riguarda la violazione dei costumi da parte delle donne, sono previsti
all’interno delle repubbliche dei tribunali familiari in modo di mantenere tutto in famigli; tranne
che per l’adulterio deve essere mantenuta la pubblica accusa.

DECIMA LEZIONE (08/04)

Riprendiamo il discorso con il Montesquie penalista, uno dei pilastri dell'illuminismo giuridico.
Montesquie è un personaggio ambiguo proprio anche per quel che riguarda la dottrina
penalistica, in quanto il suo pensiero è diventato il punto di riferimento di un pensiero
illuminista liberale in materia penalistica forse oggi in modo un po’ eccessivo, e il suo apporto è
stato forse travisato; tant'è che oggi gli interpreti si pongono il problema per cui la sua teoria
sulla legislazione e le istituzioni sia stata ispirata da persuasioni proto- liberali, o sia stato un
conservatore. Analizzando i vari aspetti della dottrina penalistica vedremo come, nell'analizzare
le caratteristiche delle pene nei vari ordinamenti, esponga delle teorie che si prestino a una
duplice interpretazione, anche perchè era comunque un conservatore e fautore di una
distinzione cetuale, un corporativistica, non era di certo fautore della libertà in senso assoluto, e
quindi alcune sue affermazioni sulla legge penale non possono essere interpretate in modo
univoco, credendo che sia l'antesignano di un certo egualitarismo orizzontale in senso penale.
Altro problema è vedere se preferisse un modello monarchico- repubblicano o preferisse
esprimere con mentalità scientifica le ricostruzione politiche, o volesse far valere un proprio
credo ideologico. La Bonzo e molti altri studiosi credono che molti hanno di fatto attinto da
Montesquie, spesso travisandolo nella sua natura di pensiero; lo stesso carattere sistematico
dell'opera comunque va rispettato.
Montesquie in sostanza, non sostiene una teoria in senso astratto su come e quale sia la forma
di governo migliore in assoluto, lascia trapelare il suo pensiero nelle sue considerazioni, ma non
è assiomatico, è più legato ad una impostazione relativistica e per ciascuna istituzione espone
anche in ambito penalistico le caratteristiche che devono vere le leggi penali all'interno di
ciascun sistema per conservarsi e non corrompersi. Questo perchè una legge penale che non
abbia tali caratteristiche infatti porta alla corruzione di quel sistema. Quali sono i requisiti
necessari per la libertà secondo Montesquie?
 una certa costituzione politica,

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 un certo tipo di legge penale.
Si pone in problema della bontà delle leggi penali, ma in senso assoluto o relativo, cioè come una
adeguatezza tecnica del diritto ad una certa impostazione? l'impianto dell'opera è relativistico
quindi evidenzia la bontà della legge penale per ogni sistema, ma di certo certi toni in favore
dell'umanità della pene fanno propendere nel ritenere che fosse in lui superiore un diritto penale
ispirato alla mitezza, e in ogni caso i teorici dell'illuminismo penale, fra cui Beccaria, avrebbero
universalizzato i principi di Montesquie, facendo forse di un particolare un universale. Qual è la
delicatezza del diritto penale? è che dalle leggi penali dipende la libertà del cittadino; occorre che
comportamenti vietati e che le norme che li puniscano siano tassativamente e anticipatamente
individuati, e la legge vada applicata ala lettera. Questo è il postulato della certezza del diritto
che si traduce nell'assioma del nulla crimen sine lege. Per Montesquie le leggi penali oltre alla
certezza devono avere una caratteristica estrinseca di bontà, non devono essere leggi tiranniche;
sono leggi tiranniche le leggi inutili, cioè che puniscono comportamenti penalmente irrilevanti,
che comprimono in modo inopportuno la libertà individuale, o sono leggi che comminano pene
eccessive, secondo un ottica di terrorismo. La severità delle pene serve di più in un ordinamento
despotico ma nocciono alla monarchia e alla repubblica, che non hanno bisogno di una
eccessiva severità delle pene. come principio generale poi, è meglio prevenire che punire secondo
Montesquie.
C'è comunque una equazione fra dispotismo e pena eccessivamente onerosa.
Anche perchè come concetto generale per Montesquie è meglio prevenire che punire.
Le norme possono essere in ambito penalistico tiranniche quando comminano delle pene non
proporzionate, al delitto; abbiamo già visto come buone siano le leggi che stabiliscono una pena
secondo un rapporto razionale perchè è evidente che se la pena non è commisurata con la
gravità del delitto, chi commette un delitto meno grave, tutto sommato viene incentivato a
commettere anche quello più grave perchè la pena non è diversa, e la proporzionalità si
inserisce in un discorso razionale. da questo principio proporzionalistico vediamo anche il modo
ci colpire alcuni reati; ad esempio i delitti contro al religione vanno repressi con sanzioni
qualitativamente omogenee e quindi con pene canoniche. Il problema poi si porrà in modo
diverso fra alcuni reati che hanno una componente interna ma che possono avere una
manifestazione esteriore di attacco alla convivenza pacifica e che possono interessare la sfera
statale e quindi che vanno punite anche con pene non necessariamente canoniche. Anche il
processo penale si intreccia con la libertà, e il problema delle garanzie processuali e molto
sentito da Montesquie, che opterà per valorizzare la testimonianza ma richiedendo anche un solo
testimone per formare il giudizio di colpevolezza; anche le formalità processuali in campo penale
potrebbero tradursi in una protezione per i diritti personali, più e complessa la procedura e più il
soggetto del processo risulta essere tutelato perchè il meccanismo processuale deve procedere in
modo più cauto superando diversi step prima del giudizio definitivo. Più complesse sono le
regole di acquisizione e valutazione delle prove e più diritti di difesa saranno tutelati.
Entrando nel merito del pensiero Montesquie per il problema penale, abbiamo visto come questo
pensatore sia stato oggetto di una valutazione per certi versi ambigua; avevamo il problema del
diritto penale nel 700, dove il diritto penale sostanziale era ancora connotato da molte
differenziazioni a carattere soggettivo ma anche a carattere oggettivo perchè le figure di reato
erano distinte secondo quella classica tradizione romana e medievale in crimini pubblici e privati
pubblici e privati, e non c'erano categorie sintetiche; l'omicidio ad esempio l'omicidio poteva
ricomprendere la privazione della vita secondo vari metodi, ma tutto sommato la fattispecie era
sintetica, unica. Nel 700 la differenziazione invece era molto notevole quindi l'assassinio era

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diverso dall'avvelenamento ad esempio, anche se si comprometteva sempre in bene della vita.
Nel diritto penale settecentesco vigeva ancora questa distinzione tra crimini pubblici e privati; i
reati privati erano perseguiti solo dopo accusa privata, i reati pubblici invece erano perseguiti dal
giudice o da organi pubblici. I reati pubblici erano quelli di lesa maestà, sia divina che umana,
nella maestà divina era nella sostanza stregoneria e magia, quella umana invece era inizialmente
l'attacco personale re, e poi anche in riferimento ai funzionari del re.
Le sanzioni nel diritto penale del 700 erano molto diversificati e anche Montesquie non arriva a
emanciparsi da tale impostazione perchè non arriva ancora all'unificazione di una pena, quale
quelle detentiva, ma si ha una diversificazione anche per tipologia. Il diritto penale del 700 è
ancora caratterizzato dalla presenza dei lavori forzati che venivano comminati per la vita, e la
detenzione (pena per eccellenza quantificabile) era usata per lo più come misura amministrativa
che come pena in senso stretto (disposta a seguito di processo penale). Nessuno fino a
Montesquie aveva posto in problema del diritto penale in senso stretto; spesso si aveva fatto
qualche considerazione, ma non ponendolo mai in termini generali, che si ha solo con lo “Esprit
des les lois”. Tuttavia Montesquie non è rivoluzionario in questa impostazione; è innovatore in
qualche caso ma non rivoluzionario, perchè anzi in qualche caso va a sostenere la borghesia, e
quindi anche nel diritto penale emerge questa sua impostazione e appena può fa valere una
certa differenziazione cetuale, quindi è fondamentale il suo pensiero perchè pone il problema
penale per primo, si pone il problema di chi abbia in potere di punire e in virtù di quale
fondamento possa ciò avvenire. Pone il problema a del rapporto fra crimine e pena per primo, o
per esempio pone il problema delle qualificazioni penali per primo si avvia su questa strada, così
come si chieda quale sia la pena ragionevole. Fino a quel momento infatti non si era ancora
avviata la riflessione giuridica, anche circa il fine della repressione penale... sono tutte tematiche
che prima di lui non erano state avviate. E' anche vero però che non assolutizza una certa
posizione di fondo ma indica per ogni sistema istituzionale le caratteristiche delle pene.
L'esprit des lois non è né rivoluzionario ne riformatore, anzi Montesquie accetta le cose, non
cerca di sovvertire il sistema e propone alternative ma non va contro l'ordine costituito, accetta
le istituzioni, quindi è un positivista, e non è un volontarista perchè le leggi non devono essere
solo frutto della volontà di chi detiene il potere, ma devono essere condotte a ragione, devono
essere razionali, dettate da quei fattori che dentro un certo tipo di contesto storico geografico e
politico, rendano necessaria una certa opzione. Il metodo di Montesquie è legato alla struttura
generale delle forme di governo per ciascuna indica quali siano le leggi penali necessarie, quindi
non assolutizza. Il criterio con cui Montesquie analizza e identifica individua i vari tipi di legge
penale è comunque il criterio della convenienza tecnica, non è un criterio ideologico astratto
ma dettato al fine dalla conservazione sociale. Visto che i modelli di stato sono quelli, all'interno
di ciascun sistema ci va una certa legge penale affinchè quel sistema non si corrompa, e la
costituzione rimanga intaccata.
Il regime despotico, è un regime estremo che ammette anche al tortura nella fase istruttoria,
ha una estrema durezza, commina pene senza leggi precostituite, o tribunali fisse, ma ciò non
implica che anche nel sistema dispotico non ci debba essere un 'attenzione anche alla
proporzionalità, che deve essere tenuta in considerazione, come anche la semplicità della
repressione, anche perchè il regime despotico è adatto alla legge del taglione che Montesquie
pone in riferimento alla confisca dei beni per il delitto del peculato. Nei governi despotici il
giudice coincide con il sovrano in modo tendenziale, e quindi il giudice non è vincolato a leggi
pre-esistenti. Altra caratteristica è l'unicità del magistrato che conviene solo in questo regime,
per rendere immediata e dura la repressione, c'è unicità della repressione penale in tutto lo

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stato, si evita il particolarismo nel regime dispotico perchè l'unicità serve ed è funzionale al
giudizio. Nei regimi dispotici tutti i crimini si riconducono alla lesa maestà, e nel governo
despotico i diritti sensibili sono quelli del sovrano, e questi crimini sono recepiti come offesa al
sovrano in senso ampio. Sono pene dure ed estreme che però vedono comunque una
proporzionalità, con una eccezione, perchè può esserci addirittura la punibilità degli innocenti,
nel senso che la proporzionalità non significa che non possa esserci una non coincidenza tra la
persona autrice del fatto e la persona che viene punita, quindi viene contemplata, ma la
proporzionalità non viene considerata in termini così stretti,.
Nella monarchia, modello riconducibile alla realtà storica del momento, le leggi devono essere
più articolate, il processo anche, le leggi sono precostituite, anche se non necessariamente
chiare e precise, perchè il giudice, che deve essere diverso dal monarca e indipendente, può
tendenzialmente adottare un giudizio secondo prudenza, e quindi la legge potrebbe essere anche
poco chiara.
Le leggi penali non devono essere semplici, anzi ci vanno molte eccezioni e distinzioni, necessarie
per la conservazione della monarchia, e qua si vede la preferenza verso un regime ancora legata
all'ancien regime, che non sopprime le diversificazioni sociali, le distinzioni cetuali; anche se
parla in modo apparentemente sistematico delle varie forme di governo, non trapela una
impostazione soggettiva. ci devono essere quindi delle differenziazioni, anche su basi soggettive,
e qua emerge la differenziazione cetuale cara a Montesquie, che non è quindi fautore
dell'egualitarismo molto proclamato nello stato di diritto, anzi si può dire che sia contrario a
tutto quanto è stato detto sotto la codificazione penale. Quindi non è innovatore anche riguardo
il giudice penale; il giudice però deve essere diverso dal monarca, non deve essere portatore di
un interesse proprio, e poiché il re, il monarca è parte lesa in tutti i crimini di lesa maestà ed è
sempre accusatore, anche se per interposta persona, e nel caso in cui venga comminata la
confisca è il beneficiario dei beni, è evidente che non deve coincidere con il monarca, sennò
avrebbe un esito proprio. Tipica poi della monarchia è lo strumento della grazia, non
contemplata nelle repubbliche, data dal sovrano nel processo penale.
Per quel che attiene il processo nel sistema della monarchia, deve essere tendenzialmente poco
attivo, più è macchinoso e meglio è per la tutela dei cittadini, perchè in fondo in questo senso ha
ben chiaro che un processo efficiente è funzionale all'accentramento politico, cosa che fa fuori la
nobiltà, cosa che lui non vuole, e quindi Montesquie è contrario alla semplicità e uguaglianza
soggettiva della repressione penale perchè trasformerebbe la monarchia in governo dispotico,
cosa che non sarebbe accettabile.
Le pene non devono essere nella monarchia eccessive e nemmeno troppo frequenti perchè
perderebbero di efficacia, e qua è alta l'idea dell'onore della nobiltà, e quindi la pena non va
esercitata in modo eccessivo perchè l'importante è che emerga a monte il senso del onore,
devono essere molto diversificate e bisogna evitare la corruzione, che dipende un po' anche dalla
mancanza di proporzionalità. Il legislatore deve esser quindi moderato, che fa anche riferimento
al senso dell'onore e morale religiosa, e deve essere insito nei cittadini, così come nelle
repubbliche che si basano sulle virtù non c'è dubbio che la macchina penale deve tendere a
valorizzare, ma la monarchia dovrebbe quindi fidarsi della spontaneità del senso dell'onore, e
provvedere alla repressione penale.
La Repubblica. Per quel che attiene la repubblica, Montesquie distingue il discorso tra le
repubbliche in generale e tra quelle aristocratiche e moderate. La legge penale deve essere
precostituita; la legge deve essere chiara e precisa, a differenza della monarchia, dove invece la
legge deve essere oscura perchè oggetto di interpretazione. Nelle repubbliche non deve esserci un

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unico magistrato, e anzi come per le monarchie la procedura deve essere anche qua complessa;
nella repubblica deve esserci anche una certa propensione ai costumi dei magistrati; nella
monarchia i giudici sono tratti proprio dalla nobiltà.
Il sistema processuale nelle repubbliche è di carattere accusatorio con accusa pubblica, con
pene moderate e non è chiaro il regime della pena di morte, esclusa anche per la lesa maestà, e
viene anche escluso il potere di grazia. Una forma tipica di legge è la legge finalizzata alla
moderazione dei costumi, .e che possono portare all'istituzione di tribunali famigliari per
controllare alcuni comportamenti soprattutto delle donne, senza però sottrarre al potere
coercitivo statale alcune forme più gravi di pene più gravi. Nelle repubbliche aristocratiche
ritiene che tendenzialmente si tratti di una struttura politica abbastanza debole e che la legge
penale serva per rafforzare al struttura politica; la legge penale quindi in qualche modo è sempre
un condizionamento politico, quindi nelle repubbliche aristocratiche ci va un maggior severità
per i crimini pubblici rispetto quelli privati, puniti con severità inferiore. I crimini pubblici infatti
gli altri sono puniti anche con mezzi anzi straordinari, e sono presenti strumenti come il diritto
d'asilo che potrebbe portare la sottrazione del singolo a tale potere coercitivo. A cosa serve la
legge penale nelle repubbliche aristocratiche? Le repubbliche aristocratiche, sono esposte
prevalentemente a dei rivolgimenti politici che possono venire sia dal basso che dalla nobiltà;
questi continui rivolgimenti politici vanno controllati e le leggi penali, anche tramite
magistrature particolari, devono impedire la corruzioni del sistema politico. Queste magistrature
penali speciali possono essere sia di carattere occasionali che permanenti; nel caso in cui il
rivolgimento è da parte del popolo, il moto è più immediato e la magistratura può essere anche
occasionale e avere lo scopo di minacciare più che punire; se invece il pericolo deriva da nobili, le
trame sono più diffuse temporalmente e quindi la magistratura speciale dovrebbe essere non
occasionale ma permanente, anche deve utilizzare dei potere molto invadenti e penetranti e deve
operare nel segreto proprio perchè non abbiamo un pericolo improvviso. Non è quindi da
escludersi, anche nelle repubbliche, la introduzione di procedure inquisitorie e viene anzi
istituzionalizzata la relazione segreta e quindi anche la disapplicazione del principio nulla poena
sine lege.
Per quel che attiene invece le repubbliche democratiche, il discorso cambia (a parte il fatto che
Montesquie fa una premessa, per cui la repubblica democratica è possibile solo a determinate
condizioni, per territori piccoli e specifiche condizioni di carattere demografico ed economico e la
riflessione che fa su tali repubbliche è molto specifica, ma in realtà tali riflessioni hanno avuto
portata generale). Le caratteristiche delle leggi penali è che devono essere leggi fisse, chiare,
semplici, meccanicamente applicabili (non è ammesso in tali repubbliche uno spazio
interpretativo in sede applicativa della legge); i giudici sono scelti fra cittadini, non sono tecnici,
e la lor attività è principalmente quella di accertare i fatti, senza esercitare una forma di
ragionamento giuridico di ulteriore approfondimento della ratio legis. Devono infatti accertare i
fatti e ricondurli ad una legge chiara e precisa. Il sistema processuale adottato dovrebbe esser
quello accusatorio, anche se potrebbe porre qualche rischio; la legge penale è comunque e in
ogni caso una legge egualitaria, che deve presupporre l'uguaglianza dei cittadini, non deve
contemplare nessuna forma di esenzione, l'unica forma che deve precisare è la differenza fra
autorità è cittadini. L'uguaglianza infatti non può intaccare il rispetto di quel salto che ci deve
essere fra cittadini e autorità dei magistrati.
Può essere ammessa nelle repubbliche democratiche una magistratura particolare in materia di
costumi, diversa da quella famigliare, perchè in tale caso si ammette la correzione esercitata
anche nei confronti dei figli sui quali ammette quasi una sorta di potere di vita di morte da parte

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dei genitori, quindi è una forma più esasperata di quel senso di correzione che era invece
limitato nelle repubbliche aristocratiche.
Qua è inoltre ammessa la censura, anche se talvolta può implicare un abbassamento della
certezza del diritto; è una tipica magistratura posta a seguito di violazione dei buoni costumi ai
quali bisogna essere molto attenti. Censura che è tipica di queste repubbliche come
l'inquisizione segreta può essere tipica di quelle aristocratiche. La differenza fra le diverse
repubbliche, che Montesquie sottolinea, è che nelle repubbliche democratiche, pericolo
principale provenga dall'affievolirsi della virtù, mentre in quelle aristocratiche, pericolo principale
sono le trame dei nobili.
Cosa dice Montesquie in particolare per le repubbliche democratiche in ordine alla repressione
penale? Tarello in ciò sottolinea una contrapposizione, contraddizione quasi di Montesquie
perchè da un lato dice che dove il popolo è virtuoso occorrono poche pene, e in fondo nella
repubblica democratica il valore fondante sia quello della virtù, come è l'onore nelle impostazioni
più conservatrici; ma è anche vero che ad un certo punto Montesquie dice che nelle repubbliche
democratiche ci sarebbe la tendenza a costruire tutti i crimini come crimini pubblici, cioè come
se tutti i crimini, in un modo o nell'altro, più o meno indirettamente mettessero in pericolo
l'esistenza dello stato, anche quando in realtà hanno una natura più spiccatamente privata e
questo porta ad un aumento sproporzionato della pena perchè anche quando un crimine mina a
ledere solo i beni del singolo che sono minori dal punto di vista oggettivo, o comunque quando il
crimine è diretto a mettere in pericolo solo i beni o la persona del singolo, può essere che
scaturisca una configurazione di crimine comunque pubblico e scatti una pena molto più severa
di quella che astrattamente andrebbe configurata per i crimini privati. Ad esempio, fa riferimento
al broglio elettorale; poiché mette comunque in pericolo lo stato, dice Montesquie, allora scatta la
pena di morte che apparentemente potrebbe sembrare eccessiva, ma perchè c'è questa tendenza
a configurare come crimini pubblici tutto ciò che mette in pericolo il funzionamento dello stato. Il
sistema penale è quindi piuttosto duro e proprio per questo – ricordiamo che le pene sono
particolarmente gravi, anche perchè nelle repubbliche democratiche potevano essere repressi
comportamenti che erano usciti dal penalmente rilevanti, ed è un sistema che prevede un corpo
giudicante piuttosto ridotto, con un giudice unico - può fare paura al cittadino e quindi ammette
anche una serie di strumenti affinchè il cittadino si sottragga a questo sistema di repressione
penale.
Dopo aver configurato il sistema penale nelle repubbliche in generale e poi dettagliando nelle
repubbliche aristocratiche e democratiche, va a individuare le caratteristiche del sistema penale
negli stati moderati, che non sono necessariamente coincidenti con quelli che hanno come fine
la libertà del cittadino; ci sono forme di monarchia e alcune forme di repubblica democratica che
hanno il fine della libertà di cittadini, ma non tutti gli stati hanno questo fine. Quali sono le
caratteristiche delle leggi penali negli stati moderati? Le leggi devono essere leggi penali fisse; in
assenza di ciò, scatterebbe un mezzo arbitrario, che non viene ammesso. Questo senso di
moderazione del giudice caratterizza il sistema penale e porta ad affermare come necessaria
l'autonomia del giudice sia rispetto al potere legislativo che esecutivo, e porta quindi ad una
separazione del poter giudiziario anche rispetto al potere amministrativo e in questo, si possono
cogliere gli spunti per la teoria successiva dello stato di diritto.
E' importante precisare però che il senso di moderazione e indipendenza del giudice fa si che
evidentemente la borghesia debba essere estranea dal potere giudiziario perchè in questo ci
sarebbe un conflitto fra gli interessi di questi soggetti e l'esercizio della giurisdizione.

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Negli stati moderati ritiene che le pene non debbano essere troppo severe, ed è qua che
sottolinea la mitezza delle pene, solo in questo contesto però, non in tutto il suo pensiero. Solo in
questa sede viene sottolineato il principio, mentre in altri regimi politici ritiene indispensabile
l'uso di pene severe e molto dure. Quindi pene miti ma solo negli stati moderati. Abbiamo detto
poi che la virtù e onore, tipiche del sistema monarchico e delle repubbliche, dovrebbero già avere
funzione correttiva, quindi escludere la necessità di una coercizione penale forte e quindi
bilanciare l'asse della repressione sulla fase preventiva. Questo però non esclude che nello stato
moderato non ci possa essere la previsione della pena di morte; è però la pena di morte, senza
quei patimenti ad essa collegati, e dice che il singolo ha già il timore di perdere il bene primario
della vita più che il timore della morte. Nel complesso però è un sistema mite di pene
caratterizzato da una sostanziale armonia e quindi ritorna al principio proporzionalistico che
presuppone da un lato la pena comunque come retribuzione (ammettendo un criterio
proporzionalistico parte dal presupposto di pena come retribuzione), ma ammette anche un
criterio di utilità (tutto sempre ispirato al principio della convenienza del sistema politico). Dice
infatti che punire in modo uguale crimini con gravità diversa rende impunita la commissione del
reato più grave; quindi è conveniente graduare la pena, che non corrisponde a canoni etici, è un
problema di convenienza, per cui graduare le pene secondo una vasta gamma o prevederne una
che presti ad una variazione quantitativa, è utile al sistema politico. Per il contesto dell'epoca
non può ancora giungere a quell'unica pena graduabile quantitativamente, quale sarebbe stata
la detenzione, e per il contesto politico storico in cui opera, opta ancora per la soluzione
rappresentata da una bassa gamma di pene che possono essere pene pecuniarie (unico limite è
la confisca sui beni) , pene corporali - che pur essendo applicabili nello stato moderato parrebbe
non subiscano limiti, certamente la tortura non conviene agli stati moderati in ambito
processuale- . Quindi il contesto è comunque quello di pene miti.
Ultima postilla è che negli stati moderati ciò non esclude che vi sia una certa severità nei reati
tributari che ledono una certa propensione al risparmio del pubblico e quindi si devono avere
delle leggi più severe rispetto allo stato despotico quando tutela beni offesi dai reati tributari.
Passa poi a evidenziare quelle che possono esser le leggi penali degli stati moderati che hanno
come fine la libertà dei cittadini; a questa forma va la sua simpatia, anche se molti interpreti
hanno travisato un'ottica ancora molto legata all'ancien regime; infatti vi era una differenza fra le
libertà medievali e le libertà ottocentesche: le libertà dell''800 sono libertà dell'individuo,
portatore di diritti assoluti, che gli vengono riconosciuti al di la del contesto in cui vive); quelle
medievali invece vengono riconosciute all'individuo in quanto appartenente ad un certo contesto
sociale, come ricaduta indiretta dall'appartenenza del singolo ad un certo gruppo sociale, e
Montesquie è legata a questa impostazione.
Per Montesquie la libertà è assicurata da una certa forma di istituzione politica e dalle leggi
penali aventi certe caratteristiche. Per quel che attiene la costituzione politica, il potere di
giudicare va ad organi diversi dal potere legislativo ed esecutivo, e qua abbiamo la nota teoria
della separazione dei poteri per cui abbiamo leggi fisse, precostituite in giudizio, cosa
strutturalmente possibile solo nelle monarchie e nelle repubbliche democratiche, e dall'altra un
giudice che applica meccanicamente la legge (queste sono le due condizione sulla costituzione
politica). Si legge in Montesquie l'idea che uno stato assicuri la libertà tanto più che il giudice,
oltre ad essere la bocca delle legge, sia anche distinto dagli altri poteri.
In realtà Montesquie mantiene un atteggiamento filo nobiliare ed è sensibile alle differenze
cetuali tant'è che non c'è discussione sull'applicazione meccanica delle legge, però per quel che
attiene alla visione della legge, c'è qualche sbavatura perchè uno dei principi tenuti in

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considerazioni da Montesquie è quello per cui il giudice debba avere la stessa estrazione
dell'accusato; l'accusato è garantito se giudicato da un soggetto che ha la sua stessa estrazione
cetuale e questo sarebbe garanzia non di Libertà,ma garanzia delle libertà e dei privilegi cetuali.
E' vero infatti che i giudici devono essere privati, ma dello stesso ceto dell'accusatore, e pone un
limite alla separazione del poteri. Ad esempio un nobile, è ovvio che nel momento in cui va
valutato, va giudicato dai nobili; peccato che nella costituzione monarchica i nobili siano una
parte consistente del potere legislativo, il che fa crollare la separazione dei poteri perchè il
giudice naturale dei nobili è in fondo parte del legislativo e quindi la distinzione viene meno.
E quindi in definitiva qual è l'elemento costituzionale idoneo a garantire la libertà del cittadino?
non l'uguaglianza del giudice per tutti, né l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge (proprio
perchè Montesquie non esclude la possibilità di una differenziazione cetuale); unico elemento
idoneo per garantire la libertà è la fissità e precostituzione della legge, oltre il quale non può
esserci la libertà dei cittadini. Quindi in fondo qual è la dottrina delle leggi penali per Montesquie
conveniente a questi stati, che hanno per fine la libertà dei cittadini e che possono essere solo
monarchici o repubbliche democratiche?
Abbiamo quattro tesi prospettate da Montesquie:
 Prima tesi: la libertà del cittadino che coincide con la sicurezza fornita dalle delle penale.
Quindi libertà del cittadino coincide con la sicurezza offerta dalle leggi penali; però, in realtà
dimostra di essere non tanto il precursore di un pensiero illuminista razionalista, che mostra le
leggi penali più adatte, ma è ancora legato ad un certo empirismo, perchè ritiene che sia
dall'esperienza che emerga la chiarificazione di quali siano le leggi utili alla sicurezza.
 Seconda tesi, incentrata sulla procedura. Cosa garantisce la libertà? elenca degli aspetti
che non possono venir meno nella procedura, come l'imparzialità del giudice, la garanzia di
difesa (l'accusato deve poter essere sentito), repressione penale della falsa testimonianza e
abbiamo una certa sensibilità al problema, esclusione della testimonianza dei parenti
dell'accusato (per evitare una distorsione della testimonianza), e almeno la presenza di due
testimoni per formare il giudizio di colpevolezza. In questo abbiamo una tendenza al formalismo
e prova legale in contro tendenza con quello che sarebbe stata la battaglia illuministica contro la
prova legale (quindi in realtà è legato ad una procedura rigorosa legata alla prova legale).
 Terza tesi: la condizione essenziale per la sicurezza è l'ordine. Le pene che vanno
comminate per garantire ordine e sicurezza non possono essere contraddittorie; una pena, deve
essere di una tipologia che non va contro l'ordine materiale e morale dello stato.
 Quarta tesi: la libertà dei cittadini esige che le pene siano naturali. Questo vuol dire che
non siano dettati dal capriccio del legislatore ma derivino dalla natura del crimine. Un certo tipo
di crimine deve essere sanzionato da una particolare pena e quindi torniamo al principio
proporzionalistico, almeno dal punto di vista qualitativo.
Questa impostazione questo porta a due conseguenze fondamentali:
 una classificazione di crimini secondo diverse specie, anche ordinate in modo gerarchico
in base alla gravità;
 la predisposizione di scale di gravità, alla diversa graduazione del delitto corrisponde una
diversa graduazione delle pene. e in ciò la teoria è razionalista, anche se sarà innovativo
quando il pensiero penalistico sarà ricondotto all'unica pena detentiva graduabile, ma per
questo ci vorrà tempo.
Montesquie è infatti portatore di novità nel postulare questa graduazione dei crimini. Qual è
la classificazione dei crimini? abbiamo quattro classi dei crimini e a ciascuna individua una
pena proporzionale naturale:
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 crimini contro la religione: l'offesa arrecata a dio va punita solo da dio e quindi con la
privazione dei vantaggi che derivano dall'appartenenza del singolo alla comunità religiosa,
e sono pene canoniche.
 crimini contro i buoni costumi. Tratta di una privazione del singolo della comunità, è una
difesa della comunità e corpi sociali, frutto di quella impostazione corporativistica per cui
i crimini contro i buoni costumi siano sanzionabili con l'esclusione del singolo dalla
comunità.
 terza e quarta classe: crimini contro la tranquillità. Sono le ultime due classi che sono in
questo senso riservate alla repressione penale dello stato. Per quel che attiene i crimini
contro la tranquillità sono pene che costringono all'esilio; il quarto gruppo invece è quello
più numeroso e raggruppa i crimini punibili con i supplizi, non sono pene pecuniarie
perchè inidonee ad esempio a colpire chi non ha beni propri, mentre i supplizi sono più
utili, e in questa quarta classe si riconducono i crimini di eresia, e delitti di lesa maestà
umana, i delitti contro l'onore, contro la ricchezza, il patrimonio e la vita dei privati, è la
classe più corposa. Va a distinguere poi fra lesa maestà umana e la lesa maestà divina;
per quel che riguarda la lesa maestà umana, Montesquie è critico nei confronti della
legislazione vigente e vuole limitare la fattispecie, per evitare una invadenza del monarca;
in quella divina invece, che comprende anche le eresie, Montesquie nota come questi
crimini abbiano anche una esternazione oltre alla lesione del bene leso in se e quindi per
la commistione nella loro fattispecie di condotte esterne e atteggiamenti interni pongono
al sistema penale problemi di ricostruzione. Questa classificazione è l'eredità principale
del suo pensiero, è innovatore ma dal punto di vista ideologico ricordiamo che è più
reazionario che rivoluzionario.

MONTESQUIEU

Cap VI. Continuazione del medesimo argomento


La democrazia e l’aristocrazia non sono stati liberi per loro natura. La libertà politica si trova nei
governi moderati. Ma essa non è sempre negli Stati moderati: non vi rimane che quando no vi è
abuso di potere.
Perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni
il potere.
Anche nel governo democratico e monarchico ci deve essere il bilanciamento dei poteri.
Cap VI. Della costituzione d’Inghilterra.
Il grande vantaggio di avere dei rappresentanti, è che essi sono capaci di discutere i pubblici
affari. Il popolo non ne è affatto in grado. L’Inghilterra è lo stato liberale per eccellenza, il governo
diretto del popolo non è possibile e allora si ricorre alla rappresentanza.
Il corpo rappresentativo non deve essere neppur esso scelto per prendere risoluzioni attive, cosa
che non farebbe bene, ma per fare delle leggi, o per controllare se quelle che ha fatto sono state
ben attuate, cosa che può fare assai bene, e che, anzi, è solo a poter far bene.
Esistono sempre, in uno stato, delle persone illustri per nascita, ricchezze od onori; se venissero
confuse tra il popolo, e non avessero che una voce come quella degli altri, la libertà comune
sarebbe la loro schiavitù, e non avrebbero alcun interesse a difenderla, perché la maggior parte
delle risoluzioni sarebbe contro di loro. La parte che essi hanno nella legislazione deve dunque
essere proporzionata agli altri vantaggi che essi godono nello Stato: ciò accadrà se formeranno

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un corpo che abbia il diritto di arrestare le iniziative del popolo, come il popolo ha diritto di
arrestare le loro. Idea di reciprocità tra corpo rappresentativo e il popolo.
Pertanto il potere legislativo sarà affidato e al corpo dei nobili, e al corpo che verrà scelto per
rappresentare il popolo, ed entrambi avranno ciascuno le sue riunioni e le sue deliberazioni a
parte, e punti di vista e interessi separati.
Gli aristocratici formano sempre leggi ben fatte altrimenti la loro libertà sarà schiavitù. Il popolo ha
poco potere, può solo approvare.

Cap XVI. Principi da osservare nel comporre le leggi.


Stile e fine delle leggi, anticipa i principi base della codificazione.
Lo stile deve essere conciso. Le leggi delle dodici tavole sono un modello di precisione: i fanciulli
le imparavano a memoria. Le Novelle di Giustiniano sono così diffuse che le si dovette
riassumere. Critica il corpus iuris civilis.
Lo stile delle leggi deve essere semplice: l’espressione diretta si comprende sempre meglio
dell’espressione riflessa. Stile imperativo, non discorsivo.
È essenziale che le parole delle leggi risveglino nell’animo di tutti gli uomini le medesime idee.
Quando, in una legge, sono stati fissati i principi, non bisogna più ricorrere ad espressioni
vaghe. Nell’ordinanza penale emanata da Luigi XIV, dopo la enumerazione esatta dei casi di
competenza regia, si leggono queste parole: “e quelli che in tutti i tempi sono stati soggetti al
giudizio dei giudici regi”.Questa espressione risospinge nel dominio dell’arbitrario, dal quale si
era appena usciti. Arbitrarietà giudiziale
Le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; nono sono
espressione dell’arte logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia. Quando, in una
legge, le eccezioni, le limitazioni, le modifiche non sono necessarie, è meglio non metterle:
dettagli del genere ne generano altri.
La legge deve essere chiara,non complicata, non deve prevedere tutti i dettagli altrimenti è
confusa.
Come le leggi inutili indeboliscono le leggi necessarie, così quelle che possono essere violate
indeboliscono la legislazione. Una legge deve ottenere il suo effetto, e non bisogna permettere che
vi si venga meno grazie ad una disposizione particolare.
Bisogna fare in modo che le leggi siano concepite in maniera da non andare contro la natura
delle cose. Se la legge va contro la natura delle cose non è rispettata.
Bisogna che vi sia nella leggi un certo candore. Fatte per punire la malvagità degli uomini, esse
devono avere la più grande innocenza.

Nel capo VI.


