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L’estinzione del rapporto di lavoro

SEZ. I: IL REGIME PRE-FORNERO

1. Le modalità di estinzione del rapporto di lavoro


Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato 1 può normalmente estinguersi al verificarsi di quattro
vicende:
 morte di uno dei due contraenti:
o in caso di morte del lavoratore, trattandosi di prestazione personale infungibile, la
morte determina automaticamente l’estinzione del contratto;
o più complessa è la situazione in caso di morte del datore di lavoro:
 se si tratta di persona fisica, priva di qualsiasi organizzazione, la morte
estingue egualmente il contratto; anche in caso di piccolo imprenditore
dovrebbe valere il medesimo principio
 negli altri casi (imprenditore individuale non piccolo o società) il contratto
può proseguire con l’organizzazione imprenditoriale.
 risoluzione consensuale: se frutto di una genuina volontà di entrambe le parti;
 licenziamento: atto unilaterale recettizio con il quale il datore di lavoro dichiara alla
controparte, con congruo preavviso, di voler terminare il rapporto;
 dimissioni: atto unilaterale recettizio con il quale il lavoratore dichiara alla controparte, con
congruo preavviso, di voler terminare il rapporto.
Sono nulle, salvo conferma entro un mese dinanzi alla Direzione provinciale del lavoro (art.
55 d.lgs. 151/2001, modificato dalla l. 92/2012), le dimissioni di soggetti in condizione di
particolare debolezza, come le lavoratrici nel primo anno di matrimonio o durante il periodo
di gravidanza; sono soggette a questa disciplina anche le dimissioni rassegnate dai genitori
durante i primi tre anni di vita del bambino.

Da qualche anno a questa parte, però, le dimissioni sono state circondate da crescenti cautele.
Sempre più allarme ha infatti destato il fenomeno delle cd. dimissioni in bianco, cioè predisposte
su richiesta del datore di lavoro all’atto dell’assunzione o durante il rapporto. Emerge cosi, prima
con la l. 188/2007 e poi con la l. 92/2012 (cd. riforma Fornero), una tendenza alla formalizzazione o
procedimentalizzazione delle dimissioni in generale, che ha finito per riguardare anche la
risoluzione consensuale. Finora dimissioni e risoluzione consensuale dovevano essere tutte
convalidate presso la direzione territoriale del lavoro, o il centro per l’impiego, o ancora sedi
individuate dalla contrattazione collettiva. Con l’entrata in vigore del d.lgs. 151/2015 due sono le
modalità per dimettersi o risolvere il contratto:
a) attraverso modalità telematiche, su appositi moduli resi disponibili on line dal Ministero del
Lavoro che dovranno poi esser trasmesso al datore di lavoro e alla Direzione Territoriale;
b) formalizzandole nelle sedi conciliative indicate dall’art. 2113 c.c., o dinanzi alle
Commissioni di Certificazione.

2. La disciplina del licenziamento: in origine c’era il codice civile


1
Il contratto a termine può estinguersi anche per scadenza del termine

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Nella sistematica del codice civile il licenziamento non ha una sua specifica regolamentazione, ma
è regolato genericamente come atto di recesso dal contratto di lavoro subordinato dagli artt.
2118 (cd. recesso ad nutum) e 2119 (cd. recesso per giusta causa) c.c..
L’art. 2118 disciplina il recesso ordinario dal contratto a tempo indeterminato, caratterizzato
unicamente dalla necessità di dare un congruo preavviso alla controparte, senza alcun vincolo di
forma o di motivazione. Si trattava di una disciplina coerente con le teorie dell’epoca, che
riconducevano il contratto di lavoro al diritto comune. L’art. 2118 c.c. attribuisce ad
entrambe le parti la facoltà di recedere unilateralmente e liberamente dal contratto.
L’art. 2118 consente però un vero e proprio recesso arbitrario da
parte del datore di lavoro, al quale in legislatore impone di dare soltanto un preavviso – o, in
alternativa, una piccola somma di denaro – al lavoratore, tutelando in modo molto lieve
l’interesse di quest’ultimo a non ritrovarsi dall’oggi al domani privo di reddito.
In presenza poi di una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto (cd. giusta causa), l’art. 2119 c.c. consente al datore di lavoro di licenziare il
lavoratore senza preavviso – nei contratti a tempo indeterminato – o ante tempus – nei
contratti a termine. Con l’art. 2119 c.c. è evidente la preponderanza di tutela dell’interesse ad
interrompere liberamente il rapporto estinguendo il contratto unilateralmente, con un controllo
giudiziario del tutto eventuale e limitato al pagamento dell’indennità di preavviso o all’esistenza di
una giusta causa.
In questo sistema di grande favore per il datore di lavoro, l’interesse alla conservazione del posto di
lavoro non aveva ancora assunto alcuna rilevanza giuridica: arbitro assoluto era considerato
l’imprenditore, professionista dall’attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o servizi (art. 2082 c.c.).

3. La disciplina post-codicistica e la differenziazione tipologica dei licenziamenti


individuali e collettivi
Nel 1945 fu decretato un blocco dei licenziamenti che, fu poi eliminato dalla contrattazione
collettiva nel 1950 con la, predisposizione di una disciplina integrativa più specifica e ricca di
quella codicistica. Fu così che nacque la distinzione tra licenziamenti individuali e collettivi: i primi
da giustificare o indennizzare se privi di giustificazione, i secondi da sottoporre a procedure
negoziate con i sindacati.
Per queste regole sui licenziamenti non esistevano sanzioni temibili: il datore di lavoro che
occupava più di 80 dipendenti poteva essere condannato al massimo al pagamento di un’indennità
(cd. penale) compresa tra 5 e 8 mensilità (riducibile alla metà per le aziende che impiegavano da 36
a 80 dipendenti) o a un risarcimento difficilmente quantificabile.

4.1 La fine della libera recedibilità: la legge 604/1966


Dopo 24 anni dal codice civile, il legislatore, seppur timidamente, intervenne con la l. 604/1966.
I principi che reggono la nuova normativa sono assai più limitativi del potere imprenditoriale
di licenziare, dal momento che l’atto deve essere scritto a pena di nullità (art. 2) e deve basarsi
su uni giustificato motivo oggettivo o soggettivo (artt. 1 e 3), che, se non comunicato insieme al
licenziamento, va comunicato entro un breve termine su richiesta del lavoratore.

