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2003
003
Il potenziale
Espressioni come «tirare fuori il meglio da una persona» e «le vostre
potenzialità nascoste» implicano che all’interno dell’individuo esistano
capacità che attendono essere liberate. Se un manager o un
soltanto di
coach non sono loro stessi convinti per primi che le persone possiedono
molte più capacità di quelle che esprimono normalmente, allora non
riusciranno mai ad aiutarle a liberare le loro potenzialità nascoste. Si
deve guardare alle persone in termini di polenzialità, non di
performance. Ed è proprio per questo motivo che molti sistemi di
valutazione fanno acqua da tutte le parti. Alle persone si richiede di
dare il meglio di sé costringendole però entro schemi e regole rigidi da
cui hanno difficoltà a svincolarsi. impedite tanto dagli atteggiamenti dei
capi quanto dai loro stessi freni inibitori.
Per far venire a galla il meglio dalle persone dobbiamo convincerci che
esse sono in grado di esprimerlo: ma come
essere certi che
possiamo
esse davvero possiedano delle potenzialità nascoste? E come valutarne
l’entità? Come farle emergere? Personalmente sono persuaso che tutti
hanno in sé la possibilità di superarsi. e non in virtù di una qualche
inconfutabile prova scientifica in mio possesso, ma semplicemente
perché anche a me, all’epoca lo sport
in come cui praticavo
professionista è capitato di a risorse che non
riuscire ad attingere
sapevo neppure di possedere e perché ho potuto osservare direttamente
come tutti sappiano andare ben oltre le proprie e altrui aspettative
allorché si trovano a dover affrontare un momento fortemente critico.
Quando vi è costretta, la gente normale proprio come me e voi — riesce
a fare cose strepitose. Chi di noi, per esempio, non tirerebbe fuori una
forza e un coraggio sovrumani per salvare il proprio figlio ?
Le capacità sono latenti e il momento critico funge da catalizzatore. Ma
una crisi è davvero l’unico catalizzatore possibile ? E per quanto tempo
siamo in grado di reggere livelli di performance straordinari ? A una
parte di questo potenziale si può accedere mediante il coaching, che
consente di mantenere la performance sostenibile a livelli forse non
sovrumani ma di certo molto più elevati di quelli che normalmente
consideriamo accettabili.
Esperimenti
Il fatto che la nostra fiducia nelle potenzialità degli altri abbia un
impatto diretto sulla loro performance è stato adeguatamente
dimostrato in una serie di esperimenti nel campo dell’educazione. Il test
consiste nell’affidare gruppi di bambini mediamente dotati a diversi
insegnanti, facendo però loro credere che si tratti ora di elementi molto
dotati, ora di con gravi
scolari difficoltà di apprendimento. Gli
insegnanti svolgono per un certo periodo la loro attività didattica
seguendo un programma di studi prestabilito. I successivi test di
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controllo rivelano che i risultati conseguiti dai bambini sono
immancabilmente un riflesso di ciò che gli insegnanti credevano a
proposito delle loro capacità. Lo stesso vale nel mondo del lavoro: la
Applicazione
Quando e dove applichiamo il coaching, e a quale scopo? Ecco alcuni
dei casi più ovvi in cui applicare la pratica del coaching sul lavoro:
L’elenco potrebbe
continuare all’infinito e i diversi casi potrebbero
essere adottando
affrontati un approccio di tipo rigidamente
strutturato, come in una regolare sessione di coaching, oppure con una
strutturazione meno formale (come una semplice conversazione in cui lo
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stesso termine coaching non verrebbe neppure menzionato). Rispetto a
queste due differenti modalità, appare assai più penetrante ed efficace
un’applicazione consapevole, quotidiana e regolare dei principi che
sottostanno alla tecnica del coaching durante i fugaci momenti di
interazione che hanno luogo tra capi e collaboratori. In questi casi non
descriveremmo tale interazione come un vero e proprio coaching. in
quanto essa potrebbe consistere anche di un’unica frase, molto
probabilmente una domanda; la scel ta delle parole e l’intento con le
quali vengono pronunciate, tuttavia, si traducono in effetti diversi.
Indico qui sotto tre domande «rivelatrici» che vi invito a porvi e a darvi
risposta prima di leggere la spiegazione riportata sotto ciascuna
domanda.
— «basta vedere ciò che le persone riescono a fare al di fuori del lavoro»;
3. Quali sono gli ostacoli di tipo interno ed esterno che impediscono alle
potenzialità latenti di manifestarsi pienamente?
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che le persone, quando sanno di trovarsi in un ambiente non
minaccioso, tendono a dire la verità. Se dobbiamo considerare come
autentica la mancanza di sicurezza in se stessi, nelle sue diverse
varianti, allora il problema numero uno che dobbiamo affrontare e
risolvere nella pratica del coaching è proprio questo.
La risposta logica sarebbe quella di dirigere ogni sforzo al fine di far
nascere nei dipendenti la dovuta fiducia in se stessi, e il coaching
appare fatto su misura per questo scopo.
Eppure... quanti dirigenti si dimostrano tutto meno che logici allorché si
manifesta l’esigenza di una svolta nel loro stile di management!
Piuttosto che migliorare i propri atteggiamenti sotto il profilo umano o
psicologico, che sarebbe poi la cosa più semplice, preferiscono sperare,
cercare, comprare o persino aspettare come un dono del cielo una
soluzione di tipo tecnico o strutturale.