Pag 280 (penultimo capoverso) parta della rappresentanza politica --> spiega, prendendo
esempio dall’inghilterra, quali sono i vantaggi della rappresentanza politica --> boccia la
democrazia diretta, il popolo non è in grado di discutere quindi ci vuole un corpo
rappresentativo.
Pag 281 (penultimo capoverso) ---> reciprocità tra corpo legislativo e popolo --> qui viene fuori la
concezione aristocratica che Montesquieu ha, è giusto che gli aristocratici abbiamo il potere di
rappresentanza perchè gli aristocratici fanno sicuramente delle leggi ben fatte, perchè se le
facessero male quella che è la loro libertà diventerebbe la loro schiavitù.
I nobili devono fare delle leggi ben fatte per mantenere i loro privilegi e quindi la loro libertà.
Quindi a formare il corpo rappresentativo devono essere i nobili.

68
Ci sarà anche un corpo che rappresenterà il popolo, ma il vero corpo rappresentativo che fa le
leggi è quello dei nobili, quello del popolo le discute solo o le approva/ non approva, ma non fa le
leggi.

Passiamo al secondo documento : parte sesta libro 29 --> parla del fine della leggi, anticipa i
principi base della codificazione.
P 301 partiamo dal secondo capoverso --> lo stile deve essere coinciso, semplice, imperativa,
chiara, la legge deve fissare dei principi generali.
Fondo pag 302: qui dice che qui critica una parte delle Ordonnance di Luigi XIV quando si
ritorna ai giudici che hanno un grande potere giudiziale.
Pag 304: le leggi non devono essere sottili, cioè deve essere chiara, elementare, non complicata,
non deve prevedere tutti i dettagli perchè altrimenti diventerebbe confusa.
Pag 306 spiega quale deve essere per lui il fine delle leggi: meglio poche leggi chiare e rispettate,
che fare tante leggi che però non vengono rispettate.
P 307: La legge non è rispettata quando va contro le leggi naturali, le leggi quindi devono andare
secondo la natura delle cose.
(metà pagina 307) le leggi non devono essere particolarmente cattive, devono punire i malvagi
ma non devono infierire su reati troppo piccoli che non sarebbe nemmeno utile punire.
UNDICESIMA LEZIONE (09/04)

Oggi presentiamo un altro grande rappresentante, insieme a Montesquie, del pensiero giuridico
francese del diciottesimo secolo:

JEAN-JACQUES ROUSSEAU.

Iniziamo ad analizzare Rousseau e il suo “Contratto Sociale”.


Egli, con la sua opera, influenza le correnti più svariate del pensiero giuridico e politico.
Aderisce a quelle che sono le teorie contrattualistiche dell'epoca, di derivazione giusnaturalistica
e sostiene dunque che alla base di ogni società c’è un contratto sociale.
In cosa consiste questo contratto sociale? Si intende il fatto che gli uomini alienano, attraverso il
contratto sociale, i loro diritti naturali, in modo definitivo, conferendo ad un rappresentante la
loro gestione, pensiero già presente in Hobbes.
Per Rousseau, al contrario di Hobbes, gli uomini dovrebbero ricevere questi diritti non da un Re
o da una singola persona, ma dalla società e dallo Stato e dovrebbero riceverli come diritti
individuali e garantiti.
I diritti individuali e garantiti sono per esempio la proprietà, la libertà e l'uguaglianza.
In questa sua concezione della società, che deve fornire agli uomini i propri diritti individuali,
molte volte il pensiero di Rousseau è stato usato in chiave liberale (in primo piano abbiamo
quindi l'individuo e i suoi diritti), dal lato opposto, la sua dottrina, che mette in risalto che tutto
dipende da questo deus ex machina che è la volontà generale, espressione di voleri popolari,
viene strumentalizzata dai giacobini e dal comunismo totalitario. Viene considerato ora come
democratico per eccellenza, ora come liberale.
Il pensiero di Rousseau è molto sfaccettato e nella storia, sopratutto nel '700, nel periodo che
precede la Rivoluzione Francese, viene utilizzato a seconda dei momenti.
Le idee di fondo di Rousseau sono quelle che affiorano durante la rivoluzione francese e la
teorizzano: l'idea di eguaglianza, l'idea del primato della legge e quindi dello stato di diritto, l'idea

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della sovranità popolare. Le idee più strumentalizzate dai rivoluzionari sono state: l'idea della
necessità di ricostruire da capo la società e l’idea che la legge è espressione della volontà
generale, non più legge intesa come espressione della volontà del monarca o di pochi individui.
L'opera più importante di Rousseau è il “Contratto Sociale”, pubblicata nel 1762.
Rousseau osserva che l’uomo è nato libero e ovunque è in catene.
Egli osserva che ovunque l’uomo si trovi è vittima di un contratto sociale basato sulla
diseguaglianza, ma osserva che in natura gli uomini sono nati liberi e uguali.
Rousseau in un’opera degli anni ’50, “Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini”,
afferma che l’ineguaglianza inizia a trapelare, a nascere con :
 L’usurpazione della terra, cioè quando alcuni uomini iniziano a impossessarsi, a
usurpare la terra e da ciò nasce la proprietà privata (idea poi tipica del comunismo).
 Divisione del lavoro (avviene con la nascita delle fabbriche)
Queste teorie verranno poi riprese da Marx.
Con la nascita della proprietà privata nascono le fabbriche e sorge la necessità di creare un
potere statuale che riporti ordine. Rousseau, in questa sua opera illustra il momento in cui si
passa dallo stato di natura, ormai degenerato allo stato civile, dove vi è uno Stato, inteso come
ente politico che ha il potere di riportare l'ordine.
Nel “Contratto Sociale”, l'autore non si addentra nelle analisi storiche, gli interessa cercare
l’essenza del diritto e della ragione.
A Rousseau interessa soprattutto mettere a fuoco un modello giuridico teorico, cioè un contratto
ideale, non gli importa vedere che riscontro abbia ciò nella storia, nei fatti, nella realtà, gli
interessa vedere il contratto perfetto, non cos'è un contratto perfetto ma cosa deve essere, vuole
vederne l’essenza, è un idealista.
Nel “Contratto Sociale”, presenta una storia ideale che mira a difendere l'uguaglianza e la libertà
tra gli uomini. Egli osserva che lo stato di natura, dove tutti sono liberi e uguali, a un certo
punto si corrompe, si giunge ad un momento in cui la libertà non è più garantita, serve quindi,
una nuova
forma di associazione che difenda e protegga, attraverso una forza comune, le persone e beni di
ciascun associato. Come si devono difendere tali beni e persone?
La difesa deve avvenire in modo che ciascuno, unito a tutti in questa comunità, resti libero come
prima. Sono discorsi idealisti perchè in qualunque comunità e associazione non può esserci
piena libertà a livello teorico, perchè la libertà di ciascuno trova dei confini nel rispetto della
libertà altrui.
Questo contratto ideale deve avere un’unica clausola: deve prevedere l'alienazione totale di
ciascun associato a tutta la comunità, l’individuo si perde nella comunità, solo in questo modo
l’individuo può ottenere la libertà civile.
Attraverso il contratto ogni individuo scambia la libertà naturale, che non è più garantita, con
una libertà civile. Si è passati dallo stato di natura allo stato civile e dalla libertà naturale a
quella civile. Il contratto deve garantire e tutelare la libertà civile, per tutelarla è necessario che
ogni potere individuale arretri per poter dare la supremazia alla volontà generale.
Con l’alienazione delle libertà naturali a vantaggio della garanzia delle libertà civili nasce un ente
morale: lo Stato. Esso è composto dai contraenti, cioè da un’associazione tra tutti coloro che fan
parte del contratto. In questo modo tutto il popolo viene fornito di volontà, come se fosse un
unica persona, ma è una volontà unitaria e sovrana, la volontà del popolo è sovrana.
Identificando con tale ragionamento la sovranità e la volontà unitaria del popolo, vi è una
identificazione tra sovrano e sudditi, tra governanti e governati.
70
In che modo si arriva a tale identificazione? I sudditi diventano i cittadini, ovvero coloro che
godono del diritto di libertà e hanno dei diritti garantiti. I cittadini a loro volta si identificano col
popolo.
Il popolo è considerato il nuovo sovrano. Il fine ultimo di questo nuovo ente morale è il bene
comune che viene garantito dalla legge.
La legge per Rousseau è la volontà generale, quella volontà generale che ritroveremo formulata
nell’art 6 della dichiarazione dei diritti del 1789 e nel preambolo della costituzione del 1793,
documenti emblema della Rivoluzione Francese.
È una volontà generale perché promana da tutti ed è diretta verso tutti, non si parla più di
volontà sovrana. Il popolo, principale soggetto delle leggi è anche l’autore delle leggi.
Da questa impostazione molto idealista, molto teorica, Rousseau trae delle conclusioni:
 la legge è sempre giusta per definizione perché è il popolo che fa le leggi e nessuno può
essere ingiusto nei confronti di sé stesso;
 le legge è garanzia di libertà, perchè obbedire al sovrano significa obbedire a sé stessi,
visto e considerato che il popolo è sovrano;
 la legge è garanzia di eguaglianza, perchè ciascuno si sottomette alla legge nelle stesse
condizioni di tutti gli altri.
Rousseau cerca di risolvere il problema di coniugare libertà e uguaglianza attraverso una forma
di governo che ponesse la legge al di sopra dell’uomo.
E' uno dei primi a formulare il principio del primato della legge, da cui deriverà lo stato di diritto
dell'800.
Queste idee Rousseau le esprime nel 1772 nell'opera “Considerazioni sul governo della Polonia”.
Rousseau anticipa la teoria sullo stato di diritto, in cui si è liberi solo obbedendo alla legge, che
occupa il primo posto all'interno dello stato e tutti all’interno dello stato si devono sottoporre alla
legge.
Si può essere liberi solo obbedendo alla legge poiché la legge rappresenta la volontà pubblica, di
cui ogni uomo fa parte. Ciascuno quindi obbedisce alla propria volontà.
Rousseau per libertà intende l’obbedienza alla legge, è la legge che comanda la libertà.
Ma cosa succede se per caso un individuo si rifiuta di obbedire a questa volontà generale cioè la
legge, ovvero si rifiuta di obbedire a sé stesso? In questo caso sarà costretto ad obbedire da tutto
il corpo politico perchè le decisioni delle maggioranze vincolano e obbligano gli oppositori, è
introdotta l'idea del principio maggioritario.
La novità che Rousseau introduce rispetto a tutte le altre teorie dello Stato che erano state
esposte, egli era ostile nei confronti dell'idea di rappresentanza.
La nostra idea di rappresentanza è uno stato democratico che si regge appunto sulla
rappresentanza, su qualcuno che ci rappresenta (esempio il parlamento). Per Rousseau la
sovranità non può essere rappresentata né alienata, cioè non concessa a qualcun'altro, perche
la sovranità consiste nella volontà generale che non si può rappresentare.
Nel momento stesso in cui un popolo si da dei rappresentanti non è libero, quindi non esiste più
(scarta quindi le ipotesi di monarchia costituzionale e rappresentative).
Il pensiero di Rousseau è stato fin qui democratico e coerente ma egli pensa però, in modo meno
democratico che l’iniziativa legislativa non debba appartenere al popolo, questa è una
contraddizione, perchè poco prima ha detto che il popolo deve essere soggetto alle leggi che egli
stesso elabora.
Egli vede nel popolo una moltitudine cieca che spesso non sa quel che vuole, non ha molta
fiducia quindi nel popolo, dunque è necessario in campo legislativo l’intervento del sapiente
71
legislatore, che è una sorta di deus ex machina, che interviene per cambiare la natura umana e
creare la nazione, per passare dallo stato di natura a quello civile.
Il popolo deve farsi le leggi ma nel momento in cui bisogna organizzare lo stato dalla società di
natura a quella civile ci vuole qualcun'altro, ci vuole questa provvidenza giuridica, nel passaggio
da società di natura a società civile, perché la volontà generale non coincide con la volontà di
tutti (tante teste, tante volontà).
Il superlegislatore è visto come una figura che non deve ricoprire nessuna carica istituzionale,
uno che non deve avere potere legislativo, fuori dalla costituzione dello stato. Questa provvidenza
giuridica è una concezione trascendente dalla volontà generale.
Questo superlegislatore è colui che deve dare le norme per passare dallo stato di natura a quello
civile, una volta che tale soggetto ha fatto la legge, ha permesso alla volontà generale di
concretizzarsi, la legge deve essere sottoposta a rigidi voti del popolo.
L'esperto fa la legge, che deve poi essere approvata da tutto il popolo, attraverso il sistema di
partecipazione più diretta che è il referendum,
Egli capisce che non può essere tutto il popolo a fare le leggi, il popolo ha però il potere di
approvare o respingere ciò che ha fatto il superlegislatore.
Egli concepisce quindi una sorta di democrazia referendaria che garantisce il fatto che la
sovranità è inalienabile e indivisibile, e non può essere rappresentata. Una sorta di democrazia
referendaria c’è oggi in Svizzera.
Quando lo stato civile è ormai costituito e funzionante ci deve essere un commissario che
riconfermi le regole del referendum. Il commissario non è un rappresentante del popolo, si
cadrebbe altrimenti in un sistema rappresentativo, egli è una colui che ratifica la volontà
popolare, una sorta di notaio.
Il sistema che Rousseau si sforza di configurare è un sistema anti-rappresentativo, inapplicabile
in uno stato di media grandezza. Si può applicare in una piccola comunità, per esempio in un
Comune.
Rousseau fa anche una critica al sistema delle leggi allora vigente, sistema basato sul diritto
comune. Lo strumento, del diritto comune, che aveva permesso di trovare un po' di chiarezza e
di ordine nelle fonti legislative, era stato l'interpretazione.
Nell'opera “Considerazioni sul governo della Polonia” Rousseau propone un programma di
unificazione delle fonti del diritto. Il caos delle fonti del diritto nel 1700 è ormai conclamato, gli
stessi operatori del diritto ormai se ne rendono conto. I magistrati dei supremi tribunali sono
coloro che interpretano e fanno la legge.
Egli propone l'unificazione delle fonti del diritto in 3 codici: politico, civile e criminale.
Il codice politico raccoglieva quello che doveva essere il diritto pubblico (trasferito poi nelle
garanzie costituzionali, nella costituzione), quello civile raccoglieva il diritto civile e quello
criminale raccoglieva il diritto penale.
Caratteristiche dei codici sono: la brevità, la chiarezza e la precisione. Criteri che verranno
forniti nell'800 ai legislatori per la vera codificazione. Questi codici dovranno essere insegnati
perché tutti i cittadini,gli uomini pubblici devono conoscere le leggi positive del loro paese.
Rousseau è un antiromanista, è contro il diritto giustinianeo e contro le consuetudini.
Rousseau sostiene la necessità di creare in tutte le province un sistema di leggi uniformi, espone
anche l’idea che il giudice debba essere sottomesso alla legge, egli devi ubbidire e applicare la
legge e non interpretarla. Il giudice deve avere una carica temporanea.

ROUSSEAU

72
VI. Del patto sociale.
Immagino ora che gli uomini siano arrivati al punto in cui gli ostacoli che nocciono alla loro
conservazione nello stato di natura prevalgono con la loro resistenza sulle forze di cui ciascun
individuo può disporre per mantenersi in quello stato. Tale stato primitivo non può più
sussistere in questa fase e il genere umano perirebbe, se non cambiasse le condizioni della sua
esistenza. Condizione uomini nello stato di natura.
“Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona
e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia
che a se stesso, e resti libero come prima”. Questo è il problema fondamentale di cui il contratto
sociale dà la soluzione. L’uomo fa un contratto sociale perché è degenerato lo stato di natura.
Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a una sola: cioè l’alienazione totale di ciascun
associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Infatti, innanzi tutto, poiché ciascuno si dà
tutto intero, la condizione è uguale per tutti, ed, essendo la condizione uguale per tutti, nessuno
ha interesse a renderla onerosa per gli altri.
Col patto sociale si ristabilisce l’eguaglianza.
Inoltre, essendo l’alienazione fatta senza riserve, l’unione è la più perfetta possibile, e non resta
ad alcune associato niente da rivendicare; infatti, se restasse qualche diritto ai singoli, non
essendovi nessun superiore comune che possa fare da arbitro tra loro e la collettività. Ciascuno
essendo in qualche caso il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esserlo sempre; lo stato
di natura si perpetuerebbe, e l’associazione diverrebbe necessariamente tirannica o vana.
Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non gli è essenziale, si troverà che esso si riduce
ai termini seguenti: ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la
suprema direzione della volontà generale; e riceviamo in quanto corpo ciascun membro come
parte indivisibile del tutto.
Al posto della persona singola di ciascun contraente, quest'atto di associazione produce un
corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell'assemblea; da questo
stesso atto tale corpo morale riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà.
Questa persona pubblica, che si forma così dall'unione di tutte le altre, prendeva una volta il
nome di città,e adesso quello di repubblica o di corpo politico, chiamato dai suoi membri Stato,
quando è passivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici.

Patto sociale (capitolo VI)


Pag 23: Qui è la condizione degli uomini dello stato di natura--> ad un certo punto lo Stato di
natura porta alla degenerazione e quindi gli uomini devono passare allo Stato sociale.
Pag 24: l’uomo è portato a fare un patto sociale perchè ormai lo stato di natura è degenerato -->
una volta che viene fatto il patto sociale vi è l’alienazione di tutti gli individui con la società.
(evidenziato pag 24) con il patto sociale viene ristabilità l’uguaglianza, l’uguaglianza che si era
persa nello stato di natura.
Fondo pag 24 da la definizione di patto sociale: il patto sociale è fatto non dai sudditi nei
confronti del re, ma è fatto tra tutto il popolo, ogni individuo è un membro del patto sociale e
quindi della comunità.

Vediamo ora come intende la legge Rousseau.

73
Paragrafo 6 Rousseau da una definizione di legge: “ con il patto sociale abbiamo dato
esistenza al corpo politico, si tratta ora di dargli movimento e di dargli la volontà con la
legislazione”.
Quindi la legge serve ad esprimere la volontà della comunità, dunque la legge rispecchia la
volontà.
Andiamo a pagina 53 ( questa parte l’ha già spiegata a lezione)a metà del secondo paragrafo: “…
allora la materia sulla quale si delibera è generale come la volontà che delibera, quest’atto che io
chiamo la legge.
Quando dico che l’oggetto delle leggi è sempre generale intendo dire che la legge consideri i
sudditi come gruppo collettivo e le azioni come astratte, mai un uomo come un individuo né
un’azione particolare, così la legge potrà stabilire che vi siano privilegi, ma non può darne
nominativamente a nessuno perché la legge è generale, la legge può costituire diverse classi di
cittadini , stabilirà anche i requisiti che danno diritto a queste classi, ma non può nominare tali
o tal altri per esservi ammessi ; essa può costituire un governo regio o una successione
ereditaria, ma non può eleggere un re né nominare una famiglia reale; in una parola: ogni
funzione che si riferisca ad un oggetto individuale non appartiene al potere legislativo.”
Pagina 54: “…in base a questo concetto si vede subito che non occorre ancora domandare a chi
spetti fare le leggi poiché essi sono atti della volontà generale.” Continuiamo al fondo di questo
primo paragrafo: “ ..esse non sono che registri della nostra volontà.”
Qui si dice che le leggi sono atti della volontà generale.
Sempre pagina 54 al quarto capoverso: “ le leggi non sono che propriamente le condizioni
dell’associazione civile, il popolo soggetto alle leggi ne deve essere l’autore, solo a coloro che si
associano spetta di regolare le condizioni della società.”
Quindi legge come volontà generale, la legge nasce nel momento in cui nasce lo stato sociale, nel
momento in cui si fa’ il patto e le leggi non devono essere risvolte a specifiche categorie, ma
devono essere generali.
Questi sono i concetti basilari di Rousseau sulla legge.

Vediamo adesso come intende la sovranità Rousseau.


In questa parte si parla della sovranità e degli obbiettivi dello Stato, su quello che è lo scopo del
patto in poche parole.
L’obbiettivo dello Stato è il bene comune. Prendiamo le prime righe: “ …la prima e più
importante conseguenza dei principi sopra stabiliti è che soltanto la volontà generale può
dirigere le forze dello Stato in modo conforme al fine della sua istituzione, che è il bene comune”
Quindi il bene comune si raggiunge soltanto se viene realizzata la volontà generale.
Saltiamo al secondo capoverso: “ affermo dunque che la sovranità, essendo l’esercizio della
volontà generale non può mai essere alienata..” quindi qui è contro a quello che potrebbe essere
un patto inteso come Lock e Hobbes che si sceglie e aliena la propria volontà nelle mani di un
monarca; continua: “ …e che il corpo sovrano, il quale è un corpo collettivo, non può essere che
rappresentato da sé stesso.” Ci troviamo dunque dinanzi all’enunciazione di un principio di
rappresentanza e al riconoscimento di una democrazia diretta. Continua: “… si può trasmettere
il potere, ma non la volontà. Infatti se non è impossibile che una volontà particolare si accordi su
qualche punto con la volontà generale, è impossibile però che questo accordo sia durevole e
costante perché la volontà particolare tende per sua natura alle tendenze, e la volontà generale
alla uguaglianza.”

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Allora il patto, la creazione di una società è l’unico modo per portare all’uguaglianza: nella
società di natura l’uomo aveva perso quello che era il concetto di uguaglianza perché è difficile
che le volontà individuali siano sempre d’accordo, può capitare una volta per caso, dunque qual
è il sistema per fare andare tutti d’accordo? creare/ passare allo stato sociale secondo quel
patto che lui aveva già esaminato.

Vediamo l’ultimo documenti relativo a Rousseau che tratta della volontà generale: l’importanza
della volontà generale in questa democrazia diretta, in questo stato civile.
“ finchè parecchi uomini riuniti si considerino come un sol corpo essi non hanno che una sola
volontà, che si riferisce alla conservazione comune e al benessere generale.” Quindi qui
ritroviamo quale scopo del patto quello di portare il benessere generale. Continua: “ il bene
comune si mostra dovunque con evidenza.”
A pagina 140 secondo capoverso: “ ma quando il nodo sociale comincia ad allentarsi e lo Stato
ad indebolirsi, quando incominciano a farsi sentire gli interessi particolari e le piccole società ad
influire sulla grande allora l’interesse comune si altera e trova oppositori; i voti non sono più
unanimi, la volontà generale non è più la volontà di tutti; sorgono contraddizioni e discussioni; e
il miglior parere non è approvato senza dispute.” sottolineiamo solo: “ lo Stato è vicino alla
rovina”.
Quindi c’è un interesse che la volontà generale resti realmente generale e non venga superata
dalla volontà individuale perché altrimenti sarebbe la rovina per tutti.
Con questo abbiamo concluso l’analisi dei documenti relativi a Rousseau.

CESARE BECCARIA
Grande pensatore del diritto penale del '700.
Vive tra il 1738 e il 1794, nella Milano di quel che gruppo che si riunisce attorno all'“Accademia
dei pugni” e alla rivista “Il Caffè.
In questo ambiente nasce la volontà di scrivere “Dei delitti e delle pene”, opera nata in seguito ad
alcune sue riflessioni sull’amministrazione della giustizia del XVIII secolo.
In quel secolo, in Europa, dominava la giurisprudenza dei grandi tribunali, diventati i veri
piedistalli per l’amministrazione della giustizia, le cui sentenze erano motivate e inappellabili.
I giudici di tutti i grandi tribunali d'Europa erano laureati in giurisprudenza, erano quindi togati
(a differenza dei giudici locali), erano nominati dal sovrano e potevano essere da lui destituiti.
Le sentenze dei grandi tribunali avevano assunto il valore di precedente per tutte le fattispecie
simili prese in considerazione dai tribunali inferiori e dagli stessi supremi tribunali.
Nel ‘700 l'istituto del precedente si era ormai affermato.
I grandi tribunali quindi creano la legge, le loro interpretazioni sono vincolanti.
Le decisioni vengono raccolte, stampate e diffuse. I pratici del diritto vengono così ad avere nelle
loro mani degli strumenti utili per sapere se si erano già presentate fattispecie simili e per poter
giudicare secondo la stessa interpretazione.
Questo sistema dei grandi tribunali aveva portato a un grande sistema dei giudici,
nell'amministrazione della giustizia, potere che inizia a venire contestato sopratutto in questi
movimenti di intellettuali, molto vivi ad esempio a Milano.
Viene preso in considerazione il diritto penale perché ha riscontri più gravi; una condanna
penale cambia la vita di una persona.
Si inizia a porsi il problema nel 1700 sul diritto da parte dello stato di infliggere pene.

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Queste problematiche nascono in Lombardia, nel milanese in particolare poiché il diritto penale
si basava sul diritto comune e sulle consuetudini locali lombarde.
Il diritto patrio, il diritto applicato è formato dal diritto comune e dalle consuetudini locali.
Nel milanese i giudici provenivano dal patriziato cittadino, erano ottimi giuristi ed erano potenti
perché legittimati a giudicare in nome del sovrano, nel 700 quando gli stati assoluti raggiungono
la massima espansione del loro potere, vi è sempre il principio per cui la giustizia emana dal
sovrano.
In alcuni stati come quello di Milano, i giudici dei supremi tribunali sono stati legittimati a
giudicare in nome del sovrano fin dall'epoca di Luigi XII di Francia, i sovrani avevano delegato
completamente l'amministrazione della giustizia ai supremi tribunali, successivamente li aveva
legittimati Carlo V, quando erano passati sotto gli Asburgo e anche Maria Teresa d’Austria,
riconosce ai supremi magistrati milanesi il diritto di amministrare la giustizia in suo nome, per
questo diventano molto potenti. Le fonti del diritto su cui si appoggiavano i magistrati romani
erano: il Corpus Iuris Civilis e le consuetudini locali, Carlo V nel 1541 aveva riordinato la
legislazione lombarda in una raccolta le “Nuove costituzioni”, legislazione locale ancora in vigore.
Questa legislazione vecchia è difficile da applicare, si trovano realtà da giudicare non
contemplate nelle vecchie norme giuridiche, se la legislazione è carente e non legifera il
magistrato deve interpretare e giudicare secondo l'arbitrio equitativo, secondo buon senso,
secondo coscienza.
Proprio in Lombardia da questo sistema giudiziario antiquato si era prodotta una macchina
giudiziaria potentissima, con sistema di giustizia segreto e inquisitorio (l'azione penale parte
automaticamente dallo stato, non era necessaria un accusa.). Era un sistema segreto poiché lo
scopo essenziale che aveva lo stato lombardo era quello di giungere alla verità e spesso bisogna
avere strumenti per far confessare.
Era ammessa la tortura, c’erano veri e proprio regolamenti relativi all'utilizzo della tortura.
Non era ammessa la presunzione di innocenza. Oggi fino a quando non vi è una condanna vige
tale garanzia. Non esisteva il principio di legalità.
Beccaria scrive la sua opera in questo ambiente, spinto dai fratelli Verri.
Egli è nato a Milano proveniva da una famiglia nobile, nel 1758 si è laureato in giurisprudenza a
Pavia, una delle università più importanti, nel 1760 si sposa con Teresa Blasco, di origine
borghese, da questa ha due figlie; viene cacciato di casa, apparentemente senza motivo e
comincia a frequentare l’Accademia dei pugni, dove conosce Pietro e Alessandro Verri.
Spronato da loro due, raccoglie materiale sulla giustizia penale in Lombardia.
Sponsorizzato dai fratelli Verri nel 1764 pubblica a Livorno “Dei delitti e delle pene”.
L'opera ha subito grande successo ma poco dopo rompe i rapporti con i Verri, sopratutto con
Pietro, forse geloso del suo successo.
Questo libro ha enorme successo in Europa, Beccaria viene anche chiamato da Caterina II di
Russia come consulente sulla materia penale, ma non vuole spostarsi da Milano e rinuncia
all'incarico.
A Milano diventa professore di scienze delle finanze, diventa membro del Supremo Consiglio di
economia della Lombardia asburgica, nel 1791 è membro della commissione per un progetto del
codice penale lombardo, scelto da Leopoldo II.

Dei delitti e delle pene: Critica pesantemente il diritto penale vigente, la cui base era il diritto
romano. Su questa base di diritto romano si erano innestate le leggi locali e le consuetudini

76
germaniche dato che la Lombardia era sotto gli Asburgo. A queste fonti si erano aggiunte poi le
interpretazioni dottrinali.
Alla fine sui testi scritti iniziano a prevalere le interpretazioni.
Lo stesso giudice non guarderà più la fonte del diritto ma guardava l'interpretazione data dal
supremo tribunale in un caso simile.
Beccaria critica tutto questo, in particolare perché le sorti dei sudditi siano affidate a questa
interinazione tra giurisprudenza (rappresentata dalle decisioni dei supremi tribunali) e dottrina
(creata dai giuristi). Egli afferma la necessità di inviare un appello ai sovrani per risanare questa
situazione del diritto penale così negativa.
Nel campo del diritto penale, Beccaria, aderisce a quella che era la corrente prevalente
dell'epoca, all'identificazione della giustizia con l'utilità sociale, facendo però un passo avanti.
L’equazione giustizia = utilità sociale, viene mutata, nell'equazione giustizia = interessi
dell’umanità, la giustizia punta anche sulla difesa dei diritti dell’uomo.
Passa dalla pura dottrina utilitaristica (dottrina penale del tempo) a quella umanitaria (che
guarda i diritti individuali dell'uomo).
Dal punto di vista dello stato, Beccaria aderisce al contrattualismo, per cui la società è retta da
leggi, si forma con l'abbandono dello stato di natura, è un giusnaturalista e si pone il problema
del passaggio dallo stato di natura a quello civile. Si chiede cosa sono le leggi.
Le leggi sono le convenzioni con cui gli uomini si aggregano stanchi dello stato di guerra in cui è
caduto lo stato di natura. Lo stato di natura diventa uno stato di guerra, gli uomini fanno un
contratto tra di loro, e nasce lo stato civile, dove vi è la necessità di legge, ovvero di stabilire le
condizioni che serviranno da regole per l’aggregazione.
Da questo punto di vista derivano diversi corollari: l’uomo nel momento in cui passa dallo stato
di natura a stato civile perde una parte della sua porzione di libertà. La somma di tutte queste
porzioni, sacrificate da ciascun contraente formano il deposito della salute pubblica. Questo
deposito ha dato origine alla sovranità. Il legittimo amministratore del deposito è il sovrano.
Il sovrano ha diritto ad amministrare tutte quelle piccole porzioni di libertà che i membri dello
stato civile hanno sacrificato per poter formare lo stato civile.
Il sovrano all'interno di questo stato civile ha diritto di punire i delitti in nome della sicurezza
pubblica, i delitti sono puniti con le pene, intese come motivi sensibili per scoraggiare ulteriori
crimini. Lo Stato per prevenire i crimini deve minacciare uno specifico male che l’uomo teme.
In questo modo Beccaria giustifica il diritto di punire da parte dello Stato.
Il diritto di punire dello Stato ha un limite: lo Stato deve punire secondo il minimo, il meno
possibile quindi, che è sufficiente per la difesa sociale, non deve esagerare nelle punizioni ma
deve dare quelle che sono sufficienti a mantenere la difesa sociale.
Il diritto penale deve essere minimo e deve punire solo gli atti oggettivamente pericolosi per la
società, la pena deve essere superiore al male generato dal crimine, ma dev'essere superiore
soltanto di quel tanto necessario a tenere a freno eventuali o successivi criminali.
La pena deve avere uno scopo di prevenzione dei delitti e deve essere minima, basta che
raggiunga lo scopo.
Nel capitolo XII della sua opera espone il problema della funzione della pena: funzione
utilitaristica, lo scopo della pena non è procurare sofferenze al reo, né quello della retribuzione
(pagare in proporzione al male che si è fatto),il fine è impedire al reo di compiere nuovi mali.
Altro scopo della pena è servire, combinata a un reo, da deterrente per altri potenziali rei
(prospettiva utilitaristica).
La pena viene vista come prevenzione generale,serve per intimidire gli altri consociati.

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Serve anche come prevenzione speciale, deve neutralizzare il delinquente, far in modo che non
possa più arrecare altri danni.
Allo stesso tempo ci deve essere proporzione tra gravità del reato e pena comminata.

DODICESIMA LEZIONE (15/04)

Cesare Beccaria: il fine della pena e la sua concezione del diritto penale sostanziale.
La pena ha anche un fine di prevenzione oltre che di intimidazione.
Per quanto riguarda la prevenzione penale essa avviene in vari modi, prima di tutto attraverso la
minacce legislative; la pena deve essere precisa e prescritta nella legge.
Attraverso l'inflizione della pena, coloro che vedono che quella determinata pena per chi ha
compiuto quei reati viene inflitta velocemente e con certezza, è chiaramente trattenuto da
compiere lo stesso reato per non incorrere nella pena.
Beccaria non accetta l’idea della pena come emenda, non accetta ancora l'idea che la pena debba
avere anche un fine rieducativo. Sostiene invece la teoria della prevenzione indiretta.
Secondo l'autore è meglio prevenire piuttosto che punire, questo deve essere il fine di una buona
legislazione penale. In che modo si può prevenire?
Si può prevenire in vari modi, per prima cosa con leggi chiare, principio che guiderà tutta la
codificazione. La norma del codice deve essere chiara, imperativa, precisa.
La legge deve essere temuta dagli uomini e quindi generare un certo timore perchè se una legge
crea un danno inferiore al vantaggio che si è compiuto commettendo il reato, è chiaro che sarà
indotto a compiere il reato. Esempio: oggi nella legislazione degli orari dei negozi che devono
restare aperti in determinati giorni nel mese di agosto, in realtà le cose non vanno così,
chiudevano comunque perchè probabilmente avevano più vantaggi a chiudere poiché la pena era
abbastanza bassa piuttosto che a tenere aperto.
Secondo Beccaria bisogna in oltre ricompensare la virtù.
Sia la teoria della funzione della pena che quella sulla giustizia sono intese entrambe in chiave
utilitaristica.
Il fine della pena è inteso da Beccaria come massima azione per inibire i consociati o il
delinquente col minimo di sofferenza da infliggere a quest'ultimo, ciò significa che in campo
penale bisogna cercare di infliggere le pene meno severe, l'importante è che raggiungano lo scopo
di utilità.
Con questa teoria Beccaria cerca di conciliare l'elemento utilitaristico con quello umanitario.
I Principi posti a fondamento della pena sono:
- il principio di legalità: Beccaria sostiene la subordinazione del diritto penale alla legge secondo
il principio: “nullum crimen nulla poena sine lege”.
La legge fissa i reati e non è reato tutto ciò che non è fissato dalla legge.
E' il sovrano a fissare la pena e non il giudice che deve attenersi a ciò che dice la legge e non ha
nulla da interpretare. I giudici devono semplicemente applicare la legge.
Beccaria propone la codificazione per il diritto penale, per attenersi al principio di legalità, essa
è una condizione indispensabile per la certezza del diritto ed è una condizione imprescindibile
per la libertà perché il cittadino sa che tutto quello che non è prescritta dalla legge è libertà.
Beccaria distingue il diritto da qualunque influenza religiosa o morale.
Sul pensiero di Beccaria due grandi giuristi come Tarello e Cavanna, hanno due visioni sul
pensiero dell'autore molto differenti.
Tarello mette in risalto la visione del tutto utilitaristica del principio di legalità.