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L’art. 5 accolla poi al datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del
giustificato motivo oggettivo del licenziamento, sgravando in modo sensibile il lavoratore da un
onere processuale attribuitogli in ragione dell’antico adagio (ripreso dall’art. 2697 c.c.)
L’art. 4, sancisce la nullità dei licenziamenti determinati da ragioni di credo politico, fede
religiosa, appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali; tuttavia, in
queste ipotesi, l’onere della prova gravava sul lavoratore: una probatio diabolica quando il datore di
lavoro era in grado di addurre una qualsivoglia motivazione verosimile.
Tuttavia, l’art. 8 prevedeva ancora una tutela di tipo obbligatorio in caso di licenziamento non
inquadrabile negli estremi del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo,
comminando al datore di lavoro una sanzione alternativa tra la riassunzione del lavoratore entro il
termine di tre giorni o, in mancanza, il risarcimento del danno, versando un’indennità da un minimo
di 5 ad un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione.
Altro limite della legge 604/1966 era costituito dal campo di applicazione, limitato
ai datori di lavoro che occupano più di 35 dipendenti (art. 11), e con l’esclusione dei lavoratori non
in possesso della qualifica di impiegato o operaio (cioè dei lavoratori domestici e dei dirigenti), dei
lavoratori in prova e di quelli che abbiano maturato i requisiti pensionistici o che comunque abbiano
più di 65 anni (artt. 10 e 11).
La l. 604/1966 può essere considerata come una legge di adeguamento costituzionale: non era
infatti più accettabile che il contratto di lavoro subordinato fosse considerato liberamente
disponibile dall’imprenditore dinanzi ad una Costituzione che contiene norme a specifica tutela del
lavoro, e che tutela sì la libera iniziativa economica privata, purché non contrasti con l’utilità
sociale o rechi danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41 Cost.).
Con tutti i suoi limiti, la legge 604/1966 segna per la regolazione del licenziamento la fine
dell’epoca della libera recedibilità ed un passaggio ad un regime di diritto speciale.

4.2 Giusta causa e giustificato motivo di licenziamento


L’art. 2119 c.c. disciplina il licenziamento per giusta causa: si ha “giusta causa” quando il
lavoratore realizza dei comportamenti che, pur se non strettamente inerenti all’attività
lavorativa2, per la loro gravità, siano tali da incrinare in modo irreparabile la fiducia del
datore di lavoro, al punto da far ritenere pregiudizievole la prosecuzione anche provvisoria
del rapporto. In questi casi si è soliti parlare di «licenziamento in tronco», proprio perché, per la
gravità dei fatti, non è previsto il rispetto di un obbligo di preavviso da parte del datore di lavoro.
L’art. 3 l. 604/1966 disciplina invece il licenziamento per giustificato motivo. È necessario
innanzitutto distinguere tra “giustificato motivo oggettivo” e “giustificato motivo soggettivo”:
 si ha licenziamento per giustificato motivo oggettivo quando alla base del
licenziamento vi sono ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del
lavoro e al suo regolare funzionamento (es.: a causa dell’avversa congiuntura economica,
un imprenditore è costretto a licenziare uno o più dipendenti per ridurre la produzione);

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Per quanto questa possa sembrare in aperto contrasto con l’art. 8 Stat. Lav. – che vieta al datore di lavoro di effettuare
qualunque indagine su fatti che non rilevino ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore – questa
disposizione trova conforto proprio nell’art. 8 Stat. Lav., poiché valorizza qualunque situazione che renda il lavoratore
“professionalmente inidoneo” alla prosecuzione del rapporto, cioè all’esatto adempimento delle prestazioni di lavoro
future.

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 si ha licenziamento per giustificato motivo soggettivo quando alla base del
licenziamento vi sono ragioni che riguardano un notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali da parte del lavoratore (es.: lavoratore che abbandona ripetutamente
e senza motivo il posto di lavoro).

5. La svolta programmatica all’insegna dei limiti ai poteri datoriali: lo statuto


dei lavoratori
Quattro anni dopo la l. 604/1966 fa la sua comparsa la l. 300/1970, ossia, lo Statuto dei
Lavoratori.
Sin dall’inizio il disegno di legge prevede una tutela rafforzata dei rappresentanti sindacali
contro il licenziamento illegittimo, che consiste nella cd. tutela reale, cioè nella sostituzione della
sanzione alternativa (cd. tutela obbligatoria: riassunzione/pagamento dell’indennità) con quella
esclusiva della reintegrazione. Nel dibattito parlamentare la tutela reale viene poi estesa a tutti i
casi in cui il giudice con sentenza:
 dichiara inefficace il licenziamento intimato senza il rispetto della forma scritta, ai
sensi dell’art. 2 l. 604/1966 (art. 18 Stat. Lav.);
 annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo (art. 18 Stat.
Lav.);
 dichiara la nullità del licenziamento nei casi previsti dalla legge (art. 18 Stat. Lav.).

Tuttavia, la tutela apprestata dall’art. 18 Stat. Lav. resta significativamente limitata:

 a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di 15
dipendenti3 – o 5 nelle imprese agricole – (art. 18 Stat. Lav.);
 alle imprese industriali e commerciali che, nell'ambito dello stesso comune, occupano più di
15 dipendenti (art. 35 Stat. Lav.);
 alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di 5 dipendenti
anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti. (art.
35 Stat. Lav.).
L’obiettivo dello statuto era quello di limitare ancora di più il “potere datoriale” con scarsa
attenzione alla natura giuridica del licenziamento (atto di recesso da un contratto) e con la massima
aderenza possibile al contesto in cui si svolgono le relazioni di lavoro.
Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza [di reintegrazione] è tenuto a corrispondere al
lavoratore le retribuzioni dovutegli dalla data della sentenza stessa fino a quella della
reintegrazione.

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Ne nasce un bel pasticcio interpretativo, generato dalla coesistenza del campo dell’art. 8 l. 604/1966 – che prevedeva
una tutela di tipo obbligatorio in caso di licenziamento non inquadrabile negli estremi del licenziamento per giusta
causa o per giustificato motivo – e del campo di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav. – che invece prevedeva una tutela
reale nei casi di cui sopra –. Il contrasto fu risolto con due pronunce delle Sezioni Unite verso la fine degli anno ’80
avallando il cd. “parallelismo delle tutele”.

