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Da qualche anno a questa parte, però, le dimissioni sono state circondate da crescenti cautele.
Sempre più allarme ha infatti destato il fenomeno delle cd. dimissioni in bianco, cioè predisposte
su richiesta del datore di lavoro all’atto dell’assunzione o durante il rapporto. Emerge cosi, prima
con la l. 188/2007 e poi con la l. 92/2012 (cd. riforma Fornero), una tendenza alla formalizzazione o
procedimentalizzazione delle dimissioni in generale, che ha finito per riguardare anche la
risoluzione consensuale. Finora dimissioni e risoluzione consensuale dovevano essere tutte
convalidate presso la direzione territoriale del lavoro, o il centro per l’impiego, o ancora sedi
individuate dalla contrattazione collettiva. Con l’entrata in vigore del d.lgs. 151/2015 due sono le
modalità per dimettersi o risolvere il contratto:
a) attraverso modalità telematiche, su appositi moduli resi disponibili on line dal Ministero del
Lavoro che dovranno poi esser trasmesso al datore di lavoro e alla Direzione Territoriale;
b) formalizzandole nelle sedi conciliative indicate dall’art. 2113 c.c., o dinanzi alle
Commissioni di Certificazione.
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Nella sistematica del codice civile il licenziamento non ha una sua specifica regolamentazione, ma
è regolato genericamente come atto di recesso dal contratto di lavoro subordinato dagli artt.
2118 (cd. recesso ad nutum) e 2119 (cd. recesso per giusta causa) c.c..
L’art. 2118 disciplina il recesso ordinario dal contratto a tempo indeterminato, caratterizzato
unicamente dalla necessità di dare un congruo preavviso alla controparte, senza alcun vincolo di
forma o di motivazione. Si trattava di una disciplina coerente con le teorie dell’epoca, che
riconducevano il contratto di lavoro al diritto comune. L’art. 2118 c.c. attribuisce ad
entrambe le parti la facoltà di recedere unilateralmente e liberamente dal contratto.
L’art. 2118 consente però un vero e proprio recesso arbitrario da
parte del datore di lavoro, al quale in legislatore impone di dare soltanto un preavviso – o, in
alternativa, una piccola somma di denaro – al lavoratore, tutelando in modo molto lieve
l’interesse di quest’ultimo a non ritrovarsi dall’oggi al domani privo di reddito.
In presenza poi di una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto (cd. giusta causa), l’art. 2119 c.c. consente al datore di lavoro di licenziare il
lavoratore senza preavviso – nei contratti a tempo indeterminato – o ante tempus – nei
contratti a termine. Con l’art. 2119 c.c. è evidente la preponderanza di tutela dell’interesse ad
interrompere liberamente il rapporto estinguendo il contratto unilateralmente, con un controllo
giudiziario del tutto eventuale e limitato al pagamento dell’indennità di preavviso o all’esistenza di
una giusta causa.
In questo sistema di grande favore per il datore di lavoro, l’interesse alla conservazione del posto di
lavoro non aveva ancora assunto alcuna rilevanza giuridica: arbitro assoluto era considerato
l’imprenditore, professionista dall’attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o servizi (art. 2082 c.c.).
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L’art. 5 accolla poi al datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del
giustificato motivo oggettivo del licenziamento, sgravando in modo sensibile il lavoratore da un
onere processuale attribuitogli in ragione dell’antico adagio (ripreso dall’art. 2697 c.c.)
L’art. 4, sancisce la nullità dei licenziamenti determinati da ragioni di credo politico, fede
religiosa, appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali; tuttavia, in
queste ipotesi, l’onere della prova gravava sul lavoratore: una probatio diabolica quando il datore di
lavoro era in grado di addurre una qualsivoglia motivazione verosimile.
Tuttavia, l’art. 8 prevedeva ancora una tutela di tipo obbligatorio in caso di licenziamento non
inquadrabile negli estremi del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo,
comminando al datore di lavoro una sanzione alternativa tra la riassunzione del lavoratore entro il
termine di tre giorni o, in mancanza, il risarcimento del danno, versando un’indennità da un minimo
di 5 ad un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione.