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Cavanna sostiene che in Beccaria prevalga il contenuto garantistico, la certezza del diritto non è
giusta perché è utile come dice il Tarello, ma la certezza del diritto è giusta perchè è anche utile.
- principio della proporzionalità della pena al reato.
Il legislatore è visto da Beccaria come un abile architetto.
Il compito del legislatore nel codice è quello di costruire una scala di delitti graduata per gravità.
Questa scala deve essere concepita in modo che i più gravi sono quelli riguardanti l’ordine
sociale, i meno gravi sono le lesioni ai beni individuali.
Beccaria sostiene che ogni crimine, ogni delitto deve avere la sua pena perché osserva che se
una pena è destinata a due delitti, di diversa gravità, tutti cercheranno di compiere il più grave
perchè ne trattano maggior vantaggio e la pena tanto è la stessa pena.
Sostiene anche che la vera misura per vedere la gravità dei delitti è di considerare il danno fatto
alla società. I crimini contro la società, contro lo Stato, contro il sovrano sono i più gravi.
La pena deve essere proporzionata perché da un lato serve per la prevenzione del crimine e
dall'altro per la difesa sociale (pensiero utilitaristico). La giustizia umana serve all'utilità comune.
Questa base utilitaristica viene in parte corretta dall’esigenza di umanità.
La pena deve essere pronta e certa cioè infallibile, principi basilari nella teoria penalistica di
Beccaria.
Prontezza significa che la pena deve eseguita velocemente per evitare sofferenze inutili al reo.
Certezza dell'infallibilità della pena significa quindi che se un soggetto compie un determinato
reato gli viene comminata una pena.
Il carcere viene visto non come una pena (come per noi), ma come un luogo di custodia dove
contenere i presunti rei fino a quando non vengano giudicati colpevoli.
Esisteva quindi la carcerazione preventiva e non vi erano garanzie processuali.
Il processo deve essere veloce perchè la velocità di comminazione della pena rende evidente la
relazione tra delitto e pena, (ho compito un delitto e vengo condannato).
- principio di uguaglianza della pena che porta al principio dell'unificazione del soggetto
giuridico. Fino a Beccaria il diritto penale non è uguale per tutti, variava a seconda dello status
sociale.
Se un signore feudale compiva un omicidio di un suo pari la pena che veniva comminata era
prescritta dal diritto feudale, se un contadino uccideva un suo pari la pena era più severa.
Se un contadino uccideva un signore feudale la pena era severissima, se un signore feudale
uccideva un contadino la pena era molto più moderata.
Non vi era una norma penale rivolta a tutti, cioè rivolta a un unico soggetto giuridico.
L’unificazione del soggetto giuridico è introdotta da Beccaria, è sarà poi uno degli scopi della
codificazione.
Nel paragrafo 21 Beccaria dichiara che le pene devono essere uguali per tutti.
Un altro principio a fondamento della pena è il principio di personalità della pena: soffre la pena
chi ha compiuto il reato (attuale principio della responsabilità della pena).
Nel Medioevo esisteva l'istituto della rappresaglia, che si era sviluppata sopratutto nei comuni
dove vi erano centri universitari (esempio a Bologna) in cui confluivano moltissimi giovani da
tutta Europa.
Vi erano sempre diatribe e contenziosi tra soggetti di nazionalità diverse.
Se qualcuno subiva un torto da parte di uno di un'altra nazionalità poteva rifarsi su qualsiasi
altro membro della nazionalità dell’aggressore, ciò provocava continue rappresaglie e il reo non
aveva responsabilità penale.

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L’imperatore Federico Barbarossa con la “Constitutio Habita” concederà la giurisdizione a
ciascun professore sui suoi allievi per evitare questo continuo stato di rappresaglia che portava a
numerosi disordini.
- principio della pubblicità della pena: l’illuminismo considera la giustizia penale un affare tra
Stato e reo, non più tra privati. E' lo Stato che deve gestire la giustizia penale. L’illuminismo
esclude qualsiasi ipotesi di remissione privata del reato.
I privati non possono farsi giustizia tra loro, bisogna andare davanti al giudice dello Stato.
L’inflizione della pena deve avvenire dopo la fine di un processo, celebrato fino in fondo,
pubblicamente e sottoposto ad un controllo esterno.
- principio della laicità del diritto penale: i reati sono considerati tali perché puniti dalla legge e
non perchè sottoposti a qualche giudizio morale.
La separazione dell'ambito giuridico da quello penale, nel '700 viene intesa come fondamentale
poiché ci si assicura che lo Stato non possa ingerirsi nella libertà di pensiero.
Viene promossa l’umanità del diritto penale, unita alla richiesta di legalità.
Lo scopo del diritto penale è quello di assicurare in forma di prevenzione la massima utilità
possibile alla società.
La pena ha fine di deterrente, il vedere comminare le pene agli altri rei deve trattenere gli
uomini, potenziali rei dal commettere reati.
Le pene non devono essere particolarmente affliggenti, troppo severe o spoprorzionate al reato.
Ai tempi di Beccaria, nella Milano del XVIII secolo, regnava da parte degli Asburgo un diritto
penale terroristico, vi erano impiccagioni, torture della ruota e molte pene venivano comminate
sulla piazza pubblica.

PENA DI MORTE Nel paragrafo 28 Beccaria si chiede se la pena di morte sia utile e giusta.
Egli argomenta che lo Stato, di fatto, non ha diritto per contratto di infliggere la pena di morte.
Il contratto fatto tra la popolazione e il sovrano non presuppone che quest'ultimo possa applicare
la pena di morte.
La vita è il principale diritto di ciascun individuo, è assurdo che gli individui mettano nella mani
di un sovrano la decisione se privarlo o no del loro principale diritto.
Lo Stato dal punto di vista dottrinario non ha diritto a infliggere la pena di morte.
Beccaria sostiene che la pena di morte è meno utile della detenzione perpetua, ossia del carcere
a vita. Dal punto di vista giuridico egli condanna la pena di morte perché non è confacente al
contratto sociale (argomento contrattualistico).
La pena di morte non è ne utile ne necessaria (argomento utilitaristico), è utile solo in
determinate circostanze:
- se il reo mette in pericolo lo Stato (anarchia, guerra civile);
- in guerra;
- quando la morte di un cittadino è l’unico mezzo per contenere il crimine, giustifica quindi le
condanne a morte degli oppositori giuridici pericolosi per l'ordine della società.
Secondo Beccaria sulla mente umana fa più effetto sapere che se si compie un delitto si resti in
carcere tutta la vita, pena che quindi si protrae per un lungo periodo piuttosto che sapere di
essere condannati a morte.
Nel condannare l'uso eccessivo della pena di morte, entrando un po' in contraddizione, poiché ha
sempre voluto distinguere la morale dalla sfera giuridica, Beccaria fa ricorso a un argomento
morale.
Beccaria dice che la pena di morte viola la sacertà della vita umana.

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La vita umana è sacra e gli uomini non ne possono disporne.
Carrara, grande giurista di fine ‘800, sostiene che Beccaria avrebbe dovuto mettere in primo
piano la giustizia e non l’utilità, Beccaria tende invece a dimostrare l'infondatezza giuridica e la
mancata utilità politica della pena di morte. Nella sua dottrina prevale l'utilitarismo rispetto a
qualsiasi dottrina umanitaria o di giustizia. (Bisogna per prima cosa vedere se la pena è giusta).

PROCESSO PENALE Nel paragrafo 16 dichiara la massima su cui si dovrebbe basare il processo
penale: “un uomo non si può chiamare reo prima della sentenza del giudice”.
Al tempo di Beccaria la procedura penale era particolarmente sbrigativa, caratterizzata
essenzialmente da tre aspetti:
- totale assenza di presunzione di innocenza dell'imputato fino al momento della condanna, il
sospettato infatti stava in galera fino alla conclusione del processo;
- preminenza dell’inquisitore sull’inquisito, il pubblico ministero che avviava l'operazione penale
aveva in mano tutto, l'inquisito non aveva immediatamente la possibilità di difendersi e il
magistrato che promuoveva l'accusa si identificava con colui che giudicava, non vi era, nel
momento in cui veniva avviata l'azione penale, secondo questo sistema inquisitorio, nessuna
comunicazione dei capi d'accusa e nessun contraddittorio nella fase istruttoria; il presunto reo
non sapeva di essere accusato e non aveva nessuna possibilità di difendersi fin dal primo
momento, il difensore aveva tempi brevissimi per intervenire nella prima fase istruttoria.
Il sistema delle prove era a tutto svantaggio del presunto reo. La confessione viene considerata la
regina delle prove.
- preminenza del fatto notorio: ciò che era un’opinione diffusa costituiva una prova.
Vigeva il principio per cui due testimonianze concordanti costituivano una prova.
Era in vigore il sistema delle prove piene e delle prove semi piene, alcune prove venivano
considerate piene e a volte due o più prove costituivano una prova completa.
Esempio: la testimonianza di una donna non costituiva una prova piena, ci volevano ad esempio
3 testimonianze di donne per poter costituire una prova piena, la testimonianza di un signore
feudale costituiva invece prova piena, la testimonianza di un contadino invece no.
Il giudice aveva quindi un grosso arbitrio nel valutare le prove.
Esisteva la pena straordinaria: sanzione minore di quella prevista dalla legge se c’era qualche
incertezza nel giudizi, si condannava il presunto reo con una pena inferiore.
La confessione, anche definita prova regina, era la prova migliore per arrivare a condannare il
presunto reo, per questo nella Lombardia del XVIII secolo si faceva spesso ricorso alla tortura
per estorcere la confessione.
Beccaria contesta il rito incentrato sulla confessione, cioè quel processo che mira a strappare la
confessione al reo.
È uno dei primi a postulare la presunzione di innocenza (finché non c'è condanna il presunto reo
è innocente) per poter pronunciare un processo equo.
Egli rifiuta la meccanica delle prove legali.
La sua opera ha successo e si diffonde presto in tutta Europa.
Nei dibattiti che si svolgono in tutta Europa riguardo alla procedura penale, la problematica
maggiormente discussa è la questione umanitaria della pena di morte.
In realtà le grandi innovazioni di Beccaria sono:
- la dottrina della legalità della pena;
- la secolarizzazione del diritto penale.

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L’opera di Beccaria è recepita in Francia e in Austria dove ci sono intellettuali che portano avanti
la lotta per l'abolizione della pena di morte.
Nel 1776 Maria Teresa d’Austria abolisce la pena di morte nei territori asburgici.
L'influenza profonda del pensiero di Beccaria si sente in Toscana, dove la pena di morte è abolita
da Pietro Leopoldo, quando nella Leopoldina, opera di riordino della procedura penale.
L’opera di Beccaria ha un impatto nel mondo intellettuale e politico del 700 impensabile.
Una legislazione ordinata faceva comodo ai sudditi ma anche al sovrano per controllare meglio il
territorio, nella prima metà del XVIII in numerosi stati si fanno diversi tentativi di riordino
legislativo.
Le tendenze dottrinarie che abbiamo esaminato nella prima metà del XVIII secolo avevano una
matrice razionalistica in comune e tendevano a unificare concettualmente il diritto vigente e a
ordinarlo in conti organici.
Tarello evidenzia l'interpretazione storiografica prevalente al suo tempo, considerando le
raccolte e le collezioni di leggi, fatte da numerosi sovrani tra il XVI e il XVIII secolo, semplici
riordini legislativi e non codici moderni che sarebbero stati creati solo nel 1794 con l’ALR
prussiano.
Tarello confuta questa posizione, non tende a vedere il codice prussiano un vero codice perché
per lui la caratteristica principale del codice è l’unificazione del soggetto giuridico, mentre
nell’ALR mancava. Il codice prussiano contemplava i vari istituti, le varie pene a seconda
dell'appartenenza ai diversi ceti sociali.
L’opinione storiografica prevalente, condivisa da Tarello,era quella di Viora formulata negli anni
'60 che distingue tra consolidazioni e codici.

Le consolidazioni sono tutte quelle raccolte legislative, quei riordini legislativi fatte dai vari
sovrani prima del codice napoleonico del 1804. Viora vede in queste raccolte legislative una
mancanza degli attributi principali della codificazione, queste raccolte non erano esaustive e
autointegrabili.
- esaustività: la materia che viene raccolta nel codice civile diventa l'unica fonte del diritto ad
esempio in materia civile e vengono abolite tutte le altre fonti del diritto comune.
- autointegrabilità: devono trovare al loro interno la norma da applicare ai casi concreti.
L’ALR non era esaustivo (non raccoglie tutta la materia legislativa) né autointegrabile poiché non
aboliva tutte le altre fonti del diritto comune.
Nel XVIII sono molte le raccolte legislative, chiamate consolidazioni, alcune private, altre ufficiali.
Numerosissime sono le raccolte private: nel 1700 in Sicilia viene fatta una raccolta di ordinanze
da Giuseppe Cesino.
I giuristi privati facevano queste raccolte perchè costituivano uno strumento per il loro mestiere,
non c'erano strumenti pubblici ed era complicato andare a trovare la legislazione nelle fonti
ufficiali.
Nel 1718 a Napoli, Carlo Calà, fa una raccolta commentata di prammatiche (provvedimenti che
emanava il re con valore immediato).
Poco per volta, sopratutto in area germanica, è lo stesso imperatore che comincia a dare ordine
di raccogliere e riordinare la legislazione su determinati temi.
Nel XVII all'interno dell'impero, a opera di Leopoldo I esce il Codex Leopoldinus, applicato a tutte
le province germaniche dipendenti direttamente dalla casa d’Asburgo.
Verrà rielaborato agli inizi del XVIII secolo e ampliato nel 1704 col titolo di Codex Austriacus.

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È ancora una consolidazione, raccoglie materie, civile e penale, non corrisponde ai criteri dei
nostri codici moderni.
In Germania, Giuseppe I tra il 1705 e il 1711 crea due commissioni per uniformare il diritto
legislativo riunendo le ordinanze presenti nelle varie province.
Intorno al 1724 escono a Lipsia i primi volumi del Codex Augusteus a opera di Johann Christian
Lünig, riordine legislativo fatto per sollecitazione del sovrano che raccoglie tutti gli atti legislativi
dal 1482-1724. E' diviso per materie, sezioni, libri e capitoli. Nei capitoli, gli atti sono riportate in
ordine cronologico.
Le raccolte citate sono tutte raccolte di diritto pubblico, che apriranno la strada a una
successiva codificazione.
Le raccolte che si avvicinano maggiormente alla tipologia codice moderno sono quelle francesi del
D’Aguesseau. Egli è influenzato dal razionalismo giuridico, dalle dottrine de di Domat e di
Pothier, è cancelliere sotto Luigi XVI e vede la razionalizzazione del diritto come l'espressione
della volontà sovrana che vuole riunire il diritto in una unità razionale.
D’Aguessau ha già un'idea di codificazione, di fatto vuole riformare le vecchie leggi e farne di
nuove, quindi riunire in un unico corpo organico legislativo il vecchio col nuovo, vuole creare
una scienza giuridica fissa e inalterabile. “Le Ordinanze” di D’Aguessau non disciplinano l’intero
diritto, ma alcune materie di diritto privato:
- nel 1731 esce la disciplina delle donazioni;
- nel 1735 esce la disciplina dei testamenti;
- nel 1741 esce la disciplina dei fedecommessi;
D’Aguessau cerca di eliminare le discordanze tra i vari giuristi nelle varie opinioni
giurisprudenziali e fissare una dottrina definitiva in questi settori.

Prendiamo il paragrafo 12 “dei delitti e delle pene” relativo al fine delle pene:
“ il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già
commesso…”, sei righe più sotto: “il fine dunque non è altro che di impedire al reo dal fare nuovi
danni sui cittadini e dal rimuovere gli altri dal farne di uguali.” Quindi la pena ha un potere
deterrente nei confronti del reo, e deterrente nei confronti dei cittadini che così vedono cosa
succede in conseguenza alla commissione di un reato.
“ quelle pene dunque e quel metodo di infliggerle deve essere prescelto, che serbata la
proporzione, farà un’impressione più efficacie e più durevole sugli animi degli uomini e meno la
tormentosa sul corpo del reo.” La pena dunque non deve essere spaventosa, ma deve creare uno
spavento il più efficacie e lungo possibile. Qui Beccaria anticipa già il suo discorso sulla pena di
morte: la pena di morte è meno utile che non l’ergastolo perché la pena di morte è qualcosa che
finisce subito, una volta che viene data la morte il reo non si spaventa più di tanto, invece il
pensiero di passare la vita chiuso in prigione a fare magari lavori forzati spaventa molto di più il
reo così come i potenziali rei.

Paragrafo 6: proporzione fra i delitti e le pene.


Qui viene esplicata la teoria della proporzionalità della pena: “non solamente è interesse comune
che non si commettano delitti, ma che siano più rari a proporzione del male che arrecano alla
società.”
Ultime due righe di questo capoverso: “ dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le
pene.”

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Pagina 20 terzo paragrafo: “ data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che
necessariamente risultano dall’opposizione medesima agli interessi privati, trovasi una scala di
disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società,
e l’ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. “ cioè i reati più gravi
sono quelli che vanno contro la società, mentre quelli meno gravi sono quelli che vengono
commessi in ambito privato.
“ tra questi estremi ( cioè tra i reati più gravi e quelli meno gravi) sono comprese tutte le azioni
opposte al bene pubblico, che chiamasi delitti, e tutte vanno per gradi insensibili, decrescendo
dal più sublime al più infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure
combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una corrispondente scala di pene, che
discendesse dalla più forte alla più debole; ma basterà il saggio legislatore di segnarne i punti
principali, senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo.”
In poche parole Beccaria vuole dire che ai delitti più gravi vanno applicate pene più gravi e a
quelli meno gravi pene meno gravi.

Pagina 21 secondo capoverso: “ qualunque azione non compresa fra i due sopraccennati limiti
non può essere chiamata delitto, o punita come tale, se non da coloro che vi trovano il loro
interesse nel chiamarla così.” Qui si dice che la norma deve specificare bene il reato e le pene
viene praticamente enunciato il principio di legalità. Quindi tutti i reati devono essere ben
classificati.

Pagina 22 secondo capoverso: “ se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se
tra i motivi che spingono gli uomini anche alle più sublimi operazioni, furono destinati
dall’invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà
quella tanto meno osservata contraddizione, quanto più comune, che le pene puniscano i delitti
che hanno fatto nascere.”
Questo vuol dire che se si danno pene sproporzionate o si puniscono delle azioni che non è il
caso di punire saranno le stesse pene che genereranno altri delitti.
“ se una pena uguale è destinata a due delitti che disegualmente offendono la società, gli uomini
non troveranno un più forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino
unito un maggior vantaggio”.
Dunque Beccaria ci dice che le pene devono essere proporzionate: se una stessa pena punisce
un delitto più grave e un delitto meno grave è chiaro che gli uomini tenderanno a commettere il
delitto più grave perché tanto la pena è la stessa e probabilmente dal delitto più grave traggono
maggior vantaggio per sé stessi.

Veniamo ora alla questione della pena di morte.


Pagina 62: qui ci si pone il problema, molto discusso nel XVIII secolo, su diritto dello Stato di
privare della vita. Partendo dalla quarta riga: “ qual può essere il diritto che si attribuiscono gli
uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse
non sono che una somma delle minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse
rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia
voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di
ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda
tal principio con l’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi ( riflesso dell’influenza Cristiana) , e
doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?.”

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Questo vuol dire che è vero che c’è stato un patto, ma certamente nella creazione di questo patto
l’uomo non ha dato allo Stato il diritto di privarlo del maggiore dei diritti che ha, ovvero alla vita.
Se l’uomo non ha diritto di scegliere della propria vita figuriamoci se con un patto deroga a
qualcun altro il diritto di togliergliela.
Conclude: “ non è dunque la pena di morte un diritto”.
Beccaria è evidentemente contro la pena di morte, ma non è che la abolisca del tutto: ci sono
due motivi per cui la pena morte può essere applicata; vediamo ultimo paragrafo di pagina 62:
“la morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi.
Il primo, quando anche se privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi
la sicurezza della Nazione; quando la sua presenza possa produrre una rivoluzione pericolosa
nella forma di governo stabilita.”
Il secondo motivo lo ritroviamo a pagina 63 settima riga: “io non veggo necessità alcuna di
distruggere un cittadino se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli
altri dal commettere delitti.” Questo è il secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria
la pena di morte.
Continua più sotto: “ non è l’intensione della pena che fa’ maggior effetto sull’animo umano, ma è
l’estensione di essa, perché la nostra sensibilità e più facilmente e stabilmente mossa da minime
ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento.”
Ultima riga: “ non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo
e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che , divenuto bestia di servigio ricompensa con le
sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti.” ci dice dunque che
sono peggio l’ergastolo e la condanna i lavori forzati che non la pena di morte.
“ quell’efficacie, perché spessissimo ripetuto intorno sopra noi medesimi, io stesso sarò ridotto a
così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l’idea
della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza.”

Pagina 64 ultimo paragrafo: “ perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi
d’intensione che bastano agli uomini per rimuoverli dai delitti; ora non vi è alcuno che
,riflettendovi, sceglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto
avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena della schiavitù perpetua
sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato.” Siamo
sempre lì dunque: meglio l’ergastolo della pena di morte.
Per continuare questo concetto passiamo a pagina 65: “ l’animo nostro resiste più alla violenza e
agli estremi ma passeggeri dolori che al tempo e all’incessante noia.”
“ chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolora come la morte, e perciò egualmente crudele, io
risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma
questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo
il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre.”
Con questo anche per quanto riguarda la pena di morte abbiamo terminato.

LUDOVICO ANTONIO MURATORI

Esponente illuminista, nato nel1672, morto nel 1750 Modena.


È tra coloro che vogliono riorganizzare il diritto in un corpo razionale, critica il sistema del diritto
comune in modo superficiale ma importante poiché riflette quello che era il modo di pensare
degli ambienti culturali del XVIII secolo.

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Si laurea a Modena nel diritto romano canonico, è ordinato sacerdote.
Dirige la biblioteca del duca di Modena. È di professione dotta, ma non esercita la professione.
Nel 1726 con una lettera invita Carlo VI a compiere un opera di semplificazione del diritto
selezionando e concentrando le leggi in un corpo ufficiale.
Muratori si mette a riordinare il diritto, scrivendo nel 1742 la sua opera più importante “Dei
difetti della giurisprudenza” in cui fa il punto sulla situazione giuridica del suo tempo e mette in
evidenza l’incertezza del diritto, il disordine tra le fonti del diritto, l'arbitrio che avevano acquisito
i giudici.
I difetti della giurisprudenza sono di due tipi: intrinseci ed estrinseci.
I difetti intrinseci, non sono eliminabili, perchè le norme giuridiche non possono essere
completamente chiare, vanno interpretate, nessuna raccolta legislativa può prevedere tutti i casi
che si pongono nella realtà. Il diritto scritto è insufficiente per essere applicato nella realtà.
Gli uomini manifestano la loro volontà ogni volta che cercano di dare veste giuridica ai rapporti
tra loro e ciò genera dei litigi. Uno dei difetti intrinseci è che il diritto nella sua applicazione
pratica dipende dall’opinione personale dei magistrati, che hanno un eccessivo arbitrio.
I difetti estrinseci sono quelli eliminabili, non dipendono dalla natura del diritto, ma dal
comportamento degli operatori giuridici.
Esempio: la confusione di interpretazioni dottrinali e giudiziali. Si deve mettere ordine tra le
opinioni dei giuristi che ormai hanno assunto il valore di legge; non veniva più consultato il
corpus iuris civilis, ma le opinioni dei giudici.
L’arbitrio giudiziale, altro difetto estrinseco, avviene quando un giudice deve emanare una
sentenza e sceglie a proprio arbitrio a quale opinione legarsi, ha quindi un arbitrio enorme che
bisogna cercare di controllare.
Muratori propone dei rimedi per eliminare tali difetti estrinseci:
- proibire agli avvocati di usare in tribunale le opinioni dottrinali, obbligandoli a fare ricorso al
nudo testo della legge. È un rimedio debole perché gli avvocati nell'emanare i loro pareri
avrebbero continuato a ispirarsi alle opere di giuristi e giudici;
- il sovrano nomina una commissione di giuristi e di esperti col compito di risolvere
definitivamente i problemi che nella prassi appaiono i più spinosi e di raccoglie le soluzioni in un
testo ufficiale. Propone la redazione di un piccolo codice a cui devono attenersi i giudici.
Vorrebbe sostituire le numerose Opinionis a cui si rifacevano i magistrati con un unica soluzione
ufficiale.
Sono entrambe proposte piuttosto vaghe ma critica il sistema del diritto vigente, delle fonti e
dello strapotere dei giudici.
Muratori non propone un innovazione del diritto ma una semplificazione e una chiarificazione
del diritto vigente, si avvicina a quello che poteva essere il futuro codice.
A Muratori non interessa superare il sistema del diritto comune, la sua opera è superficiale e
indicativa del modo di pensare degli intellettuali della sua epoca, che attribuiscono la colpa
principale della situazione attuale ai giudici.
La professoressa Casana ha poi letto e commentato alcuni passi delle opere di Rousseau e
Montesquie, qui di seguito riportate (in corsivo ci sono i commenti della professoressa) :

TREDICESIMA LEZIONE (16/04)

Inizi di codificazione, raccolte ma non ancora codificazioni --> consolidazioni.


Vediamo oggi le principali consolidazioni del XVIII sec.

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Le consolidazioni sono raccolte legislative di leggi già esistenti che utilizzano moltissimi sovrani
assoluti --> per affermare appieno la loro sovranità devono controllare il giudiziario e il legislativo
(l’esecutivo lo controllavano già).
Le consolidazioni sono strumenti in mano ai sovrani assoluti per rendere più efficienti.
Con le consolidazioni continuano a rimanere in vigore le fonti del sistema di ius comune, nel
momento in cui viene messo totalmente in disparte le fonti dello ius comune e verranno usati
solo i codici allora si potrà parlare di codificazione.
La legge diviene uno strumento nelle mani del monarca per affermare la propria sovranità.
Nel XVIII sec i sovrani cercano di legiferare il più possibile --> consolidazioni in tutta Europa ma
moltissimo anche in Italia.
Le principali consolidazioni che abbiamo in Francia sono:
Ordonnance di Luigi XVII
E nel ‘700 quelle di d'Aguesseau
In Italia ricordiamo:
Le regie costituzioni sabaude promulgate da Vittorio Amedeo II e poi l’ultima edizione da
Carlo Emanuele III ---> hanno tre edizioni :
o 1723
o 1729
o 1770
A Modena abbiamo le costituzioni modenesi/ estensi del 1771.
In toscana nel 1776 abbiamo un riordino della legislazione penale --> Leopoldina.
Abbiamo anche molti altri progetti che però non vengono portati a termine.
Le caratteristiche di tali consolidazioni sono:
 Raccolte di materiale preesistente
Presuppongono la preesistenza di tutte le fonti del dir medievale che diventano fonti
sussidiarie ma continuano ad essere in vigore.
 Raccolte di materiale anche nuovo.
Quindi in due parole le caratteristiche sono :
 ETEROINTEGRABILI : se non ci sono le norme per risolvere il caso concreto allora si possono
guardare le norme di dir comune
 NON ESAUSTIVE: non pretendono di costituire, per quella disciplina, l’unica fonte del
diritto.
E queste è la differenza principale secondo la definizione di Viora --> la codificazione è:
AUTOINTEGRABILE: cioè se non si trova una norma specifica per risolvere il caso, bisogna
trovare, sempre all’interno del codice una norma analoga da applicare
 ESAUSTIVA : es il codice civile pretende di racchiudere in esso tutta la materia civile, non vi
sono altre fonti che trattano la materia civile.

In poche parole la consolidazione si basa sull’antica teoria delle fonti del diritto ma mantiene in
vigore ancora le fonti del dir comune, il codice invece è l’unica fonte applicabile in quella
disciplina, con il codice non si applica più lo ius comune.
Approfondiamo le caratteristiche di queste consolidazioni.
Partiamo dalle Regie costituzioni Sabaude / costituzioni piemontesi.
Nella loro prima edizioni (1723) è inquadrata nell’opera di accentramento e di riordino statale
avviata da Vittorio Amedeo II.

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Nel 1713 Vittorio Amedeo II instaura una commissione formata da un gruppo di giuristi e da
ordine a questa commissione di riordinare gli editti ducali.
In realtà questo gruppo di giuristi non compie solamente un riordino, ma fa un progetto molto
più innovativo, tant’è vero che un suo ministro, Platzaert, invia ad un certo punto una memoria
al sovrano in cui gli propone, seguendo l’impostazione dell’antica legislazione sabauda (decreta
seu statuta) e propone di dividere la consolidazione in 5 libri:
1. materia religiosa
2. organizzazione delle magistrature ( nel 700-800 le magistrature non intendono solo gli
organi giudiziari, ma sono tutti gli organi che hanno un potere autonomo, quindi possono
essere anche organi amministrativi che hanno potere autonomo) --> quindi tale secondo
libro riguarda l’organizzazione dei vari organi/ magistrature dello Stato.
3. procedura civile
4. procedura e diritto penale
5. disposizioni di dir privato ( es materia notarile, l’ufficio di insinuazione ( oggi ufficio del
registro))
Nel ‘29 si propone di aggiungere un sesto libro in materia demaniale.
Il tutto è proceduto da un Proemio in cui viene spiegato lo scopo della raccolta che è quello di
riunire in un chiaro e breve compendio la legislazione dei principi precedenti e di unirla con le
nuove leggi. ---> tale consolidazioni, come tutte le altre avevano come obiettivo la creazione di un
dir chiaro e certo.
Tali consolidazioni non entrano in vigore in tutto il territorio, ad esempio in Valle d’ Aosta e in
val Sesia dove rimane il diritto comune locale, poi nell’edizione del ’29 e del ’70 invece
entreranno in vigore su tutto il territorio.
Cosa c’è di peculiare in queste regie costituzioni per quel che riguarda il sistema delle fonti del
dir?
Abbiamo detto che restato in vigore le fonti del diritto comune, ma la cosa interessante è che sia
in quella del 23 che in quella del 29 viene fatta una gerarchia delle fonti.
Prendiamo in considerazione la consolidazione del 23 --> gerarchia delle fonti:
1. legislazione regia
2. se nella legislazione regia non si contempla quel caso concreto si ricorre alla legislazione
locale che è raccolta negli statuti --> quindi al secondo posto vi sono gli statuti
3. se negli statuti non vi è ancora la soluzione al caso concreto allora si ricorre al diritto
comune --> è diventato un dir residuale il diritto comune.
Questa gerarchia delle fonti nella consolidazione del 29 la gerarchia delle fonti cambia:
1. legislazione regia
2. le decisioni ( sono le sentenze motivate) dei supremi tribunali ---> vengono riconosciute
ufficialmente ( nella prassi/ di fatto era già così, ma non era ancora stato ufficializzato)
come valore di precedente vincolante.
Diventa anche obbligatoria la motivazione (di fatto era già così, ma non era scritto da
nessuna parte che doveva essere così.

L’edizione del 70 non ha saputo cogliere quei cambiamenti della cultura giuridica del XVIII
secolo.
Nel proemio si mette in risalto...e la volontà del sovrano di controllare pienamente il diritto (che
viene sempre più identificato con la legge sovrana).

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bisogna che l’interpretazione del diritto non deve essere più in mano ai giudici, infatti nel
proemio si dice che l’interpretazione della legge è di esclusiva competenza del sovrano.
Secondo il dir comune invece le norme privatistiche erano derogabili se vi era il consenso delle
parti, adesso non era possibili derogare nemmeno in campo privatistico, spetta solo al sovrano
interpretare i casi dubbi o dove non vi è una soluzione.
La legislazione regia è sempre prioritaria su tutte le fonti del dir e l’interpretazione appartiene al
sovrano, le altre fonti del dir sono sempre più compresse.
L’ideologia delle regie costituzioni è un’ideologia riformistica di stampo dirigistico, cioè che mira
ad affermare lo stato assoluto ( e non di stampo illuministico).
Passiamo ora all’altra consolidazione, la costituzione modenese/ estense del 1771 che si
intitola: “codice di leggi e costituzione per gli Stati di sua altezza serenissima” --> viene emanato
da Francesco III.
Di fatto questo codice che esce nel 1771 è il coronamento di una lunga opera riformatrice
iniziata da Francesco III nel 1740 cerca già di fare delle riforme per l’accertamento totale,
incomincia un riordinamento giudiziario e amministrativo.
Culmina con l’istituzione di un nuovo organo: Supremo consiglio di giustizia --> è il supremo
organo giudiziario e per la prima volta le competenze giudiziarie sono separate da quelle
esecutive e di indirizzo politico.
Dal punto di vista, invece, del riordino legislativo il punto di arrivo è il codice estense del 1771.
Il testo di tale codice scaturisce da una DEPUTAZIONE, così si chiamava la commissione
insediatasi nel 1768 che è quella che andrà a buon fine.
Nel 1759 ci fu la prima commissione che si chiamava commissione Donati e aveva fatto un
lavoro di coordinamento tra la normativa locale degli statuti esistenti, cercando di togliere tutte
le contraddizioni.
Nel 1768 invece la seconda commissione inizia a redigere un testo del tutto nuovo ed è dal lavoro
di tale seconda commissione che nasce il codice estense del 1971.
Da quali fonti è formato il codice estense del ‘71?
Prende le basi dal diritto statutario modenese, poi si ispira alle regie costituzioni di Amedeo II.
Un’altra fonte è il saggio del Muratori in materia successoria.
Nelle costituzioni estensi è ancora aperto il pieno ricorso al dir comune come dir sussidiario ed è
significativa le espressioni che vengono utilizzate nell’ordinanza di promulgazione dove si dice
che la nuova raccolta legislativa doveva essere:
 unica
 Sovrana
 legge fondamentale
Di fatto nel sistema delle fonti del codice estense si fa divieto di ricorrere agli statuti locali e allo
iura propria, bisogna ricorrere solo alle norme del codice.
Non ci sono di fatto ( dice il Tarello ) grandi innovazioni rispetto al progetto del ’50, si cerca
soprattutto di coordinare l’esistente, di fatto qualche innovazione c’è, perchè per es:
 Vengono ridotte tutte le formalità processuali --> quindi nel campo procedurale vi sono dei
cambiamenti.
 si nota un tentativo di comprimere il potere dei giudici
 viene introdotto il divieto di interpretazione della legge da parte dei giudici
 vengono limitate le donazioni.
Queste sono le innovazioni, ma persistono ancora istituti tradizionali:

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 non viene abolito il fedecommesso
 vengono salvaguardate le autonomie locali, perchè il granduca non ha la forza meteriale di
eliminarli
 Vengono salvaguardati i privilegi ecclesiastici.
Una grande innovazioni viene introdotta per quanto riguarda l’interpretazione della legge, perchè
se nelle regie costituzioni l’interpretazione della legge era attribuita al sovrano, qui invece per la
prima volta l’interpretazione della legge viene affidato al Supremo tribunale di giustizia, cioè ad
un organo ad hoc che ha proprio lo scopo di interpretare la legge e inoltre il supremo tribunale di
giustizia deve interpretare con dichiarazioni motivate e sono proprio tali dichiarazioni motivate
che avevano il compito di fornire l’interpretazione autentica.
La differenza è quindi che nelle regie costituzioni la funzione interpretativa era assimilata con
quella legislativa, qui invece no.
In conclusione il codice del 71 non abolisce le norme vecchie fonti del dir comune quindi è e
resta una consolidazione.

LEOPOLDINA del 1786.