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6. Le tutele degli anni ‘90
Agli inizi degli anni ’90 l’ordinamento viene scosso da una nuova fase legislativa in materia di
licenziamenti.
La legge 108/1990 ha generalizzato il campo di applicazione della tutela obbligatoria – restano
esclusi solo domestici, dirigenti e lavoratori ultrasessantenni con i requisiti pensionistici (art. 4) – ed
ha esteso la tutela reale a tutti i casi di licenziamento discriminatorio e a tutti i datori di lavoro che
abbiano complessivamente più di 60 dipendenti, anche se occupati in unità produttive con meno di
15 dipendenti (art. 2). Inoltre, il lavoratore poteva ottenere, in alternativa alla reintegrazione,
un’indennità di15 mensilità aggiuntiva al risarcimento del danno (art. 18).
L’art. 4 della legge 125/1991 (oggi art. 40 l. 198/2006) ha invertito l’onere della prova in materia di
licenziamento, prevedendo per la prima volta la cd. prova statistica, in base alla quale se il
ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare in
termini precisi e concorrenti la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della
discriminazione.
La legge 223/1991 ha dato attuazione alle Direttive europee in materia di licenziamenti
collettivi (cioè quelli riguardanti almeno 5 lavoratori effettuati nell’arco di 120 giorni, basati su
riduzione o trasformazione dell’attività o del lavoro), regolandoli e procedimentalizzandoli,
riconoscendo ampio spazio al controllo sindacale e giudiziario.
Negli anni ’90 poi, la giurisprudenza prende atto dell’indirizzo politico del legislatore, volto ad
incrementare le tutele contro i licenziamenti contra legem e se ne fa cassa di risonanza. Questo
porta talvolta i giudici ad interpretazioni puntuali e rigorose, tanto da suscitare crescenti polemiche
verso una disciplina eccessivamente vincolistica, considerata spesso all’origine delle sempre
maggiori difficoltà nel promuovere l’occupazione.

7. Le contraddizioni del nuovo millennio


Il decennio che si era aperto con un referendum per estendere il campo di applicazione dell’art. 18
Stat. Lav. si chiude invece con un referendum di segno opposto, volto all’abrogazione proprio
dell’art. 18. Tale referendum, però, non raggiunge il quorum, e l’art. 18 non viene abrogato.
Sull’art. 18 il diritto sembra essere in balia della politica: un’aggressiva maggioranza di centro-
destra, capeggiata da Silvio Berlusconi (tornato al governo nel 2001), aveva infatti provato a
rialzare le bandiere del neo-liberismo, provando a mettere subito in cantiere una nuova riforma
dell’art. 18, questa volta meno diretta, incentrata piuttosto sull’introduzione nel nostro ordinamento
di un arbitrato di equità. L’operazione era però politicamente avventata e trovò l’esplicita
opposizione della CGIL, ma anche l’ostilità delle altre confederazioni sindacali.
Prende piede sempre in questi anni il disegno di incrementare la flessibilità in entrata. Benché l’art.
18 non venga toccato, questa riforma è molto insidiosa, perché in grado di modificare nel profondo
la condizione materiale dei lavoratori: la conservazione del posto di lavoro a vita non è un interesse
realisticamente tutelabile, e, comunque, deve cedere dinanzi all’interesse ad ottenere un qualsiasi
lavoro che sia fonte di un onesto reddito.
Nel 2003 si svolge un nuovo referendum abrogativo riguardante l’art. 18, promosso da
Rifondazione Comunista. Anche questa volta si rivela un fiasco politico.

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Le novità di maggior interesse emergono a livello europeo.
La Carta Sociale Europea, aggiornata nel 1996 e ratificata n Italia nel 1999, continua a prevedere
all’art. 24 che tutti i lavoratori hanno diritto:
 a non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini, alla loro
condotta o alle necessità di funzionamento dell’impresa;
 ad un congruo indennizzo o altra adeguata prestazione in caso di licenziamento senza
motivo;
 a ricorrere contro un licenziamento senza valido dinanzi ad un organo imparziale.
L’art 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 2000 (cd. Carta di
Nizza) stabilisce che ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento
ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.
Vengono poi approvate le Direttive europee cd. di seconda generazione sui divieti di
discriminazione, in virtù delle quali nei rapporti di lavoro deve essere garantita l’assenza di
qualsiasi discriminazione diretta o indiretta dovuta, non solo al sesso, ma anche alla razza e
all’origine etnica, all’età, alle tendenze sessuali, alla disabilità, alle convinzioni personali.

8. Gli effetti della flexicurity sulla disciplina dei licenziamenti: la l. 183/2010 (cd.
collegato lavoro) e l’art. 8 d.l. 138/2011
Sempre più forte si avverte la pressione delle politiche di flessibilizzazione delle regole, alimentate
dal riferimento alle politiche di flexicurity formulate dall’Unione Europea a partire dal 2006/2007,
finalizzate più a convincere le imprese ad aumentare l’occupazione, a prescindere dalla sua qualità,
che a razionalizzare la disciplina dell’istituto.
Tra le novità introdotte dalla legge 183/2010 (cd. collegato lavoro) vi è innanzitutto un vincolo per
il giudice di “tenere contro” della contrattazione collettiva nel definire le nozioni di giusta causa e
giustificato motivo (art. 30). Si tratta di un chiaro tentativo di condizionare i poteri della
magistratura ordinaria, che, però, lascia il tempo che trova.
La seconda novità riguarda la clausola compromissoria, prevista dall’art. 31: con
questa norma si consente alle parti del contratto la possibilità di devolvere le controversie che
dovessero eventualmente insorgere tra esse ad arbitrati e secondo equità. È abbastanza
evidente l’intenzione del legislatore di far diventare l’autonomia individuale il canale per far
transitare la disciplina del licenziamento dall’universo della norma inderogabile a quello della
regolamentazione affidata all’equità arbitrale. Sui rischi di questo brusco passaggio intervenne,
durante la gestazione della legge, il Presidente della Repubblica, che, con un messaggio alle
Camere, spiegò le ragioni costituzionali che impedivano di promulgare la legge 183/2010 nella
versione maturata fino a quel momento. Frutto di quel messaggio sono alcune importanti
limitazioni all’adozione della clausola compromissoria contenute nel testo finale dell’art. 30 l.
183/2010: in tal modo si è inteso, seppur con formula assai ambigua, escludere la disciplina del
licenziamento dalla giurisdizione arbitrale di equità.
L’art. 8 d.l. 138/2011, convertito con l. 148/2011, ha introdotto i “contratti di prossimità”; nel
suo comma 2 l’art. 8 d.l. 138/2011 elenca le materie che possono essere oggetto di intese
sindacali efficaci erga omnes, tra le quali troviamo le conseguenze del recesso dal rapporto di
lavoro (fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in
concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice in gravidanza, il licenziamento
causato dalla domanda o dalla fruizione di un congedo parentale per la malattia del bambino o in

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caso di adozione o affidamento).
È abbastanza evidente l’intento del legislatore di favorire la derogabilità delle norme per i
licenziamenti illegittimi, escludendo solo alcuni licenziamenti particolarmente lesivi della dignità
della persona del lavoratore, o della lavoratrice, o dei figli a qualsiasi titolo danneggiati dalla perdita
del lavoro da parte dei genitori. Si mirava alla realizzazione di accordi aziendali o territoriali che
contenessero una disciplina specifica e limitata del licenziamento. Evidente è rischio di violazione
dell’art. 117 Cost., che riserva alla potestà esclusiva dello Stato la disciplina dell’ordinamento civile
e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti sul territorio nazionale. La norma, seppur diretta a stabilire confini con la potestà
legislativa regionale, può ben riferirsi anche alla contrattazione collettiva.