Ma c’è anche un Il fatto di prodigarsi per creare negli altri
altro motivo.
l’indispensabile se stessi impone che ci liberiamo da ogni
fiducia in
desiderio su di loro il nostro controllo o, ancor peggio, di
di esercitare
fare in modo che il loro senso di stima sia interamente concentrato sulle
nostre superiori capacità. In realtà, una delle migliori cose che
possiamo fare per gli altri è aiutarli a superarci. Spesso, tra i momenti
più eccitanti e memorabili di un bambino, vi è la prima volta in cui
riesce a battere un genitore in un gioco di abilità, ed è forse proprio per
questo che noi genitori, almeno all’inizio, lasciamo vincere i bambini.
Siamo noi i primi a desiderare che i nostri figli ci superino e ci sentiamo
fieri di loro quando riescono a farlo.
Ah! se fossimo capaci di altrettanto di orgoglio quando ci riescono i
nostri dipendenti! Gia, perche da un miglioramento delle loro
prestazioni e dalla loro crescita professionale abbiamo solo da
guadagnare. Troppo spesso, invece, temiamo di farci soffiare il posto e
di perdere autorevolezza o credibilità, quando non ad dirittura la fiducia
in noi stessi.
La fiducia in se stessi
Dal momento che la fiducia nelle proprie capacità è la chiave per
portare alla luce le potenzialità e migliorare la performance, è di vitale
importanza saper ricostruire la storia dei nostri successi: non c’è nulla,
infatti, che garantisca il successo come il successo stesso. Nella pratica
del coaching è fondamentale che l’allievo — visto che così abbiamo
deciso di chiamarlo — ottenga dalla sessione i risultati desiderati. Un
coach questo deve averlo ben chiaro in mente, oltre ad avere l’assoluta
certezza di aver aiutato l’allievo a discernere con la massima chiarezza e
ad accettare con il massimo impegno l’azione che lo attende, una volta
rimossi tutti gli eventuali ostacoli che potrebbero impedirgli di
procedere. Spesso sem bra che i coach abbiano quasi paura di
sospingere l’allievo ad ambire al successo perché temono di apparire
aggressivi.. Comunque sia, un’applicazione del coaching che non
raggiunga il risultato sperato e in cui l’allievo non riconosca il proprio
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successo non farà che ridurre ulteriormente la sua fiducia in se stesso,
risultando in questo modo deleteria rispetto all’obiettivo primario del
coaching stesso.
Affinché una persona costruisca la propria fiducia in se stessa è
necessario — oltre ad accumulare vittorie — che capisca che il suo
successo è il risultato dell’impegno profuso.
Deve altresì sapere che gli altri le danno pieno credito, e questo significa
sentirsi degni di fiducia, liberi, incoraggiati e sostenuti nel momento in
cui si deve scegliere e decidere.
Significa sentirsi trattati da pari a pari, anche se la mansione che si
svolge è etichettata con un grado inferiore. Significa essere trattati
senza atteggiamenti paternalistici, senza che ci si senta in balìa dell’
istruttore o peggio ancora ignorati, biasimati, minacciati o denigrati
nelle parole o nei fatti. Purtroppo il comportamento più generalmente
accettato e che comunemente ci si attende da un manager incarna molti
di questi aspetti negativi e finisce per svilire nei sottoposti la fiducia in
se stessi.
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Effetti su entrambi
Entrambi Il sottoposto
sono si sente
Il capo ha Il sottoposto si coinvolti costretto
il controllo chiede se nell’azione, oppure
totale ha possibilità di ma possono abbandonato
scelta esserci ase stesso
indecisioni
Lo stile dittatoriale
Quando ero piccolo, i miei genitori mi dicevano ciò che dovevo fare e mi
sgridavano se non lo facevo. Quando andavo a scuola, gli insegnanti mi
dicevano ciò che dovevo fare e mi punivano se non lo facevo. Durante il
servizio militare, il sergente mi diceva ciò che dovevo fare e apriti cielo
se non lo fa cevo, per e di corsa! Poi, quando ebbi il mio
cui lo facevo,
pri mo lavoro, capo a dirmi ancora una volta ciò che do vevo
eccoti il
fare. Quindi, non appena raggiunsi una posizione che mi investiva di
una qualche autorità, che cosa feci? Cominciai anch’io a dire ai miei
sottoposti ciò che dovevano fare, dal momento che quello era l’unico
ruolo comportamentale del quale avevo ricevuto costantemente dei
modelli. Le cose, pur troppo, stanno esattamente in questo modo per la
maggior parte di noi: siamo stati cresciuti a forza di ordini, e in questo
siamo diventati a nostra volta abilissimi.
La tentazione di dettar legge sta nel fatto che, oltre a essere un modo
facile e veloce per ottenere quello che si vuole, consente al «dittatore» di
sentirsi nel pieno controllo di ogni cosa (convinzione, peraltro, del tutto
errata). Il dittatore riesce solo a irritare e demotivare i dipendenti, che
tuttavia non lo danno a vedere nè osano reagire, tanto più che la loro
reazione verrebbe ignorata. Il risultato è che essi si dimostrano
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ossequanti in sua presenza ma si comportano in tutt’altro modo non
appena volta le spalle, nutrendo risentimento nei suoi confronti,
limitandosi a appena mediocri (nel migliore dei casi) o
prestazioni
arrivando persinoa forme di sabotaggio. Il nostro dittatore non ha un
bel niente sotto il suo controllo, è una pia illusione.
Con lo stile dittatoriale che troviamo a un’estremità dello spettro del
management tradizionalmente inteso è connesso un altro problema:
come fissare nei sottoposti il ricordo delle istruzioni impartite
verbalmente. Detto in parole povere, difficilmente riusciamo a ricordare
perfettamente tutto ciò che ci viene detto.