Riforma della legislazione penale toscana, viene promulgata il 3 novembre del 1786 e rientra in
una più ampia impostazione riformatrice portata avanti da Pietro Leopoldo di Toscana.
Anche in toscana vi erano stati altri tentativi di riforma del diritto sotto Francesco di Lorena però
erano tutti caduti nel vuoto, quando Pietro Leopoldo diventa gran duca di Toscana si interessa
personalmente del problema: fa commissione di giuristi costituita da: Vernaccini, Ciani e Tosi.
Leopoldo secondo voleva riordinare tutto il diritto toscano ma in realtà riesce a riordinare solo il
diritto penale.
Stende personalmente un progetto/ bozza secondo cui il diritto doveva essere diviso in 4 parti:
Una prima parte che doveva fungere da introduzione generale
 Una seconda parte che doveva trattare la procedura penale
 La terza e la quarta parte il diritto penale.
In questo progetto di Leopoldo c’è già un impostazione codicistica, cioè la procedura è distinta
dal diritto sostanziale, ma di fatto poi nella Leopoldina tutto è mescolato, di fatto non si riscontra
tutta questa suddivisione anche se alcuni studiosi tengono a considerare la Leopoldina già un
codice, altri studiosi non la considerano codice perchè:
1. di fatto non si realizza la distinzione tra diritto sostanziale da dir processuale
2. non lo si può considerare codice per come viene presentata la norma, la norma è ancora
discorsiva, non sono ancora imperative (come quelle del codice)
3. la Leopoldina non abroga tutta la legislazione precedente in campo penale perchè nella
Leopoldina si afferma apertamente che i giudici ove non trovino la soluzione al caso
concreto devono rifarsi alla legislazione previdente, interpretata secondo lo spirito della
riforma.
Da un punto di vista strutturale quindi la Leopoldina non si può considerare codice e neppure
dal punto di vista sostanziale:
1. perchè è vero che vi sono delle disposizioni innovative in campo procedurale per esempio:
viene abolita la tortura, viene prescritto l’obbligo del giuramento da parte dell’accusatore
e dell’accusato, fino ad ora il giuramento era obbligatorio solo da parte dell’accusato.
Salvaguardia dei diritti dell’accusato, es norme che regolamentano l’arresto, la libertà
provvisoria, norme che riducono la segretezza degli atti ( fino ad allora erano segreti
praticamente tutti gli atti)
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2. innovazioni dal punto di vista delle pene perchè vengono abolite le pene più severe, es
pena di morte, vengono abolite le sanzioni infamanti come il marchio e la morte civile, il
marchio era una sanzione che implicava una marchiatura del colpevole che si doveva
portare dietro tutta la vita, e la morte civile era la perdita di ogni diritto in ogni campo,
era come non essere mai nato.
Lo spirito che anima la Leopoldina è uno spirito che aderisce alle concezioni umanitarie
che avevano iniziato a svolgere un certo gruppo di illuministi, ma comunque la
Leopoldina contiene ancora forti legami con il passato: la gogna, la frusta pubblica -->
quelle pene che avevano un effetto di incutere paura in altri potenziali rei, cioè quelle
pene che avevano un effetto deterrente. Ma viene sempre osservato il principio della
gradualità e mitezza delle pene che era stato teorizzato da Beccaria.
La Leopoldina è quella che si avvicina di più, di quelle finora trattate, all’idea di codice moderno.
In conclusione si può dire che le tre consolidazioni che abbiamo trattato non si possono
considerare dei codici perchè:
1. non aboliscono la legislazione previgente
2. non vi è ancora separazione tra le materie
3. non contemplano l’unicità del soggetto giuridico
4. non sono raccolte delle leggi ex novo --> questo è il punto più controverso
Tali consolidazioni non sono ancora dei codici ma rappresentano il passo decisivo, l ’ultimo passo
verso le codificazioni.
Non portano innovazioni nel campo legislativo perchè le regie costituzioni di Vittorio Amedeo II
che sono tra le più innovative in realtà si ispirano alla legislazione francese.
Il codice estense viene influenzato dal clima della politica prei lluministica quindi assorbe
quell’idea che l’unificazione legislativa e il riordino della giustizia rappresentano momenti chiave
per rafforzare il potere sovrano, dell’autorità centrale.
Il codice più innovativo è la Leopoldina che risente del clima riformatore austriaco.

QUATTORDICESIMA LEZIONE (22/04)

Cominciamo a vedere l’impatto del pensiero degli illuministi nella pratica. Nella seconda metà del
18° secolo si era cominciato a progettare codici, riordini legislativi e raccolte legislative
caratterizzate da specifiche tecniche, specifici contenuti e specifiche politiche del diritto. Le
raccolte della seconda metà del 18° riflettono la politica del diritto illuminista.
Tutto il pensiero illuminista deriva dal giusnaturalismo. Una delle idee basilari è che gli uomini
nascono con dei diritti soggettivi naturali imprescrittibili. Per il semplice fatto della nascita
l’uomo ha dei diritti, comincia a cambiare concetto di legge. Fino ad allora la legge era servita al
sovrano per affermare il proprio potere, per mantenere la sicurezza dello stato. Una delle
funzioni della legge diventa riconoscere i diritti naturali. La ragione comprende quali sono i
diritti naturali e cerca di trasferire questi diritti naturali nella legge positiva. La legge per
esprimere i diritti naturali deve essere anche espressione della ragione. Per essere espressione
della ragione deve essere semplice e comprensibile . Se la legge è semplice diventa anche certa.
Per essere certa deve essere espressione di volontà generale e deve essere eseguita da persone
differenti da coloro che l’hanno formulata. Viene fuori la teoria di Montesquie sulla separazione
dei poteri. Tutte queste idee basilari derivano da giuristi differenti. L’idea che tutti gli individui
nascono con diritti soggettivi appartiene a dottrina Pufendorf. L’dea che la legge è espressione
ragione deriva da dottrina di Voltaire, di Wolff, di Rousseau, di Kant.
91
Nella seconda metà del 18° secolo alcuni stati cominciano a mettere in atto riforme che servivano
sia per migliorare le condizioni di vita del popolo, ma anche al sovrano per accentrare il potere.
Quali sono gli stati che accolgono almeno alcuni aspetti degli illuministi? La Prussia di Federico
Guglielmo I (re dal 1713 al 1740) e Federico II (1740 al 1786). Entrambi furono regni molto
lunghi che lasciarono il tempo di fare riforme organiche. Un altro stato dove si attuano
maggiormente le riforme è l’Impero Asburgico di Maria Teresa d’Austria (governa dal 1740 al
1780) e del figlio Giuseppe II (dal 1780 al 1790). A Giuseppe II succederà Leopoldo II, prima noto
come Pietro Leopoldo Granduca di Toscana.
La pace di Vestfalia aveva riconosciuto la formazione giuridica in cui il Re di Prussia aveva
ottenuto grande indipendenza dall’imperatore. La società prussiana era basata ancora sui ceti
(detti stande) dove dominavano nobiltà e borghesia (nelle città). Federico Guglielmo I e Federico
II sono due sovrani assoluti e attuano una politica per svuotare di potere i ceti privilegiati,
soprattutto la nobiltà, attuando una serie di riforme. I ceti perdono gran parte della rilevanza
costituzionale. Questo perchè le assemblee dei ceti perdono potere. Lo stato aumenta la funzione
amministrativa e gli stande perdono importanza politica anche se continuano a mantenere una
notevole importanza sociale e anche entro certi limiti nel settore del diritto privato. In Prussia i
due perni su cui ruotava lo stato erano il Principe e gli stande. Gli stande erano rappresentati da
un organo collegiale, l’Assemblea degli stande. L’Assemblea aveva molto potere perchè poteva
bloccare l’iniziativa amministrativa o politico-militare attraverso il potere finanziario. Il Re per
andare in guerra necessitava degli stanziamenti che erano concessi dall’assemblea degli stande.
L’ssemblea doveva dare anche approvazione a ogni tassa che il re voleva creare. Federico
Guglielmo I nel 1723 crea un nuovo organo superiore all’ Assemblea degli Stande, il Direttorio
Generale o General Directorium. Il Direttorio Generale dipendeva direttamente dal Re e aveva
competenze nell’amministrare le terre demaniali del Re e le relative entrate. Aveva in mano
l’unificazione dell’amministrazione finanziaria. Istituito da Federico Guglielmo I il direttorio
generale rappresenta primo passo verso creazione di una serie di organi gerarchizzati e composti
da professionisti. Nel 1728 viene istituito il Ministero di Gabinetto la cui funzione era occuparsi
di politica estera che fino ad allora era stata di competenza dell’assemblea degli stati.
All’Assemblea rimangono competenze nel settore giudiziario e del culto. Il re mette a capo di
tutta la piramide amministrativa il cancelliere, una sorta di presidente dell’esecutivo. Tutta
questa ristrutturazione diventa molto laboriosa e sarà portata avanti da Federico II. Il primo
cancelliere è nel 1731 Samuel Coceius, giurista di estrazione romanistica.
Con Federico Guglielmo I il Direttorio Generale si occupa di demanio, finanze ed esercito.
Ministero di Gabinetto si occupa di politica estera. L’Assemblea degli Stati segue affari giudiziari
e culto, ormai è al fondo della piramide. A capo dei tre ordini vi è il monarca che si affiancherà il
cancelliere.
Federico II migliora la struttura articolandola per settori di competenze. L’obiettivo sarà
razionalizzare e unificare l’amministrazione su base territoriale. L’amministrazione dovrà essere
uniforme e gestita nello stesso modo in tutto il territorio. Vengono rimossi i privilegi che
rendevano l’amministrazione parcellizzata e toglievano al Re una fetta di potere amministrativo.
Tenderà anche a unificare l’amministrazione della giustizia e cercherà anche di unificare il
diritto formulando sulla base delle consuetudini prussiane un diritto comune per tutti i territori
lasciando perdere il diritto romano. Il diritto comune sarà formato dall’insieme delle
consuetudini inquadrate poi nelle categorie romanistiche. Federico Guglielmo I pensava a una
raccolta di atti legislativi da applicare in tutto il territorio. Federico II vorrà affermare ancora di
più l’autonomia prussiana dall’impero affermando identità statuale della Prussia come stato a sé

92
stante. Federico II incarica Coceius di riorganizzare sistema giudiziario prussiano. Nel 1746
emette ordinanza perchè Coceius possa riordinare diritto prussiano. Come prima regola dice di
mettere da parte il diritto romano-latino. La seconda è un creare diritto territoriale tedesco da
basarsi sulla ragione naturale (influenza illuministe) e sulle costituzioni del paese (le
consuetudini). Coceius si era formato su una base romanistica ed era grande sostenitore del
diritto romano, quindi poco adatto per mettere da parte il diritto romano anche perchè Coceius
identificava diritto naturale con diritto romano. Nel 1746 propone al Re di riorganizzare la
procedura provincia per provincia. Non crea ancora codice procedurale unico per tutto il
territorio, sceglie di partire dalle consuetudini di ogni provincia. Nel 1747 esce il codice di
procedura per la Pomerania. L’anno successivo crea il codice di procedura per Brandeburgo.
Li chiamiamo codici anche se non sono ancora come i codici moderni, sono riordini legislativi
che apriranno la strada al codice di procedura del 1781 che prenderà il nome di regolamento
giudiziario generale. Progetti divisi in tre parti: la prima su reclutamento giudici e organizzazione
uffici, la seconda le regole di procedura vere e proprie, la terza i procedimenti speciali.
Il giudice doveva essere tecnico. Si prevede che nei tre senati (supremi tribunali) fossero
introdotti uditori e referendari. Gli uditori era giovani magistrati che avrebbero poi intrapreso la
carriera, i referendari erano già giudici ai primi passi. Si stabilisce poi che i direttori dei senati
andassero reclutati per meriti e professionalità. Uditori e referendari si formavano attraverso un
curriculum di esami apposito. Molto importante è anche il principio di eguaglianza di fronte alla
giustizia. I giudici avevano l’obbligo di rendere giustizia a tutti (prima volta in cui questo viene
affermato). Proclamato principio per cui lo stesso monarca è subordinato alla legge, gettate le
basi dello stato di diritto.
La seconda parte prevede nella parte istruttoria un processo orale, ma si introduce l’obbligo di
motivare le sentenze.
La terza parte è sui procedimenti speciali e contiene importanti disposizioni riguardanti la
procedura tra cui tentativo obbligatorio di riconciliazione da parte del giudice che andava fatto
prima di istruire qualsiasi processo. Riforma avrà grande successo e ispirerà codice 1781.
Non si può dire lo stesso sui tentativi di Coceius di riforma del diritto sostanziale. Tra 1749 e
1751 esiste un progetto di codice federiciano di cui viene pubblicata la prima parte che
riguardava regole generale desunte dal diritto romano. Non conteneva norme sulle actiones,
norme sui diritti delle persone e sul diritto di famiglia. La seconda parte del codice federiciano
esce nel 1751 e disciplinava diritto di proprietà, diritti reali, successioni. Era anche
programmata una terza parte che avrebbe dovuto riprogrammare obbligazioni e diritto penale.
C’è una distinzione tra diritto sostanziale e processuale, ma non tra civile e penale. Il tentativo di
Coceius riflette il filone giusnaturalistico di Pufendorf. La riforma che propone Coceius è intrisa
di diritto romanistico, riceve molte critiche ed è lo stesso re che la boccia. Critiche mosse sono
quelle di trascurare diritto proprio dei vari territori prussiani e anche le differenze dei vari status
personali. Non c’è quindi l’intenzione di eliminare diritto diviso per censi. Il progetto sosteneva
l’unificazione del diritto, cosa che non si voleva davvero fare. Le norme erano formulate in modo
discorsivo e non imperativo, quindi poco chiare. Progetto Coceius andava contro idea di Federico
II che voleva diritto comune, chiaro, semplice e prussiano.
Quando muore Coceius nel 1780, Federico II incarica il nuovo cancelliere Von Karner. Lo
incarica di una riforma generale del diritto. Viene creata una commissione per elaborare
progetti che si sarebbero dovuti presentare a una commissione legislativa. Parallelamente a
riforma del diritto sostanziale si riprende anche riforma diritto processuale che si era fermata ai
codici della marca Brandeburghese e della Pomerania.

93
Tarello lo definisce il primo codice processuale illuminista. Riforme caratterizzate dalla
attribuzione di maggiori poteri per il giudice nella fase istruttoria del processo. Aveva però molti
meno poteri arbitrari ed equitativi perchè è sempre di più legato dalle leggi sostanziali. Vi è
maggior pubblicità del processo. Il giudice deve motivare ogni questione incidentale e non solo
più la sentenza finale.
Federico II porta anche avanti un progetto di riforma del diritto sostanziale civile e penale che
entrerà in vigore nel 1794. Ha lunghissima rielaborazione che durerà da 1784 a 1788. Doveva
entrare in vigore nel 1792 ma lo farà solo nel 1794. E’ noto come ALR.
L’ALR si propone di sostituire il diritto comune nei territori prussiani. Vuole essere un codice che
vale per tutto il territorio prussiano. Non ammette eterointegrazioni. Questo farebbe pensare a
un vero codice moderno, ma contiene vari punti che lo possono avvicinare più a una
codificazione che a un codice. ALR non abolisce il diritto comune. Si presenta come diritto
suppletivo tra diritti comuni e particolari. Se ci sono vuoti legislativi nei diritti particolari (che
erano quelli immediatamente applicati) allora si ricorreva all’ALR.
Federico II vuole arrivare a un’unificazione del diritto operando sui diritti particolari. Diritto
provincie sarebbero dovuti essere codificati in armonia con l’ALR. Questo avviene solo nel 1801
per la Prussia Orientale. Per la Prussia Occidentale si dovrà aspettare il 1844.
Il codice ha un’introduzione e poi è diviso in due parti, la prima tratta di diritto civile (contratti,
soggetti di diritti, proprietà, diritti reali minori, garanzie delle obbligazioni, espropriazioni ecc), la
seconda tratta di diritto di famiglia, successioni. Tratta poi anche di materie riguardanti
l’organizzazione politica dello stato, stati personali (ceti), corporazione rapporti cittadini-stato.
L’ALR non si può considerare un codice ma una consolidazione perchè una caratteristica codici
moderni era riguardare specifici settori del diritto.
In ALR compaiono, però, caratteristiche dei codici moderni. Gli articoli sono scritti secondo i
caratteri moderni, ossia paragrafi brevi e razionali. Si vede l’influenza della dottrina di Wolf.
Anche rapporto il codice giudice è quello dei codici moderni: l’ALR vieta al giudice di interpretare
la legge. In caso di dubbio c’è una commissione legislativa che deve dare l’interpretazione
autentica. La commissione legislativa corrisponderà al referè legislativo della rivoluzione
francese.
I Capoversi 46-48 stabiliscono che il giudice può fare ricorso ad analogia legis: non trova nel
codice norma da applicare al caso concreto, può trovare norma analoga. Può anche usare
analogia iuris, principi generali del diritto. Entrambi devono trovarsi all’interno del codice. Si fa
così per evitare troppi ricorsi alla commissione legislativa. Però si fa sempre divieto al giudice di
ricorrere a fonti esterne all’ALR, ha quindi pretese di completezza e di autointegrazione.
Nell’introduzione sono contenuti i principi generali. §41 parifica stranieri e prussiani per ciò che
riguarda capacità negoziali. Sovrano si da anche il potere di legiferare contro privilegi dei singoli
e delle comunità. Comincia quindi ad accentrare fonti del diritto, ma deve ancora chiede pareri
ai ceti non avendo ancora la forza per farlo da solo.
Vi sono anche paragrafi come 70, 72, 73 e 75 dove si evince che il bene comune deve prevalere
su quello dei singoli. §75 specifica che stato è tenuto a risarcire chi viene risarcito nei supoi
diritti o privilegi per i beni comuni (es. espropriazione). Si viene risarciti ma non ci si può
opporre all'espropriazione, prevale beni comuni. §70 dice che stato può revocare principi di
singoli o comunità solo per il bene comune. §73 dice che ciascuno deve collaborare a bene
comune e sicurezza comune secondo le proprie condizioni sociali. Questo paragrafo mira a
introdurre il paragrafo 82 che specifica che non tutti hanno gli stessi doveri, ma secondo le
condizioni sociali in cui si trovano.

94
La libertà individuale è circoscritta da norme di diritto positivo, uno è libero finchè non va contro
alle norme di diritto positivo.
Il § 82 dice che i diritti dei singoli traggono la loro origine dalla nascita, dal ceto. L’ALR riconosce
profondamente i ceti. I diritti del singolo traggono loro origine anche dagli atti previsti dalla
legge. Questo dice che alcuni diritti appartengono al soggetto umano in quanto è nato (cd diritti
naturali). Alcuni atti determinano il sorgere di diritti soltanto riferiti ad alcuni soggetti. La legge
attribuisce però efficacia costitutiva di diritti a taluni atti, pieno positivismo giuridico. La
conseguenza è che diritti e obblighi derivanti dal contratto sono tutti previsti dalla legge.
Nella prima parte vediamo che viene riconosciuta esistenza dei ceti. Paragrafo 2 dice che società
civile è composta da più società minori, gli stand, legati tra loro da natura, legge o tutti e due.
Dice che sono persone che per nascita o per attività che svolgono godono degli stessi diritti. Si
deduce che sistema ALR non può formulare principi generali valevoli per tutti. Non c’è unicità
del soggetto giuridico. I soggetti sono diversi, i diritti sono diversi a seconda dei soggetti.

QUINDICESIMA LEZIONE (23/04)

Ci eravamo fermati ieri ad esaminare alcuni articoli dell’ALR: abbiamo visto soprattutto gli
articoli dell’introduzione.
Vediamo adesso di esaminare brevemente il contenuto del libro primo e del libro secondo.
Nel primo libro di questa raccolta di diritto sostanziale, che viene fatta in Prussia nel 1794,
sono contenute alcune regole sul soggetto del diritto in generale: molte regole sono relative a
quelli che vengono detti “predicati giuridici”, cioè ai diritti.
Sono tutti diritti relativi all’ambito privatistico e per lo più sono norme di diritto civile.
Il libro secondo invece contiene oltre a norme di diritto penale ( vediamo che è ancora un po’
tutto mescolato) anche norme di diritto matrimoniale, di famiglia, parla delle successione ab
intestato, ma tratta anche di norme relative ai vari stand ( status che spettavano ai vari soggetti).
Sono molto importanti queste norme relative ai vari ceti perché gli stati modificano le norme
generali che riguardano le capacità negoziali, la proprietà, la libertà di accedere alle professioni o
anche la libertà di accedere all’istruzione. L’appartenenza ad uno status piuttosto che un altro
incide anche sulla capacità matrimoniale.
Quindi vediamo che è ancora prevalente, in Prussia, la società cetuale e i ceti hanno ancora una
grandissima importanza nel campo del diritto.
Questo ci fa’ capire che non c’è unicità del soggetto giuridico nell’ALR ,non solo, ma diventa
anche una raccolta legislativa molto complicata perché le norme si moltiplicano a seconda dei
tipi di soggetti ai cui si rivolgono: per esempio ci sono norme che riguardano il regime
matrimoniale per i nobili, quelle che invece vigono per i rappresentanti del terzo stato ( borghesi
e contadini).
I vari soggetti giuridici vengono raccolti in tre status giuridici:
1. Contadini
2. Cittadini
3. Nobili

1. CONTADINI.
Sono coloro che vivono del lavoro agricolo ( viene specificato nel testo).
Nel campo giuridico quali conseguenze derivano dall’appartenenza allo statu giuridico dei
contadini?

95
I contadini hanno, per esempio, delle limitazioni alla libertà di professione: non possono accedere
alle libere professioni, i contadini devono coltivare la terra.
Hanno delle limitazioni nell’esercitare il diritto di proprietà: i contadini non possono possedere
come i cittadini e i nobili.
Dunque in fondo erano in uno stato di contadini servi e quindi avevano moltissime limitazioni
nell’esercizio delle libertà personali: avevano moltissime limitazioni nell’esercizio della patria
potestà, perché?
Perché un contadino, che coltivava la terra all’interno di un appezzamento feudale, non poteva
esercitare la patria potestà sui suoi figli perché questa veniva esercitata dal signore feudale.
Avevano anche delle limitazioni nei rapporti patrimoniali tra coniugi. In fondo i contadini vivevano
ancora in uno stato di servi. Come si faceva ad uscire da questo stato di servitù?
Lo potevano fare, e qui ritroviamo la limitazione forte alla libertà personale, soltanto per volontà
del signore.

2. CITTADINI.
Che cosa comportava invece lo status di cittadino o borghese?
I cittadini, certamente erano fuori da ogni legame servile quindi erano uomini liberi, avevano
diritto a risiedere in una città ed erano sottoposti alle autorità giurisdizionali e amministrative e
al diritto particolare della città.
Dunque vediamo anche che questa raccolta legislativa che continua a mantenere vivi i diritti
locali: I borghesi obbedivano alla legge locale della città in cui avevano la residenza.
Allora la vita del cittadino era regolata:
 Da una parte dal diritto particolare della città in cui risiedevano
 A titolo di diritto comune generale erano regolati da norme che erano contenute nel libro
primo dell’ALR.
L’ALR è ancora un diritto sussidiario per certe categorie di persone.
L’ALR diventa un diritto suppletivo e non il diritto principale. Continua a rimanere diritto
principale il diritto locale.
Non solo ma il libro primo dell’ALR era diritto suppletivo e molte volte viene, anche in molti
punti, derogato dalla disciplina dei contadini e della nobiltà.
E veniamo al terzo ceto: la nobiltà.

3. NOBILTA’
Compito principale di questa è portare le armi, difendere lo Stato. Questo lo si dice nel libro
secondo, al titolo nono, al paragrafo primo. Come si appartiene alla nobiltà?
Si appartiene al ceto nobiliare per:
 Nascita
 Atto sovrano, il sovrano infatti può creare dei nobili.
Quali sono nel campo del diritto le particolarità del diritto nobiliare?
 Chi è nobile è dotato di un regime patrimoniale particolare (per esempio nei rapporti
patrimoniali tra marito e moglie ci sono delle regole specifiche per i nobili, che sono
diverse dalle regole che disciplinano i rapporti patrimoniali tra i contadini).
 Il fatto di essere nobili comporta anche una serie di regole alle norme processuali.
(Per esempio avevano un foro privilegiato: il “foro nobiliare” venivano giudicati da un
foro di pari.

96
E noi sappiamo che quando esistono le categorie esiste anche un certo corporativismo tra
le varie categorie).
 Erano previste per i nobili una serie di modifiche al regime successorio e di proprietà.
Per esempio potevano istituire fedecommessi su proprietà immobiliari.
Dunque possiamo dire che i nobili avevano tutta una serie di privilegi che aumentavano le loro
capacità giuridiche rispetto alle altre categorie : per esempio potevano accedere a cariche di
governo ed onorifiche ( pensiamo a tutte le onorificenze che venivano date dallo Stato, queste
potevano essere date solo ai nobili), inoltre le cariche della Pubblica amministrazione erano
riservate ai nobili.
Ma lo stato nobiliare imponeva anche alcune limitazioni: per esempio i nobili non potevano
esercitare mestieri vili ( libero professionista, commerciante, arti e mestieri).
La codificazione prussiana è molto complessa per questa pluralità di soggetti giuridici che
comportavano una moltiplicazione delle norme.
C’era una grande confusione nella distribuzione della materia.
Nel libro secondo ci sono delle norme:
 Penali
 Civili
 Diritto di famiglia
In questa confusione è anche difficile semplificare perché le norme di diritto privato sono
mischiate con le altre.
Un altro problema è che nell’ALR manca inoltre l’unicità del soggetto giuridico, c’è ancora una
pluralità di soggetti giuridici.
Tutti questi problemi li vedremo superati solo con il Codice civile francese del 1804, allora il
codice civile francese del 1804 sarà il primo codice che:
 Disciplina solo il diritto privato
 che contemplerà l’unicità del soggetto giuridico
 Separerà il diritto sostanziale dal diritto processuale
 Separerà il diritto civile e penale
 Separerà il diritto processuale civile dal diritto processuale penale
 Abolirà tutte le fonti di diritto comune, ovviamente limitatamente alla materia che tratta.
Ed è per questo che il Code Napoleon sarà considerato il primo vero codice in senso moderno.

Riprendiamo ora il discorso delle “ codificazioni” partendo dall’Austria e dalle riforme apportate
da Maria Teresa d’Austria e suo figlio Giuseppe II.
Maria Teresa d’Austria è imperatrice dal 1740 al 1780, Giuseppe II dal 1780 al 1790.
Anche in Austria, come in Prussia, il cammino verso la codificazione è lungo, se non più
travagliata.
Inoltre in Austria la situazione è ancora più complicata che non in Prussia perché in Austria, da
Ferdinando I a Carlo VI, la figura del sorano d’Austria coincide con quella dell’Imperatore del
Sacro Romano Impero e questa situazione durerà fino al 1700.
Come mai da questo periodo il sovrano d’Austria coincide con l’Imperatore?
Perché Ferdinando d’Aragona aveva il Regno di Spagna e sempre con questo il Regno di Spagna
viene unito all’Impero. A questo punto quello che prima era solo il Re di Spagna diventa adesso
anche Imperatore, questa situazione dura fino al 1700.
Quindi il sovrano/ imperatore in questa sua duplice veste svolge due funzioni contrapposte:

97
 se guardiamo la sua azione come Regina cerca di limitare il potere dei ceti per affermare
la sua sovranità
 se guardiamo la sua azione come Imperatrice ( soprattutto con Maria Teresa
d’Austria)diventa tutrice dei ceti, dell’indipendenza dei ceti.
Pensiamo che ad un cero punto l’Imperatore è nominato ( in determinati momenti storici,
soprattutto durante le guerre di religione) e diventa il capo degli stend cattolici. Dunque era una
situazione di contraddizione.
Visto che in Austria così come in Prussia i ceti hanno una grande forza e continuano ad essere
alla base della società, e dato che lo spirito della codificazione è quello dell’uguaglianza giuridica,
quando si potrà pensare ad un’opera di codificazione e dunque di unificazione del soggetto
giuridico?
Soltanto quando la figura del sovrano d’Austria incomincia a prevalere su quella dell’Imperatore
( anche perché con il tempo la figura dell’imperatore perde sempre più importanza, egli ormai
controlla solo quei territori su cui ha il dominio diretto).
Questo capiterà nel 1748 quando con la Pace di Westfalia si stabilirà l’indipendenza degli Stati
che costituivano l’Impero; da qui la Prussia incomincerà a nascere come Stato autonomo
dall’impero. Di conseguenza l’Imperatore perderà molto del suo potere su tutto l’impero e sempre
più invece diventerà importante come Sovrano/ Re dei suoi diretti domini, tra questi c’era
l’Austria.
Maria Teresa d’Austria in questo momento, più che come Imperatrice, come Regina d’Austria
introduce tutta una serie di riforme al fine di estendere la sua sovranità su tutto il territorio
austriaco. Per fare questo ella deve anche diminuire il potere dei ceti privilegiati.
1. Uno dei primi problemi che avranno questi primi stati assoluti sarà quello di avere delle
entrate sicure, avere delle entrate sicure vuol dire imporre un regime fiscale chiaro che assicuri
entrate annuali sicure: è proprio nel 1748 che Maria Teresa d’Austria introduce le contribuzioni
esclusivamente in denaro sulla base del rendimento delle terre; istituisce insomma la tassa sui
beni terrieri. Questi beni terrieri potevano essere della Chiesa, dei signori feudali ecc., ma non
importa tutti devono pagare la tassa in base al rendimento del proprio terreno.
Per fare ciò deve conoscere esattamente la mappatura dei possedimenti terrieri: sarà il primo
Stato ad introdurre il catasto controllato dallo Stato. Una volta avuta chiara la distribuzione
delle terre impone una tassa in relazione alla produttività delle terre, introduce una tassa
proporzionale al rendimento medio delle terre: si fa’ una stima del rendimento medio del terreno
e sulla base di quello si poneva la tassa: l’1% andava allo Stato, il 2% l proprietario. Siccome la
tassa era calcolata in base al rendimento medio del terreno se quel terreno rendeva di più il
surplus andava a vantaggio del proprietario. Questa riforma fa’ dunque migliorare notevolmente
la produttività terriera perché diventa uno stimolo per incrementare la produttività dei propri
terreni in modo da trarne guadagni maggiori. Questa è una delle più grande riforme istituzionali.
2. Introduce tutta una serie di riforme giudiziarie e amministrative: incomincia a
scorporare l’amministrazione della giustizia dall’amministrazione attiva.
La iurisdictio viene frantumata. Il sistema di frantumazione del potere è un tipico sistema che
utilizzano i sovrani per accentrare il potere: diminuiscono il potere di tutti gli organi che prima
erano centrali.
Vengono istituiti degli specifici organi giudiziari che hanno quale unico scopo
dell’amministrazione della giustizia.

98
Scorpora per esempio la Cancelleria Austriaca e Boema, le abolisce ( le cancellerie erano un po’ i
ministeri della giustizia dei nostri giorni) e istituisce, nel campo del giudiziario, un nuovo organo
centrale il Direttorio per le materie camerali e finanziarie.
Poi crea un Supremo Dicastero di giustizia che ha due funzioni:
 Funge da Supremo Tribunale
 Funge da Ministero della Giustizia.
Sono naturalmente tutti organi che vengono controllati dal sovrano. Quando poi nel 1766
diventa cancelliere il principe Kaunitz viene istituito anche un Consiglio di Stato: era un organo
collegiale formato da persone nominate direttamente dall’Imperatore, a capo del Consiglio di
Stato c’è il Cancelliere.
Questo Consiglio di Stato diventa un organo di supporto al Sovrano in merito alle riforme.
Era formato da sei membri che non potevano ricoprire altre cariche:
 tre membri erano nobili che prendevano il nome di “ MINISTRI DI STATO” (ma non
hanno niente a che fare con i ministri del governo)
 tre membri erano magistrati e prendevano il nome di “ CONSIGLIERI DI STATO”.
Dunque era composto da rappresentanti del ceto nobiliare e della magistratura.
Dopo queste riforme di carattere più istituzionale vediamo che Maria Teresa d’Austria cerca
anche di introdurre delle riforme legislative : nel 1753 nomina una commissione affinché
incominci a formulare delle leggi e riordinare un corpo di leggi di diritto privato, in poche parole
cerca di dar vita a un codice civile.
Questa commissione è presieduta da Von Brunn e prenderà il nome dallo stesso “
commissione Brunn”.
In realtà questa Commissione non riesce a concludere granché, quindi tre anni dopo, nel 1756,
viene creata una nuova Commissione “Commissione di Vienna”, presieduta da Zencker, la
quale ha un’impostazione romanistica cioè in questa opera di codificazione da’ precedenza alla
normativa di diritto comune germanico ( diritto patrio) invece che ai diritti territoriali.
Ed è così che nel1766 esce il c.d. Codex Theresianus ( Codice Teresiano) : si può dire che sia un
codice moderno, anche se poi non sarà mai portato del tutto a termine, questo perché per le
materie che prende in considerazione abroga tutto il diritto previgente. Quindi il Codex
Theresianus diventa per la prima volta una disciplina unica e non suppletiva, ma diventa la
fonte principale e unica.
In questo Codice viene disciplinato esclusivamente il diritto privato civile.
Al codice poi viene preposta una “ patente di promulgazione” che di fatto raduna delle regole che
erano le regole della Commissione Brunn. Quindi vediamo che il lavoro è molto lunga, ma da’ i
suoi frutti.
Quali sono i principi basilari del Codex Theresianus?
1. Innanzitutto viene sancito il principio della sottoposizione del giudice alla legge: il giudice
dunque deve solo riconoscere la legge e applicarla.
2. Le consuetudini non vengono abolite del tutto nel codice, però vengono subordinate alle
norme contenute nel codice e possono venire applicate solo a quelle circostanze in cui nel codice
ci sia un rinvio alla consuetudine . se il codice non rinvia alla consuetudine queste non possono
essere applicate.
3. Se il giudice ha dei dubbi sull’applicazione della norma al caso concreto il codice da’ delle
indicazioni di massima: il giudice deve scegliere la norma più aderente al diritto naturale. Quindi
vediamo che si lascia un certo grado d’interpretazione al giudice, ma lo si indirizza anche.

99
4. Si specifica nel codice che (e queste sono cose molto importanti perché il problema del
legislatore a questo punto è di mettere in rapporto la nuova legge che vuole essere esaustiva con
la miriade di consuetudini che di fatto vengono applicate) il diritto scritto, così come quello
consuetudinario derivano entrambi dalla volontà del sovrano che è il legislatore. Ma il solo diritto
scritto deriva da un atto di volontà specifico ovvero la promulgazione di leggi ed ordinanze.
Quindi diciamo che la legge scritta essendo il prodotto di un atto di volontà specifica ha più
valore rispetto alle consuetudini che invece derivano da un atto di volontà di natura generale.
Quindi le consuetudini non vengono messe da parte, ma vengono subordinate al diritto scritto,
al codice.
5. Ci sono delle norme all’interno del codice che specificano quando le consuetudini possono
rimanere in vigore; possono mantenere la loro cogenza solo se:
 Sono ragionevoli
 Se non sono contrarie al bene comune
 Se non sono state specificatamente abrogate dal diritto nuovo cioè dal codice.
6. C’è nel Codice di Maria Teresa d’Austria una grande ambiguità rispetto all’unificazione del
soggetto giuridico perché
 Da un lato si afferma l’uguaglianza giuridica cioè la legge vale per i cittadini e per gli
stranieri, gli uomini hanno per natura le stesse libertà
 Dall’altro però sono contenute nel codice grandi differenziazioni soggettive, alcune di
diritto feudaleEs. viene mantenuto il potere di coercizione del padrone sui domestici. Se il
padrone può mantenere dei poteri di coercizione sui sudditi al di là della legge dove risiede
l’uguaglianza giuridica?
Es. il vassallo era sottomesso al signore per quanto riguarda il matrimonio: cioè il vassallo non
poteva sposare chi voleva, ma doveva sposare qualcuno che andasse bene al signore.
Quando Kaunitz diventerà cancelliere criticherà profondamente il codice e lo stesso non entrerà
mai in vigore. Quali sono le critiche che Kaunitz muove contro il codice?
Kaunitz critica il codice:
 Non è innovativo era ancora pieno di influenze romanistiche, troppo attaccato al diritto
romano
 Non abroga chiaramente i diritti precedenti abbiamo visto che, sebbene considera le
consuetudini un diritto sussidiario, comunque mantiene il diritto consuetudinario locale
 Subiva troppo la dipendenza dai diritti provinciali, territoriali, locali.
Ed è per questo che nel 1771 si decide di istituire una nuova Commissione a cui vengono dati
nuovi indirizzi per creare una nuova codificazione, il codice civile:
 Doveva sempre contenere norme di diritto privato
 Doveva portare ad un’unificazione effettiva del soggetto giuridico
 Doveva limitarsi a contenere norme relative ai settori che all’ora piacevano di più alla
borghesia famiglia, proprietà e contratto
 Doveva avere una base razionalistica ( principi giusnaturalismo) e non romanistica
 Doveva essere scritto in termini semplici, tecnici e imperativi quindi non in forma
discorsiva.
Questa commissione lavorerà a lungo.
Nel frattempo si cerca di creare anche un codice di diritto penale.