9. Il regime vigente prima della riforma Fornero (l. 92/2012)


Per le imprese medio-grandi che, ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav., occupano alle proprie dipendenze
più di 15 prestatori di lavoro – o più di 5 se trattasi di imprenditore agricolo – in ciascuna sede,
stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento:

VIZI TUTELA APPLICABILE FONTE DELLA TUTELA


Licenziamento nullo: determinato da Tutela reale: Art. 18 Stat. Lav. (come modificato dalla
ragioni di credo politico, fede religiosa, legge 108/1990)
appartenenza ad un sindacato e dalla a) reintegra del lavoratore (continua
partecipazione ad attività sindacali (art. 4 il precedente rapporto di lavoro);
l. 604/1966) b) risarcimento del danno (non
inferiore a 5 mensilità);
Licenziamento annullabile: intimato c) contributi.
senza giusta causa o giustificato motivo
(art. 18 Stat. Lav.)
Diritto di opzione: il lavoratore ha la
Licenziamento inefficace: intimato in possibilità di rifiutare la reintegra e di
mancanza di forma scritta (art. 2 l. chiedere in alternativa il pagamento di
604/1966) un’indennità pari a 15 mensilità.

Per le piccole imprese che non rientrano nei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 Stat. Lav.:

VIZI TUTELA APPLICABILE FONTE DELLA TUTELA


Licenziamento nullo: determinato da Tutela reale: Art. 3 l. 108/1990
ragioni di credo politico, fede religiosa,
appartenenza ad un sindacato e dalla  reintegra del lavoratore (continua Artt. 15 e 18 Stat. Lav.
partecipazione ad attività sindacali (art. 4 il precedente rapporto di lavoro);
Art. 4 l. 604/1966
l. 604/1966)  risarcimento del danno (non
inferiore a 5 mensilità) (ex art. 18
Stat. Lav.).
Licenziamento annullabile: intimato Tutela obbligatoria alternativa (a scelta Art. 8 l. 604/1966 (come sostituito
senza giusta causa o giustificato motivo del datore di lavoro): dall’art. 2 comma 3 l. 108/1990)
(art. 18 Stat. Lav.)
a) riassunzione del lavoratore (inizio
di un nuovo rapporto di lavoro);
b) indennità: (tra 2,5 e 6 mensilità).
Licenziamento inefficace: intimato in È in corso un dibattito dottrinale e Art. 2 l. 604/1966 (come sostituito
forma non scritta (art. 2 l. 604/1966) giurisprudenziale sulla tutela da applicare dall’art. 2 comma 2 l. 108/1990)
(obbligatoria o reale)

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SEZ. II: I LICENZIAMENTI INDIVIDUALI E COLLETTIVI OGGI

1. Le riforme del 2012 e del 2014/2015


Ciò che ha portato alle riforme del 2012 e del 2014/2015 è stata innanzitutto una reviviscenza di
una visione complessiva liberista, nella quale i diritti dei lavoratori e dei sindacati (addirittura lo
Statuto dei Lavoratori nel suo insieme) sono visti come un ostacolo al pieno svolgimento della
positiva funzione dell’imprenditore, “creatore di occupazione”.
Tale visione condurrebbe verso il pieno recupero dell’originaria impostazione del Codice Civile del
1942, e, in ogni caso, al superamento della tutela reale garantita dall’art. 18 Stat. Lav.. Tuttavia,
troppa acqua è passata sotto i ponti per recuperare tout-court l’impianto codicistico.
Le recenti riforme si sono ispirate al “modello americano” – per l’approccio che tiene fortemente
conto dell’analisi economica del diritto – e al “modello tedesco” – nel quale la scelta tra rimedi
reintegratori e rimedi risarcitori è rimessa al giudice, che può tener conto di molti elementi prima di
scegliere tra l’una e l’altra –.
La suggestione del “modello tedesco”, oltre alla maggior contiguità geo-culturale, sta nel fatto che,
se la riforma dell’art. 18 deve in qualche modo incontrare il gradimento dell’Europa che conta, la
scelta del “modello tedesco” può apparire un approdo del tutto accettabile.
Il risultato è una riforma priva di organicità, che, invece di sistemare, complica e frammenta il
preesistente quadro normativo, ampliando notevolmente sia il ruolo del giudice nell’interpretare ed
applicare le nuove regole in materia (almeno in relazione all’art. 18 così come riformulato dalla
legge Fornero, perché in direzione molto diversa va invece il legislatore con il nuovo contratto
previsto dal d.lgs. 23/2015), sia ampliando la libertà di licenziare.

2.1 La disciplina dei licenziamenti dopo la legge 92/2012 (cd. riforma Fornero)
L’interpretazione della disciplina dei licenziamenti dopo la l. 92/2012 si presenta di particolare
complessità, a partire dalla ricostruzione sistematica.
L’obiettivo dichiarato dal legislatore era l’adeguamento alle esigenze del mutato contesto di
riferimento della disciplina del licenziamento, con previsione di un procedimento giudiziario
specifico per accelerare la definizione delle relative controversie. Tale obiettivo viene però
enunciato in modo piuttosto generico e lascia molto campo alla ricostruzione della ratio legis, che
può esplicitarsi attraverso diversi percorsi legislativi, lasciati anche al contributo dell’interprete.
Le idee inizialmente avanzate di seguire una logica binaria – basata sulla distinzione tra
licenziamento per ragioni inerenti alla persona e licenziamento per ragioni economiche – sulla quale
modellare tutele, procedimenti e sanzioni, risulta del tutto tramontata nel testo finale.
Prima di addentrarci nella riforma è opportuno ricordare i vari tipo di licenziamento previsti
dalla precedente normativa:
 licenziamento per giusta causa senza preavviso, detto anche licenziamento “in tronco” (art.
2119 c.c.);
 licenziamento per giustificato motivo soggettivo (art, 3 l. 604/1966);
 licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art, 3 l. 604/1966);
 licenziamento disciplinare (art. 7 comma 4 Stat. Lav.);
 licenziamento collettivo per riduzione del personale (l. 223/1991).