La Figura 2.2 presenta una matrice ricorrente della formazione
tradizionale, la cui importanza è fuori discussione e vale perciò la pena
riproporla anche qui. I dati che essa riporta sono stati ricavati da una
prima ricerca svolta da IBM qualche tempo fa, e uno studio
recentemente ripetuto dalle poste britanniche con conferma delle
risultanze originali. Un gruppo di persone è stato suddiviso a caso in tre
sottogruppi, a ciascuno dei quali è stato insegnato qualcosa (li molto
semplice, uguale per tutti ma seguendo tre diverse metodologie
didattiche. I risultati parlano da soli, ma la cosa che maggiormente
balza agli occhi è il nctevole calo nella capacità di fissare il ricordo di
qualcosa che sia stato soltanto indicato verbalmente.
Ricordo molto bene di aver mostrato i risultati di questa ricerca a due
istruttori di paracadutismo che erano seriamente preoccupati del fatto
di aver insegnato ai loro allievi le procedure di emergenza con
spiegazioni puramente verbali.
O rdine O rdine impartito O rdine impartito
verbalm ente + +
dim ostrazione dimostrazione
visiva visiva
+
Esperienza
diretta
Ricordo dopo 3 70 % 72 % 85 %
settim ane
Ricordo dopo 3 10 % 32 % 65 %
mesi
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Dopo aver preso conoscenza dei dati forniti dalla ricerca, si affrettarono
a cambiare il loro sistema di insegnamento pri ma di correre il rischio di
assistere a una caduta libera dall’esito fatale !
Lo stile persuasivo
Muovendoci lungo lo spettro dello stile di management tradizionale, al
secondo posto troviamo la
persuasione. In questo caso il manager
espone la sua idea e tenta di convincerci di quanto essa sia
geniale
perfetta. Sappiamo bene che non è il caso di contraddirlo e quindi ci
limitiamo a rispondergli con un sorriso stentato affrettandoci a eseguire
le sue istruzioni. Si tratta forse di una tecnica un pò più garbata, anche
se un tantino fasulla, che all’apparenza può sembrare perfino più
democratica. Ma lo è davvero? Alla fin fine, infatti, non facciamo che
eseguire alla lettera quello che vuole il capo, che, da parte nostra, riceve
ben pochi input. In realtà, rispetto allo stile dittatoriale, le cose non
sono molto cambiate.
Lo stile interlocutorio
Con il passo successivo lungo lo spettro dello stile di management
tradizionale arriviamo alla fase della discussione, dove è possibile
catalizzare positivamente le risorse a disposizione e il capo,
accondiscendente, può anche decidere di seguire una via diversa da
quella da lui proposta (posto, ovviamente, che si vada nella giusta
direzione). Sir John Harvey Jones, intervistato sui modi di dirigere un
team da DavidHemery, autore del libro Sporting Excellence, così si è
espresso a tale proposito: Se la direzione che tutti gli altri vogliono
prendere non è quella in cui avrei voluto andare, io mi adeguo e li seguo
[….] dopo tutto, si può comunque cambiare direzione an che una volta che
la macchina si è messa in moto. Posso essere io a scoprire che avevano
ragione o possono essere loro a rendersi conto che si sta andando nella
direzione sbagliata e quindi decidere di tornare all’opzione proposta da
me, oppure possiamo arrivare tutti insieme a stabilire che quello che ci
occorre è una terza alternativa. Nel mondo del lavoro si va avanti soltanto
se si fa affidamento sull’intelligenza e sui sentimenti di tutti.
Questa tecnica esercita senza dubbio una certa attrattiva, in quanto si
pone come una discussione autenticamente democratica, ma può
comportare un eccessivo dispendio di tem po e causare momenti di
indecisione.
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A volte i manager si ritirano in secondo piano con le migliori intenzioni,
desiderosi soltanto che i loro dipendenti im parino ad assumersi
maggiori responsabilità. Questo tipo di strategia raramente dà buoni
frutti, in quanto, se il dipendente si sente di fatto obbligato ad
assumersi delle responsabilità, anziché vederle come il frutto di una
libera scelta, il suo coin volgimento personale resta scarso e la sua
performance non beneficerà di quell’autentica motivazione interiore che
il manager sperava di creare.
Il coaching
In funzione del comportamento adottato, la maggior parte dei capi si
collocherà in qualche punto intermedio dello spettro degli stili di
management.
Il coaching
loro i vantaggi
invece
Rispondendo alle domande che il capo pone sulla base della tecnica del
coaching, i dipendenti acquistano piena consapevolezza di tutti gli
aspetti del lavoro da svolgere e delle necessarie azioni da intraprendere.
Questo momento di grande chiarezza fa loro considerare a portata di
mano la buona riuscita del lavoro, e quindi a scegliere liberamente di
assumersi la quota di responsabilità che a loro compete. Ascoltando le
risposte che vengono date alle domande, il manager acquisisce una
maggiore coscienza non soltanto del piano d’azione ma anche del
percorso mentale che lo ha determinato. In questo modo, egli può
disporre di informazioni molto più esaurienti di quelle che avrebbe
avuto comunicando semplicemente ai dipendenti quello che dovevano
fare e, pertanto, detiene anche un maggiore controllo sugli eventi.
Poiché il tipo di dialogo e di rapporto che si instaura nel coaching è di
tipo collaborativo, nei momenti in cui il manager è assente non si
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registra tra i dipendenti nessuna variazione di comportamento. La
tecnica del coaching offre dunque al manager un controllo effettivo e
non illusorio e investe i dipendenti di responsabilità altrettanto reali e
non solo formali.
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In gran parte delle situazioni che si vengono a creare sul lavoro, i fattori
tempo, qualità e apprendimento finiscono per rivestire quasi sempre
pari importanza. La triste verità, tuttavia, è che nella maggior parte
delle attività aziendali il fattore tempo prende il sopravvento sulla
qualità, mentre l’apprendimento viene relegato in terza posizione.