100
Nel 1768 viene emanata la Constitutio Theresiana Criminalis, sarà a metà strada tra un
codice ed una consolidazione: non abroga il diritto previgente, non abroga il sistema del diritto
comune, ma tende ad assorbirlo all’interno del codice.
Tende anche all’unificazione del soggetto giuridico, ma molte pene restano legate ai differenti
status, dunque le pene rimangono diversificate per i diversi ceti.
Di fatto il codice di diritto privato, nonostante i lavori della commissione, non verrà mai
applicato e non uscirà mai. Per quanto riguarda il codice di diritto penale questo verrà applicato,
ma poi Teresa d’Austria muore e continua la sua opera suo figlio Giuseppe II che regnerà dal
1780 al 1790.
Però Giuseppe II era stato associato al trono fin dal 1765.
Giuseppe secondo porterà avanti la politica riformista iniziata dalla madre: è un vero e proprio
sovrano illuminato convinto che il benessere sociale derivi da un dirigismo statale.
Giuseppe II è per eccellenza il sovrano più rappresentativo dell’assolutismo illuminato.
La sua politica di assolutismo, seppur illuminato, inizia ad esprimersi attraverso tutta una serie
di editti che mirano ad un accentramento del potere a spese della Chiesa da un lato, e degli
stand dall’altro.
Quindi cerca di comprimere quelli che sono i poteri degli stand, dei ceti.
Vuole riformare la giurisdizione, il mondo giuridico: abolisce i privilegi, sempre per il solito
motivo, e non per questioni umanitarie, cioè perché tutti gli enti privilegiati toglievano potere al
sovrano quindi è questo l’input che spinge il sovrano illuminato a fare le riforme.
Poi tende ad avocare allo Stato, a sé gran parte delle competenze che fino ad all’ora
appartenevano alla giurisdizione ecclesiastica: quindi vuole controllare bene lo Stato, vuole
controllare bene la Chiesa.
Quali sono i giuristi del ‘700 che lo ispirano?
Puffendorf, che era colui che attribuiva il potere di creare il diritto soltanto al sovrano; wolff che
vede nel sovrano colui che deve preoccuparsi di garantire il bene comune. Su questa scia tra
1781 e il 1789 Giuseppe II emana tutta una serie di editti molto importanti che però vedremo la
prossima volta.

SEDICESIMA LEZIONE (29/04)

Giuseppe II inizia a introdurre delle riforme attraverso una serie di editti: si chiama quindi fase
edittale del suo governo. In questi editti è portata avanti una serie di interventi riguardanti il
diritto sostanziale (non sulla procedura, ma sul diritto sostanziale).
1781 Editto di Tolleranza
1783 Editto Matrimoniale
1786 Editto Successorio e Editto su Libertà Commerciale
1789 Editto sui Riscatti Fondiari
Questi interventi costituiranno la base delle materie contenute nelle future codificazioni.
Editto di Tolleranza (31 ottobre 1781) equipara dal punto di vista giuridico –ovviamente sotto la
prospettiva del diritto privato- tutti i soggetti che professavano delle religioni riconosciute dallo
stato. Riconosciuto però al cattolicesimo il ruolo di religione preponderante. Introduce la
tolleranza nei confronti dei luterani e di alcune religioni orientali.
Perché è importante questa dichiarazione di tolleranza religiosa? Perché a coloro che sono
tollerati (non tutti, ma solo quelle riconosciute) si concede l’eguaglianza dei diritti civili (prima
ovviamente inesistente: il non cattolico in uno stato cattolico non aveva alcun diritto civile, né a

101
maggior ragione poteva ricoprire cariche pubbliche) e nell’ambito dei pubblici uffici. E’ un
notevole passo avanti: la libertà religiosa si affermerà davvero solo nel XIX sec., e per quel che
riguarda il Regno di Sardegna con lo Statuto del 1848 non veniva ancora del tutto riconosciuta
(tolleranza, non libertà). Ma grazie a elasticità dello Statuto, da tolleranza a libertà il passo è
breve. Quindi il passo della tolleranza è essenziale perché con il tempo si possa formare una vera
libertà.
Secondo Editto (16 gennaio 1783) è una legge Matrimoniale. Si cerca di affermare l’indipendenza
della materia matrimoniale dal diritto canonico. Il matrimonio e gran parte della materia fino ad
allora erano regolamentati dalle leggi della chiesa. Si tende sempre più a fare del matrimonio un
contratto civile (il primo a dichiararlo davvero sarà poi Napoleone nel Code Civil). Si iniziano a
considerare validi i matrimoni tra cattolici e non cattolici: la libertà religiosa inizia ad affermarsi
davvero. I rapporti patrimoniali fra coniugi restano sotto la giurisdizione ecclesiastica (per i
cattolici).
Terzo Editto è quello Successorio (1786), a metà strada tra conservazione e innovazione. Si deve
ricordare l’importanza e influenza dei ceti sulla società e sull’organizzazione della stessa. In
questa legge ci sono forti elementi conservatori, restano ancora tracce di quelli che erano i tre
regimi successori precedenti: uno riguardava l’aristocrazia, uno la borghesia cittadina e l’ultimo i
contadini. Queste tracce restano principalmente per le successioni immobiliari, differenziate a
seconda del ceto a cui si appartiene: manca l’unicità del soggetto giuridico, che nei territori
tedeschi arriverà molto tardi.
Ma sempre in questa legge inizia a essere identificato il regime generale/comune, quello della
classe borghese. Gli altri due regimi diventano eccezionali, o di diritto speciale, delle deroghe a
quello comune. Si fa qui quello che farà Napoleone nel Code Civil del 1804 per i rapporti
patrimoniali tra coniugi.
Questa legge successoria in ambito testamentario prevede anche la capacità di testare dai 24
anni in poi. Viene limitata la quota di legittima rispetto al regime precedente: la volontà del
testatore avrà molto più spazio per agire. Si prevede la divisione dell’asse ereditario tra i figli, è
una successione in linea retta. Questa legge rispetta le esigenze della società di allora: limitare i
privilegi, i vincoli. E anche per quello che riguarda la successione vengono limitati quei vincoli
creati nel periodo medievale attraverso istituti speciali (es. primogenitura) e si apre la
successione sui fondi a favore della famiglia allargata (per volontà testamentaria si può dare, ad
esempio, un appezzamento di terra anche a un nipote). Lo spirito di questa limitazione dei
vincoli successori è quelli di favorire una maggior circolazione dei beni immobili, favorire la
libera successione: il testatore può finalmente scegliere a chi lasciarli.
Ci sono però anche delle contraddizioni: se da un lato si tenta a favorire questa circolazione,
dall’altro vengono mantenuti istituti tipicamente medievali come il fedecommesso. La classe
nobiliare era ancora così forte che il sovrano non riusciva a legiferare completamente come
voleva. Per ovviare a questa contraddizione si rende possibile la conversione del fedecommesso
immobiliare in un fedecommesso in denaro vincolato: il testatore stabilisce che determinate
somme restino vincolate. Devono essere trasmesse al discendente di quello che è stato il
fedecommissario “nel tempo e nei secoli”. Purtroppo nel tempo i fedecommessi con il tempo si
disfacevano, il denaro vincolato veniva spesso disperso.
Per quanto riguarda la successione sui fondi agricoli, prevale il principio dell’indivisibilità del
fondo, ma viene dato il permesso di alienarlo, purchè sia alienato tutto insieme e non pro quota.
Nel maggio dell’89 viene fatta la legge sui riscatti fondiari: questa prevedeva che i contadini che
lavoravano sui fondi dei nobili venissero trasformati da soggetti sottoposti al dominio feudale in

102
affittuari ereditari. Era data al contadino la possibilità di tramandare di padre in figlio la
continuità su quel fondo come affittuario. Questa legge permette da un lato di alienare i beni
fondiari e dall’altro di trasformare i contadini in affittuari. Concede loro un certo riscatto: se
hanno una piccola quantità di denaro possono diventare affittuari e trasmetterlo ai propri figli,
se questi continuano a pagare l’affitto.
Anche nell’altro Editto sul Commercio si nota lo spirito che li anima tutti, cioè il proposito di
liberalizzare il commercio, il passaggio dei fondi. Questo editto abolisce tutti i monopoli
commerciali che fino ad allora erano stati in mano alle corporazioni mercantili: in un certo senso
vengono tolti loro i privilegi.
L’operato di Giuseppe II prosegue poi con l’approvazione di un regolamento giudiziario civile
(praticamente un codice di procedura civile), promulgato il 1 maggio 1781 ed entra in vigore
l’anno dopo. Questo codice resterà in vigore per oltre un secolo, introducendo una procedura
unitaria. Il processo civile viene concepito come uno strumento, un mezzo, per tenere a freno,
controllare tutto ciò che turba la tranquillità sociale. Inizia a rispondere a dei principi ancora
attuali: trovano applicazione per esempio il primato della legge, l’accentramento delle funzioni
giurisdizionali (esercitate dallo stato e dai suoi organi a ciò deputati). Questo codice è fatto in
modo da controllare l’operato del giudice: questi diventa sempre più un burocrate, un
funzionario dello stato che deve seguire le leggi (in questo caso il codice di procedura civile).
Viene messo in primo piano lo stato rispetto agli interessi dell’individuo, delle parti., che sono
subordinati a esso. Siamo all’apice della realizzazione dello stato assoluto.
Se giudice diventa un burocrate, con questo codice gli vengono conferiti molti più poteri nella
conduzione del processo. Lo dirige sin dal primo momento e gli viene attribuito il cosiddetto
potere di spontaneità: in alcuni momenti il giudice poteva agire d’ufficio., senza domanda delle
parti. Viene mantenuta la forma scritta per tutti gli atti del processo, riconfermando la tradizione
romano canonica che si era sviluppata nel medioevo.
Nel 1787 viene poi emanato anche un codice penale, il “Codice Generale sopra i Delitti e le
Pene”, anche chiamato “Giuseppina”.
Secondo il Tarello questo è il primo vero codice di diritto penale moderno: rende finalmente il
diritto penale una disciplina autonoma, viene separato dal diritto processuale. Si tratta di un
codice molto complesso, composto da 226 paragrafi. Ha la pretesa di sostituire il diritto penale
preesistente, mette da parte le altre fonti sulla disciplina penale. Pretende di essere
autointegrabile: il giurista, il giudice devono trovare all’interno del codice la norma da applicare
la caso concreto per analogia, analogia legis, analogia iuris, non importa. Non ammette di essere
integrato con altre fonti del diritto.
Il giudice deve applicare la norma, le è legato e ha un minimo di arbitrio giudiziale: nel codice si
prevedono dei limiti minimi e massimi entro cui il giudice deve operare. Introduce l’unicità del
soggetto giuridico e la proporzionalità tra reato e pena, in base agli echi del pensiero illuminista,
ripreso anche da Beccaria, sulla proporzionalità della pena.
Non accoglie fino in fondo le posizioni umanitarie degli illuministi sulla pena di morte. Non viene
abolita, mantenuta per pochissimi generi di reati, soprattutto per quelli di sedizione contro lo
Stato, pericolo alla sicurezza statale.
Introduce molte innovazioni sulla tortura giudiziaria, che è abolita.
Vengono raggruppate le pene secondo uno schema più moderno: classificate come pene
pecuniarie (multe, confisca di beni), pene correttive (più crudeli. Il marchio a fuoco, le bastonate)
e pene detentive, che implicano la prigione. Questa può essere di vari tipi: intesa come
reclusione (mite), oppure quella dura o durissima, così chiamata perché può essere abbinata allo

103
svolgimento di lavori di pubblica utilità. Troviamo poi la prigionia con catene, normalmente
abbinata ai lavori forzati.
Era tipizzata anche la durata della pena: la prigionia (mite, dura, durissima ecc) poteva essere
comunque temporanea, lunga e lunghissima (come il nostro ergastolo).
Il codice penale dell’87 divideva i delitti in due tipologie: i delitti criminali e i delitti politici.
Tra quelli criminali rientrano i delitti di lesa maestà, contro la vita e contro la proprietà. Invece i
delitti politici erano le trasgressioni contro tutte quelle norme di polizia, alle regole di decoro
morale e sociale, di ordine pubblico. Dai delitti criminali vediamo che tendono a essere esclusi
tutti quei reati legati all’ambito etico-religioso-morale (eresia, bestemmia, adulterio). Crimini che
non erano lesivi dello Stato. Qui si risente molto dell’organizzazione dei reati nata con
Tomasius. Ciò che viene escluso dai delitti criminali rientra poi nei delitti politici: questo perché
venivano concepiti come reati contro il decoro, contro le regole di polizia. Così lo stato riesce
comunque a controllarli. I delitti criminali sono visti come crimini contro il diritto naturale, sono
dei reati che il sovrano ha sempre interesse a reprimere. I delitti politici invece sono considerati
trasgressioni del diritto arbitrario: diventa interesse del sovrano punirli o meno a seconda delle
occasioni. Questa bipartizione dei delitti della Giuseppina rispecchia quello che è lo spirito
dell’assolutismo illuminato, che ha due obiettivi principali di politica criminale. Il primo obiettivo
è di stampo liberal-garantistico: separare dai crimini che vanno sempre puniti, un’aria di crimini
che possono essere puniti con una contravvenzione, cioè con un provvedimento amministrativo.
Possono essere crimini come adulterio, bestemmia, eresia ecc. Lo stato tende quindi a
secolarizzare il diritto: reati che fino ad allora erano tipicamente di carattere religioso/morale,
sono resi di carattere civile. Si vuole separare dalla religione determinati reati, ma si vuole
lasciare allo Stato, se vuole, la libertà di punirli.
L’altro obiettivo è di stampo assolutistico: si vuole permettere allo stato di controllare tutto,
decidendo quando certi reati vanno puniti e quando invece si può chiudere un occhio,
nell’interesse dello Stato stesso. Mettendo sotto i delitti politici quei reati di carattere morale-
sociale e inserendoli nella sfera amministrativa, lo stato poteva decidere di punirli con pene
pecuniarie molto forti o meno forti. Il re vuole la libertà in certe circostanze di decidere come
agire anche nel campo del giudizio penale.
Nel 1787 Giuseppe II emana poi ancora un Codice di diritto civile, che aveva già fatto. Tutti i
provvedimenti edittali (di diritto privato), promulgati all’inizio del suo regno, vengono ripresi tra il
1781 e il 1786 e raccolti in un codice di diritto civile, la cui prima parte viene pubblicata
appunto nel 1787. Messi insieme da due commissioni: la prima è la Commissione Horten, la
seconda è la Commissione Kees. Questo codice non entra mai in vigore se non parzialmente in
Galizia. E’ molto lungo (293 paragrafi) ed è diviso in 5 titoli. Il Primo raccoglie i principi generali
(caratteristica della codificazione tedesca, a differenza di quella francese, che non va per
tipologie, ma tende a enunciare i principi generali da cui poi far derivare tutte le norme
specifiche) ; il Secondo raccoglieva le norme sui diritti dei cittadini; il Terzo trattava del diritto
matrimoniale; il Quarto sulla filiazione e sulla patria potestà e il Quinto di tutela, curatela e
capacità di agire. Non fu mai completato: avrebbe dovuto constare di tre libri invece che di uno
solo. Il secondo libro avrebbe dovuto trattare del diritto delle cose, quindi di proprietà, di diritti
reali minori, della disciplina dei fondi feudali e rurali, di eredità, di contratti ecc. (comprendeva
un po’ di tutto). Il Terzo libro avrebbe dovuto raccogliere tutte quelle norme che non si sapeva
dove sistemare , che sarebbero state fuori posto nei primi due.
Nel 1787 in Austria viene preparato un codice di Procedura Penale: il Codice della Procedura
Giudiziaria per le Cause Criminali. Classico modello di processo penale che si confà a un regime

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assoluto: permeato di ideologie statalistiche, per cui era lo stato a condurre il processo, dallo
stato partiva l’azione penale. Contiene anche qualche linea garantistica, soprattutto riguardo alla
legalità delle procedure. Il magistrato è considerato un burocrate, un funzionario che dipende
dallo stato e ne applica rigidamente le leggi.
Il processo è inquisitorio, scritto , fondato su principi di segretezza, in cui il contraddittorio ha
uno spazio minimo. Lo ritroveremo anche nel 1800 in Lombardia, perché è foglio di questo
tempo, delle ideologie dello stato assoluto, dove lo stato deve controllare tutto. Per tutta
l’istruttoria l’imputato non può difendersi perché i suoi avvocati non possono intervenire. Le
misure garantistiche sono limitatissime e basate sul sistema delle prove legali. Lo stesso codice
prescrive rigorosamente quali sono le prove ammissibili, e che valore abbiano. Se esiste una
piena prova legale del delitto, l’imputato viene condannato. Se non esiste una prova legale, allora
il reo presunto viene assolto. Esisteva anche il sistema delle semiprove, che noi oggi più o meno
potremmo considerare come prove indiziarie. Se esistevano delle semiprove veniva prevista
l’assoluzione, e questa era la garanzia nei confronti del presunto reo. E’ un’ innovazione rispetto
al sistema elle prove dell’Ancien regime: nel diritto comune se esisteva una semiprova, il giudice
poteva decidere a proprio arbitrio. E spesso se esisteva un insieme di semiprove, le faceva valere
come una prova e condannava il reo. Esistevano anche delle prove vincolanti per legge: le
cosiddette prove piene. La confessione, prova regina, ottenuta senza minaccia o violenza; la
deposizione di almeno due testimoni idonei e credibili, perché la testimonianza di un solo teste
costituiva una semiprova; la terza era il concorso delle circostanze, cioè un insieme di fatti e
concomitanze che inchiodavano l’imputato.
Giuseppe II non fa più in tempo a compilare un codice civile perché muore nel 1790, senza aver
portato a termine il progetto di codificazione. Viene sostituito da Leopoldo II (regno breve: 1790-
1792), prima di diventare imperatore era Granduca di Toscana (Pietro Leopoldo). Affida a Carlo
Antonio Martini il compito di mettere giù un codice civile.
Martini aveva fatto studi umanistici a Trento e conseguito la aurea in giurisprudenza in Austria,
sotto la guida di Richter. Nel 1754 aveva ottenuto la cattedra di diritto naturale a Vienna, come
precettore di Pietro Leopoldo: per questo motivo l’imperatore si rivolge a lui. E’ anche un esperto
di cose dello stato perché aveva ricoperto diverse cariche nell’amministrazione della giustizia
(anche presidente del tribunale superiore di giustizia).
Chiamato a presiedere la Commissione Aulica per la Legislazione, con il compito di riordinare il
materiale già messo insieme dalle commissioni precedenti, per realizzare finalmente questo
codice civile nel 1794. Presentato il primo progetto: lo stampo del codice ha un’impronta
giusnaturalistica e il principio guida è che le leggi civili dovessero solo trasferire, riprodurre i
diritti naturali, nell’interesse della società e dei singoli individui. Rispecchia quella che sarà già
la suddivisione delle materie della codificazione, contiene e disciplina soltanto il diritto privato.
In secondo luogo abroga le fonti precedenti, ha la pretesa di costituire l’unica fonte. Realizza in
generale l’unicità del soggetto giuridico: ci sono norme ancora rivolte ai singoli ceti, ma sono
considerate come eccezioni. Anche lo stile con cui viene enunciata la norma si avvicina molto al
codice, perche è conciso, chiaro e tecnico. Sono confermate alcune disuguaglianze tra i soggetti,
in relazione allo status che i singoli ricoprivano, per esempio tra nobile e contadino. Nonostante
abroghi le altre fonti del diritto, questo progetto Martini non esclude la possibilità di etero
integrazione, cioè di far ricorso ad altre fonti esterne al codice, né esclude la possibilità di
interpretazione giurisprudenziale.
Per esempio però c’è un paragrafi 19 in cui si dice che in caso di lacuna o di oscurità, si può
ricorrere ai principi generali e naturali,e anche alle consuetudini regionali viste come strumenti

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utili per interpretare il codice.
Questo è il progetto Martini, non ancora il definitivo, che verrà modificato leggermente e dopo
entra in vigore nella Galizia occidentale (e poi anche orientale). Comprenderà una sezione
introduttiva (diritti in generale e legge in generale); la Prima parte riguarda le persone (divisa in
tre capi: soggetti di diritto, famiglia e incapacità); la Seconda parte riguarda i diritti reali, le
successioni e le obbligazioni; la Terza tratta le materie varie tra cui il regime patrimoniale della
famiglia., rapporti patrimoniali tra coniugi ecc.
Questa rielaborazione del progetto Martini differisce dall’originale solo per aspetti formali (es.
diversa numerazione dei paragrafi). Costituisce la base per il vero codice civile austriaco, l’ABGB
(1811). L’ABGB sarà la rielaborazione di questo codice/progetto Martini, e la sua stesura verrà
affidata a una nuova commissione (presieduta da Von Zeller) da Francesco I nel 1801, il cui
risultato sarà appunto nel 1811 il “Codice Civile Generale per i Territori Ereditari Tedeschi”.
Solo con L’ABGB che verranno abolite tutte le altre fonti del diritto relative alla materia
civilistica. Nonostante l’ABGB si consideri un vero e proprio codice in senso moderno, tuttavia
non rispecchia ancora del tutto i parametri dei codici moderni, perché avranno un gran peso i
ceti, non c’è una completa unicità del soggetto giuridico.

DICIASETTESIMA LEZIONE (30/04)

L’Italia costituzionale del ‘48.


Il 18esimo secolo prepara il terreno allo sviluppo legislativo del secolo successivo, oggi vediamo il
1800 e il costituzionalismo di questo secolo. Che cos’è il costituzionalismo? È un movimento che
trova la maggior espansione dal 1800 dopo la restaurazione, ma ha radici molto lontane ed è
legato al pensiero dei due secoli prima. È legato agli avvenimenti del 1700: sullo sviluppo del
costituzionalismo ha influito molto la rivoluzione francese. Con la rivoluzione, infatti, abbiamo
avuto le prime costituzioni del nostro continente, prima c’era solo quella americana. Quando le
grandi potenze europee (Austria, Prussia, Inghilterra, Francia) si riuniscono a Vienna e
ridisegnano la mappa europea per riportarla ad un equilibrio alterato da napoleone, si creò una
restaurazione che ebbe forti opposizioni tra i liberali, il malcontento si sviluppa già poco dopo il
congresso di Vienna con i moti rivoluzionari del ‘20 - ‘21 e ‘30 - ‘31, l’obiettivo era avere una
costituzione per questi moti. Il boom delle costituzioni l’abbiamo nel 1848 e ‘49. In questo
periodo abbiamo moti insurrezionali in tutta Europa; in Italia tra il ‘48 e’ 49 tutti gli stati italiani
più o meno si danno una costituzione, ma l’unica a non essere effimera sarà lo statuto
Albertino, tutte le altre costituzioni hanno un significato ideologico ma non pratico perché o non
entrano in vigore o vengono abolite presto o, come in toscana, non sono mai state applicate.
L’unico è lo statuto Albertino che nasce nel regno di Sardegna, lo stato e la società cambieranno
moltissimo ma la costituzione no. Lo statuto diventa poi la costituzione del regno d’Italia e
persino del regime fascista, passa attraverso tante realtà storiche, ma non muta nel corso del
tempo.
Il costituzionalismo del ‘48 è lo sbocco inevitabile dei cambiamenti legislativi, istituzionali e
ideologici degli anni precedenti. Per quanto riguarda i cambiamenti politici vediamo che, rispetto
al periodo dell’ancien regime, con il congresso di Vienna viene ridisegnata la mappa dell’Europa,
si forma un nuovo stato cioè l’olanda (prima parte dei paesi bassi e questi facevano parte invece
dell’impero). La Prussia ottiene la Renania e si allarga, contemporaneamente si restringe
l’influenza dell’Austria. Genova e Liguria entrano nel regno di Sardegna. Non c’è più il sacro
romano impero germanico sconfitto da Napoleone nel 1806 e sostituito da una confederazione

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germanica di cui facevano parte 39 stati, già dalla pace di Westfalia l’imperatore aveva ristretto i
suoi domini e gli altri stati erano molto indipendenti. I 39 stati sono tenuti insieme dalla dieta
federale di Francoforte. La dieta, l’organo che unificava i vari stati, era presieduta però
dall’imperatore, per assurdo, con la Confederazione germanica l’imperatore è più import come re
d’Austria che come imperatore. Per la perdita dell’Olanda e delle Fianghe l’Austria ottiene però il
lombardo veneto, l’Austria qui governava direttamente; a parma e a Piacenza c’era Maria Luisa
(era moglie di Napoleone e asburgica), qui governava indirettamente l’Austria quindi, compresa
la toscana dove c’erano anche lì gli Asburgo, tranne il regno di Sardegna, l’unico territorio
italiano libero dall’Austria.
Cambiamenti legislativi: erano stati introdotti i codici, fatti da napoleone anche in Italia,
napoleone aveva anche fatto riforme amministrative per controllare meglio il territorio e, seppur
momentaneamente abbandonate, tutti gli stati poi le reintroducono: l’amministrazione unitaria,
efficace e ordinata di napoleone faceva troppo comodo ai vari sovrani.
Ci sono stati dopo la Rivoluzione francese anche dei risvolti ideologici, infatti tutti i meccanismi
istituzionali introdotti dalla Restaurazione non accontentano più i liberali (sempre più influenti),
ormai la costituzione è il simbolo e lo strumento per raggiungere la libertà. Si è affermato il
principio di nazionalità per cui i popoli che hanno stessa cultura, religione, lingua e
consuetudini hanno diritto di vivere insieme, così come si afferma il principio di
autodeterminazione dei popoli, che devono essere artefici del loro destino senza interventi
esterni. La costituzione è lo strumento che permette di creare un nuovo Stato e un nuovo
ordinamento, garantisce le libertà fondamentali, esse e i diritti naturali della persona sono già
dichiarati nella Costituzione americana e in Francia: le costituzioni permettono di proteggere “da
quella botta” (cit) che è la monarchia.
Fin dal sedicesimo secolo erano nate discussioni sul potere, le prime idee contrattuali come
quelle di Rousseau e Montesquie degli altri autori che abbiamo visto. Dalla rivoluzione francese e
l’epoca napoleonica si erano formati nuovi modelli di paradigma statale contro quelli dello stato
assoluto: la monarchia amministrativa, consultiva e costituzionale. I primi due erano ancora
modelli che si collocavano nella monarchia assoluta, una sua evoluzione. La monarchia
amministrativa era quella che aveva creato napoleone nella prima parte del suo governo nel
consolato, era basata sulla efficienza dell’amministrazione (con questa si controlla lo stato), però
le amministrazioni locali dovrebbero essere uniformi. Napoleone aveva fatto infatti quelle riforme
amministrative che abbiamo visto. Anche Luigi de medici cerca di realizzare la monarchia
amministrativa, impone autorità centrali sulle autorità periferiche e impone un maggior
accentramento del potere. Il personale dei funzionar viene scelto per capacità, non più per
amicizie con il sovrano come nell’ancien regime, più accentramento amministrativo. Con la
monarchia amministrativa si era poi rafforzata quella assoluta, non ci sono più privilegi di classe
e privilegi corporativi, poi la monarchia amministrativa aveva protetto e sviluppato l’attività
economica: se c’è benessere nello stato siamo tutti contenti. Uno stato in cui c’è questa
monarchia è il regno di Napoli, quando c’è luigi de medici come primo ministro. Mantiene la
suddivisione territoriale francese e persino il giudice speciale per le controversie amministrative,
accade così anche a parma e in toscana, dove si ritorna alla legislazione amministrativa
precedente, con un forte controllo delle autonomie locali da parte dello stato: nei vari comuni ci
sono dei funzionari che dipendono dal governo centrale e sono nominati dal governo stesso.
Anche nel regno di Sardegna, stato dove si tende di più a restaurare il passato, Vittorio
Emanuele primo ripropone le regie costitutiones e elimina tutta la suddivisione amministrativa
francese, poi però nel ‘37 si recuperano i codici e Vittorio Emanuele nel ‘18 ridivide il territorio

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secondo il modello francese: comuni, mandamenti, provincie e divisioni. Solo il comune aveva
consigli elettivi eletti dal popolo, le altre entità avevano a capo un funzionario scelto dal centro.
Un altro modello che abbiamo è la monarchia consultiva, non prevede organi rappresentativi e
quindi elettivi, è una sistema piramidale di organi consultivi della P.A, formata alla base dai
consigli comunali, provinciali e il consiglio di stato, che dipende direttamente dal potere centrale,
è un organo consultivo che ha la funzione di occuparsi di tutti i settori dello stato, è anche in
parte un organo giudiziario. I consigli comunali sono la suddivisione più piccola. Questa
monarchia consultiva: nel lombardo veneto c’era in cima le due congregazioni generali, una per
Milano e una per Venezia, dalle congregazioni generali dipendevano quelle provinciali dove a
capo c’era un delegato regio e poi i consigli comunali. Lo scopo della monarchia consultiva era di
far arrivare le istanze della base al centro, il compito dei consigli comunali era quello di fare
arrivare le istanze della base, era un modo per dare un’idea di partecipazione alla base. Se questi
modelli alternativi alla monarchia assoluta hanno un certo successo, con l’800 vediamo che non
accontentano più, il modello dei liberali è quello della monarchia costituzionale (dà garantismo e
soddisfa il principio rappresentativo e tutela i diritti del cittadino). Nel ‘ 20 ci sono vari moti in
Spagna e Italia, vari modelli costituzionali ne derivano e poi altri moti nel ‘30 ‘31 (fatti perchè le
costituzione del ‘20 erano troppo effimere). Tra l’altro i moti del ‘20 21 e ‘30 31 hanno già modelli
costituzionali ben precisi a cui fanno riferimento: la costituzione spagnola e siciliana del 1812, la
carta francese del 1814 e del 1830 oltre alla carta belga del ‘31. Questi testi recuperati tutti poi
nel ‘48.

La Costituzione spagnola del 1812: era stata data in spagna in opposizione al regime
napoleonico, votata dalle “cortes”, dove c’erano i rapprese del clero, borghesia e nobiltà
(rappresenta l’assemblea legislativa) il sistema legislativo era allora monocamerale, piaceva molto
perché di fatto difendeva una gerarchia sociale fondata sulla libertà e favoriva nobiltà e
borghesia, che aveva tanti rappresentanti nell’assemblea legislativa e nei consigli locali. Viene
poi introdotta anche a Torino. È la costituzione monocamerale, una sola camera che però
chiedeva un censo molto alto per entrare, è una costituzione democratica perché ha solo una
camera elettiva e manca la camera di nomina regia, è molto democratica per questo motivo. La
costituzione spagnola del ‘12 (applicata anche in Italia nel ‘20 ’21) si ispira a quella francese del
1791, questa è la prima costituzione rivoluzionaria sempre monocamerale. Nella costituzione
spagnola del 12 e quindi quella siciliana del 20 21 manca però la libertà di parola, di stampa,
manca la dichiarazione di inviolabilità del domicilio e la libertà religiosa, ma almeno dice che
siamo tutti uguali di fronte alla legge e al fisco. Altro modello costituzionale è quella siciliana del
12, fatta da Ferdinando di Borbone, la promulga non di sua volontà ma perché spinto da lord
Bertic, ammiraglio inglese che aveva aiutato i Borbone in Sicilia, chiedendo di dare in cambio
una costi, che sarà simile a quella inglese. È votata dai parlamenti medievali, danno questa
costituzione e si trasformano da parlamento medievale a moderno. È bicamerale, una camera dei
pari e una dei comuni, nella camera dei pari vanno i nobili del vecchio parlamento medievale,
nell’altra la borghesia. Prevedeva l’iniziativa legislativa del parlamento, il re invece poteva
approvare o respingere le proposte ma non aveva iniziativa legislativa. Solo il parlamento poteva
poi abolire o approvare nuovi organi autonomi, vengono ridotti i poteri del re. Il re poteva
nominare il presidente della camera dei pari, aveva potere esecutivo, faceva trattati di pace o di
guerra. La carta siciliana soddisfa nobili e borghesia, quest’ultima poi acquista maggior
rappresentanza nella camera dei comuni, mentre nei consigli comunali dominava già. Poi la
borghesia trova l’opportunità di elevarsi socialmente quando vengono aboliti i fedecommessi e le

108
primogeniture: le terre della nobiltà sono messe in vendita perché la nobiltà ormai è senza soldi
e in crisi e la borghesia le compra. Anche i nobili contenti perché hanno molto peso nella camera
dei pari e ottengono ampi risarcimenti per tutti quei privilegi nobiliari di cui erano stati privati.

Altro modello del costituzionalismo del ’48 è la carta francese del 1814, è detta carta, perché
richiama le antiche concessioni fatte dai re nel medioevo (per concedere ad esempio dei privilegi,
come le carte di franchigia per esonerare i comuni dal pagamento di certi contributi). È la carta
concessa dal re, non proviene dal basso. Il re ha la sovranità per volere divino, luigi diciottesimo
è re dei francesi per volontà di dio, è lui che decide di limitare i propri poteri; è ancora un
modello bicamerale, c’è una camera dei pari di nomina regia e ereditaria e c’è una camera bassa
elettiva, votano e sono votati coloro che avevano i maggior censiti e pagavano più tasse, i più
ricchi avevano persino il voto plurimo, cioè il loro voto contava doppio. Il re ha iniziativa
legislativa con le camere, il re aveva molto potere nel campo legislativo. C’era il potere del re di
fare leggi scavalcando il parlamento per rischi di sicurezza dello stato (potere di ordinanza).
Potere esecutivo al re che lo esercita con i suoi ministri. Essi poi sono responsabili solo verso il
re, è una monarchia pura allora, però poco per volta la responsabilità dei ministri verrà volta
verso il parlamento e quindi nascerà la monarchia parlamentare. Il potere giudiziario deriva dal
re che nomina i giudici che lo amministrano, i giudici sono funzionari del re, il re ha potere di
grazia. La carta del 14 non è preceduta da una dichiarazioni dei diritti ma molti sono cmq
riconosciuti dalla stessa costituzione si parla di uguaglianza davanti alla legge, il diritto di libertà
personale, di stampa, di opinione, di religione e garantita l’inviolabilità della proprietà privata.

Resta in vigore fino al 1830, quando Carlo X viene detronizzato e Luigi Filippo ne concederà
un’altra; i meccanismi sono simili anche in questa costituzione bella nuova di luigi Filippo, ma
lui è re per volontà popolare. La costituzione del ‘30 è inoltre deliberata da un’assemblea
costituente e il re la accetta. Si afferma il principio della sovranità nazionale, cioè il potere spetta
alla nazione, non al singolo individuo. Tuttavia c’è il voto censitario ancora. Il censo per essere
elettori e eletti è tuttavia più basso, sicuramente vi è più rappresentanza, è anche abolito il voto
plurimo e il potere di ordinanza, l’iniziativa legislativa è del re e anche parlamentare, il
parlamento allarga cioè le sue funzioni. Abolita rispetto alla carta del 14 la camera dei pari
ereditaria, non è più ereditaria. Nasce una monarchia parlamentare costituzionale e il governo è
responsabile di fronte al parlamento.