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L’atto di licenziamento può presentare diverse irregolarità o vizi: vizi formali, procedurali o
sostanziali. È a tal riguardo che la riforma Fornero ha previsto una disciplina molto articolata,
prevedendo varie specifiche ipotesi di nullità, annullabilità o inefficacia del licenziamento.
Qualora invece il licenziamento risulti ineccepibile da ogni punto di vista, esso
risulterà senz’altro valido ed efficace: l’efficacia è immediata se si tratta di licenziamento per giusta
causa, mentre è subordinata allo scadere del termine di preavviso negli altri casi.

2.2 I licenziamenti viziati: nulli o annullabili per ragioni particolarmente gravi


(art. 18 comma 1, 4 e 7); inefficaci o annullabili per ragioni meno gravi (art. 18
commi 5, 6 e 7)
Ai sensi dell’art. 18 comma 1 l. 92/2012, il vizio del licenziamento è così grave da indurre a
considerare l’atto esplicitamente nullo nei seguenti casi:
 licenziamento discriminatorio per contrasto con l’art. 3 l. 108/1990;
 licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio o in violazione dei divieti
previsti dal Testo Unico sui congedi parentali;
 licenziamento dovuto a motivo illecito dominante ex art. 1345 c.c.;
 licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge, tra i quali va
ricompresa la carenza di forma scritta ex art. 2 l. 604/1966;
 licenziamento collettivo per riduzione di personale viziato per ragioni di forma (art. 5 l.
229/1991, come novellato dalla stessa l. 92/2012).

Ai sensi dell’art. 18 commi 4 e 7 l. 92/2012, il vizio del licenziamento è abbastanza grave da


indurre a considerare l’atto annullabile nei seguenti casi:
 licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa per
insussistenza del fatto (art. 18 comma 4);
 licenziamento per giustificato motivo oggettivo annullabile dal giudice (che può anche
predisporre la reintegra del lavoratore) per manifesta insussistenza del fatto o per
mancanza di giustificazione (art. 18 comma 4 e 7);
 licenziamento in violazione dell’art. 2210 comma 2 (rubricato: disciplina del TFR)
(art. 18 comma 7);
 licenziamento collettivo per riduzione di personale viziato per violazione dei criteri di
scelta (art. 5 l. 229/1991, come novellato dalla stessa l. 92/2012).

Ai sensi dell’art. 18 commi 5, 6 e 7 l. 92/2012, il vizio del licenziamento è tale da indurre a


considerare l’atto inefficace nei seguenti casi:
 licenziamento per violazione del requisito do motivazione, cioè formalmente immotivato
(art. 18 comma 6);
 licenziamento disciplinare per violazione della procedura ex art. 7 Stat. Lav. (art. 18
comma 6);
 licenziamento per giustificato motivo oggettivo per violazione della procedura di
conciliazione ex art. 7 l. 604/1966 (art. 18 comma 6);
 licenziamento non inquadrabile negli estremi del licenziamento per giusta causa o per
giustificato motivo ex art. 8 l. 604/1966
 licenziamento collettivo per riduzione di personale viziato per ragioni procedurali
(art. 5 l. 229/1991, come novellato dalla stessa l. 92/2012).

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2.3 Conseguenze della riforma: il problema della qualificazione del
licenziamento
L’articolata disciplina per i vari vizi che possono presentare i licenziamenti introdotta dalla
l. 92/2012 non può non avere innanzitutto ripercussioni sulla iniziale qualificazione del
licenziamento. A tal riguardo è chiaro che sarà il datore di lavoro a scegliere il tipo di licenziamento
da intimare (magari anche in palese violazione della legge, prevedendo di ricevere la sanzione
“minore”).
È comunque compito del giudice qualificare il licenziamento, determinandone la disciplina
conseguente; e in presenza dell’ampia tipologia rinvenibile dopo la l. 92/2012 questa operazione
risulta particolarmente delicata e complessa, anche in considerazione della diversità delle tutele
garantite. Fermo restando che l’iniziale qualificazione non esclude che nel corso dell’eventuale
processo emergano elementi per una diversa qualificazione, l’esistenza di una tipologia così ricca e
variegata comporta necessariamente l’ulteriore problema di chiarire con esattezza i confini
concettuali tra l’una e l’altra tipologia: questa operazione intellettuale, già di per se difficile, viene
resa ancora più complessa dalla consapevolezza dei rilevanti interessi in gioco nello spostare in
concreto “un” licenziamento da una “casella” all’altra.

2.4 La molteplicità dei regimi sanzionatori


In questo scenario, di particolare rilevanza è la questione dei regimi sanzionatori individuati dalla
l. 92/2012:
1. tutela obbligatoria tradizionale: offre al lavoratore la possibilità (cd. diritto di opzione)
di scegliere tra la riassunzione, o, in alternativa, il pagamento di una penale compresa tra
2,5 e 6 mensilità; riguarda solo i datori di lavoro che occupano fino a 15 lavoratori nella
singola unità produttiva o 60 nel complesso;
2. tutela obbligatoria debole, che prevede solo un indennizzo che va da 6 a 12 mensilità;
3. tutela obbligatoria piena, che prevede solo un indennizzo che va da 12 a 24 mensilità;
4. tutela reintegratoria debole, che prevede la reintegra e il risarcimento del danno fissato
nel limite massimo di 12 mensilità (in alcuni casi è rimessa all’apprezzamento del giudice);
5. tutela reintegratoria piena, che prevede la reintegra e il risarcimento del danno con un
limite minimo di 5 mensilità e senza limite massimo.

Tra i diversi regimi sanzionatori c’è dunque notevole disomogeneità. Tutti, inoltre, lasciano un certo
ambito di apprezzamento al giudice, il che rende la disciplina ancora più incerta.
Non c’è dubbio le imprese (medio-grandi) si orienteranno sul tipo di licenziamento più blandamente
sanzionato, cioè quello assistito dalla tutela obbligatoria ordinaria.

3. La molteplicità dei regimi probatori


La l. 92/2012 non sembra incidere direttamente sulla disciplina degli oneri probatori, che
rimangono tre:
 regola generale ex art. 2697 c.c.;
 inversione dell’onere della prova ex art. 5 l. 604/1966;
 prova presuntiva statistica per il licenziamento discriminatorio.