Dovrebbe dunque sorprenderci per un manager sia così
il fatto che
difficile rinunciare a impartire ordini verbali e che la performance
rimanga così al di sotto di quanto potrebbe e dovrebbe essere?
Se un manager applica i principi del coaching, ottiene allo stesso tempo
due scopi: che il lavoro venga svolto secondo standard qualitativi più
alti e che i suoi collaboratori sviluppino al meglio le loro capacità.
Sembrerebbe un sogno avere 250 giorni all’anno di lavoro svolto come si
deve e 250 giorni all’anno di crescita del personale, eppure è
esattamente questo che il manager/coach riesce a ottenere.
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Un nuovo stile
Queste aziende si sono rese conto che il coaching non è altro che lo stile
manageriale di una cultura aziendale rinnovata,ma che è possibile
innescare questo rinnovamento soltanto allorché lo stile di management
passa da una forma puramente direttiva al coaching: l’ordine gerarchico
lascia il posto alla collaborazione, al biasimo si sostituisce un’onesta
valutazione, i fattori motivanti di tipo esterno vengono sostituiti dalla
profonda motivazione interiore di ciascun dipendente; grazie alla
creazione di team cadono tutte le barriere interne, il cambiamento non
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suscita più timori ma è, anzi, il benvenuto, e soddisfare le richieste del
capo si traduce praticamente nel l’accontentare il cliente. A forme di
riserbo e censura si sostituiscono apertura e franchezza, le pressioni
esercitate dal lavoro si traducono in sfide e quelle convulse reazioni con
l’acqua alla gola pur di chiudere i lavori nel rispetto delle scadenze
cedono il passo all’elaborazione strategica di lungo termine. Queste
sono soltanto alcune delle caratteristiche della cultura aziendale
emergente, anche se spetterà a ciascuna organizzazione stabilire il
proprio particolare profilo e le proprie priorità.
Coinvolgimento e partecipazione
Esiste tuttavia un altro fattore, forse meno evidente ma che compenetra
a tal punto la vita di un’azienda da renderne difficile la gestione. Si
assiste infatti nella gente a una crescita di consapevolezza che ha come
conseguenza la rivendicazione di un maggiore coinvolgimento nei
processi decisionali che hanno effetti di portata generale: sul lavoro
come nel tempo libero, a
come a livello nazionale o persino
livello locale
globale. Le decisioni che un tempo venivano prese dai tradizionali centri
di autorità come governi e altre istituzioni e che raramente venivano
contestate o discusse, ora vengono impugnate e portate all’attenzione
dell’opinione pubblica dai media, dai gruppi di pressione o da singoli
individui socialmente e politicamente impegnati. Non è forse questo che
è accaduto nell’ex Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa orientale,
determinando come effetto finale il crollo del comunismo? Mai come
oggi, nella nostra società, è facile trovare ascolto, mentre assistiamo alla
formazione di crepe nella dubbia rispettabilità di cittadelle un tempo
inattaccabili. Chi ha qualcosa da nascondere si mette sulla difensiva,
ma la maggior parte delle teste pensanti accoglie positivamente i
cambiamenti, anche quando questi generano inevitabilmente momenti
di insicurezza. Poco importa che si voglia considerare nuova
questa
consapevolezza come un fenomeno emergente di portata rivoluzionaria o
come il risultato di un mondo che si è improvvisamente fatto più piccolo
con l’ingresso nell’era delle comunicazioni digitali. In un modo o
nell’altro, ora dobbiamo tenerne conto.
Da «push» a «puIl»
Questa esigenza di maggiore coinvolgimento e partecipazione viene vista
come una trasformazione di fondo della nostra società ed è spesso
descritta in termini di passaggio da una fase push (spingere) a una fase
pull (tirare). Che cosa si gnifica esattamente? Credo che la miglior
risposta venga offerta dal seguente esempio.
Tutti noi riceviamo nella nostra cassetta delle lettere una quantità
esagerata di posta inviata dai mittenti più disparati, da missive di enti
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benefici che sollecitano una donazione a volantini commerciali che
sollecitano i nostri acquisti: tutta posta, tra l’altro, che non desideriamo
ricevere e consideriamo irritante e intrusiva. Alcuni di noi si ritrovano
inseriti più di altri in un mare di mailing list e quindi si irritano più di
altri (come avrete già capito. io sono uno di questi). La diffusione di
Internet ci sta offrendo la possibilità di avere accesso a ciò che vogliamo
quando lo vogliamo, offrendoci quindi più possibilità di scelta: possiamo
tirare giù (pull) da Internet quello che vogliamo anziché dover
continuare a cestinare ciò che troviamo nella nostra cassetta delle
lettere perché senza la nostra autorizzazione, ce lo hanno spinto
altri,
(push). Naturalmente non è tutto così semplice. Quando scarico la mia
posta elettronica o mi metto a navigare non faccio in tempo schiacciare
il tasto del mouse che scopro che gli spacciatori di pubblicità sono
arrivati prima di me e mi si apre davanti l’immancabile banner di
qualche prodotto reclamiizzato.
Ricordo ancora quando in Gran Bretagna avevamo soltanto due canali
televisivi: adesso siamo sommersi da una molteplicità di opzioni,
possiamo scegliere tra centinaia di emittenti e, in certi casi, persino
decidere quale telecamera seguire durante la telecronaca di importanti
eventi sportivi. Tutto questo riflette ancora una volta quella transizione
da push a pull, dalla passività a una partecipazione più attiva, che è
scaturita dal nostro desiderio di maggiori opportunità di scelta, anche
se dobbiamo ancora rassegnarci all’intrusività della pubblicità
commerciale.
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La cultura del biasimo è endemica nel mondo del lavoro, perché lo
è nella filosofia del comando.