Altro limite della legge 604/1966 era costituito dal campo di applicazione, limitato
ai datori di lavoro che occupano più di 35 dipendenti (art. 11), e con l’esclusione dei lavoratori non
in possesso della qualifica di impiegato o operaio (cioè dei lavoratori domestici e dei dirigenti), dei
lavoratori in prova e di quelli che abbiano maturato i requisiti pensionistici o che comunque abbiano
più di 65 anni (artt. 10 e 11).
La l. 604/1966 può essere considerata come una legge di adeguamento costituzionale: non era
infatti più accettabile che il contratto di lavoro subordinato fosse considerato liberamente
disponibile dall’imprenditore dinanzi ad una Costituzione che contiene norme a specifica tutela del
lavoro, e che tutela sì la libera iniziativa economica privata, purché non contrasti con l’utilità
sociale o rechi danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41 Cost.).
Con tutti i suoi limiti, la legge 604/1966 segna per la regolazione del licenziamento la fine
dell’epoca della libera recedibilità ed un passaggio ad un regime di diritto speciale.
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Per quanto questa possa sembrare in aperto contrasto con l’art. 8 Stat. Lav. – che vieta al datore di lavoro di effettuare
qualunque indagine su fatti che non rilevino ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore – questa
disposizione trova conforto proprio nell’art. 8 Stat. Lav., poiché valorizza qualunque situazione che renda il lavoratore
“professionalmente inidoneo” alla prosecuzione del rapporto, cioè all’esatto adempimento delle prestazioni di lavoro
future.
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si ha licenziamento per giustificato motivo soggettivo quando alla base del
licenziamento vi sono ragioni che riguardano un notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali da parte del lavoratore (es.: lavoratore che abbandona ripetutamente
e senza motivo il posto di lavoro).
a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di 15
dipendenti3 – o 5 nelle imprese agricole – (art. 18 Stat. Lav.);
alle imprese industriali e commerciali che, nell'ambito dello stesso comune, occupano più di
15 dipendenti (art. 35 Stat. Lav.);
alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di 5 dipendenti
anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti. (art.
35 Stat. Lav.).
L’obiettivo dello statuto era quello di limitare ancora di più il “potere datoriale” con scarsa
attenzione alla natura giuridica del licenziamento (atto di recesso da un contratto) e con la massima
aderenza possibile al contesto in cui si svolgono le relazioni di lavoro.
Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza [di reintegrazione] è tenuto a corrispondere al
lavoratore le retribuzioni dovutegli dalla data della sentenza stessa fino a quella della
reintegrazione.
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Ne nasce un bel pasticcio interpretativo, generato dalla coesistenza del campo dell’art. 8 l. 604/1966 – che prevedeva
una tutela di tipo obbligatorio in caso di licenziamento non inquadrabile negli estremi del licenziamento per giusta
causa o per giustificato motivo – e del campo di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav. – che invece prevedeva una tutela
reale nei casi di cui sopra –. Il contrasto fu risolto con due pronunce delle Sezioni Unite verso la fine degli anno ’80
avallando il cd. “parallelismo delle tutele”.
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6. Le tutele degli anni ‘90
Agli inizi degli anni ’90 l’ordinamento viene scosso da una nuova fase legislativa in materia di
licenziamenti.
La legge 108/1990 ha generalizzato il campo di applicazione della tutela obbligatoria – restano
esclusi solo domestici, dirigenti e lavoratori ultrasessantenni con i requisiti pensionistici (art. 4) – ed
ha esteso la tutela reale a tutti i casi di licenziamento discriminatorio e a tutti i datori di lavoro che
abbiano complessivamente più di 60 dipendenti, anche se occupati in unità produttive con meno di
15 dipendenti (art. 2). Inoltre, il lavoratore poteva ottenere, in alternativa alla reintegrazione,
un’indennità di15 mensilità aggiuntiva al risarcimento del danno (art. 18).