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4. Termini di decadenza per l’impugnazione e la revoca
Il lavoratore può impugnare il licenziamento, anche in via stragiudiziale, entro 60 giorni da quando
riceve comunicazione dello stesso, o, se non contestuale, dei motivi; in base alla novella della
l. 92/2012, il lavoratore ha a disposizione ulteriori 180 giorni dall’impugnazione del licenziamento
per presentare ricorso al giudice o comunicare la richiesta di conciliazione ed arbitrato.
Un aspetto che viene per la prima volta regolato dalla l. 92/2012 è la revoca del licenziamento, di
cui si occupa il nuovo art. 18 comma 10 Stat. Lav.: si riconosce al datore di lavoro una sorta di
diritto al ripensamento in ordine alla decisione di licenziare, da esercitarsi entro 15 giorni dalla
comunicazione dell’impugnazione del licenziamento.
La norma sulla revoca è chiaramente diretta ad evitare alcune spiacevoli conseguenze (per
l’imprenditore). In passato, infatti, la giurisprudenza, in applicazione dei principi civilistici, riteneva
comunque risolto il rapporto di lavoro tra l’imprenditore che avesse licenziato il proprio dipendente
e avesse poi successivamente annullato il licenziamento: conseguenza di ciò era il diritto del
lavoratore a ottenere la reintegra e il risarcimento dei danni nella misura minima di 5 mensilità, o, in
alternativa alla reintegra, un’indennità pari a 15 mensilità.
Questa norma di tutela dell’interesse dell’impresa allontana ancora di più il licenziamento dalla
disciplina ordinaria degli atti negoziali, consentendone, seppur temporaneamente, la revoca
unilaterale, che è un istituto di diritto amministrativo.

5. I licenziamenti collettivi
I licenziamenti collettivi per riduzione di personale costituiscono ormai una fattispecie a se stante,
con una specifica disciplina legale diretta a realizzare un diverso bilanciamento tra la tutela
dell’occupazione come bene collettivo e la libertà dell’imprenditore di ridimensionare il proprio
organico.
Si parla di licenziamento collettivo quando:
 i lavoratori da licenziare siano almeno 5 (in un’unica unità produttiva o anche in varie se
situate nella medesima provincia) in un lasso di tempo di 120 giorni;
 il licenziamento sia conseguenza di una medesima riduzione o trasformazione dell’attività di
lavoro oppure della cessazione della stessa.

In caso di licenziamento collettivo il datore di lavoro è tenuto ad osservare una serie di obblighi
procedurali e sostanziali, anche se la decisione di licenziare sia assunta da un’impresa che controlla
il datore di lavoro (artt. 4 e 24 l. 223/1991). I medesimo obblighi devono esser osservati anche dalle
imprese che siano state ammesse al trattamento di integrazione salariale qualora queste ritengano di
non essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori e di non poter ricorrere a misure
alternative (art. 4 l. 223/1991). Fino al 1° gennaio 2017 questa variante può continuare ad essere
denominata “licenziamento collettivo per messa in mobilità”; a partire dalla stessa data, però,
verranno meno le liste di mobilità che nel sistema della l.223/1991 dovevano servire a garantire la
rioccupazione dei lavoratori, a seguito dell’abrogazione prevista dalla l. 92/2012. Non esisterà più,
quindi, la differenza tra “licenziamento collettivo per messa in mobilità” e “licenziamento collettivo
per riduzione di personale”; l’unica differenza è il ricorso alla cassa integrazione guadagni
straordinaria in caso (che si aveva in caso di “licenziamento collettivo per messa in mobilità”).
Quando si è in presenza di un licenziamento collettivo il legislatore, sulla falsariga della
normativa di matrice europea, ritiene che vi debba essere un doppio controllo sulla decisione

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datoriale, prima ad opera dei sindacati, poi, se non si raggiunge un accordo, ad opera di
organi amministrativi.
Prima della riforma, per l’avvio della procedura il datore di lavoro deve versare all’INPS una
somma pari a sei volte il trattamento mensile di mobilità dovuto per ciascun lavoratore, somma
riducibile alla metà in caso di raggiungimento dell’accordo sindacale. Dopo la riforma, per l’avvio
della procedura il datore di lavoro deve versare all’INPS una somma pari alla metà del il
trattamento mensile di NASPI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli untimi 3 anni; questa
somma viene triplicata in caso di mancato accordo con i sindacati (art. 2 l. 92/2012).
La procedura per il controllo sindacale è incentrata sull’obbligo dell’impresa di comunicare
per iscritto una serie di informazioni finalizzata a consentire una verifica globale su
motivazioni, quantità e qualità dei lavoratori coinvolti, sui tempi della riduzione di personale e sulle
misure previste per contenere le conseguenze sociali ad una serie di soggetti istituzionali, tra cui:
 RSA, RSU e/o sindacati di categoria extraaziendali cui afferiscono le RSA;
 sindacati di categoria aderenti alle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative
(in mancanza di rappresentanze in azienda).

All’accordo si può giungere durante l’esame congiunto eventualmente richiesto dalle


rappresentanze sindacali entro 7 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione. Tale esame
deve intervenire al massimo entro 45 giorni (entro 22 se sono coinvolti 9 o meno lavoratori).
L’eventuale accordo deve riguardare tutte le misure utilizzabili per evitare o contenere i
licenziamenti, anche ricorrendo a misure di flessibilità interna; l’accordo può sanare anche i
vizi della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento (art. 4 l. 223/1991 come
novellato dalla l. 92/2012) e prevedere i criteri per l’individuazione dei lavoratori da licenziare,
nei limiti previsti dall’art. 5 l. 223/1991.
Nel caso in cui non si raggiunga un’intesa, le parti vengono convocate dal direttore
provinciale del lavoro, per un ulteriore tentativo di raggiungere l’accordo, che deve esaurirsi
entro 30 giorni (15 giorni se coinvolti 9 o meno lavoratori).
Che vi sia o no l’accordo, al termine della procedura l’impresa ha la facoltà di
licenziare, dandone comunicazione nel rispetto del termine di preavviso (art. 4 l. 223/1991).
Il licenziamento intimato in violazione di criteri di scelta dei lavoratori da licenziare è
annullabile e sanzionato con la tutela reintegratoria debole (art. 5 l. 223/1991 come novellato
dalla l. 92/2012 e art. 18 comma 4 Stat. Lav.).
Il licenziamento intimato senza il rispetto della forma scritta è nullo e sanzionato
con la tutela reintegratoria piena (art 18 commi 1 e 3).
Il licenziamento intimato in violazione degli obblighi procedurali di
informazione e consultazione è inefficace e sanzionato con la tutela obbligatoria piena (art 18
commi 5 e 7).