Lo stress
La causa principale
dell’esaurimento psicofisico è «lo scarso controllo
personale» concesso al lavoratore nell’adempimento delle sue mansioni,
e questa causa appariva ricorrente, a prescindere dal trattamento
economico riservato al lavoratore.
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La paura del cambiamento
Su molte persone, tuttavia, incombe minacciosa la paura del
cambiamento, di qualsiasi cambiamento, il che non deve stupire se
pensiamo a quanto poco possiamo fare per preparare i nostri figli al
mondo in cui vivranno: non sarà certo il mondo che abbiamo conosciuto
noi, di questo siamo certi, ma ci è precluso sapere come sarà. Forse,
tutto quello che possiamo sperare di insegnare loro è di imparare a
essere flessibili e adattabili, in modo da poter affrontare qualsiasi
situazione.
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Qualche coach ha
iniziato la sua attività proprio in questo modo.
Ricordo molto beneun istruttore di sci che aveva se guito i nostrì corsi
ma che non era
ancora pronto per una profonda introiezione dei
principi fondamentali del coaching. Con i suoi allievi aveva modi
autocratici, era dogmatico e in una certa misura anche manipolatore,
eppure, applicando si stematicamente il nostro metodo allo sci, riuscì a
ottenere dei risultati che finirono per persuaderlo che, offrendo
all’allievo maggiori possibilità di scelta, gli si forniva anche una chiave
per liberare tutte le sue potenzialità nascoste. Ben presto cambiò
radicalmente la sua filosofia, sia sulle piste da sci sia nella vita
personale. Non si limitò a scrivere un manuale di auto coaching per
sciatori, elaborando in questo campo il migliore programma di
addestramento che io conosca, ma divenne an che un coach disuccesso
nel settore degli agenti commerciali.
Accrescere la consapevolezza
Il primo elemento chiave del coaching è la consapevolezza, vale a dire il
frutto di un’attenzione estremamente focalizzata, di concentrazione e
chiarezza di vedute. Torniamo per un momento al Concise Oxford
Dictionary, che del termine aware, consapevole, dà le seguenti
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definizioni: «conscio, non ignaro, in possesso di conoscenza», Dal canto
mio, preferisco ciò che a tale definizione aggiunge il Webster: «l’essere
consapevoli implica la conoscenza di qualche cosa grazie a un
atteggiamento vigile nell’osservazione o nell’ interpretazione di ciò che si
vede, si sente, si prova eccetera». Allo stesso modo della nostra capacità
visiva o del nostro udito, che possono essere buoni o meno buoni,
anche della consapevolezza esistono infinite gradazioni. A differenza
però della vista o di norma
dell’udito, che sono buoni, la nostra
consapevolezza quotidiana non lo è. Come una lente di
normalmente
ingrandimen to o un possono elevare la soglia di vista o
amplificatore
udito, il nostro grado di consapevolezza può aumentare se ci
esercitiamo a focalizzare meglio l’attenzione (e senza bisogno di ricorrere
a controllare solo farmaci o integratori alimentari!) Una maggiore
consapevolezza significa una percezione più chiara del normale, proprio
come avviene quando ci serviamo di una lente di ingrandimento.
Coinvolge ovviamente le nostra capacità visive e uditive, ma sul lavoro
comporta ben più di questo, identificandosi sia con una chiara
percezione dei fatti e delle informazioni più importanti, sia con la
capacità di determinare all’istante gli elementi significativi e
caratterizzanti della situazione. Tale abilità comporta l’esatta
comprensione degli schemi comportamentali, delle dinamiche e dei
rapporti che si creano tra le persone e le cose, e quindi, inevitabilmente,
include anche una certa analisi del sostrato psicologico. La
consapevolezza di ciò che accade intorno a noi prevede necessariamente
anche un buon grado di consapevolezza di noi stessi, soprattutto nel
saper riconoscere prontamente quando e come le nostre emozioni e i
nostri desideri siano in grado di distorcere le nostre facoltà percettive.
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impartire una data istruzione allo studente o al sottoposto attenendosi
fedelmente al proprio modelloe perpetuando così le opinioni e le
tecniche prevalenti nel campo oggetto di formazione. L’apprendimento
attraverso l’applicazione del modo «giusto» di fare qualcosa — vale a dire
secondo il metodo standard — può offrire, inizialmente, qualche
risultato in termini di performance, ma restano totalmente soffocate le
inclinazioni e le caratteristiche personali del soggetto, mentre il
«docente», in compenso, riesce a semplif’icarsi la vita senza troppi sforzi.
L’allievo, inoltre, resta completamente dipendente dalla figura
dell’esperto che gli ha impartito le istruzioni, cosa che solletica
ulteriormente l’ego del docente accrescendo la sua illusione di detenere
un potere reale.
L’alternativa offerta dal coaching per accrescere la consapevolezza porta
in superficie e identifica chiaramente le caratteristiche assolutamente
uniche del corpo e della mente di ogni individuo, riuscendo a creare nel
contempo la capacità e la sicurezza in se stessi necessarie per
migliorarsi senza aspettare da altri la ricetta giusta.
Il coaching crea cioè la capacità di far leva soltanto sulle proprie forze,
crea fiducia, autostima e senso di responsabilità. Il coaching,
naturalmente, non andrebbe mai confuso con tecniche del tipo «ecco gli
strumenti: usalie impara da te> Il nostro grado di consapevolezza,
infatti, è di norma relativamente basso e, se fossimo lasciati a noi stessi,
con i nostri soli mezzi potremmo anche impiegare moltissimo tempo per
giungere a scoprire l’acqua calda e/o sviluppare metodi che, oltre a
essere soltanto in parte efficaci, si trasformerebbero rapidamente in
cattive abitudini. accrescere il nostro grado di consapevolezza è
Per
pertanto indispensabile la presenza di un coach esperto, almeno fino a
che non riusciamo a sviluppare la capacità dell’autocoaching. che apre
la porta a un miglioramento continuo e alla continua scoperta di noi
stessi.