L’art. 4 della legge 125/1991 (oggi art. 40 l. 198/2006) ha invertito l’onere della prova in materia di
licenziamento, prevedendo per la prima volta la cd. prova statistica, in base alla quale se il
ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare in
termini precisi e concorrenti la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della
discriminazione.
La legge 223/1991 ha dato attuazione alle Direttive europee in materia di licenziamenti
collettivi (cioè quelli riguardanti almeno 5 lavoratori effettuati nell’arco di 120 giorni, basati su
riduzione o trasformazione dell’attività o del lavoro), regolandoli e procedimentalizzandoli,
riconoscendo ampio spazio al controllo sindacale e giudiziario.
Negli anni ’90 poi, la giurisprudenza prende atto dell’indirizzo politico del legislatore, volto ad
incrementare le tutele contro i licenziamenti contra legem e se ne fa cassa di risonanza. Questo
porta talvolta i giudici ad interpretazioni puntuali e rigorose, tanto da suscitare crescenti polemiche
verso una disciplina eccessivamente vincolistica, considerata spesso all’origine delle sempre
maggiori difficoltà nel promuovere l’occupazione.
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Le novità di maggior interesse emergono a livello europeo.
La Carta Sociale Europea, aggiornata nel 1996 e ratificata n Italia nel 1999, continua a prevedere
all’art. 24 che tutti i lavoratori hanno diritto:
a non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini, alla loro
condotta o alle necessità di funzionamento dell’impresa;
ad un congruo indennizzo o altra adeguata prestazione in caso di licenziamento senza
motivo;
a ricorrere contro un licenziamento senza valido dinanzi ad un organo imparziale.
L’art 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 2000 (cd. Carta di
Nizza) stabilisce che ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento
ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.
Vengono poi approvate le Direttive europee cd. di seconda generazione sui divieti di
discriminazione, in virtù delle quali nei rapporti di lavoro deve essere garantita l’assenza di
qualsiasi discriminazione diretta o indiretta dovuta, non solo al sesso, ma anche alla razza e
all’origine etnica, all’età, alle tendenze sessuali, alla disabilità, alle convinzioni personali.
8. Gli effetti della flexicurity sulla disciplina dei licenziamenti: la l. 183/2010 (cd.
collegato lavoro) e l’art. 8 d.l. 138/2011
Sempre più forte si avverte la pressione delle politiche di flessibilizzazione delle regole, alimentate
dal riferimento alle politiche di flexicurity formulate dall’Unione Europea a partire dal 2006/2007,
finalizzate più a convincere le imprese ad aumentare l’occupazione, a prescindere dalla sua qualità,
che a razionalizzare la disciplina dell’istituto.
Tra le novità introdotte dalla legge 183/2010 (cd. collegato lavoro) vi è innanzitutto un vincolo per
il giudice di “tenere contro” della contrattazione collettiva nel definire le nozioni di giusta causa e
giustificato motivo (art. 30). Si tratta di un chiaro tentativo di condizionare i poteri della
magistratura ordinaria, che, però, lascia il tempo che trova.
La seconda novità riguarda la clausola compromissoria, prevista dall’art. 31: con
questa norma si consente alle parti del contratto la possibilità di devolvere le controversie che
dovessero eventualmente insorgere tra esse ad arbitrati e secondo equità. È abbastanza
evidente l’intenzione del legislatore di far diventare l’autonomia individuale il canale per far
transitare la disciplina del licenziamento dall’universo della norma inderogabile a quello della
regolamentazione affidata all’equità arbitrale. Sui rischi di questo brusco passaggio intervenne,
durante la gestazione della legge, il Presidente della Repubblica, che, con un messaggio alle
Camere, spiegò le ragioni costituzionali che impedivano di promulgare la legge 183/2010 nella
versione maturata fino a quel momento. Frutto di quel messaggio sono alcune importanti
limitazioni all’adozione della clausola compromissoria contenute nel testo finale dell’art. 30 l.
183/2010: in tal modo si è inteso, seppur con formula assai ambigua, escludere la disciplina del
licenziamento dalla giurisdizione arbitrale di equità.