Vediamo ora il quadro storico dello statuto. Siamo alla vigila della prima guerra d’indipendenza,
c’era fermento perché erano diffuse le istanze costituzionali e allora vengono fatte varie riforme
per arginare questa voglia di costituzionalismo, nel regno di Sardegna erano molto attive le forze
democratiche come quella dei mazziniani, trovavano terreno favorevole a Genova, qui vi erano i
focolai più pericolosi. Una delegazione genovese nel ‘47 andò da Carlo Alberto per pretendere dei
provvedimenti come l’allontanamento dei gesuiti e l’istituzione di una guardia civica, cioè una
parte di sicurezza del territorio fuori dal controllo dell’esercito statale. Nel ‘48 Carlo Alberto riunì
il consiglio di conferenza e avrebbe dovuto decidere sul come dir di no alla concessione dello
statuto. I suoi ministri vogliono però evitare l’insurrezione, intanto ne scoppia una a Napoli e
viene promessa la costituzione anche in Toscana se ne promette una. Nel febbraio 48 nuovo
consiglio di conferenza e si discute se dare o no la costituzione. Vengono gettate le basi della
costituzione, nel suo famoso proclama: Carlo incomincia a individuare 14 art enunciati nel
proclama, poi copiati nel testo dello statuto. Quindi anche Carlo cede, concede lo statuto, non

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parla di costituzione o di carta ma di statuto. Cost richiamava infatti quelle rivoluzionarie
francesi, il termine statuto richiama di più le tradizionali istituzioni italiane perché usato in
Italia da napoleone, già in Italia si parlava di statuto. Così il 4 marzo del ‘48 viene promulgato lo
Statuto Albertino, si configura una monarchia costituzionale molto accentrata dove sono ampie
le prerogative regie, è un compromesso tra un sovrano che credeva nelle funzioni della
monarchia assoluta e i liberal moderati. L’art. 1 proclama la religione cattolica come quella di
stato, le altre religioni sono tollerate. Le altre religioni tollerate, alla libertà religiosa però si
giungerà rapidamente perché nel febbraio del ‘48 una legge già aveva tollerato i valdesi, poi lo
stesso viene fatto per gli ebrei, quindi varie leggi accompagnano lo statuto. Il nuovo governo
introdotto dalla costituzione è il “governo monarchico rappresentativo”, il primo termine è
governo ed è monarchico, il governo è unito subito all’idea della monarchia e quindi al re. Il
governo non viene formato dal re rispettando le maggioranze della camera,si lascia infatti al re
un ruolo molto ampio nella formazione del governo, quindi non è monarchia rappresentativa
inizialmente. Il partito prevalente in parlamento avrà maggiori ministri solo dopo un po’, lo
spirito iniziale era ancora molto assolutista. Il potere legislativo è esercita collettivamente dal re e
dal parlamento e l’iniziativa legislativa dipende dal re e dal parlamento, il parlamento da solo no.
Art 5: potere esecutivo, il re ha potere esecutivo e lo esercita con i suoi ministri; inoltre ha potere
di dichiarare guerra o pace, fare trattati di commercio, l’unico limite quando i trattati firmati
implicano mutamenti territoriali o maggiori oneri per lo stato, in questi casi è necessario il
consenso del parlamento.
Il re poi nomina le cariche dello stato, emana decreti, ha potere di grazia e di commutare le pene.
Poi ha il potere di convocare e sciogliere le camere. Tutti i poteri controllati dal re, Carlo Alberto
quindi voleva introdurre una monarchia pura costituzionale, con responsabilità del governo nei
confronti del re. Nasce la prassi che il parlamento deve dare la fiducia al governo, ciò accade al
tempo di Cavour. lo statuto Albertino però sopravvive a questi mutamenti, è una costituzione
molto elastica, il testo non è mai cambiato. Proprio per questo ci si è sempre domandati se lo
statuto è una costituzione rigida o flessibile.
Flessibile significa che la costituzione può essere modificata con una legge ordinaria, rigida se
per essere cambiata ha bisogno di un iter particolare. La costituzione elastica significa a metà
strada tra questi due, luigi rossi parla di elasticità dello statuto italiano, la formulazione dello
statuto è molto generica, sintetica e lascia molto spazio all’interpretazione, la sinteticità dipende
dalla genericità del testo costituzionale. Di fatto ha avuto una evoluzione, la sua applicazione è
cambiata ma il testo è rimasto lo stesso.
Vediamo come si è mostrata l’elasticità dello statuto. Carlo Alberto deve concedere la
costituzione per la forza degli eventi, la definizione che il re dà allo statuto è di “perpetuo e
irrevocabile”: per alcuni rigidità del testo allora, non ci sarebbe nessun articolo che riguarda la
revisione costituzionale ma una definizione che sembra qualificare lo statuto come una
costituzione rigida. Lo statuto è stato fatto in due mesi. Molto probabilmente Carlo Alberto
voleva fare una costituzione rigida e pura, poi è diventata flessibile spinta dai metodi di
applicazione. Già nel decennio preunitario le posizioni del re cambiano molto, si passa da una
monarchia pura, poi emerge la figura del presidente del consiglio dei ministri, nella costituzione
non si parla di questa figura ma nasce per prassi, ed è il presidente del consiglio a comandare
nella prassi. Si afferma il ruolo centrale del parlamento e della camera elettiva, quella davvero
rappresentativa, il ruolo del re si attenua sia a riguardo del potere legislativo sia nel campo
dell’esecutivo perché il presidente del consiglio ha persino più poteri del re. Ad esempio il re
poteva sanzionare le leggi, cioè promulgare, in realtà questo potere non è mai usato dai re

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sabaudi, il re non lo applica nella prassi. L’art 67 prevedeva generalmente che i ministri sono
responsabili, ma verso chi? Cavour impone verso il parlamento, il re sapeva che senza Cavour il
regno non andava avanti e accettò queste prassi, è con Cavour che si passa alla monarchia
parlamentare. Cavour voleva la responsabilità dei ministri di fronte all’organo della
rappresentanza, inoltre lo statuto non parla di un governo come organo a se stante ma di
ministri che dipendono dal re, ma la prassi e la dottrina lo trasformano in un organo a parte,
l’organo dell’esecutivo, è il momento in cui emerge la figura del presidente del consiglio. Con il
decreto del 1850 si riconosce finalmente la figura del presidente del consiglio, il bello è che lo
statuto invece non lo contemplava. Intanto il parlamento con Cavour assume sempre più
importanza, circoscrive sempre più il potere del re e la camera dei deputati accentra sempre di
più il suo ruolo rappresentativo. Ecco quella che è stata l’evoluzione dello statuto.

DICIOTTESIMA LEZIONE (06/05)

Stavamo considerando gli aspetti di rigidità, flessibilità ed elasticità dello Statuto Albertino e
abbiamo visto come nel corso della sua evoluzione e attraverso la sua applicazione anche
l’ordinamento generale da esso stabilito venga a mutare poco per volta.
Avevamo esaminato l’evoluzione che subisce attraverso la prassi costituzionale la figura del Re.
I mutamenti dello Statuto Albertino nel corso degli anni della sua vigenza in merito ai
diritti dei cittadini
Adesso invece vedremo cosa cambia nel campo dei diritti dei cittadini.
Fino a qui vediamo che gli articoli statutari proclamavano tante libertà rispetto a quelle
precedenti, ma nell’affermare le libertà statutarie vediamo che, per lo più, si affermava il
principio, ma per la sua applicazione si faceva quasi sempre ricorso e richiamo ad una
legge da farsi.
Gli articoli dello Statuto che riguardano i diritti e i doveri dei cittadini sono abbastanza
numerosi poiché vanno dall’art. 24 all’art. 32, ma sono tutti formulati in questo modo:
veniva enunciato il principio e poi si richiama alle eccezioni determinate dalla legge
oppure a leggi che si devono fare per regolamentare quei diritti. Questo voleva dire che si
trattava di leggi ordinarie esterne al testo statutario che potevano essere fatte attraverso
un normale iter legislativo.
Facciamo un esempio riguardante l’art. 1 dello Statuto Albertino. L’art. 1 dello Statuto Albertino
diceva: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti
ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”.
In poche parole questo articolo escludeva la libertà di culto e poi aggiungeva che gli altri culti
erano tollerati conformemente alle leggi. Quindi non venivano tollerati tutti, ma soltanto quelli
ammessi dalle leggi vigenti.
Da tenere presente è che quando viene promulgato lo Statuto era già stata fatta una legge, pochi
giorni prima, che riguardava l’emancipazione dei Valdesi (febbraio 1948). Pochi giorni dopo la
promulgazione dello Statuto, invece, verrà fatta una legge per la promulgazione degli Ebrei.
Dunque questo testo dello Statuto che non ammette la libertà religiosa, di fatto, poco per volta,
attraverso questa serie di leggi, la introduce, anche se solo per i Valdesi e gli Ebrei, passando
attraverso la tolleranza e l’emancipazione. Tutta questa legislazione riguardante l’emancipazione
dei Valdesi e degli Ebrei, di fatto era ispirato da un principio di libertà religiosa e fu a
legislazione che introdusse e parificò tutti i cittadini senza differenza di culto. Fino ad allora,
infatti, i Valdesi e gli Ebrei non avevano alcun diritto di ricoprire cariche nella pubblica

111
amministrazione, nella politica e così via. Quindi queste norme sulla libertà religiosa venivano ad
avere dei profondissimi risvolti anche di carattere politico.
Allora vediamo che di lì a pochi anni, nel Regno di Sardegna, almeno per quello che riguardava
Ebrei e Valdesi verrà introdotta la libertà religiosa, ma l’art.1 dello Statuto non verrà mai
cambiato, resterà sempre così.
Un analogo discorso potrebbe essere fatto anche per quello che riguarda altre libertà come quella
di stampa, di riunione e quella personale, che sono rispettivamente contemplate negli art. 26-28
e 32 dello Statuto. La maggior parte di questi articoli rimandano sempre a leggi che ne
regolamentino la realizzazione. Tutto questo avviene nei primi dieci anni di applicazione dello
Statuto, cioè tra il ’48 e il ’59.
Quindi vediamo che la prassi, l’interpretazione e le leggi che vengono fatte perché vi
rimanda il testo statutario, portano diversi cambiamenti dell’applicazione del testo
statutario e questo processo di adattamento del testo statutario alle varie realtà politiche
e sociali prosegue anche dopo che avvenne l’unificazione legislativa e politica della
Penisola.
Quand’è che si attua la completa unificazione legislativa del Regno d’Italia? Nel 1865 quando vi
è la legge di unificazione legislativa che praticamente approva l’estensione di tutta la
codificazione, che aveva subito diversi mutamenti e riforme, a tutto il Regno d’Italia.
Vediamo che dopo l’unificazione italiana, da parte di alcuni giuristi e di alcune correnti
politiche, si cominciano ad avanzare richieste di revisione del testo statutario, di
aggiornamenti del regime costituzionale soprattutto per riattribuire al Re quel ruolo che
era stato concepito nel 1848 quando lo Statuto era stato emanato. Ai tempi si concepiva
una monarchia costituzionale con però la figura del Re centrale all’ordinamento, figura
che controllava tutti i poteri sebbene esistesse il principio della suddivisione dei poteri.
Ogni potere, infatti, era affidato ad un organo specifico, peccato che poi in tutti questi organi il
Re avesse un pesante controllo o attraverso il diritto di sanzione, o l’iniziativa legislativa, o la
nomina dei magistrati, o il potere di grazia.
Comunque alcune correnti costituzionali cercano, dopo l’unificazione italiana, di avanzare delle
istanze per riportare di nuovo in primo piano la figura del Re.
Di fatto, i poteri del Re non emergono molto, ma anzi si diluiscono sempre di più perché ,
anche dopo l’unificazione italiana, l’organo che viene messo in primo piano diventa la
Camera dei Deputati insieme con il Governo. Ma perché? Perché vengono, ad esempio,
specificate le competenze del Consiglio dei Ministri e le competenze del Presidente del
Consiglio dei Ministri attraverso il testo legislativo, ossia il decreto Zanardelli del 1901.
Il decreto Zanardelli infatti allarga notevolmente il potere dei ministri, del Presidente del
Consiglio dei Ministri e della Camera dei Deputati.
- Durante la Prima Guerra Mondiale
Cosa succede poi con lo scoppio della prima guerra mondiale? Sappiamo che è bella abitudine,
quando scoppia una guerra, e quindi quando la sicurezza della Nazione viene messa in pericolo,
concedere i pieni poteri al Governo. Questo era successo già durante le Guerre di
Indipendenza e pertanto, anche adesso, vediamo che il Governo riceve dal Parlamento, i pieni
poteri.
Con questa concezione dei pieni poteri, vediamo che molte garanzie costituzionali tendono
ad essere messa da parte, a perdere di importanza.
Anche la riforma elettorale del 1919 che introdusse un sistema plurinominale e
proporzionale in sostituzione del sistema elettorale precedente, uninominale e maggioritario,

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portò moltissimi mutamenti all’interno del Parlamento. La legge elettorale è uno degli
strumenti principali per delineare le maggioranze in Parlamento e per la sua stessa formazione.
Già allora, la situazione parlamentare cambia moltissimo con il cambio della legge elettorale.
La legge elettorale in una Costituzione come quella Toscana del 1848 era parte integrante della
stessa: il testo della legge elettorale era riportato alla fine del testo costituzionale, di conseguenza
esso non poteva essere cambiato tanto facilmente. Al contrario, nello Statuto Albertino del Regno
di Sardegna, si diceva che il Senato e la Camera dei deputati verranno formati secondo quella
che è la legge elettorale da farsi. Quindi la legge elettorale resta una legge esterna
all’ordinamento costituzionale e che può essere cambiata con una legge ordinaria. Ciò farà
si che essa venga più volte cambiata.
La prima legge elettorale che era stata introdotta nel Regno di Sardegna risale al 1848,
appunto emanata dopo la promulgazione dello Statuto. Essa avrebbe dovuto essere una legge
elettorale provvisoria che sarebbe dovuta servire solamente per le prime elezioni. Di fatto,
invece, sarà cambiata solo 11 anni dopo, nel 1859. La successiva modificazione avvenne
appunto nel 1919.
Tuttavia, già la legge elettorale del 1848 che era stata in vigore per molto tempo non aveva mai
portato a cambiamenti del testo statutario, ma l’elettorato era molto cambiato perché si era
allargato sempre di più il suffragio. Il suffragio ristretto, che prima era molto ristretto, poco per
volta, venendo abbassato il censo, si allarga sempre di più. Tutto questo era avvenuto senza mai
cambiare il testo della Costituzione.
Il testo dello Statuto Albertino all’art. 39, era molto generico perché diceva: “La Camera elettiva è
composta di Deputati scelti dai Collegi Elettorali conformemente alla legge”. Quindi in buona
sostanza bastava cambiare la legge per cambiare totalmente la formazione della Camera. Inoltre,
questo articolo era anche integrato da un articolo successivo, l’art. 83: “Per l'esecuzione del
presente Statuto il Re si riserva di fare le leggi sulla Stampa, sulle Elezioni, sulla Milizia comunale,
e sul riordinamento del Consiglio di Stato”.
Dunque la regolamentazione delle elezioni veniva deputata ad una legge ordinaria, e con
questo si poteva cambiare sempre tutto.

- L’avvento del Fascismo


Certamente l’evoluzione più drastica e forse più drammatica lo Statuto Albertino lo ebbe
con l’avvento del regime fascista.
Il regime Fascista si impose a seguito della marcia su Roma del 1922 e con l’avvento di questo,
tutti i tentativi di riforme costituzionali vennero messe a tacere, lo Statuto Albertino restò in
vigore, ma furono progressivamente introdotti dal regime fascista dei mutamenti sostanziali che
senza cambiare mai il testo costituzionale stravolsero totalmente il significato del testo
statutario. Tant’è vero che la nostra Costituzione oggi è rigida proprio per evitare questi
adattamenti eccessivi a quelle che sono le volontà del regime vigente.
Nel periodo precede all’affermazione del Fascismo abbiamo visto che i mutamenti
dell’ordinamento costituzionale furono dovuti soprattutto alla prassi, ossia
all’applicazione pratica dello Statuto e all’interpretazione degli articoli statutari che
tante volte erano così generici che a seconda se si dava loro un’interpretazione estensiva
o restrittiva, l’applicazione cambiava totalmente (es. art.1 che allargava il concetto di
tolleranza in esso previsto fino a portare alla libertà religiosa).

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Quindi fu la prassi e l’interpretazione che mutarono l’applicazione dello Statuto, ma durante il
regime Fascista, l’elemento che mutò totalmente e stravolse completamente il significato
dello Statuto furono le nuove leggi ordinarie a cui peraltro il testo statutario rimandava.
Uno dei primi mutamenti, cambiamenti, introdotto dal regime fascista, fu la riforma del
sistema elettorale. Con la legge Acerbo del 1923 si prevedeva l’introduzione di un sistema
maggioritario con collegio unico nazionale.
Qual era lo scopo di questo collegio unico nazionale? L’obbiettivo era stemperare i voti dei collegi
dell’opposizione e far prevalere nel conteggio globale la lista governativa. Capiamo che se si dice
che un determinato collegio ha votato contro gli indirizzi del regime fascista come anche altri,
anche se nel conteggio globale prevale magari il voto degli aderenti al fascismo, il voto risulta
indebolito dal tutte queste opposizioni che vengono messe in risalto. Se le opposizioni non
vengono messe in risalto, invece si nota che la vittoria è stata del regime fascista e basta.
Fatto sta, che la legge Acerbo prevedeva che il partito maggioritario, anche senza maggioranza
assoluta, veniva ad avere un premio elettorale e proprio attraverso questo premio elettorale, il
partito fascista stravinse e giunse ad avere la maggioranza in Parlamento.
Con l’affermazione del regime fascista vediamo che vengono introdotte tutta una serie di riforme
legislative che stravolgono completamente l’ordinamento dello Stato: sono le c. d leggi
fascistissime.
Le prime che ricordiamo sono quelle della fine del 1925 e gli inizi del 1926 facendo particolare
riferimento alla legge del 24 dicembre 1925 e alla legge del 31 gennaio 1926. Queste due leggi
fecero emergere dei grandi poteri nelle mani del Primo Ministro (che era anche il capo del
principale partito al Governo) a scapito del Re, fino a che, attraverso tutta questa serie di leggi,
vennero esautorati del proprio potere tutti gli altri organi deputati dallo Statuto Albertino ad
esercitarli.
La legge del 24/12/1925 riguarda le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo.
La legge del 31/01/1926, invece, riguardava la facoltà del potere esecutivo (quindi del
Capo del Governo e del Primo Ministro) di emanare norme giuridiche.
Queste due leggi dunque accentuano il ruolo legislativo del Governo a scapito
dell’autonomia parlamentare.
Viene creata per la prima volta la figura del Capo del Governo; fino ad allora c’erano soltanto
la figura del Capo del Consiglio dei Ministri, il Primo Segretario di Stato, ma di Capo del Governo
non si era mai parlato perché fino a quel momento, secondo lo Statuto Albertino a capo del
governo vi era il Re. Quindi viene istituita una nuova figura di Capo del Governo che si
accosta a quella del Re fino a prevalerla in quanto la stessa persona ricopriva anche la
carica di Primo Ministro e Segretario di Stato.
Il Capo del Governo diviene anche l’unico responsabile dell’azione dell’esecutivo dinnanzi
al Re. Prima, i responsabili dell’esecutivo erano i ministri dinnanzi al Parlamento, ora
quest’ultimi è come se venissero cancellati. Non solo, perché il Primo Ministro diventa
responsabile nei confronti del Re e quindi viene del tutto accantonata quella monarchia
costituzionale parlamentare che aveva cominciato a svilupparsi da Cavour in poi.
La legge del 24/12/1925 stravolgeva l’ordinamento istituzionale previsto dallo Statuto,
intaccava l’autonomia del Parlamento e dava la possibilità al Governo, qualora una legge
venisse respinta da una delle due Camere, di riproporla immediatamente. Quindi il
Governo aveva la possibilità di fare delle pressioni molto forti sul Parlamento.
Ancora più grave sarà la legge del gennaio del 1926 che riconosceva all’esecutivo la
possibilità di procedere su qualsiasi materia attraverso decreti legge. Questa legge

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prevedeva che il decreto legge venisse convertito in legge entro 2 anni (periodo entro il
quale può avvenire di tutto), e qualora ci fossero dei ritardi nella procedura di
approvazione da parte del Parlamento, potevano esserci ancora due anni di ulteriore
proroga. Dunque il decreto legge poteva restare in vigore fino a 4 anni prima di essere
approvato dal Parlamento.
È dunque facile intuire che attraverso queste leggi il Governo arrivava ad assumere un
ruolo fondamentale nell’ambito legislativo e nell’attività normativa. Si trattava di un ruolo
che di fatto lo Statuto Albertino non gli aveva mai riconosciuto; non vi era nessuna norma
che prevedesse un’intrusione così grande del Governo nel legislativo.
In conclusione, con queste leggi il poter normativo di fatto passava dal Parlamento al
Governo.
Anche la posizione del Re, durante il periodo fascista, perse ulteriormente rilievo perché
secondo l’art. 5 dello Statuto egli era a capo di tutto, mentre adesso gli viene tolto anche il
comando delle Forze Armate. Perché? Le forze armate, secondo un decreto legge del 26 febbraio
1927 passano al Capo di Stato Maggiore: esse vengono a dipendere non più dal Re, ma
direttamente dal Capo dello Stato Maggiore che veniva posto alle dirette dipendenze di Mussolini.
Quindi Mussolini, indirettamente, diventa anche capo delle forze armate.
Il Re quale potere aveva, secondo lo Statuto Albertino nel campo legislativo, oltre a quello di
sanzionare le leggi? Aveva il potere di iniziativa legislativa che con il Fascismo gli viene tolta.
Per quanto riguarda il potere giudiziario, il Re, sempre secondo lo Statuto, aveva un forte
potere di interferenza attraverso il potere di grazia che con il Fascismo gli viene limitato
enormemente, in quanto questa facoltà del Re veniva sottomessa, secondo una legge del
1926, alla valutazione discrezionale del Governo nei casi di reati contro la sicurezza dello
Stato.
Attraverso tutte queste disposizioni legislative, è chiaro che il Capo del Governo viene ad
assumere un ruolo fondamentale all’interno dell’ordinamento dello Stato, soprattutto per
quel che riguarda il potere esecutivo, a capo del quale non è più il Re, ma appunto il Capo del
Governo.
Nello spirito dello Statuto, invece, il Capo del Governo chi doveva essere? Doveva essere una
persona di fiducia del Re, un esecutore di fiducia del Re. In realtà, dopo queste leggi, il Capo del
Governo diventa il vero capo dell’esecutivo, a spese del potere regio.
Vediamo che tutte queste leggi di fatto snaturano quello che era stato lo spirito reale, originale
dello Statuto che era stato fatto ponendo al centro dell’ordinamento la figura del Re. Ora, al
centro dell’ordinamento, invece, c’è il Capo del Governo che non è più il Re.
Non si può dunque dire, a questo punto, che lo Statuto sia rimasto immutato nell’applicazione
anche se il testo continua però ad essere lo stesso.
Concludendo si può dire che, nei decenni di vita costituzionale in cui è in vigore lo Statuto
Albertino, il rapporto tra i poteri dello Stato muta tantissime volte anche se il testo
statutario resta sempre uguale.
Se noi guardiamo i primi anni di applicazione dello Statuto noteremo che vi è uno stretto legame
tra Re e Governo in quanto quest’ultimo si identifica con la figura del Re. In epoca Cavouriana
invece che cosa succede di questo legame tra Re e Governo? Si attenua perché viene messo in
risalto il rapporto tra Governo e Parlamento in quanto il Governo diventa responsabile nei
confronti del Parlamento e ne deve ricevere la fiducia.

- Dopo il Fascismo

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Poco per volta, dunque il Governo viene ad assumere una figura autonoma, separata da
quella del Re; e aumenta la figura del Primo Ministro che poco per volta accresce il suo
potere nei confronti del Re.
Questo rapporto Governo - Parlamento - Re cambia ancora una volta nel 1943 quando, il
Gran Consiglio del Fascismo sfiducia Mussolini. In questo momento, infatti, il Re si
riappropria delle sue prerogative regie nei confronti del Capo del Governo. Sono le
prerogative di cui il Re era titolare secondo il testo dello Statuto.
In forza di queste, nel 1943, il Re revoca il potere a Mussolini e lo consegna al Maresciallo
Badoglio ignorando la legge del 1928 che sosteneva che il Capo del Governo sarebbe dovuto
essere scelto entro una lista di nomi predisposta dal partito fascista.
Con la caduta del Fascismo, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, anche lo Statuto
Albertino cessa di avere vita: viene creata una Costituente per riscrivere una nuova
Costituzione che entrerà in vigore nel 1948 ponendo fine al secolo di vita dello Statuto.
La nuova Costituzione sarà una costituzione proclamata ufficialmente rigida in quanto per
cambiare anche un solo articolo bisogna far fronte ad una procedura particolare, la procedura di
revisione costituzionale, di cui all’art.138.

Le Costituzioni italiane del 1848-1849


Dopo che ci siamo dilungati un po’ di più sullo Statuto Albertino e sulla sua evoluzione in forza
del fatto che è l’unica costituzione del periodo ad aver trovato applicazione, passiamo invece ad
una dimensione più storica per vedere un po’ quali sono state le Costituzioni vigenti nel 1848-
49, quale è stato il quadro politico ideologico all’interno del quale si sono sviluppate e quali sono
stati i loro aspetti comuni.
Il 1848-’49 sono quegli anni che prendono il nome di “Primavera dei popoli”. Infatti, in quegli
anni vediamo che un po’ in tutta Europa scoppiano delle rivolte contro le dinastie regnanti e
contro gli ordinamenti allora vigenti. A seguito di queste rivolte che colpiscono anche Vienna,
ossia il cuore dell’Impero, i risultati, gli sbocchi, sono poi tutti questi regimi costituzionali che
nascono e durano poco, ma che portano nella penisola la definitiva affermazione del regime
costituzionale. In altre parole, il ’48-’49 sono gli anni che determinano la caduta definitiva degli
Stati assoluti.
Già in precedenza, fin dal 1846, vediamo che in tutti gli Stati Italiani erano state avviate delle
riforme che erano state fatte su istanza delle forze liberali per soddisfare le aspettative
dell’opinione pubblica. Siamo ormai arrivati ad un punto in cui l’opinione pubblica incomincia
ad avere il suo peso.

- Lo Stato Pontificio
Già nel ’46, uno dei primi stati che introduce delle riforme è lo Stato della Chiesa, uno dei
più conservatori.
Quando sale sul soglio pontificio il Pontefice Pio IX, egli incomincia ad introdurre tutta
una serie di riforme riguardanti ad esempio:
 l’amnistia dei condannati politici,
 l’introduzione di una relativa libertà di stampa,
 l’apertura ai laici della consulta (la consulta era uno dei principali organi di Governo
dello Stato Pontificio che era sempre stato formato da ecclesiastici. Con la riforma di Pio
IX, viene ammessa una notevole percentuale di laici):

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 l’introduzione della Guardia Civica (si trattava dell’esercito formato dai cittadini che in
questo periodo era un po’ considerato l’emblema della rivoluzione liberale in quanto era
una delle prime richieste che veniva fatta dalle forze liberali).
Di fronte a queste riforme introdotte da Pio IX, ben visto dalle forze liberali perché considerato il
Pontefice liberale, il Pontefice delle riforme, anche se, di fatto, poi si dimostrerà meno riformista
di quello che aveva voluto far credere, l’Austria si preoccupa molto e occupa Ferrara (città sotto
lo Stato Pontificio).
A questo punto, le forze liberali, a seguito dell’occupazione di Ferrara, atto di forza dell’Impero,
incominciano ad assumere un’impostazione non solo rivolta all’introduzione di riforme liberali,
ma anche apertamente anti-austriaca. L’Austria diventa il nemico da combattere. Di fronte a
queste proteste, a queste rivolte poi l’Austria si ritira, ma aveva dato un segnale comunque molto
forte.

- Il Granducato di Toscana
Le riforme che Pio IX comincia a introdurre nei suoi Stati vengono a loro volta prese a
modello in Toscana dove il Granduca avvia una serie di riforme (Guardia Civica, maggior
libertà di stampa, ecc).

- Il Regno di Sardegna
Lo stesso accade nel Regno di Sardegna dove si introducono delle riforme in campo
giudiziario e nelle amministrazioni locali, cercando di dare agli organi delle
amministrazioni locali un minimo di rappresentatività attraverso i Consigli Comunali.
Anche qui viene dichiarata la libertà di stampa con una censura preventiva, cioè non viene
abolito e censurato ciò che è già stato pubblicato, ma non si lascia stampare ciò che non si
ritiene opportuno. È un po’ una presa in giro se facciamo riferimento a ciò che intendiamo noi
oggi per libertà di stampa, ma allora era già un notevole passo avanti.
Sempre nel Regno di Sardegna vengono poste le basi per una lega doganale. Cosa implicava
una lega doganale? Implicava l’introduzione, entro certe aree, di libertà di commercio; quindi
libera circolazione delle merci (in particolare ciò che interessava era la libera circolazione dei
grani di cui l’Italia era grande produttrice).
- Il Regno delle Due Sicilie
Riforme si fanno dunque in tutta la Penisola, l’unica che resta chiusa a qualsiasi riforma è
il Regno delle Due Sicilie, dove il Re Ferdinando di Borbone respinge qualsiasi richiesta.
Così la situazione precipita e il 12 gennaio 1848 Palermo insorge. Da Palermo l’insurrezione
si allarga nel Cilento, a Napoli, allora, Ferdinando II non sapendo più che cosa fare, nel
febbraio del ’48 promulga la Costituzione. Si tratta di una Costituzione che durerà molto poco
perché il Parlamento che nasce nel febbraio del ’48 verrà sciolto già nel marzo del ’49.
Però, questa Costituzione che Ferdinando II concede al Regno delle Due Sicilie è una
costituzione che salvaguarda moltissimo le prerogative regie, ma la Sicilia non la accetta
per via delle numerosissime tendenze separatiste interne ad essa che chiedono una
Costituzione propria e che il territorio siciliano venga separato da Napoli.
Così, nel luglio del ’48, la Sicilia promulga una costituzione separatista da applicare solo
sul suo territorio che dura poco più di due mesi perché nel settembre del ’48 il Re
Ferdinando II invia le truppe regie capitanate dal comandante Filangeri che reprime
qualsiasi sommossa.