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6. Il regime vigente dopo la riforma Fornero
Per le imprese medio-grandi:

VIZI TUTELA APPLICABILE FONTE DELLA TUTELA


Licenziamento nullo: Tutela reintegratoria piena: Art. 18 commi 1, 2 e 3 Stat. Lav.
 discriminatorio a) reintegra del lavoratore
 intimato in concomitanza di (continua il precedente rapporto
matrimonio di lavoro);
 comminato in violazione delle b) risarcimento del danno (non
disposizioni in materia di inferiore a 5 mensilità, senza
tutela della maternità e limite massimo);
paternità c) contributi.
 determinato da motivo illecito
 altre ipotesi di licenziamento Diritto di opzione: il lavoratore ha la
nullo previsto dalla legge possibilità di rifiutare la reintegra e di
 intimato senza il rispetto della chiedere in alternativa il pagamento di
forma scritta un’indennità pari a 15 mensilità.
Licenziamento annullabile: Tutela reintegratoria debole: Art. 18 commi 4 e 7 Stat. Lav.
 perché il giudice accerta che a) reintegra del lavoratore
non ricorrono gli estremi del (continua il precedente rapporto
giustificato motivo soggettivo di lavoro);
o della giusta causa, ovvero b) risarcimento del danno
per insussistenza del fatto (massimo 12 mensilità);
contestato c) contributi.
 quando tale sanzione è
esplicitamente prevista dai Diritto di opzione: il lavoratore ha la
contratti collettivi o dai codici possibilità di rifiutare la reintegra e di
disciplinari applicabili chiedere in alternativa il pagamento di
 intimato in violazione dell’art. un’indennità pari a 15 mensilità.
2110 comma 2 c.c.
 intimato per giustificato
motivo oggettivo consistente
nella inidoneità psico-fisica
del lavoratore, ovvero per
mancanza di giustificazione
Altre ipotesi di licenziamento Tutela obbligatoria piena: Art. 18 commi 5 e 7 Stat. Lav.
annullabile in cui non ricorrano gli
indennità risarcitoria omnicomprensiva
estremi della giusta causa o del
(tra 12 e 24 mensilità) in relazione a
giustificato motivo oggettivo o
vari parametri:
soggettivo
 anzianità dl lavoratore;
 numero dei dipendenti occupati;
 dimensioni dell’attività
economica;
 comportamento e condizioni
delle parti durante il processo
nel caso di giustificato motivo
oggettivo il giudice valuterà anche:
 le iniziative assunte dal
lavoratore per la ricerca di una
nuova occupazione
 il comportamento delle parti
durante la procedura di
conciliazione di cui all’art. 7 l.

13
604/1966

Licenziamento inefficace: Tutela obbligatoria debole: Art. 18 comma 6 Stat. Lav.


 in violazione del requisito di indennità risarcitoria omnicomprensiva
motivazione di cui all’art. 2 (tra 6 e 12 mensilità) in base alla gravità
comma 2 l. 604/1966 della violazione formale o procedurale
 in violazione dell’art. 7 l.
604/1966
 in violazione dell’art. 7 Stat.
Lav.

Per le piccole imprese:

VIZI TUTELA APPLICABILE FONTE DELLA TUTELA


Licenziamento nullo: Tutela reintegratoria piena: Art. 18 commi 1, 2 e 3 Stat. Lav.
 discriminatorio a) reintegra del lavoratore
 intimato in concomitanza di (continua il precedente rapporto
matrimonio di lavoro);
 comminato in violazione delle b) risarcimento del danno (non
disposizioni in materia di inferiore a 5 mensilità, senza
tutela della maternità e limite massimo);
paternità c) contributi.
 determinato da motivo illecito
 altre ipotesi di licenziamento Diritto di opzione: il lavoratore ha la
nullo previsto dalla legge possibilità di rifiutare la reintegra e di
 intimato senza il rispetto della chiedere in alternativa il pagamento di
forma scritta un’indennità pari a 15 mensilità.
Licenziamento annullabile: Tutela obbligatoria alternativa (a Art. 8 l. 604/1966 (come sostituito
scelta del datore di lavoro): dall’art. 2 comma 3 l. 108/1990)
 perché il giudice accerta che
non ricorrono gli estremi del a) riassunzione del lavoratore
giustificato motivo soggettivo (inizio di un nuovo rapporto di
N.B.: l’art 18 comma 8 Stat. Lav.
o della giusta causa, ovvero lavoro);
sancisce l’applicabilità dei commi 4-7
per insussistenza del fatto b) indennità: (tra 2,5 e 6 mensilità).
alle imprese medio- grandi, lasciando
contestato
intendere che i commi 1-3 trovano
 quando tale sanzione è applicazione generalizzata
esplicitamente prevista dai
contratti collettivi o dai codici
disciplinari applicabili
 intimato in violazione dell’art.
2110 comma 2 c.c.
 intimato per giustificato
motivo oggettivo consistente
nella inidoneità psico-fisica
del lavoratore, ovvero per
mancanza di giustificazione
Altre ipotesi di licenziamento
annullabile in cui non ricorrano gli
estremi della giusta causa o del
giustificato motivo oggettivo o
soggettivo
Licenziamento inefficace: Tutela obbligatoria alternativa (a Art. 8 l. 604/1966 (come sostituito
scelta del datore di lavoro): dall’art. 2 comma 3 l. 108/1990)
 in violazione del requisito di
motivazione di cui all’art. 2 a) riassunzione del lavoratore (forse?)
comma 2 l. 604/1966 (inizio di un nuovo rapporto
 in violazione dell’art. 7 l. di lavoro);

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604/1966 indennità: (tra 2,5 e 6 mensilità).
 in violazione dell’art. 7 Stat.
(forse?)
Lav.