L’art. 8 d.l. 138/2011, convertito con l. 148/2011, ha introdotto i “contratti di prossimità”; nel
suo comma 2 l’art. 8 d.l. 138/2011 elenca le materie che possono essere oggetto di intese
sindacali efficaci erga omnes, tra le quali troviamo le conseguenze del recesso dal rapporto di
lavoro (fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in
concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice in gravidanza, il licenziamento
causato dalla domanda o dalla fruizione di un congedo parentale per la malattia del bambino o in
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caso di adozione o affidamento).
È abbastanza evidente l’intento del legislatore di favorire la derogabilità delle norme per i
licenziamenti illegittimi, escludendo solo alcuni licenziamenti particolarmente lesivi della dignità
della persona del lavoratore, o della lavoratrice, o dei figli a qualsiasi titolo danneggiati dalla perdita
del lavoro da parte dei genitori. Si mirava alla realizzazione di accordi aziendali o territoriali che
contenessero una disciplina specifica e limitata del licenziamento. Evidente è rischio di violazione
dell’art. 117 Cost., che riserva alla potestà esclusiva dello Stato la disciplina dell’ordinamento civile
e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti sul territorio nazionale. La norma, seppur diretta a stabilire confini con la potestà
legislativa regionale, può ben riferirsi anche alla contrattazione collettiva.
Per le piccole imprese che non rientrano nei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 Stat. Lav.:
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SEZ. II: I LICENZIAMENTI INDIVIDUALI E COLLETTIVI OGGI
2.1 La disciplina dei licenziamenti dopo la legge 92/2012 (cd. riforma Fornero)
L’interpretazione della disciplina dei licenziamenti dopo la l. 92/2012 si presenta di particolare
complessità, a partire dalla ricostruzione sistematica.
L’obiettivo dichiarato dal legislatore era l’adeguamento alle esigenze del mutato contesto di
riferimento della disciplina del licenziamento, con previsione di un procedimento giudiziario
specifico per accelerare la definizione delle relative controversie. Tale obiettivo viene però
enunciato in modo piuttosto generico e lascia molto campo alla ricostruzione della ratio legis, che
può esplicitarsi attraverso diversi percorsi legislativi, lasciati anche al contributo dell’interprete.
Le idee inizialmente avanzate di seguire una logica binaria – basata sulla distinzione tra
licenziamento per ragioni inerenti alla persona e licenziamento per ragioni economiche – sulla quale
modellare tutele, procedimenti e sanzioni, risulta del tutto tramontata nel testo finale.
Prima di addentrarci nella riforma è opportuno ricordare i vari tipo di licenziamento previsti
dalla precedente normativa:
licenziamento per giusta causa senza preavviso, detto anche licenziamento “in tronco” (art.
2119 c.c.);
licenziamento per giustificato motivo soggettivo (art, 3 l. 604/1966);
licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art, 3 l. 604/1966);
licenziamento disciplinare (art. 7 comma 4 Stat. Lav.);
licenziamento collettivo per riduzione del personale (l. 223/1991).
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L’atto di licenziamento può presentare diverse irregolarità o vizi: vizi formali, procedurali o
sostanziali. È a tal riguardo che la riforma Fornero ha previsto una disciplina molto articolata,
prevedendo varie specifiche ipotesi di nullità, annullabilità o inefficacia del licenziamento.
Qualora invece il licenziamento risulti ineccepibile da ogni punto di vista, esso
risulterà senz’altro valido ed efficace: l’efficacia è immediata se si tratta di licenziamento per giusta
causa, mentre è subordinata allo scadere del termine di preavviso negli altri casi.
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2.3 Conseguenze della riforma: il problema della qualificazione del
licenziamento
L’articolata disciplina per i vari vizi che possono presentare i licenziamenti introdotta dalla
l. 92/2012 non può non avere innanzitutto ripercussioni sulla iniziale qualificazione del
licenziamento. A tal riguardo è chiaro che sarà il datore di lavoro a scegliere il tipo di licenziamento
da intimare (magari anche in palese violazione della legge, prevedendo di ricevere la sanzione
“minore”).