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Ferdinando II, poi, per cercare di sistemare le cose in Sicilia e per placare la rivolta
separatista, nel febbraio del ’49 concederà una Costituzione esclusiva per il territorio
Siciliano, ma dal contenuto molto più restrittivo rispetto a quella concessa in precedenza;
è l’Atto Costituzionale di Gaeta. Naturalmente i Siciliani respingono questa carta
introducente un sistema molto centralizzato e nel maggio del ’49 Ferdinando II rinvia le truppe
del Filangeri in Sicilia e così si chiude definitivamente l’esperimento costituzionale.
La Sicilia di meno di un anno viene ad avere tre costituzioni:
 La Costituzione concessa dal Re legittimo;
 La Costituzione separatista siciliana;
 L’Atto Costituzionale di Gaeta;
ma nessuna delle tre restò in vigore.
In Toscana, intanto, anche il Granduca Leopoldo II aveva, nel febbraio del ’48, pubblicato
una Carta Costituzionale. Poi, però, il Granduca entra in contrasto con il governo
costituzionale. A questo punto vi fu una rivolta e Leopoldo II fuggì a Gaeta nel febbraio del
’49.
Rientrò poi in Toscana nel luglio del ’49 e lo Statuto venne ripristinato, ma di fatto non
venne mai applicato. Esso resterà in vigore fino al maggio del 1850 quando poi verrà
formalmente abrogato.
Tutte queste carte costituzionali in vigore sulla Penisola spaventano parecchio Carlo
Alberto che se ancora nel febbraio 1848 era ben deciso a non concedere alcuna Carta
Costituzionale, il 4 marzo 1848, sotto consiglio dei suoi ministri, promulga lo Statuto
Albertino.
Pochi giorni dopo, anche lo Stato Pontificio promulga uno Statuto di breve durata perché
ben presto vi fu una rivolta a Roma che fece fuggire il Papa e che proclamò la Repubblica.
Nel luglio del ’49 attraverso un’assemblea viene creata e promulgata la nuova Costituzione
Repubblicana che però non entrò mai in vigore perché la Repubblica Romana ebbe vita breve ed
effimera e venne poi abolita grazie anche all’intervento delle armi francesi.
Aspetti comuni e differenze tra le varie Carte Costituzionali del ’48-‘49
Vediamo ora di esaminare un po’ come si presentano queste Carte, quali sono gli aspetti comuni
e quelli che invece le diversificano.
Una prima differenza appare già dai proemi. Alcune di queste carte costituzionali sono
precedute da un preambolo in cui il sovrano spiega i motivi che l’hanno spinto a
concedere la Carta Costituzionale. Essi sono presenti in tutte le costituzioni c. d octroyés
(cioè concesse dal sovrano) e quindi ad eccezione di quella Romana e in quella della Sicilia
separatista.
Ricordiamo che nel febbraio del ’48 era scoppiata la rivoluzione in Francia che aveva introdotto
una nuova Costituzione, ma aveva anche mandato all’aria il regime monarchico e istituito la
Repubblica.
Quindi, la Carta Costituzionale francese del 1848 è una carta repubblicana di un regime
repubblicano, mentre da noi vediamo che si stanno introducendo le prime costituzioni però
legate ancora alla monarchia.
Si ha una specie di effetto domino perché se nel febbraio del ’48 scoppia la rivolta in Francia e
viene proclamata la Repubblica, il mese successivo, nel marzo del ’48, scoppia la rivoluzione
anche nel cuore dell’Impero Asburgico, a Vienna, e nei territori austriaci in Italia (Milano,
Venezia).
Allora, l’Imperatore Ferdinando I prende dei provvedimenti:
118
- licenzia quello che per anni era stato il suo fidato cancelliere (Metternich)
- concede il suffragio universale,
- convoca un’assemblea dell’Impero senza però quella che era la Camera Alta, il Reichstag,
e quindi solo con la Camera più rappresentativa.
In seguito a questi episodi, il Papa, un po’ spaventato, capisce di dover prendere al più presto
dei provvedimenti, così forma un nuovo ministero e introduce anche quattro ministri
laici. I ministri dello Stato Pontificio in genere erano 9 quindi 4 su 9 sono laici.
Dopodiché incarica una commissione per l’elaborazione di una carta costituzionale che
viene promulgata il 14 marzo del ’48.
Naturalmente la Carta Costituzionale che emana il Papa è molto conservatrice:
 l’organo legislativo è composto da due consigli, i c. d consigli legislativi. Le leggi
che propongono i due consigli legislativi possono entrare in vigore solo dopo il
consenso di un collegio cardinalizio, il Concistoro. Si trattava di un concistoro segreto
di cui si parla all’art. 52 dello Statuto della Chiesa.
 Il Pontefice, poi, dopo aver udito il parere del Concistoro, poteva dare o negare la
sua sanzione, ossia la sua approvazione alla legge. Dunque qualsiasi legge era
strettamente legata all’approvazione del Papa.
Naturalmente, la promulgazione di questa carta costituzionale, anziché calmare i bollenti spiriti
dei liberali li acuisce ancora di più perché costoro avrebbero voluto delle reali trasformazioni sul
piano politico istituzionale, trasformazioni che in realtà non arrivarono.
Nel frattempo, mentre l’elaborazione di questa carta costituzionale viene fatta ed entra in
vigore, uno dei rappresentanti delle forze innovative cardinalizie, Pellegrino Rossi, il quale
cercava di conciliare le istanze dei liberali democratici con quelle dei conservatori, nel novembre
del ’48 viene assassinato. Pellegrino Rossi rappresentava l’area dei cardinali riformatori che
c’erano all’interno dello Stato Pontifici e con il suo assassinio naturalmente i problemi si
acuiscono ulteriormente perché i democratici vogliono convocare una costituente italiana
per la redazione di una costituzione e Pio IX che era stato accolto come il pontefice
riformatore, spaventato fugge a Gaeta.
Così termina il primo esperimento costituzionale dello Stato Pontificio.
A questo punto prendono in mano le cose i democratici che nominano una Costituente
Romana, cioè un’assemblea che doveva creare una nuova costituzione, che il 9 febbraio
del ’49 proclama la Repubblica. Così nasce nello Stato Pontificio la Costituzione della
Repubblica Romana.
Si tratta di una Costituzione che attribuisce l’esecutivo ad un triumvirato composto da
nomi molto famosi rappresentati l’area più democratica e repubblicana, ossia Mazzini,
Armellini e Saffi.
A questo punto il Governo francese che fino a quel momento era stato a guardare, visto
che il Papa è fuggito a Gaeta e che le cose a Roma precipitano , essendo la Francia sempre
stato un paese principalmente cattolico che inizia a riscontrare i primi problemi interni in
proposito, si sente in dovere di intervenire a difesa del Pontefice. Fu così che il Governo
francese inviò l’esercito che impedì l’entrata in vigore della Costituzione romana
repubblicana.
Se guardiamo gli esperimenti costituzionali avvenuti in Italia tra il ’48-’49, vediamo che
sono tutti un fallimento tolto lo Statuto Albertino, ma questi moti sono parimenti molto
importanti perché, anche se i tempi non sono ancora maturi e anche se le forze liberali e quelle
democratiche non hanno ancora una coesione tra di loro, denunciano il malcontento della
119
popolazione soprattutto nei confronti dei regimi assoluti. La parabola di sviluppo dei regimi
assoluti sta andando a morire.
Quali sono i caratteri comuni di tutte queste costituzioni del ’48-’49 indipendentemente dal fatto
che entrino in vigore oppure no? Abbiamo visto che alcune non entrano mai in vigore, altre
entrano in vigore ma non vengono mai applicate come ad esempio quella Toscana, altre vengono
proprio abrogate dopo poco.
Per lo più tutte queste costituzioni, lasciando da parte quelle della Repubblica Romana e
quella della Sicilia separatista, si rifanno al modello francese. Si tratta del modello delle carte
costituzionali del 1814 e del 1830 che in Francia è già stato superato dall’avvento della
Repubblica.
Sono tutte costituzioni octroyées, cioè concesse dai sovrani e si ispirano tutte
all’ideologia del liberalismo moderato, subendo moltissimo il peso del pensiero dei
giusnaturalisti e dei pensatori del ‘700, in particolare di Montesquieu poiché in tutte
viene riconosciuta la separazione dei poteri che tuttavia restano ancora sotto lo stretto
controllo del Sovrano.
Il Re controlla il legislativo attraverso i meccanismi dell’iniziativa legislativa e/o il potere
di sanzione, controlla il giudiziario con la nomina dei magistrati e con la possibilità
talvolta di rimuoverli, ma si tratta di carte che vengono emanate e promulgate al fine di
arginare nuovi moti costituzionali.
Nel proemio di tutte queste carte si definisce per lo più il sistema di Governo che viene istaurato
con disposizioni che esamineremo nel dettaglio in seguito.
Nel proemio della Carta del Regno delle Due Sicilie si parla di una costituzione
irrevocabile: questo significa che il Re sottomette anche se stesso all’osservanza della Carta
Costituzionale. È una carta che gli lascia tantissimi poteri, però si impegna a rispettarla.
Nella Carta costituzionale del Granducato di Toscana si parla di Statuto fondamentale.
In quella del Regno di Sardegna si parla di legge fondamentale perpetua ed irrevocabile.
Cosa vuol dire questa legge fondamentale? Ci si richiama a quelle che sono les lois
fondamentales françaises. Ma che cos’erano queste leggi fondamentali francesi? Esse
rappresentavano la consolidazione delle consuetudini; consuetudini che venivano
ufficializzate attraverso decreti regi, ma il Re non è che potesse fare queste leggi secondo
quelli che erano i suoi progetti poiché si trattava di leggi che rispecchiavano le
consuetudini e le tradizioni della popolazione, il che implicava che nel sistema francese la
consuetudine vincolava anche il sovrano.
Allora si parla di legge fondamentale perché si mette in risalto il legame con la tradizione.
Questa è un’interpretazione che gli storici del diritto danno all’espressione “legge
fondamentale” contenuta nello Statuto Albertino.
Un’altra interpretazione, invece, è quella che sostiene che con il termine “legge
fondamentale” si voglia dare preminenza al dettato costituzionale nei confronti di tutte le
altre fonti normative. Quindi si crea una gerarchia di fonti e la Costituzione diventa la legge
principale; tutte le altre leggi sono ad un livello gerarchico inferiore.
Poi, con i termini di “perpetua ed irrevocabile” vediamo che si vuole mettere in evidenza
l’impegno che il Re ha di conservare lo Statuto. La legge è perpetua ed irrevocabile anche per
il Re.
Nello Statuto Albertino, poi, lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo ai
sensi dell’art. 2. Se noi guardiamo i tre termini centrali, quindi, quando si definisce
l’ordinamento istaurato dalla nuova costituzione, vediamo che sono rappresentanza,

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monarchia e governo. Non si tratta, infatti, di una monarchia rappresentativa, ma è il
Governo ad essere rappresentativo e monarchico, cioè fondato sull’ereditarietà della
monarchia.
Viene dunque messo in risalto il Governo del Re, ossia l’accentramento dell’esecutivo
nelle sue mani e si identifica praticamente l’esecutivo con la sua persona. Il Governo è
rappresentativo, mentre non viene considerata rappresentativa la Camera dei Deputati che in
realtà era il vero organo rappresentativo. Inoltre il Governo certamente non rifletteva le
percentuali di rappresentanza presenti in Parlamento perché i ministri venivano scelti dal
Re indipendentemente dalle maggioranze parlamentari.
Il proemio che troviamo nella Costituzione dello Stato Pontificio è il più ampio di tutti. Si
chiama “Statuto fondamentale del Governo temporale degli Stati della Chiesa” e, se
guardiamo, non viene mai utilizzato il termine di Costituzione.
 Nel proemio viene evidenziato il diritto del Papa di sanzionare e promulgare le leggi.
 Poi si evidenzia il fatto che il Papa è il Capo di Stato e Capo dell’intera cristianità ,
quindi la figura del Papa è diversa da quella degli altri capi di stato.
Si specifica che il Papa è anche la maggiore autorità in materia religiosa.
 Poi si collegano le nuove istituzioni alle antiche per far vedere la continuità con ciò che
c’era già. In altre parole viene detto che il Papa concede la Costituzione, ma di fatto era
già tutto in atto prima come consuetudine.
 Gli organi legislativi vengono chiamati sia nel proemio che nel testo statutario
come “consigli deliberanti”. Si tratta di un’espressione studiata con molta attenzione
poiché gli organi legislativi non sono dei corpi legislativi, delle assemblee legislative, ma
sono dei consigli e sappiamo bene che compito dei consigli è per lo più quello di fornire
una consulenza, un parere e non una decisione. In questo caso però si parla di “consigli
deliberanti”. Il termine probabilmente vuole rimandare al precedente ordinamento dello
Stato della Chiesa che pretendeva di avere un ordinamento di monarchia consultiva.
Nello Statuto si aggiunge il termine “deliberanti” per il fatto che le assemblee
legislative solitamente erano deliberanti, quindi si cerca di fare un po’ un connubio
tra quella che era la vecchia dicitura e lo spirito nuovo.
 Il Papa, inoltre, non nasconde che lo Statuto sia stato concesso per necessità perché
il Papa non stima ancora i suoi cittadini maturi per avere uno Statuto, ma dato che tutti
gli altri capi di Stato introno a lui hanno dato ai loro popoli il beneficio di una
rappresentanza non meramente consultiva, ma deliberativa, allora si adegua.
 Qual è l’ordinamento che viene introdotto dallo Statuto Pontificio? Nel proemio non viene
specificato in modo chiaro, anzi è molto ambiguo perché si parla di “uno Stato della
Chiesa in questo nuovo modo costituito”. Si tratta di una definizione molto generica, il
testo è a volte oscuro e tutto ciò dà adito ad un’interpretazione perché più è oscuro e
generico il testo più è oggetto di interpretazione.

Nel Granducato di Toscana, invece, si parla di “un compiuto sistema di Governo


rappresentativo che noi veniamo in questo giorno a fondare”.
A differenza che nel proemio e nella definizione dell’ordinamento del Regno di Sardegna o dello
Stato Pontificio, la definizione dell’ordinamento della Costituzione del Granducato di
Toscana è più specifica perché pone l’accento sull’elemento della rappresentanza. A questo
punto si parla di Governo rappresentativo, anche se vediamo che anche qui la
rappresentanza è fittizia in quanto attribuita al Governo e non alle camere elettive.
121
Tuttavia, ciò implica che il Governo, essendo rappresentativo, deve rappresentare la
maggioranza parlamentare, cosa che invece non avviene nello Statuto Albertino.
Nella Costituzione del Regno delle Due Sicilie concessa da Ferdinando I si parla di
“temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme rappresentative”. Qui
l’accento viene messo sulla monarchia che non è più assoluta, ma è temperata dalla
Costituzione basata sulle forme rappresentative. Quindi l’accento è posto sul regime
monarchico, ma sulle nuove caratteristiche della monarchia.
Anche nella Costituzione del Regno delle Due Sicilie la rappresentanza, di fatto, è relegata
all’ultimo posto ed è definita anche in modo abbastanza vago perché le forme
rappresentative si possono anche realizzare all’interno di un regime assoluto. Pensiamo alla
monarchia consultiva, che era una monarchia con delle forme rappresentative ai livelli più bassi,
ma di fatto era una monarchia sempre assoluta.

Quali sono quelle che potremmo definire le caratteristiche comuni di queste costituzioni
ottriate? Si danno delle definizioni del tipo di regime istaurato, ma molte volte si tratta
solo di definizioni generiche che tendono a salvaguardare le prerogative regie di fronte
all’elemento rappresentativo incarnato in un’assemblea elettiva che però per lo più è
imbrigliata dal potere esecutivo.
Le due costituzioni non ottriate
Diverse, invece, sono le impostazioni previste dalle due costituzioni non ottriate , anche se
non compaiono direttamente nel proemio, perché, come già detto, non ce l’hanno. Stiamo
parlando della Costituzione della Sicilia separatista e della Costituzione della Repubblica
Romana.

La prima, che prende il nome di “Statuto fondamentale del Regno di Sicilia” è creata dai
Siciliani in contrapposizione a quella concessa dal Re borbonico e getta le basi di uno
stato nuovo e indipendente.
 Essa non ha preamboli, non ha proemi.
 I principi base del nuovo ordinamento sono basati sul regime monarchico (la monarchia
non viene messa in discussione), però si tratta di un regime monarchico indipendente
e quindi un Governo indipendente della Sicilia separato da quello di Napoli.
 Il suffragio è universale.
 La sovranità è popolare tant’è vero che nell’art. 2 si dice che “la sovranità risiede
nell’universalità dei cittadini siciliani”.
 Nell’art. 1 poi si ribadisce che “La Sicilia sarà sempre Stato indipendente. Il Re
siciliano non potrà mai regnare o governare su veruno altro Paese. Ciò avvenendo
sarà decaduto ipso facto”. Ciò implica che il Re debba Governare sulla Sicilia come
Stato indipendente.

Lo stesso, all’incirca, viene detto nella Costituzione della Repubblica Romana.


Si tratta dell’unica costituzione repubblicana votata da un’assemblea costituente.
 Vi sono 8 articoli preliminari (principi fondamentali)
 All’art.1 viene proclamata la sovranità popolare e che l’ordinamento dello Stato è
quello di una repubblica democratica.

122
 L’elemento legislativo è rappresentato da un’assemblea costituita da rappresentati
del popolo: chi ha potere legislativo ha il potere di decidere circa la pace, la guerra, ed i
trattati.
 Le leggi adottate dall’assemblea devono venire promulgate, senza ritardo, dal
Consolato che era l’organo esecutivo rappresentato da tre consoli. Tre consoli che
vengono nominati dall’assemblea e che restano in carica 3 anni. Se per caso
l’esecutivo avesse posto qualche resistenza nella promulgazione delle leggi, era
l’assemblea a potere ugualmente promulgarle. Questo è per dire che l’Assemblea,
quindi l’organo rappresentativo, è l’organo al centro di tutto l’ordinamento.

DICIANNOVESIMA LEZIONE (07/05)

Cercherò di portare Avanti il discorso sulle costituzioni del 1848 in Italia.


Mi e’ stato chiesto di condurre un’ analisi comparativa delle caratteristiche comuni e delle
eventuali differenze delle carte costituzionali, la nascita e il contesto in cui si sono affermate e
sono state votate o concesse.
Cercherò di fornire alcune linee guida, propongo 5 chiavi di lettura di questa comparazione su
cui non mi soffermerò nel dettaglio esaminando articolo per articolo, credo sia più interessante e
utile avere delle chiavi di lettura delle norme contenute nei documenti che vengono raggruppati
in questa categoria delle costituzioni del 48, ma che sono profondamente diverse per il contesto
in cui sono nate anche se hanno una radice in comune che e’ quella di essere parte del simbolo
del liberalismo ottocentesco.
La prima premessa fondamentale e’ il fatto di tenere ben presente che tutte queste carte tranne
una sono tentativi di esperienza costituzionale che pero’ non hanno vita applicativa quindi gia’ di
per se’ trarre un bilancio e una comparazione su carte costituzionali che non sono state tradotte
nella vita costituzionale del paese risulta quantomeno bizzarro se non inutile; quindi noi
dobbiamo vedere questo fenomeno e quest’ operazione per quello che e’, e’ e fu l’ esperienza
costituzionale del 48, e il forte valore simbolico e ideale, se non idealistico, che queste carte
riuscirono per la costituzione di un’ identita’ nazionale. Questo e’ lo scopo per cui viene proposta
una lettura in questo momento storico del costituzionalismo italiano in un corso di storia del
diritto moderno, per attuare o rilevare come all’ interno di questi documenti sia stata in qualche
modo catalizzata tutta una aspettativa che possiamo dire si origina dalle premesse filosofiche
giusnaturaliste e illuministe sei e settecentesche che dovreste conoscere.
Allora premesso questo, che queste costituzioni hanno tutte una vita brevissima, eccetto lo
statuto albertino, la costituzione del regno di sardegna, vediamo quali sono queste 5 icone che vi
propongo come anticipazione di questi 5 discorsi, tracce di lettura delle carte stesse.
1) La prima e piu importante e’ il discorso legato all’ idea di rappresentanza che
queste carte sottendono e che risulta abbastanza problematico nella sua lettura perchè anzitutto
e’ ovvio bisogna fare una differenza e operare una distinzione anche concettuale tra quella che e’
la rappresentanza che viene configurate nelle carte concesse cioe’ nella costituzione del regno
delle 2 sicilie e del gran ducato di toscana, lo statuto albertino, lo statuto di pio nono dello stato
pontificio e l idea di rappresentanza che invece emerge nelle due costituzioni votate cioe’ quelle
della repubblica romana e la costituzione siciliana.
Innanzitutto cos’ e’ la rappresentanza ? presuppongo lo conosciate come concetto e termine
giuridico anche dagli altri corsi, lo richiamo, l idea di rappresentanza che noi prendiamo in
considerazione e’ quella di rappresentanza politica, figura tipica del pensiero pubblicistico, figura
123
bilaterare che riguarda il rapporto tra elettori e eletti cioe’ tra rappresentanti del corpo elettorale.
Questo concetto di rappresentanza politica differisce da quello di rappresentanza giuridica che e’
un rapporto privatistico che possiamo rappresentare con una sorta di delega di un delegante nei
confronti di un delegato a cui vengono conferiti poteri di rappresentanza dell’ interesse privato.
Questo e’ un tipo di suddivisione scontata che però va tenuta ben presente quando parliamo di
rappresentanza a livello costituzionale anzi e’ proprio il discorso storico che ci permette di
evidenziare come la rappresentanza che troviamo all’ interno di queste costituzioni e di altre
costituzioni del fenomeno costituzionalista d’ europa a partire dalla fine del 700 sia frutto di un’
evoluzione dal passaggio dell’ idea privatistica di rappresentanza a quella politico pubblicistica .
La rappresentanza e l’idea di rappresentanza di per se non esiste nel diritto romano, e’ un idea
che si afferma nel medioevo, nel diritto romano classico c’ era una sorta di sospetto nell’ idea che
qualcuno potesse essere delegato a rappresentare un altro nei suoi diritti .
L’ idea di rappresentanza si afferma appunto in epoca medievale soprattutto a seguito dell’
influenza che il cristianesimo portò ed e’ un idea che per prima all’ interno della liturgia si
afferma e poi l idea di tutto il mondo medievale sia a livello dei rapporti pubblici del diritto
pubblico sia nel diritto canonico sia dei rapporti interni corporativi.
Perche? Perche’ il medioevo si fa portatore di un’ idea che e’ profondamente connessa e lega le
due anime del medioevo, quella laica e quella cristiana per cui vi e’ una impersonificazione della
autorita’ divina all’ interno di un’ istituzione oppure vi e’,questo a livello di poteri pubblici, l’ idea
della persona dello stato identificato nella figura del re o dell’ imperatore sacro e romano o
addirittura del papa, vicario di cristo,. Sono forme di delega di una funzione piu’ alta e quindi
rappresentativa del potere o comunque dell’ autorita’. una delle grandi intuizioni di Ernest
Kantorowicz fu quella di parlare ad esempio di duplici corpi del re, di due corpi del re nel
medioevo. Il re ha 2 corpi uno e’ il corpo mistico e gli deriva dalla sua sacralita’,l’altro e’ il corpo
politico che deriva dal sue essere umano,investito di autorita’ .
Per quanto riguarda la rappresentanza a livello di corpi soggetti noi conosciamo l’ esperienza
della nascita dei primi parlamenti, i parlamenti medievali all’ interno dei quali veniva ad essere
rappresentata la societa’ nella forma dei tre stati: clero, ceto nobiliare e il terzo stato,i
rappresentanti delle citta’.
Nei parlamenti medievali tutta la societa’ viene rispecchiata in ordini e viene ad assumere la
propria rappresentanza attraverso questi delegati che parlavano e agivano nel parlamento
medievale e che era
no portatori dei singoli interessi corporativi. L’ idea della rappresentanza nasce appunto nel
medioevo e si avvicina all’ idea moderna, e’ una rappresentanza giuridica in cui il delegante in
corte sociale delega un rappresentante in quelle che sono appunto le assemblee di stati per far si
che i loro interessi vengano portati all’ attenzione del sovrano.
Rappresentanza quindi di natura giuridica, le categorie e le corporazioni davano una sorta di
mandato imperativo ai delegati . questo doppio binario del medioevo, la prospettiva sul piano
pubblico dell’ imperatore e del papa come rappresentanza di dio e quindi delegati da dio della
rappresentanza nei parlamenti medievali, viene a subire una prima battuta d’ arresto nell’
esperienza premoderna e in quella degli stati assoluti . nel periodo dell’ assolutismo cambia l’
idea di delega e rappresentanza perche’ con l affermarsi degli stati assoluti cambia l idea stessa
di sovranita’, il principe fa piazza pulita dei corpi intermedi, quindi cerca di eliminare la voce di
queste rappresentanza costituite dai parlamenti medievali *es emanuele filiberto nello stato
sabaudo come primo gesto abolisce i parlamenti medievali perche erano un elemento che
bloccava l’ evoluzione del potere assoluto. Nel periodo dello stato moderno e come fattore della

124
nascita dello stesso troviamo proprio un nuovo concetto di rappresentanza che sostanzialmente
e’ l’ identita’ dei diritti che pure il giusnaturalismo ormai stava facendo circolare nella teoria ma
sono diritti delegati da una figura monocratica e qui abbiamo la transizione allo stato assoluto.
Lo stato assoluto per eccellenza e’ quello stato in cui è il principe ad avere la delega tacita o
esplicita dei consociati e quindi a impersonificare lo stato stesso.
Contro questa rivoluzione, stiamo infatti passando all’ idea di mandato giuridico in cui i
deleganti dei corpi sociali ai delegati dei parlamenti medievali ad un idea mista che è quella dell’
età moderna in cui la delega dei consociati ad un autorità che e il principe coincide pero con lo
stato stesso quindi il principe è lo stato, in contrapposizione a questa idea troviamo le idee dell’
illuminismo giuridico e la traduzione pratica nelle 2 rivoluzioni, in particolare nel discorso
europeo quella Francese che utilizzera’ l’idea di rappresentanza come grimaldello per scardinare
l ‘ assolutismo e riproporre una nuova dimensione che e’ quello della rappresentanza politica all’
interno delle monarchie costituzionali .
Noi qui troviamo le radici di queste problematiche, non a casa nel 1789 la rivoluzione francese,
quando Luigi 16 e costretto a convocare gli stati generali, il problema sarà un problema di
rappresentanza, la rivoluzione francese nasce da un problema di rappresentanza, il problema
della votazione, come si vota? Dovevano prevalere i chaiers des doleances delle lamentele sulla
pressione fiscale elevatissima che in quel periodo la Francia stava subendo, e votata dai ceti ,
quindi clero, nobiltà e terzo stato, in quanto in funzione del proprio vantaggio giuridico che
avevano ricevuto dai propri rappresentanti, o votare per maggioranza, molto più ampia, dei
componenti, che era per lo più maggioranza borghese. Allora proprio sulla base del concetto di
rappresentanza nasce la rivoluzione, e nascono le costituzioni in Francia 1791 e l’idea sarà
quella di una sovranità nazionale, una sovranità che si basava proprio su questa idea nuova del
mandato politico e non più giuridico dato a coloro che erano rappresentati dell’assemblea
nazionale dei francesi, allora ovviamente si svuota dall’ interno l’idea di sovranità assoluta del re,
e si ripropone si ricostruisce una nuova idea di sovranità che è quella della sovranità nazionale
basata sulla rappresentanza del corpo elettorale. Allora questa premessa storica ci aiuta a capire
il discorso che viene fatto in relazione di queste costituzioni del ’48 perché? Perché nelle
costituzioni del ’48 che per la maggior parte sono ottriate quindi concesse dal sovrano, noi
troviamo un potere quello esecutivo quello del sovrano che in realtà controlla ancora il potere
legislativo e l’idea di rappresentanza che tutte queste 4 costituzioni emerge quindi costituzione
del regno delle due Sicilie, Gran Ducato di Toscana, Statuto Albertino e Stato Pontificio è una
tipo di rappresentanza limitata e soprattutto censitaria. Se noi pensiamo in queste costituzioni il
corpo elettorale è costituito ancora da persone che godono di una certa posizione sociale o di un
certo censo quindi di una ricchezza molto elevata ad es nel Gran Ducato di Toscana era richiesto
un censo di 300 lire per poter eleggere quindi per poter essere elettori o di 15 lire di tassa
famigliare quindi erano imposte piuttosto alte mentre non vi è specificato il censo per essere
eletti quindi x l’elettorato passivo. Nello Stato Pontificio addirittura 300 scudi per poter essere
elettori erano richiesti e di 3000 per essere eletti, sono altissime, significava rivolgersi a classi
sociali estremamente elevate. Quindi primo punto che differenzia le costituzioni concesse da
quelle votate, di cui ovviamente invece, non è previsto un censo ma anzi si afferma un’ idea di
sovranità popolare perché sia nella costituzione della Repubblica Romana sia nella costituzione
Siciliana la sovranità è popolare ad esempio nella costituzione della Repubblica Romana nei
principi fondamentali primo la sovranità è di diritto eterna del popolo dello stato romano e
costituito in repubblica democratica qui siamo addirittura in un esperienza repubblicana e la
sovranità non è censitaria ma popolare e cosi anche lo statuto del regno di Sicilia del 10 luglio

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del ’48 la sovranità risiede nella universalità dei cittadini siciliani nessuna classe nessun
individuo può attribuirsene l’esercizio quindi è l’opposto di quello che è il criterio censitario di
elezione dei rappresentanti delle assemblee delle costituzioni concesse. Connesso a questo primo
medaglione ce ne sono altri 2 che sono quello delle rigidità delle costituzioni e della sovranità di
cui ho già accennato qualcosa ( 2 ore).
2) RIGIDITA’. Le costituzioni del ’48 sono costituzioni flessibili, sono costituzioni che
nella loro vita, se pur breve anche se spesso non ci fu nemmeno mai il tempo di applicare questi
principi, non erano previsti per esse dei procedimenti di modifica del testo costituzionale, ma la
semplice volontà del legislatore era sufficiente a modificare tutto il testo costituzionale principi
fondamentali compresi , normalmente anche qua possiamo far valere la distinzione fra le 2
grandi categorie di cost.ni concesse e cost.ni votate, per quelle concesse troviamo l’affermarsi di
un principio di flessibilità mentre in quelle votate ( statuto romano e statuto delle due Sicilie ) di
rigidità. Attenzione anche qui a una particolarità lo Statuto Albertino tra le cost.ni concesse
proprio in merito all’idea di flessibilità ebbe un ampio dibattito sia in sede costituzionale che
ancora oggi in dottrina perché lo Statuto Albertino si presenta a noi oggi, con l’occhio del giurista
attuale e con le categorie giuridiche che noi possediamo, come una carta assolutamente
flessibile ma nell’intenzione di Caro Alberto assolutamente questo non era, perché lo Statuto
Albertino era stato concepito come una soluzione, ovviamente come sapete una soluzione non
gradita come a tutti gli altri sovrani del periodo, al re ma una soluzione che doveva avere il
carattere di imperpetuità e di revocabilità quindi come nel proemio Carlo Alberto definisce la
carta perpetua e irrevocabile utilizzando degli stilemi utilizzando dei criteri anche lessicali che si
rifacevano alla concezione medioevale dell’emanazione di un documento da parte regia che era
irrevocabile per definizione era irrevocabile in se stesso, non era concepibile una legge del
sovrano che potesse non essere perpetua, ma questo carattere di perpetuità dello statuto
Albertino non viene però a corrispondere e non viene tradotto in una previsione di meccanismi
cost.nali di modifica del testo, quindi non essendo previsto un procedimento specifico di
revisione costituzionale, la semplice legge ordinaria poteva far si che lo Statuto venisse
modificato, e così fu, perché noi lo sappiamo nel famoso art. 77 che sempre si cita nelle
disposizioni generali lo Statuto Albertino prevede che lo Stato conserva la sua bandiera, la
coccarda azzurra è la sola nazionale. Questo fa parte del testo cost.nale, ma noi sappiamo che
con un Proclama durante la terza guerra d’Indipendenza Carlo Alberto cambiò la bandiera da
azzurracon lo stemma sabaudo utilizzando il tricolore che era già in voga presso i combattenti
perché in qualche ricordava anche il tricolore francese, il semplice decreto del re fa si k la
bandiera che viene utilizzata per il regno di Sardegna non sia più la coccarda azzurra con lo
stemma sabaudo ma sia il tricolore. Allora si dice segno di flessibilità dello Statuto. In realtà noi
sappiamo che non è limitato soltanto a questo tipo di modifica, ma tutta l’evoluzione cost.nale,
l’unica che noi possiamo verificare, nel corso dei 600 anni di vita dello statuto albertino
dimostrarono che moltissime previsioni e istituti non contenuti nel testo cost.nale furono
adottati ed entrarono in vigore per atto legislativo da parte del governo o del re o per via
cost.nale; ad es pensiamo all’utilizzo della figura del primo ministro del consiglio dei ministri che
non è previsto in sostituzione ma ad un certo punto soprattutto con il governo di cavour si viene
ad affermare; o per esempio pesiamo al voto di fiducia quindi la fiducia che il governo doveva
ricevere dal parlamento per entrare in vigore non prevista dallo Statuto ma che in via di prassi
costituzionale si viene ad affermare; oppure pensiamo a tutte le norme emanate durante il
ventennio della dittatura fascista dal governo che stravolgono l’ordinamento cost.nale pur
mantenendolo formalmente in piedi. Allora flessibilità e rigidità delle cost.ni che noi troviamo

126
appunto anche in questa suddivisione tra cost.ni concesse dove il sovrano in qualche modo si
riserva la possibilità di intervenire sul testo cost.nale, e quelle votate dove invece la base
popolare è tale da garantire all’interno del testo cost.nale un procedimento aggravato quindi più
democratico di modifica della cost.ne stessa.
3) Terza linea interpretativa che vi proponevo è quella della SOVRANITA’. Sovranità di cui
abbiamo già detto parlando dei due aspetti precedenti, sovranità popolare per la cost.ne
della Repubblica Romana e per la cost.ne Siciliana ( nessuna sovranità era prevista per lo
Satuto dello Stato Pontificio perché è un compromesso che Pio IX utilizzò ma che fu
smaccatamente forzato, c’era ancora un’ ordinamento monarchico assolutista e quindi non
si può prevedere nessuna forma di sovranità rappresentativa perché ovviamente c’è ancora il
Papa con funzione religiosa quindi un residuo completo dell’Ancien Regime che è previsto
sul territorio) e sovranità nazionale invece nel Gran Ducato di Toscana, dello Statuto
Albertino e della costituzione delle due Sicilie. Qua il discorso diventa appunto più sfumato
e interessante perché? Perché voi troverete la tesi della collega (Casana) per cui la sovranità
passa dalla persona del Re allo Stato persona, dice Paola Casana, nelle costituzioni
concesse, dove quindi la sovranità è propria dello Sato assoluto quindi è il Re il sovrano, con
la sovranità popolare il sovrano non è più il Re come persona ma lo Stato come persona.
Quindi il discorso prosegue la sovranità non è più del Re ma non è nemmeno degli individui
si dice la nazione prevale sul soggetto, soggetto che non è un soggetto rappresentato se non
abbiamo detto da un gruppo ristretto di rappresentanti ci ricolleghiamo al primo medaglione
che vi ho proposto quindi una stretta connessione tra l’idea di sovranità e l’idea di
rappresentanza; allora si dice, anzi Paola Casana dice, visto che i sovrani nelle costituzioni
concesse in qualche modo prevedono la presenza di un organo rappresentativo quindi di un
Parlamento, la rappresentanza all’interno di questo parlamento non sarà però di ogni
singolo individuo ma sarà una rappresentanza molto censitaria perché l’abbiamo visto
tantissimi censi richiesti nelle varie costituzioni sia per essere elettori che per essere eletti. E
quindi conclude la collega dicendo era più rappresentativo un regime come quello della
monarchia rappresentativa o consultiva rispetto a quello delle costituzioni.