7. La riforma Renzi: il d.lgs. 23/2015 (cd. Jobs act)


L’art. 1 comma 7 della legge 183/2014 delega il Governo a prevedere, esclusivamente per le
nuove assunzioni (cioè quelle effettuate dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto di
attuazione), una diversa disciplina delle sanzioni previste per i licenziamenti illegittimi.
Così, il quadro regolativo formatosi in seguito alla riforma Fornero viene sensibilmente modificato
dal d.lgs. 23/2015 (cd. Jobs act), uno dei primi decreti attuativi della legge delega 183/2014.
La delega imponeva di caratterizzare i nuovi contratti di assunzione a tempo indeterminato
come contratti a tutele crescenti: ciò significa che – fatta eccezione per i licenziamenti nulli,
discriminatori e disciplinari – in tali contratti l’illegittimità del licenziamento non può mai
comportare la reintegrazione, ma soltanto un indennizzo economico certo e crescente con
l’anzianità.
Il d.lgs. 23/2015 attua abbastanza puntualmente la delega, dettando una articolata disciplina speciale
dei licenziamenti per il contratto a tutele crescenti.
Innanzitutto viene radicalmente esclusa la possibilità della reintegrazione sia per i
licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (intimati ex art. 3 l. 604/1966), sia per i
licenziamenti collettivi (intimati ex art. 4 e 24 l. 223/1991). La delega richiede effettivamente la
totale eliminazione della reintegrazione dai licenziamenti “economici”, ma nel procedimento di
approvazione della normativa delegata non vi è stata affatto unanimità nel ritenere tali anche quelli
collettivi. Il Governo ha alla fine escluso, limitatamente ai dipendenti assunti con contratto a tutele
crescenti, che la reintegra possa applicarsi ai licenziamenti per riduzione di personale intimati in
violazione sia delle procedure previste dalla legge, sia dei criteri di scelta dei lavoratori da
licenziare indicati dalla legge o dagli accordi sindacali.
L’art. 2 d.lgs. 23/2015 ribadisce poi che anche nel contratto a tutele crescenti si può avere la
tutela reintegratoria piena per i licenziamenti nulli o discriminatori, modificando solo
lievemente l’art. 18 Stat. Lav. per quanto concerne le modalità di individuazione dei fattori di
discriminazione e dei motivi di nullità. La tutela reintegratoria piena viene estesa all’ipotesi in
cui il giudice accerta il difetto di giustificazione del motivo consistente nella disabilità psico-
fisica del lavoratore.
Gli artt. 3 e 4 d.lgs. 23/2015 delineano poi vere e proprie “tutele crescenti”, che si realizzano
attraverso particolari modalità di calcolo dell’indennità cui ha diritto il lavoratore che venga
licenziato con atto affetto da vizi formali o sostanziali diversi dalla discriminazione e che non
determinano comunque la nullità dell’atto stesso per contrarietà a norme di legge: se, entro gli
stringenti termini previsti, tali licenziamenti vengono impugnati dal lavoratore dinanzi al
giudice e questi ne accerti l’illegittimità, il giudice non può paralizzarne l’efficacia estintiva,
ma deve condannare il datore di lavoro a pagare 1-2 mensilità per ogni anno di servizio del
lavoratore, a partire da un minimo di 2-4 mensilità fino ad un massimo di 12-24 mensilità.
L’alternativa 1-2, 2-4, 12-24 mensilità è correlata al vizio: il valore più basso (1-2-12) riguarda
i licenziamenti con vizi formali o procedurali (es.: licenziamento privo di motivazione o intimato
senza il rispetto della procedura prevista dall’art. 7 Stat. Lav.); il valore più alto (2-4-24) riguarda
i licenziamenti carenti degli estremi del giustificato motivo oggettivo o della giusta causa (art. 3
d.lgs. 23/2015). In ogni caso, al giudice non è più lasciata alcuna discrezionalità; ciò significa che il

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lavoratore assunto con contratto a tutele crescenti può arrivare al massimo della sanzione solo dopo
12 anni di servizio.
L’art. 6 d.lgs. 23/2015 prevede la possibilità, per il datore lavoro che voglia evitare il giudizio,
di formulare una “offerta di conciliazione”, che consiste nel corrispondere subito al lavoratore
una mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità (con un minimo di 2 e un massimo di
18) non assoggettata ad alcun onere fiscale o contributivo. Si parla a riguardo di “conciliazione
espressa”, perché rapida.
Il d.lgs. 23/2015, in osservanza della delega, mantiene però anche una forma di reintegrazione
debole: secondo l’art. 3 comma 2, infatti, il lavoratore che dimostra direttamente in giudizio
l’insussistenza del fatto materiale contestato (licenziamento nullo) il lavoratore ha diritto alla
reintegra e al risarcimento del danno entro il massimo di 12 mensilità. Vi è dunque un sensibile
aggravamento dell’onere probatorio per il lavoratore.
Resta il dubbio che su questo punto il d.lgs. 23/2015 violi la legge delega, sia perché la l. 184/2014
non ha conferito delega al Governo per intervenire sulla ripartizione dell’onere della prova tra le
parti, sia perché l’ipotesi delineata dall’art. 3 d.lgs. 23/2015 riprende restrittivamente la
formulazione dell’art. 18 comma 4 Stat. Lav. nella versione del 2012, ma non vale ad individuare
specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato (in quanto tutti i licenziamenti
disciplinari possono basarsi su “fatti materiali” insussistenti).

8. Effetti sul lavoro pubblico


A seguito della cd. privatizzazione per i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni trovava
sempre applicazione la tutela reintegratoria piena, anche per i dirigenti.
L’art. 1 commi 7 e 8 l. 92/2012 ha dettato una disciplina poco chiara in ordine all’applicabilità alle
pubbliche amministrazioni dell’art. 18 Stat. Lav. riformato, prevedendo da un lato che le
disposizioni della riforma costituiscano principi e criteri per la regolazione dei rapporti con le
pubbliche amministrazioni, dall’altro, che le nuove disposizioni vanno applicate individuando e
definendo appositi ambito, modalità e tempi di armonizzazione delle medesime disposizioni
mediante iniziative normative. Tali specifiche iniziative normative ancora mancano, e questa
carenza è stata colmata da un ricco e acceso dibattito dottrinale sul mantenimento in vigore del
“vecchio” art. 18 Stat. Lav. per il lavoro pubblico, seguito da una giurisprudenza di merito in
prevalenza orientata a ritenere immediatamente applicabile la nuova disciplina.
Sembra, dunque, che la formula utilizzata da legislatore del 2012 sia da interpretare nel senso di
riservare la scelta di mantenere in materia una disciplina unitaria tra pubblico e privato a precise
opzioni di politica del diritto (non ancora maturate all’epoca), anche a costo di incrementare ka
segmentazione delle tutele.
Questa prudenza sembra confermata anche dalla riforma Renzi (d.lgs. 23/2015), che non si esprime
esplicitamente sull’applicabilità della disciplina del contratto a tutele crescenti nel settore pubblico.

16
9. Il regime vigente dopo la riforma Renzi (d.lgs. 23/2015)

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18
10. La disciplina dei licenziamenti collettivi: sintesi

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