È comunque compito del giudice qualificare il licenziamento, determinandone la disciplina
conseguente; e in presenza dell’ampia tipologia rinvenibile dopo la l. 92/2012 questa operazione
risulta particolarmente delicata e complessa, anche in considerazione della diversità delle tutele
garantite. Fermo restando che l’iniziale qualificazione non esclude che nel corso dell’eventuale
processo emergano elementi per una diversa qualificazione, l’esistenza di una tipologia così ricca e
variegata comporta necessariamente l’ulteriore problema di chiarire con esattezza i confini
concettuali tra l’una e l’altra tipologia: questa operazione intellettuale, già di per se difficile, viene
resa ancora più complessa dalla consapevolezza dei rilevanti interessi in gioco nello spostare in
concreto “un” licenziamento da una “casella” all’altra.
Tra i diversi regimi sanzionatori c’è dunque notevole disomogeneità. Tutti, inoltre, lasciano un certo
ambito di apprezzamento al giudice, il che rende la disciplina ancora più incerta.
Non c’è dubbio le imprese (medio-grandi) si orienteranno sul tipo di licenziamento più blandamente
sanzionato, cioè quello assistito dalla tutela obbligatoria ordinaria.
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4. Termini di decadenza per l’impugnazione e la revoca
Il lavoratore può impugnare il licenziamento, anche in via stragiudiziale, entro 60 giorni da quando
riceve comunicazione dello stesso, o, se non contestuale, dei motivi; in base alla novella della
l. 92/2012, il lavoratore ha a disposizione ulteriori 180 giorni dall’impugnazione del licenziamento
per presentare ricorso al giudice o comunicare la richiesta di conciliazione ed arbitrato.
Un aspetto che viene per la prima volta regolato dalla l. 92/2012 è la revoca del licenziamento, di
cui si occupa il nuovo art. 18 comma 10 Stat. Lav.: si riconosce al datore di lavoro una sorta di
diritto al ripensamento in ordine alla decisione di licenziare, da esercitarsi entro 15 giorni dalla
comunicazione dell’impugnazione del licenziamento.
La norma sulla revoca è chiaramente diretta ad evitare alcune spiacevoli conseguenze (per
l’imprenditore). In passato, infatti, la giurisprudenza, in applicazione dei principi civilistici, riteneva
comunque risolto il rapporto di lavoro tra l’imprenditore che avesse licenziato il proprio dipendente
e avesse poi successivamente annullato il licenziamento: conseguenza di ciò era il diritto del
lavoratore a ottenere la reintegra e il risarcimento dei danni nella misura minima di 5 mensilità, o, in
alternativa alla reintegra, un’indennità pari a 15 mensilità.
Questa norma di tutela dell’interesse dell’impresa allontana ancora di più il licenziamento dalla
disciplina ordinaria degli atti negoziali, consentendone, seppur temporaneamente, la revoca
unilaterale, che è un istituto di diritto amministrativo.
5. I licenziamenti collettivi
I licenziamenti collettivi per riduzione di personale costituiscono ormai una fattispecie a se stante,
con una specifica disciplina legale diretta a realizzare un diverso bilanciamento tra la tutela
dell’occupazione come bene collettivo e la libertà dell’imprenditore di ridimensionare il proprio
organico.
Si parla di licenziamento collettivo quando:
i lavoratori da licenziare siano almeno 5 (in un’unica unità produttiva o anche in varie se
situate nella medesima provincia) in un lasso di tempo di 120 giorni;
il licenziamento sia conseguenza di una medesima riduzione o trasformazione dell’attività di
lavoro oppure della cessazione della stessa.