Da un punto di vista teorico la rappresentanza dei corpi sociali, che avevano un mandato
giuridico dei singoli, è più aderente agli interessi degli elettori rappresentati, come lo era nel
medioevo per i parlamenti medioevali. La perdita della aderenza al patto sociale, che il diritto
medievale e ancora quello di parte dell’età moderna aveva, dopo la ventata dell’illuminismo è una
dato acquisito. Il medioevo e l’età moderna hanno una vita della voce che il singolo può portare
all’interno di un organismo molto più aderente alle esigenze dell’organismo stesso che ha
prodotto quel diritto, il diritto medievale è un diritto fattuale, il diritto dell’età moderna e di
quella contemporanea è un diritto astratto, che in qualche modo tramite l’idea della legge come
volontà generale (Rousseau) comprime l’idea di uguaglianza e di diritti su un standard che è
quello voluto dal legislatore.
Dire che la rappresentanza della monarchia consultive è maggiore rispetto a quella delle
monarchie costituzionali però, sposta e non tiene conto di quella distinzione tra la
rappresentanza politica e giuridica illustrata, perché la rappresentanza delle costituzioni è una
rappresentanza politica; l’articolo 41 dello Statuto Albertino specifica che i deputati
rappresentano la nazione in generale e non le singole province in cui sono eletti, nessun
mandato imperativo può loro darsi dagli elettori, ogni singolo deputato nelle costituzioni del’48
rappresenta l’intera nazione non il singolo collegio elettorale in cui viene eletto. E’ stata la lotta

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del ’48 ad avere una rappresentanza di tipo politico, è stato quello che ha portato il discorso dal
medioevo e dall’assolutismo di età moderna al costituzionalismo. Se non riconosciamo la
differenza tra i due mandati viene meno il discorso, è come dire che oggi il nostro parlamento, in
cui i deputati hanno un mandato politico, è meno aderente, è meno rappresentativo degli
interessi di categoria, rispetto ai fasci e alle corporazioni, in cui effettivamente i deputati erano
rappresentanti di una determinata categoria, ma sono due concezioni completamente diverse.
(Assistente)
La conquista dei diritti e delle libertà personali, favorì l’unità nazionale, il regno di Sardegna era
infatti “ il regno costituzionale”, il re di Sardegna “ il re costituzionale”. Quando vengono richiesti
i plebisciti di adesione al regno di Italia, la popolazione aderisce in larga misura perché si dice è
meglio aderire ad un regno che ha una vita costituzionale in cui i diritti dei cittadini vengono
garantiti, piuttosto che ad un regno che li limiti o rimanga ancorato a principi ancora
assolutistici o a carte costituzionali meno garantiste.
La suddivisione dei poteri è ciò che caratterizza il costituzionalismo, è prevista in tutte le carte
costituzionali, è la traduzione di quelli che erano i principi illuministici. Una particolarità delle
carte del ’48 è quella che le carte ottriate, formalmente presentano una ripartizione di quelli che
erano i tre poteri lockiani e poi di Montesquieu, ma di fatto no fu così, perché fu sempre molto
forte la preminenza del potere esecutivo, il re occupa all’interno di queste costituzioni, anche a
livello di articoli, un grande spazio, ancora al re fanno riferimento e sul re convergono gli altri
poteri. La problematica maggiore non è tanto quella che si instaura tra potere esecutivo e potere
legislativo quindi tra re e parlamento, tra re e assemblee legislative, ma tra re e potere
giudiziario. Da sempre la tensione viene registrata tra questi due poteri, da una parte l’esecutivo
che cerca sempre più di controllare e in qualche modo ”irregimentare” il potere giudiziario e i
giudici che a loro volta tendono a ricercare una sempre maggiore autonomia anche a garanzia di
imparzialità. Nelle costituzioni concesse, spesso viene anticipata, anche etimologicamente,
questa riluttanza del potere esecutivo a riconoscere l’autonomia del giudiziario, che non viene
chiamato potere ma ordine, perché ordine era una terminologia derivante dal medioevo e dall’età
moderna, con la quale non si sottolineava una posizione paritaria tra esecutivo e giudiziario.
“Ordine giudiziario” o “della giustizia” sono i titoli utilizzati nelle costituzioni concesse. In queste
costituzioni si dice che la giustizia emana dal re, la fonte prima della giustizia è il sovrano,
residuo di un’idea, di un principio antico, per cui la fonte unica della giustizia era il re che la
derivava da Dio. Nella costituzioni non può più emergere in maniera lampante questo principio,
ma quell’impianto, nei limiti che il sistema costituzionale poteva prevedere, è ancora presente.
Il secondo problema connesso con il rapporto tra potere esecutivo e potere giudiziario, è quello
dell’inamovibilità dei magistrati, il singolo giudice può o meno essere spostato dalla sua sede per
ordine dell’esecutivo? Può essere retrocesso a livello di grado di carriera o di punizione dal potere
esecutivo? Può il magistrato avere o meno una diminuzione stipendiale a seguito di un decreto
del potere esecutivo? Questi sono problemi che emergono nelle costituzioni. Ad eccezione della
costituzione del Regno delle due Sicilie e dello Statuto di Pio IX, che prevedono l’inamovibilità
dopo tre anni di esercizio dall’entrata in vigore della carta costituzionale, perché considerate
garanzie costituzionali, le altre, in particolare la carta del Granducato di Toscana e lo Statuto
Albertino, tendenzialmente prevedevano una formulazione molto più vaga e meno definita a
livello di testo. L’inamovibilità nelle prime due costituzioni ( Regno delle due Sicilie e Stato
Pontificio), visto che veniva computata dall’entrata in vigore della carta costituzionale,
teoricamente avrebbe permesso l’epurazione, perché se i magistrati divengono inamovibili solo
dopo che siano trascorsi tre anni dall’entrata in vigore della carta costituzionale , in questi tre

128
anni il potere esecutivo aveva tutto il tempo di far fuori i magistrati scomodi. Le carte del
Granducato di Toscana e dello Stato Sabaudo avevano invece un formulazione più ambigua che
si prestò ad un dibattito interpretativo. Lo Statuto Albertino all’articolo 69 prevede l’inamovibilità
dopo 3 anni di esercizio, ma non precisa da quando debbano decorrere questi tre anni. Si fanno
decorrere dalla nomina del magistrato? Ma allora non ci sarebbe la possibilità di “spostare”
coloro che erano già magistrati prima dello Statuto,non ci sarebbe stata possibilità di intervento
da parte del governo. Si deve far decorrere dall’entrata in vigore di quest’ultimo? Il problema non
era solo di natura giuridico - istituzionale ma anche elettorale, perché la legge elettorale emanata
nel ‘48 in concomitanza con la promulgazione Statuto Albertino prevedeva che potessero essere
membri della camera dei deputati magistrati inamovibili, quindi se si fosse calcolata
l’inamovibilità dall’entrata in vigore dello statuto, i magistrati non sarebbero potuti divenire
membri del parlamento fino al 1851.
Per quanto riguarda lo Statuto, all’inizio questo computa i tre anni per l’inamovibilità dalla
nomina del magistrato stesso (Pintore), successivamente sotto spinta della sinistra
parlamentare, si decise di computare i tre anni a partire dall’entrata in vigore dello statuto. Nel
Nel 1851 il ministro Siccardi, che peraltro operò una forte politica antiecclesiastica, si fa
promotore di una legge che riconoscerà la tutela dell’inamovibilità ai magistrati per quanto
riguarda il grado, la sede e lo stipendio. Passano tre anni e nel 1854 la legge Rattazzi limiterà
l’inamovibilità soltanto al grado, quindi la carriera e lo stipendio, NON la sede, i magistrati
potevano quindi essere trasferiti per ordine del governo.
La tensione tra i due poteri perdurerà fino al novecento, fin quando non viene creato il CSM.
Nella costituzione romana e nello statuto del regno delle due Sicilie, si parla di potere giudiziario.
Sono due costituzioni votate. Nella costituzione delle due Sicilie non si parla nemmeno di
inamovibilità, perché è superfluo, i due poteri sono infatti indipendenti. All’articolo 71 si dice
che il potere giudiziario è esercitato dai magistrati istruiti dalla legge e nominati dal re. Articolo
72 il potere giudiziario nell’esercizio delle sue funzioni sarà indipendente. A differenza delle altre
costituzioni concesse, in queste costituzioni il potere giudiziario è visto come tale, e come potere
totalmente indipendente dal potere esecutivo.
Nella costituzione romana prevista l’inamovibilità sia della sede, sia del grado, sia dello
stipendio, si dice che questi non potranno essere destituiti se non con regolare processo. Doppia
garanzia.
Quasi tutte le costituzioni di questo periodo prevedono norme collaterali di contorno, che vietano
l’istituzione di tribunali speciali, perché si prevede e si auspica che nessuno possa essere
distolto dal proprio giudice naturale, si vuole garantire al singolo di essere giudicato dall’organo
competente per legge e non dal mero arbitrio del potere esecutivo. Si cerca di rispettare il
principio illuminista e giusnaturalista del giudice naturale.
Durante il periodo fascista viene completamente disattesa questa norma, vengono infatti creati
tribunali di partito e tribunali speciali-----( longa manus potere esecutivo e flessibilità statuto
albertino.
Ultimo medaglione: Diritti, doveri e libertà
Si possono accumunare tutte le libertà dei cittadini presenti nelle costituzioni e catalogarle come
LIBERTA’ NEGATIVE, cioè sono libertà dichiarate con la preoccupazione di tutelare i cittadini nei
confronti di una violazione da parte dello stato, più che proporre libertà nuove a livello
ideologico. E’ la caratteristica di tutte le dichiarazioni liberali del settecento, a partire dalla
dichiarazione dei diritti del 1789. Ciò è dovuto alla concezione secondo cui è il sovrano che si
autolimita, più che il riconoscimento di una novità di diritti in capo al cittadino. Questa idea di

129
fondo è tradotta nelle varie costituzioni in modo diverso ma comune, ad esempio nelle tre
costituzioni e nello statuto albertino son ammesse le libertà tradizionali, libertà personali, di
eguaglianza di fronte alla legge, la proprietà privata, in alcune la libertà di associazione o
riunione e la libertà di stampa, che significava poter diffondere le idee del costituzionalismo e dei
moti risorgimentali attraverso gli organi di informazione. Nello statuto e nelle altre costituzioni
viene “ discussa” la libertà religiosa, pur riconoscendo la confessionalità di uno stato, ci si pone
dei problemi riguardo la possibilità di ricevere una semplice tolleranza degli altri culti come nel
caso dello statuto, o la libertà di professare un culto diverso. Il titolo dei diritti dell’uomo e del
cittadino nello statuto trova una particolarità perché l’art 24 parla di “REGNICOLI” e non di
cittadini perché si vede la volontà dei sovrani di riconoscere formalmente i diritti ma mantenere
comunque un certo distacco, il termine cittadino richiamava infatti sovversione. Rimane
comunque una concessione del sovrano una sua autolimitazione.
Il titolo dei diritti e dei doveri è preso dalla costituzione belga del 1831, perché c’era un’idea
molto più pragmatica, meno ideologica e in questo periodo l’idea è quella di accontentare le
masse attraverso schemi giuridico-costituzionali fortemente pragmatici, perché concessi da
sovrani ancora fortemente ancorati al sistema assolutista.

VENTESIMA LEZIONE (13/05)

Avete visto l’altra lezione, con il prof. Gigliotti, quello che è il bilanciamento dei poteri, quelli che
sono i vari diritti, come sono affrontate le varie costituzioni; avete visto il problema della
giustizia, le differenze tra le varie costituzioni, e oggi (e con questo concludiamo) facciamo un
esame comparativo tra le tre costituzioni siciliane.
Abbiamo già visto nelle lezioni precedenti l’inquadramento storico, quindi come, con quale
modalità, vengono promulgate queste tre costituzioni; chiamerò la Costituzione del Regno
delle due Sicilie quella che ha concesso Ferdinando II di sua spontanea volontà; la
Costituzione siciliana, che è quella diciamo separatista, che è quella che si dà la Sicilia in
contrapposizione a quella concessa dal re Ferdinando II di Borbone; e l’Atto di Gaeta che è la
carta costituzionale che Ferdinando II non concede più, ma impone, ai Siciliani al posto della
loro carta separatista. Chiaramente queste tre carte costituzionali hanno delle caratteristiche
molto diverse perché diverso è il contesto storico e diverse sono le motivazioni storiche che
hanno spinto Ferdinando II a promulgarle, a concederle. Tra l’altro il confronto tra queste tre
carte è particolarmente significativo perché, prima di tutto, sono formulate nello stesso contesto
storico, ( si lo so che ho scritto due cose che sono una il contrario dell’altra, ma ispe dixit….) cioè
in quello che è la Sicilia; che fosse considerata Sicilia come stato separato o Sicilia unita al
Regno di Napoli poco cambia. Sono dunque destinate tutte e tra al medesimo territorio. E sono
anche particolarmente interessanti perché rispecchiano le varie posizioni, le diverse posizioni,
che sono presenti all’interno del movimento costituzionale italiano del 1848. E qui è facile capire
quali posizioni rappresentano: la Costituzione siciliana, quella separatista, diciamo che
rappresenta l’ideologia più progressista. L’ Atto di Gaeta rappresenta l’ideologia più conservatrice
e tradizionale. La Costituzione del Regno delle due Sicilie, che è la prima a essere concessa da
Ferdinando II, incarna l’ideologia del movimento liberal-moderato, cioè quel movimento che voleva
porre fine alla monarchia assoluta, voleva creare una monarchia costituzionale, ma che
comunque era disposto a riconoscere una posizione centrale al sovrano. Più o meno la
Costituzione siciliana e la Costituzione del Regno delle due Sicilie le abbiamo già abbastanza

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esaminate in raffronto alle altre, quello che non abbiamo mai preso in considerazione è l’Atto di
Gaeta, e adesso, in questa comparazione, partiremo proprio dall’Atto di Gaeta, cioè quell’atto che
viene dato da Ferdinando II in risposta al movimento separatista siciliano: Ferdinando II a un
certo punto ammette che se i Siciliani vogliono una propria costituzione gliela dà, ma gliela dà
lui, non lascia che se la prendano e la votino loro stessi. E chiaramente in una posizione del
genere è chiaro che l’Atto di Gaeta è una costituzione molto restrittiva. Tanto per far vedere come
in fondo è un po’ imposta, l’Atto di Gaeta è una concessione sovrana, perché è sempre una
costituzione concessa dal sovrano, però è offerta sotto condizione, cioè è concessa sotto
condizione che i sudditi riconoscano il re legittimo. Tanto è vero che nell’ultimo articolo, che
conclude proprio l’atto (art. 56), si dice: “Tali concessioni (che sono tutte le concessioni che
vengono fatte con la costituzione) si intendono come non mai avvenute né promesse né fatte
qualora la Sicilia non rientri immediatamente sotto l’autorità del legittimo sovrano”. Perché (e
qui è una minaccia molto velata, all’interno della stessa costituzione) “se dovesse il reale esercito
militarmente reagire per rioccupare quella parte dei real domini, la stessa si esporrebbe a tutti i
danni della guerra e a perdere i vantaggi che assicurano le segnate concessioni”. Dunque, il re
legittimo deve essere riconosciuto, in poche parole i Siciliani si devono risottomettere al governo
di Ferdinando II. Questa costituzione è quindi concessa sotto condizione (questa è la differenza
dalla Costituzione del Regno delle due Sicilie, che era stata concessa per magnanimo volere del
sovrano.
Nell’articolo 5 dell’Atto di Gaeta si definisce l’ordinamento politico, e si parla di monarchia
costituzionale con la suddivisione dei poteri. E non solo: nell’articolo 5 si ribadisce di nuovo che la
Sicilia fa parte integrante del Regno delle due Sicilie, dunque non è uno stato autonomo; le viene
concessa una costituzione autonoma, ma non è uno stato autonomo. Ora, questa definizione di
monarchia costituzionale con la suddivisione dei poteri nel modo in cui segue, si contrappone
naturalmente, e vuole essere una risposta, a quello che invece veniva dichiarato nella Carta del
Regno di Sicilia, che era stata promulgata nel luglio del ’48. Nella Carta del Regno di Sicilia, la
sovranità era considerata popolare, con tutte le conseguenze cha abbiamo già detto, che
derivano dalla sovranità popolare, quindi il voto a suffragio universale, e poi veniva dichiarata
l’indipendenza della Sicilia dal Regno delle due Sicilie. A sua volta, questo articolo del’Atto di
Gaeta, si contrapponeva anche all’ordinamento che era stato dichiarato nella Costituzione del
Regno delle due Sicilie concessa da Ferdinando II (che era stata la prima a essere concessa) in
cui si dichiarava che il Regno delle due Sicilie era retto da temperata monarchia ereditaria
costituzionale, sotto forme rappresentative. Allora, nell’Atto di Gaeta, rispetto alle altre due
definizioni dell’ordinamento, noi vediamo che la nuova definizione dell’Atto di Gaeta è un vero e
proprio equilibrismo di fatto per porre dei punti fermi contro gli eventuali orientamenti
democratici della Carta siciliana. Nell’Atto di Gaeta, il termine, l’espressione, monarchia
ereditaria, è sostituito dal termine monarchia costituzionale (è nell’articolo 5 che si parla di
monarchia costituzionale). E definire monarchia costituzionale è scontato, poiché se viene
concessa una costituzione la monarchia è costituzionale, ma questa è una definizione più
neutra. La monarchia, nell’Atto di Gaeta, si tutela poi contro le aspirazioni separatiste
(rimanendo così una monarchia ereditaria), ma lo fa in altri articoli, non lo fa nello stesso
articolo 5, perché così viene tutto più diluito: nell’articolo 16 infatti l’Atto di Gaeta ribadisce la
piena vigenza delle antiche regole successorie. Infatti si dice nell’articolo 16 dell’Atto di Gaeta:
“L’atto solenne, per l’ordine di successione alla corona, dell’augusto re Carlo III, del 6 ottobre
1758 (e quindi risale nel tempo), confermato dall’augusto re Ferdinando I nell’articolo 5 della
legge …, (poi ancora richiama altri atti sovrani sulla successione) e tutti gli altri atti relativi alla

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real famiglia rimangono in pieno vigore”. Quindi la famiglia dei Borboni è la famiglia legittima che
deve regnare in Sicilia.
Quindi nell’Atto di Gaeta si instaura la monarchia costituzionale, però Ferdinando II bandisce
quelle che erano le forme rappresentative, che invece erano indicate nella Costituzione siciliana.
Le forme rappresentative su cui si faceva perno nella Costituzione siciliana, quella separatista,
non vengono considerate, e si introduce la suddivisione dei poteri: la monarchia è costituzionale,
con la divisione dei poteri. “Suddivisione dei poteri” è un termine molto generico: si richiama
ovviamente a Montesquieu, quindi si richiama a quelle che sono le linee liberali dello stato
costituzionale, però sappiamo anche che la suddivisione dei poteri può essere intensa in vari
modi; tutte le costituzioni concesse dell’Ottocento prevedono la suddivisione dei poteri, ma
abbiamo visto anche che comunque la figura centrale resta sempre il re, e questa suddivisione
dei poteri è sempre controllata dal re. Quindi abbiamo visto che la suddivisione dei poteri può
essere concepita in diversi modi. E per lo più, in tutte le costituzioni (tranne quelle veramente
votate, cioè quella siciliana e quella della repubblica romana), questa suddivisione dei poteri
viene concepita all’interno di una monarchia costituzionale pura. La professoressa non si
dilungherà più a spiegarci cosa voglia dire monarchia costituzionale pura, però vediamo che
nella monarchia costituzionale pura è vero che ci sono tanti organi che esercitano un
determinato potere specifico, ma sono tutti, in un modo o nell’altro, controllati dal re (lo abbiamo
anche visto nella lezione con il professor Gigliotti sul bilanciamento dei poteri: in genere quello
che prevale sempre è il potere esecutivo).
Per quello che riguarda l’Atto di Gaeta, la figura del re è di nuovo centrale: il re è titolare del
potere esecutivo, come viene dichiarato all’articolo 6; è il capo delle forze armate, ha il potere di
dichiarare la pace, la guerra, di stipulare contratti di commercio, di pace; nomina i funzionari
pubblici (tutto questo è contemplato negli articoli 7, 10, 13). Il re poi si assicura anche un pieno
controllo dell’isola (perché ricordiamo che il re era il re delle due Sicilie, nato in Sicilia), in che
modo? Attraverso l’introduzione di un nuovo ministero, che viene introdotto all’articolo 19, dove
si dice che presso il re (quindi proprio nel cuore del potere centrale) risiederà il Ministro per gli
affari per la Sicilia. Quindi attraverso questa figura del Ministro degli affari della Sicilia di fatto si
assicura un controllo dell’isola.
Qual è nell’Atto di Gaeta la posizione dei ministri? La posizione dei ministri viene illustrata
negli articoli 20, 21, 22. I ministri vengono praticamente considerati dipendenti dal re, quindi è il
re che li controlla; vuol dire che vengono considerati responsabili nei confronti del re. E come
dipendono dal re? Nell’articolo 22 si dice che i ministri sono responsabili, come anche nello
Statuto Albertino, senza specificare verso chi. L’articolo 21, come succede anche nello Statuto
Albertino, specifica che i ministri dovranno firmare, o collettivamente, o ciascuno per il proprio
ministero, i vari atti del potere esecutivo, questo per proteggere la figura del re, che dunque non
è responsabile degli atti di governo. Ma è fondamentale l’articolo 20 invece, per quello che
riguarda i ministri: perché dice che i ministri comporranno un consiglio privato che
praticamente dipende dal re, perché il re può aggiungere uno o più consiglieri di stato
all’interno di questo consiglio privato dei ministri. Questo cosa vuol dire? Che i consiglieri di
stato controllano praticamente i ministri. Questi articoli che riguardano l’esecutivo, e soprattutto
che riguardano il governo, si contrappongono chiaramente al titolo III della Costituzione
siciliana, che riguarda il potere esecutivo: nella Costituzione siciliana la figura del sovrano non è
più centrale, e perde il controllo su tutti i poteri; se si legge il titolo III sul potere esecutivo, che
va dall’articolo 34 all’articolo 70 (quindi sono tantissimi articoli), si vede che si fa sempre
riferimento al Parlamento. Si dice per esempio, all’articolo 37: “tutte le questioni di successione

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saranno decise dal Parlamento”. L’articolo 45 dice “il Parlamento fisserà a ogni caso di
successione la lista civile da durare per tutta la vita del re”. L’articolo 47, quindi sempre sulla
successione, che è uno dei perni su cui poggia la monarchia, dice: “il re e tutti i successibili al
trono non potranno contrarre matrimonio senza il consenso del Parlamento”. Sono
numerosissimi comunque gli articoli in cui il re e le azioni dell’esecutivo sono sottoposte al
consenso del Parlamento. E questo è ciò che riguarda l’esecutivo nella Costituzione siciliana. E
vediamo il contrasto rispetto a come invece viene concepito l’esecutivo nell’Atto di Gaeta.
Vediamo nell’Atto di Gaeta cosa si dice invece sul potere legislativo: il potere legislativo parte
dall’articolo 33 dell’Atto di Gaeta e va fino all’articolo 44, dove poi però si parla specificatamente
della camera dei Pari all’articolo 45, e della Camera dei Comuni. Il legislativo anche qui è
esercitato, con il Parlamento, dal re, che sanziona e promulga le leggi. E questo è singolare,
perché il fatto che il re sanzioni e promulghi le leggi ricade nell’articolo 8, che riguarda ancora il
potere esecutivo. Il Parlamento è convocato, prorogato e sciolto dal re, e anche questo è
contemplato nell’articolo 9, altro articolo che ricade e riguarda il potere esecutivo. E questo
articolo 9, in cui si dice che il re convoca, proroga, e scioglie il Parlamento, è in contrasto aperto
con l’articolo 33 della Costituzione siciliana, che impedisce al sovrano di sciogliere le camere.
Infatti, nella Costituzione del Regno di Sicilia, quella separatista, l’articolo 33 dice, tra le alte
cose: “ le camere non possono essere disciolte né sospese dal re”. Cosa si intende per
sospensione delle camere? È un potere che in quasi tutte le carte costituzionali del ’48 (anche
nello Statuto Albertino) è contemplato, ed è un potere tipico del re. Succedeva spesso che in
momenti critici, per esempio durante le guerre di indipendenza, il governo si faceva dare pieni
poteri, e questo vuol dire che per delega esercitava anche il potere legislativo, per delega del
Parlamento; altrimenti, quando non poteva farsi dare pieni poteri venivano sospese le camere [i
pieni poteri magari erano appena scaduti, e questo succede per esempio alla conclusione della
seconda Guerra di indipendenza: quando i pieni poteri dell’esecutivo sono scaduti, Cavour ha
bisogno di non avere di mezzo il Parlamento perché c’è la spedizione di Garibaldi nel Sud; gli sta
sfuggendo di mano la situazione; se andasse in Parlamento la sua politica verrebbe azzerata
perché ha il Parlamento contro; allora cosa fa? Sospende le camere. Sospendere le camere voleva
dire sospendere temporaneamente i lavori delle camere, quindi del Parlamento; in quel momento
quindi l’esecutivo non doveva chiedere il parere del Parlamento, e in genere cosa succedeva dopo
la sospensione delle camere? Che il Parlamento poi veniva sciolto. Invece, durante questo
periodo della seconda Guerra di indipendenza, con la spedizione dei Mille, nel momento in cui
Cavour si sente molto debole, perché le camere, soprattutto la Camera dei deputati, erano
dominate dalla sinistra, sospende la camera dei deputati, la mette in disparte, la camera
sospende i lavori. Il governo così può a questo punto andare avanti nel suo programma senza
chiedere l’approvazione del Parlamento. Quando poi Garibaldi arriva in Sicilia e conquista la
Sicilia, e poi Cavour abilmente riesce, attraverso al consenso di Napoleone III, a mandare un
esercito a fermare Garibaldi (e Garibaldi allora in un certo senso si sottomette, e consegna tutto
nelle mani di Vittorio Emanuele II, salutandolo come Re d’Italia) a questo punto le cose hanno
preso un’altra piega, sono andate a finir bene, perché il Governo è riuscito a fermare Garibaldi in
modo che non arrivi a Roma (e questo era il timore, perché la Francia non voleva assolutamente
che venisse conquistata Roma); a questo punto Cavour si sente sicuro, perciò non scioglie i
Parlamento, ma riapre le camere, quindi toglie la sospensione delle camere, ed è sicuro che a
questo punto il Parlamento approva la sua politica, perché ormai l’Italia del Sud era
praticamente annessa]. Quindi quello della sospensione delle camere è un potere enorme che ha
il re, e chiaramente il fatto che nella Costituzione del Regno delle due Sicilie il re non possa

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sospendere le camere vuol dire togliere un enorme potere al re, e mettere in primo piano quello
che è invece il ruolo del Parlamento, cioè creare realmente una monarchia parlamentare e non
una monarchia costituzionale pura. Invece nell’Atto di Gaeta il re può sospendere le camere.
Per quanto riguarda il potere giudiziario, l’Atto di Gaeta non lo chiama potere, ma ordine
giudiziario, come già era contemplato già anche nello Statuto Albertino. La differenza tra le
diciture di ordine e potere giudiziario la dovremmo già sapere (la prof. non si dilunga). Nello
Statuto del Regno di Sicilia, la giustizia è definita potere giudiziario, quindi cosa vuol dire? Che
nello Statuto del Regno di Sicilia la giustizia è considerata un potere alla pari di quello legislativo
ed esecutivo, è un potere totalmente indipendente. Nell’Atto di Gaeta di parla anche di
inamovibilità dei giudici. L’inamovibilità dei giudici era uno degli elementi principali per poter
ritenere la giustizia autonoma dal potere esecutivo; qui anche nell’Atto di Gaeta Ferdinando II
non ha il coraggio di negare l’inamovibilità dei giudici, però all’articolo 26 dice che: “l’ordine
giudiziario sarà indipendente. I magistrati collegiali, e cioè quelli che formano un collegio, non i
magistrati singoli, saranno inamovibili dopo tre anni di lodevole esercizio, a contare dalla data
della loro elezione definitiva”. L’espressione “a contare dalla data della loro elezione definitiva”,
non si capisce bene che cosa significhi, perché i magistrati non erano eletti. I magistrati erano
nominati dal re, anche se qui non si parla della ragione regia. Però è sottinteso, perché parlando
di ordine giudiziario, i magistrati diventano dei funzionari, ed essendo dei funzionari sono tutti di
nomina regia. Quindi attraverso un ‘non dire’ si sottopone pesantemente la magistratura al
controllo dell’esecutivo. Il fatto che tutti i funzionari sono nominati dal re è detto all’articolo 12
dell’Atto di Gaeta: “l’esecutivo nomina ed elegge i funzionari pubblici e gli impiegati
dell’amministrazione dello Stato”. Ora, parlandosi di ordine giudiziario, i magistrati sono dei
funzionari dello Stato, quindi rientrano sotto questa norma.
Come è regolamentata la magistratura, il potere giudiziario, nello Statuto del Regno di Sicilia? È
regolamentata agli articoli 71-75: nell’articolo 71 si dice “il potere giudiziario sarà esercitato dai
magistrati istituiti dalla legge ed eletti dal re”. Cosa vuol dire? Che i magistrati venivano non
eletti ma nominati, questo sarebbe il termine giusto; si usa il termine elezione probabilmente per
confondere le idee. Ma nella nomina dei magistrati (ed è questo che si vuole dire), il sovrano non
può seguire il proprio arbitrio nella scelta, ma deve conformarsi alle norme del diritto positivo
vigente. Questo significa “istituiti dalla legge”. Quindi anche il re, nella Costituzione siciliana, di
fatto deve sottoporsi al dettato legislativo. Non solo, ma l’articolo 72 dello Statuto del Regno di
Sicilia, garantiva l’indipendenza dei magistrati, la dichiarava chiaramente: “ il potere giudiziario,
nell’esercizio delle sue funzioni, sarà indipendente”. Inoltre nello Statuto del Regno di Sicilia,
viene anche (e qui si vede l’influenza delle costituzioni della Rivoluzione francese) contemplata
l’istituzione di una giuria per quello che riguardava i processi penali. L’articolo 71, che è molto
lungo, infatti diceva anche: “ il giudizio per giurati è stabilito in tutte le materie criminali (il
giudizio per giurati sarebbe la giuria) e per i delitti politici o commessi per mezzo della stampa.
Per tali delitti alla sola giuria pertiene pronunziare anche per danni e interessi”. Quindi anche
per quelli che sono i reati riguardanti la stampa era prevista una giuria popolare, che
chiaramente esulava da qualsiasi influenza regia. Di fatto dunque nella Costituzione siciliana il
potere giudiziario è indipendente. Mentre nell’Atto di Gaeta, l’esecutivo controlla, e anche
pesantemente, il giudiziario, grazie anche a quello che all’articolo 13 è chiamato pieno diritto di
grazia: cioè al re spettava di concedere la grazia. E tale articolo, nell’Atto di Gaeta, era stato
elaborato in contrapposizione all’articolo 63 dello Statuto del Regno di Sicilia. Questo articolo
stabiliva che il sovrano poteva concedere la grazia, ma con diverse restrizioni: per esempio non
poteva graziare quei magistrati che avevano attentato alla inviolabilità dei membri del

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Parlamento. Quindi i magistrati che cercavano di incriminare membri del Parlamento non
potevano essere graziati. Questo per cosa? Per assicurare la preminenza e la libertà piena,
nell’esercizio delle loro funzioni, dei membri del Parlamento. Non solo, ma nello Statuto del
Regno di Sicilia anche i ministri condannati da Parlamento non potevano ottenere la grazia.
Questo era previsto all’articolo 68 dello Statuto del Regno di Sicilia. E tutte queste erano
garanzie per assicurare l’autonomia del Parlamento, garanzie che venivano anche assicurate
dall’articolo 63, dello Statuto del Regno di Sicilia, in cui si diceva che il sovrano doveva motivare
e rendere pubblico qualsiasi atto di grazia, quindi non poteva concedere la grazia a suo pieno
parere, doveva motivare. Ed è la prima volta che compare questa esigenza, questo obbligo da
parte del sovrano, di motivare gli atti di grazia.
Vediamo ancora, riguardo all’Atto di Gaeta, le libertà e le garanzie costituzionali. Naturalmente, il
campo delle libertà e delle garanzie costituzionali è quello che viene più ristretto nell’Atto di
Gaeta. Vengono prese qui in considerazione quelle libertà contro cui ormai non si poteva certo
più andare: viene presa in considerazione la libertà individuale all’articolo 2; all’articolo 3 viene
stabilito il diritto di proprietà, in cui si dice che nessuno può cedere la propria proprietà, a meno
che per pubblica utilità, e sempre che venga remunerato. L’articolo 4 difende la libertà di
stampa, però si dice che si riconosce il diritto di stampa, ma in conformità a future leggi, che
devono essere fatte per reprimerne gli abusi. Il termine abuso è un termine molto generico, non
vuole dire niente, e quindi si può considerare abuso qualsiasi dichiarazione fatta via stampa. Più
specifico era, a riguardo della libertà di stampa, l’articolo 88 della Costituzione siciliana, che
naturalmente mira a concedere il maggior livello possibile di libertà di stampa. L’articolo 88 della
Costituzione siciliana,diceva che si punivano i reati (e si usa la parola reati), commessi
attraverso l’esercizio della libertà di stampa. Ora, se il termine abuso non può essere facilmente
identificato, il termine reato invece può essere facilmente definito, perché i reati erano
identificabili nella legge positiva, quindi era reato ciò che era contemplato dalla legge positiva.
Sempre per quanto riguarda la libertà di stampa invece, nella Costituzione del Regno delle due
Sicilie, quella che è più simile diciamo allo Statuto Albertino, era prevista la libertà di stampa,
ma era anche prevista una futura legge repressiva e preventiva, e prevedere una legge repressiva
e preventiva vuol dire porre praticamente sotto controllo la stampa. In pratica vuol dire una
censura, ma la censura come può essere? Preventiva, cioè ti bloccano prima, oppure può essere
repressiva, cioè ti lasciano pubblicare tutto e poi però se pubblichi qualcosa che non va c’è la
censura dopo che ti commina le pene. Nella Costituzione del Regno delle due Sicilie è prevista
una e l’altra, quindi per assicurarsi il controllo pieno della stampa. La legge repressiva è la
censura, quella che noi oggi chiamiamo censura. Nell’Atto di Gaeta si dice che si riconosce il
diritto di stampa ma si reprimono gli abusi. Gli abusi come abbiamo detto sono un termine
talmente generico che si può reprimere tutto, mentre nella Costituzione siciliana si parlava della
commissione dei reati; i reati di identificano facilmente con la legge, gli abusi no.
Nell’Atto di Gaeta di cosa parla l’articolo 1? In genere l’articolo 1 parla della religione. Nell’Atto di
Gaeta all’articolo 1 si nega la libertà religiosa, perché si dice che la religione sarà unicamente e
ad esclusione di qualunque altra la cattolica apostolica romana. Cosa vuol dire “ad esclusione di
qualunque altra”? vuol dire che non viene ammessa nessun’altra religione, neppure tollerata. E
come mai questo? Chiaramente si fa un omaggio alla Chiesa, perché ricordiamo che la Chiesa
considerava la Sicilia come un proprio feudo, e lo faceva fin dall’epoca dei Normanni, cioè dal XII
secolo, quando dopo che i Normanni avevano conquistato la Sicilia con la forza, dovevano
legittimare il loro potere, e come legittimano il loro potere? Attraverso l’incoronazione che il Papa
aveva fatto di Ruggero d’Altavilla, nominato re di Sicilia, di Puglia e di Calabria. E quindi era

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stato il Papa che aveva legittimato il potere dei Normanni in Sicilia. Da questo momento il Papa
aveva sempre considerato la Sicilia un proprio feudo, e poi per estensione anche il Regno di
Napoli. Era chiaramente ormai una sottomissione feudale, anche se non esisteva neppure più il
feudalesimo. Era un riconoscimento formale alla Chiesa più che altro, perché poi i re di Sicilia
facevano tutto quello che volevano. Tanto è vero che questo omaggio alla Chiesa viene
riconosciuto anche nella Costituzione siciliana; qui, l’articolo 1 dice che la religione di stato è la
cattolica apostolica romana, e questo proprio per ottemperare a quella che era stata la tradizione
siciliana e cioè che il Papa considerava la Sicilia un proprio feudo. Si voleva così non inimicarsi il
Papa, perché tanto non si trattava più di un omaggio feudale, così tutte le carte, anche la più
liberale, riconoscono la religione cattolica come religione di stato, e le altre religioni non sono
tollerate. Non solo, ma nella Costituzione del Regno di Sicilia si dice che se il re non sarà
cattolico decadrà dal titolo di re. È chiaro che la Spagna dei Borboni era un paese molto
cattolico, quindi la cosa toccava poco.
Per quello che riguarda l’articolo 2 dell’Atto di Gaeta sulla libertà individuale, vediamo che viene
garantita: “nessuno può essere arrestato o processato se non nei casi previsti dalla legge e nelle
forme da essa prescritte”. Quindi le garanzie sono anche processuali, che vengono riconosciute
anche dall’Atto di Gaeta. Però non si fa più alcun accenno al fatto che il suddito non può essere
distolto dai sui giudici naturali, né si accenna più al principio della irretroattività della legge, che
invece era stato enunciato chiaramente nella Costituzione siciliana all’articolo 85.
Questo grosso modo è come sono organizzati i poteri entro l’Atto di Gaeta, e quali sono le
differenze, nell’esercizio di tali poteri, rispetto alla Costituzione siciliana, che è quella più
progressista. Certamente le tre carte siciliane nel loro complesso riflettono le diverse ideologie
dello sbocco costituzionale. E se dobbiamo trarre delle conclusioni si può dire che analizzando
queste carte costituzionali italiane del ’48-’49, che poi riflettono un po’ anche quelle che sono le
posizioni ideologiche europee, perché vediamo che prendono come modello tutte quante le carte
francesi del ’14 e del ’30, si vede comunque la contrapposizione tra diversi gruppi: da una parte
ci sono le quattro carte ottriate; dall’altra ci sono le carte siciliana e quella della repubblica
romana, che sono le uniche due che mirano a un ordinamento costituzionale veramente
rappresentativo, dove cioè c’è il parlamento che è al centro del sistema. Le altre quattro carte
ottriate (cioè quella del Regno delle due Sicilie, l’Atto di Gaeta, lo Statuto del Granducato di
Toscana, lo Statuto del Regno di Sardegna, e anche lo Statuto della Chiesa) vogliono invece
instaurare una monarchia non parlamentare ma limitata, cioè quella che abbiamo chiamato
monarchia costituzionale pura. La monarchia limitata può assumere diversi significati, anche se
la costituzione limita il potere assoluto: abbiamo visto come nello Statuto Albertino (che è l’unica
carta costituzionale che si può esaminare perché è l’unica che è rimasta in vigore per tanto
tempo e che stata realmente applicata), di fatto a seconda del modo in cui veniva applicato lo
statuto la monarchia di trasformava, da pura a parlamentare. Il modo di limitare il potere
assoluto quindi è molto vario, e dipende dal rapporto in cui sono posti i diversi poteri dello stato.
Minore è la libertà d’azione del governo,maggiore diventa il peso esercitato dalle assemblee, dal
parlamento. Allora, considerando le carte costituzionali del ’48-’49 in quest’ottica, vediamo che
l’ordinamento dello Stato della Chiesa è senza dubbio il più restrittivo. Poi viene lo Statuto del
Regno delle due Sicilie, poi lo Statuto del Regno di Sardegna, e il più aperto di tutti forse è lo
Statuto del Granducato di Toscana (parlando solo delle carte ottriate). Ora, chiaramente le carte
realmente liberali, che introducono un ordinamento realmente rappresentativo, sono la Carta
siciliana separatista e la Carta della Repubblica romana del ’49, l’unica repubblicana.

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Per trarre le conclusioni definitive vediamo che lo scontro ideologico del movimento
costituzionale italiano si è sempre incentrato non tanto sul fatto di instaurare un ordinamento
monarchico o repubblicano, perché sulla monarchia erano tutti d’accordo. Lo scontro avviene
sul ruolo che doveva avere la monarchia nell’ambito dell’ordinamento costituzionale, quindi la
monarchia di fatto resta il centro dell’ordinamento; si discute e ci si scontra tra coloro che
volevano lasciare la monarchia più al centro e tra coloro che volevano invece mettere al centro
l’ordinamento parlamentare, ma sulla monarchia di fatto (tranne che per i repubblicani, i
mazziniani, e tranne la brevissima avventura della Repubblica romana) non c’è nessuno scontro.
La posizione ideologica della metà del 1800 è ancora una posizione profondamente monarchica.

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