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La consapevolezza di noi stessi è la conoscenza di ciò che proviamo
dentro di noi.
L’input
Al fine di comprendere meglio ciò che intendiamo per consapevolezza,
possiamo ricorrere a un parola: ìnput. Ogni attività umana può essere
ricondotta a questi tre elementi: input - elaborazione - output.
Quando, per esempio, ci stiamo recando al lavoro in auto, riceviamo un
certo numero di input dal movimento del traffico, dalla strada, dalle
condizioni atmosferiche, dai cambi di velocità, dalle variazioni del
rapporto spazio-tempo, dal suono del motore, dagli strumenti di bordo,
dalla comodità dei sedili e dalla tensione o dalla stanchezza del nostro
corpo. Si tratta di input di diversa natura che possiamo accettare o
rifiutare del tutto, accogliere solo in parte o in tutti i loro più complessi
particolari oppure nemmeno notare, salvo nei loro aspetti più
macroscopici.
Possiamo dunque essere consapevoli della totalità degli elementi che ci
dicono che siamo alla guida auto-
del mezzo oppure
nostro
semplicemente ricevere gli input per farci arrivare sani e salvi
necessari
al lavoro mentre ascoltiamo la radio. In un modo o nell’altro, stiamo
ricevendo degli input. I guidatori migliori registrano una quantità
maggiore di input da cui traggono informazioni più dettagliate, che poi
elaborano per agire e produrre l’output più adatto, per esempio la giusta
velocità e un corretto posizionamento del veicolo sulla strada.
Comunque sia, per quanto siate abili nell’elaborare l’input ricevuto per
poi agire di conseguenza, la qualità del vostro output dipenderà dalla
qualità e dalla quantità dell’input. Accrescere il nostro grado di
consapevolezza, significa acuire al massimo i nostri recettori di input
sintonizzando al meglio i nostri sensi e coinvolgendo le nostre facoltà
intellettive.
Responsabilità
Quello della responsabilità è l’altro concetto chiave, e insieme anche
obiettivo, della pratica del coaching. Nel capitolo precedente ho sollevato
il problema relativo al rapporto esistente tra un cambiamento della
cultura aziendale e
una maggiore attenzione verso il senso di
responsabilità collettivo e individuale. Il senso di responsabilità è
fondamentale anche per ottenere performance elevate. Quando
accettiamo con onestà o ci assumiamo la piena responsabilità dei nostri
pensieri e delle nostre azioni, aumenta il nostro impegno e di
conseguenza, anche la nostra prestazione.
Anche quando ci viene ordinato di essere responsabili, o ci viene detto
che lo siamo, o lo percepiamo come un’attesa nei nostri confronti, la
performance non migliora se non c’è da parte nostra piena accettazione.
Certo, anche in queste condizioni svolgeremio ugualmente il nostro
lavoro perché avvertiamo un’implicita minaccia se non lo facessimo, ma
fare qualcosa al puro scopo di scongiurare una minaccia non migliora
affatto la performance. Sentirsi veramente responsabili, invece,
comporta inevitabilmente una scelta a livello personale. Vediamo
qualche esempio.
Biasimo
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tanto nell’inadeguatezza del mio consiglio quanto nella vostra mancanza
di autentico coinvolgimento personale. Quando sul lavoro un consiglio
di questo tipo si trasforma un ordine, il vostro grado di scelta
in
personale diventa uguale a zero e questo può generare risentimento,
persino sotterranei atti di sabotaggio, quando non addirittura la scelta
di un’azione di contrasto: «Non mi hai dato alcuna possibilità di scelta;
hai leso la fiducia me stesso e io non ho alcuna possibilità di
in
ricostituirla, non mediante un’azione in cui non mi sento in
di certo
alcun modo coinvolto, pertanto mi assumo la responsabilità di
un’azione alternativa che si ritorcerà a tuo danno. Certo, lo so, sarà
un’iniziativa che potrà ritorcersi anche contro di me, ma mi sarò almeno
ripreso ciò che era mio». Se questa successione di pensieri (inconsci) vi
sembra un’esagerazione, vi assicuro che esistono milioni di dipendenti
con pessimi capi pronti ad ammettere di aver seguito talvolta proprio
questa strada.
Libertà di scelta
Ecco un altro esempio che evidenzia
il divario tra un grado di
responsabilità normale oe la più elevata responsabilità frutto
imposto
di libera scelta. Immaginate un gruppo di muratori a cui vengono date
istruzioni di questo tipo: «Fred, vai a prendere la scala a pioli. Ce n’è
una nel capanno.»
Che cosa fa Fred se scopre che nel capanno non c’è nessuna scala?
Torna dal capomastro e dice: «Non c’è ne scala».
Che cosa sarebbe accaduto, invece, se il capomastro avesse formulato
diversamente la sua richiesta? «Abbiamo bisogno di una scala a pioli.
Ce n’è una nel capanno. Chi vuole andarla a prendere?»
Fred risponde: «Ci vado io». ma quando entra nel capanno non trova
nessuna scala. Che cosa farebbe questa volta? Probabilmente
inizierebbe a cercare altrove, ma perché? Perché si sente
responsabilizzato e vuole ottenere un risultato. Troverà la scala, ma
prima che per il capomastro lo farà per se stesso, per la sua autostima.
Tutta la differenza sta nel fatto che è stata concessa una possibilità di
scelta a cui Fred ha su bito reagito positivamente.