In caso di licenziamento collettivo il datore di lavoro è tenuto ad osservare una serie di obblighi
procedurali e sostanziali, anche se la decisione di licenziare sia assunta da un’impresa che controlla
il datore di lavoro (artt. 4 e 24 l. 223/1991). I medesimo obblighi devono esser osservati anche dalle
imprese che siano state ammesse al trattamento di integrazione salariale qualora queste ritengano di
non essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori e di non poter ricorrere a misure
alternative (art. 4 l. 223/1991). Fino al 1° gennaio 2017 questa variante può continuare ad essere
denominata “licenziamento collettivo per messa in mobilità”; a partire dalla stessa data, però,
verranno meno le liste di mobilità che nel sistema della l.223/1991 dovevano servire a garantire la
rioccupazione dei lavoratori, a seguito dell’abrogazione prevista dalla l. 92/2012. Non esisterà più,
quindi, la differenza tra “licenziamento collettivo per messa in mobilità” e “licenziamento collettivo
per riduzione di personale”; l’unica differenza è il ricorso alla cassa integrazione guadagni
straordinaria in caso (che si aveva in caso di “licenziamento collettivo per messa in mobilità”).
Quando si è in presenza di un licenziamento collettivo il legislatore, sulla falsariga della
normativa di matrice europea, ritiene che vi debba essere un doppio controllo sulla decisione
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datoriale, prima ad opera dei sindacati, poi, se non si raggiunge un accordo, ad opera di
organi amministrativi.
Prima della riforma, per l’avvio della procedura il datore di lavoro deve versare all’INPS una
somma pari a sei volte il trattamento mensile di mobilità dovuto per ciascun lavoratore, somma
riducibile alla metà in caso di raggiungimento dell’accordo sindacale. Dopo la riforma, per l’avvio
della procedura il datore di lavoro deve versare all’INPS una somma pari alla metà del il
trattamento mensile di NASPI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli untimi 3 anni; questa
somma viene triplicata in caso di mancato accordo con i sindacati (art. 2 l. 92/2012).
La procedura per il controllo sindacale è incentrata sull’obbligo dell’impresa di comunicare
per iscritto una serie di informazioni finalizzata a consentire una verifica globale su
motivazioni, quantità e qualità dei lavoratori coinvolti, sui tempi della riduzione di personale e sulle
misure previste per contenere le conseguenze sociali ad una serie di soggetti istituzionali, tra cui:
RSA, RSU e/o sindacati di categoria extraaziendali cui afferiscono le RSA;
sindacati di categoria aderenti alle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative
(in mancanza di rappresentanze in azienda).
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6. Il regime vigente dopo la riforma Fornero
Per le imprese medio-grandi:
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604/1966
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604/1966 indennità: (tra 2,5 e 6 mensilità).
in violazione dell’art. 7 Stat.
(forse?)
Lav.
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lavoratore assunto con contratto a tutele crescenti può arrivare al massimo della sanzione solo dopo
12 anni di servizio.
L’art. 6 d.lgs. 23/2015 prevede la possibilità, per il datore lavoro che voglia evitare il giudizio,
di formulare una “offerta di conciliazione”, che consiste nel corrispondere subito al lavoratore
una mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità (con un minimo di 2 e un massimo di
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espressa”, perché rapida.
Il d.lgs. 23/2015, in osservanza della delega, mantiene però anche una forma di reintegrazione
debole: secondo l’art. 3 comma 2, infatti, il lavoratore che dimostra direttamente in giudizio
l’insussistenza del fatto materiale contestato (licenziamento nullo) il lavoratore ha diritto alla
reintegra e al risarcimento del danno entro il massimo di 12 mensilità. Vi è dunque un sensibile
aggravamento dell’onere probatorio per il lavoratore.
Resta il dubbio che su questo punto il d.lgs. 23/2015 violi la legge delega, sia perché la l. 184/2014
non ha conferito delega al Governo per intervenire sulla ripartizione dell’onere della prova tra le
parti, sia perché l’ipotesi delineata dall’art. 3 d.lgs. 23/2015 riprende restrittivamente la
formulazione dell’art. 18 comma 4 Stat. Lav. nella versione del 2012, ma non vale ad individuare
specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato (in quanto tutti i licenziamenti
disciplinari possono basarsi su “fatti materiali” insussistenti).
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9. Il regime vigente dopo la riforma Renzi (d.lgs. 23/2015)
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10. La disciplina dei licenziamenti collettivi: sintesi
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