Ancora un esempio. nostra cliente aveva alle spalle una
Un’azienda
storia di pessimi con le maestranze, così, nel tentativo di
rapporti
migliorarli, una serie di corsi per i capireparto. Benché si
organizzammo
fosse sparsa la voce che i nostri corsi erano particolarmente divertenti, i
partecipanti si rivelarono da principio assai diffidenti, per non dire
riluttanti. Mi fu subito chiaro che il modello comportamentale cui si
attenevano era quello a qualsiasi cosa la dirigenza chiedesse
di opporsi
loro di fare: la frequenza al corso era vissuta come un’imposizione e loro
opponevano resistenza. Per porre fine a quella situazione totalmente
improduttiva domandai ai partecipanti quanta libertà di scelta avessero
avuto in merito alla frequenza del corso. «Nessuna», risposero in coro.
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«Be’, in compenso avete una possibilità di scelta adesso» dissi io. «Il
vostro dovere nei confronti dell’azienda l’avete fatto: siete venuti.
Congratulazioni! Ora però sta a come volete trascorrere
voi scegliere:
questi due giorni? Potete imparare cose vi sarà nossibile,
quante piu
potete fare resistenza passiva, e pensare ad altro per
potete restare qui
tutto il tempo, potete anche andarvene in giro. Scrivete su un foglio una
frase descrivendo quello che avete scelto di fare. Potete tenerla solo per
voi, se preferite, o farla vedere al vostro vicino. A me non serve che la
mostriate né tanto meno riferirò al vostro capo come avete scelto di
comportarvi. Sta interamente a voi.»
L’atmosfera nella stanza mutò di colpo. Ci fu come un sospiro di sollievo
ma anche un improvviso afflusso di energia e la stragrande
maggioranza dei presenti si impegnò nel corso con un alto grado di
coinvolgimento personale. La possibilità di scegliere e la responsabilità
possono fare miracoli.
Questi semplici esempi illustrano chiaramente quanto sia importante la
libertà di scelta per migliorare la performance di una persona che si sia
assunta la propria responsabilità (per contro, se la persona non si sente
responsabile, non si ottiene alcun risultato). Dire a qualcuno che è
responsabile di qual che cosa non basta per farlo sentire responsabile.
Magari potrà avere paura di non farcela e sentirsi in colpa se fallirà, ma
non è lo stesso che sentirsi responsabili. Questo avviene soltanto
attraverso una libera scelta, il che esige una domanda particolare (ma
sulla definizione delle domande che fanno Parte del coaching torneremo
nel prossimo capitolo).
Consapevolezza e responsabilità
La mente è la chiave
Ai fini della sua ricerca, David Hemery chiese a ogni atleta di indicare
fino a che punto riteneva che la mente fosse coinvolta nella sua attività
agonistica. Scrive David: «Il verdetto unanime era chiaramente espresso
da giudizi come im mensamente’, ‘totalmente’. ‘è lì che si gioca la vera
partita’. è la mente il nostro vero avversario’, ‘ogni movimento del nostro
corpo nasce di lì’. i giudizi più misurati furono del tipo: “la mente ha la
stessa importanza del corpo”. Anche nel mondo del lavoro una
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performance ottimale non richiede certamente di meno: la mente è la
chiave. La conoscenza e l’esperienza possono essere considerate, nel
mondo del lavoro, gli equivalenti della tecnica e della forma fisica nel
mondo dello sport.
Nello sp o rt Nel lavo ro
La mentalità vincente
Più o meno dieci anni fa, gli allenatori lavoravano soprattutto sull’abilità
tecnica e sulla forma fisica necessarie in una determinata disciplina
sportiva. In generale, non si riteneva che la mente giocasse un ruolo
decisivo, si pensava che ciascun atleta fosse nato con proprie
caratteristiche intellettuali e l’allenatore non potesse farCi niente.
Sbagliato ! L’ allenatore in realtà faceva parecchio per influire sulla
mente dell’atleta, ma lo faceva involontariamente e, nella maggior parte
dei casi, nel modo sbagliato per via dei suoi metodi autocratici e della
sua ossessione per l’aspetto puramente tecnico.
Impartendo esattamente agli atleti gli ordini su cosa fare e come farlo,
gli allenatori di quel tipo negavano di tatto ai loro pupilli ogni
responsabilizzazione personale e, imponendo loro esclusivamente la
propria visione, impedivano anche il formarsi di qualsiasi forma di
consapevolezza: in poche parole, bloccavano il senso di responsabilità
individuale e distruggevano la consapevolezza. Alcuni sedicenti
allenatori lo fanno ancora oggi, analogamente a molti manager,
rivelandosi così un ingombrante quanto ineludibile componente tanto
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dei limiti quanto dei loro atleti o sottoposti. Il problemna è
dei successi
che, anche cosi un qualche risultato riescono comunque a
facendo,
conseguirlo dalle persone con cui lavorano e, pertanto, non sono
minimamente motivati a percorrere altre strade, continuando così a
ignorare quello che potrebbero ottenere adottando metodi diversi.
Negli ultimi anni molto è cambiato nello sport e la maggior parte delle
grandi squadre ricorre all’aiuto di psicologi che conducono con gli atleti
varie forme di training attitudìnali. Anche l’opera degli psicologi,
tuttavia, rischia spesso di essere vanificata, seppur non
intenzionalmente, se non si abbandonano contestualmente i vecchi
metodi impiegati dagli allenatori. per sviluppare e
Il modo migliore
conservare uno stato mentale che potremmo definire come «ideale» per
una buona performance è quello di creare consapevolezza e
responsabilità attraverso la pratica quotidiana e lo stesso processo di
acquisizione e affinamento di competenze e abilità. Tutto questo
richiede però un cambiamento di rotta da parte degli allenatori
nell’applicazione delle loro metodologie, vale a dire il passaggio dalla
figura dell’istruttore a quella del vero coach.
Il coach non è il deus ex machina che risolve i problemi, non è un
insegnante, un consigliere o un istruttore e nemmeno un esperto: egli
funge soltanto da cassa di risonanza, il suo compito è quello di facilitare
le cose, di consigliare e, soprattutto, di accrescere il grado di
consapevolezza.
paziente
imparziale
incoraggiante
coinvolto
buon ascoltatore
intuitivo
attento
capace di ricordare
Spesso nell’elenco compaiono anche alcune delle seguenti
caratteristiche:
perizia tecnica
conoscenza
esperienza
credibilità
autorità.
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erano anche esperti tennisti finivano per affrontare soltanto il sintomo,
cioè l’errore di tipo tecnico. Fummo pertanto costretti a sottoporre i
nostri coach tennisti a ulteriori stage di formazione, per aiutarli ad
astrarsi meglio dalle loro conoscenze puramente tecniche.
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Esigere semplicemente ciò che vogliamo è inutile, la soluzione è porre
domande efficaci.
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Parole interrogative
Le domande che si rivelano più efficaci per aumentare la consapevolezza
e il senso di responsabilità iniziano con parole che cercano di
Campi d’interesse
Ma in che modo il coach stabilisce quali sono gli aspetti effettivamente
importanti di un certo problema, soprattutto e si tratta di un campo in
cui le sue conoscenze specifiche sono limitate? Il criterio basilare è che
le domande dovrebbero conformarsi agli interessi e ai percorsi mentali
dell’allievo, non a quelli del coach. Se fosse quest’ultimo a determinare
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la direzione delle domande, finirebbe per compromettere la
responsabilizzazione cosa fare se la direzione presa
dell’allievo. Ma che
dall’allievo porta a un punto morto o a una semplice divagazione?
Abbiate fede: sarà lui stesso il primo ad accorgersene, e presto.
Se non si permette agli allievi di esplorare i percorsi che suscitano
maggiormente il loro interesse, è molto probabile che la tentazione a
divagare rimarrà forte, tanto da causare alterazioni e digressioni nello
svolgimento stesso del lavoro, oltre che nella sessione di coaching. Una
volta invece che hanno esplorato i loro campi d’interesse, saranno più
presenti e concentrati proprio su quel percorso che, alla fine, emergerà
come il migliore, quale che esso sia. Paradossalmente, al coach potrebbe
essere utile concentrarsi sugli aspetti che l’allievo sembra voler evitare a
tutti i costi e, al fine di non compromettere la fiducia e il senso di
responsabilità dell’allievo, è meglio addentrarsi in questo particolare
tipo di esplorazione ricorrendo a una frase assertiva seguita da una
domanda: «Ho notato che non ha menzionato... C’è qualche motivo
particolare per cui non l’ha fatto?»
Punti ciechi
Èpossibile che il parallelismo esistente tra il principio appena formulato
e la corporeità susciti un certo interesse tra i giocatori di golf e i
tennisti: un coach potrebbe domandare per esempio all’allievo di quale
fase dello swing o del colpo ha minor consapevolezza fisica. Con ogni
probabilità questo «punto cieco» nasconde un qualche disagio o qualche
difficoltà motoria. Se l’allenatore si sforza di accrescere sempre più
nell’allievo la consapevolezza di quel particolare punto, la sua
consapevolezza verrà pienamente recuperata e il movimento si
correggerà in maniera naturale, senza ricorrere a input di carattere
meramente tecnico. Le proprietà terapeutiche della consapevolezza sono
davvero infinite!
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Un bravo coach deve prestare la massima attenzione alle risposte
fornite dall’allievo. Se non si dimostrerà attento, svanirà ogni fiducia in
lui e, cosa altrettanto importante, non avrà per
elementi individuare la
domanda migliore con cui proseguire. L’intero processo deve avvenire
con spontaneità e dunque domande preconfezionate non farebbero che
interrompere il flusso naturale della scoperta, oltre a non essere
probabilmente in sintonia con i veri interessi dell’allievo. Se il coach
elabora la domanda successiva mentre l’allievo sta ancora parlando,
questi capirà di non essere ascoltato attentamente. Molto meglio,
pertanto, attendere che l’interlocutore abbia finito di parlare e magari
concedersi una pausa durante la quale elaborare la domanda.
breve
La maggior parte delle persone non è capace di ascoltare gli altri: a
scuola ci dicono di ascoltare, ma non ci insegnano né ci allenano a
farlo. Si tratta, in effetti, di una capacità che richiede concentrazione e
pratica.
Eppure, stranamente, poca gente fa fatica ad ascoltare un notiziario o
un appassionante sceneggiato radiofonico. Ciò che mantiene vigile
l’attenzione è l’interesse, sicché, forse, dovremmo imparare a
interessarci maggiormente degli altri. Non c’è nulla di più apprezzabile
che ascoltare veramente qualcuno o sentirsi veramente ascoltati.
Quando ascoltiamo, sentiamo veramente? Quando guardiamo, vediamo
veramente? Imbrogliamo noi stessi e quelli con cui stiamo praticando il
coaching se non li sentiamo né li vediamo veramente (intendo dire, con
questo, se non manteniamo un vigile contatto di sguardi).
L’ossessione per i nostri pensieri e le nostre opinioni e il bisogno
compulsivo di dire la nostra sono particolarmente forti, soprattutto se
rivestiamo il ruolo di esperto o consulente. A quanto si dice, visto che ci
sono state date due orecchie ma una sola bocca, dovremmo ascoltare il
doppio di quanto parliamo, e forse la cosa più dura da apprendere per
un coach è proprio tenere la bocca chiusa!
Il tono di voce
Che cosa ascoltiamo e
Il tono di voce della persona con cui
perché?
stiamo praticando potrebbe rivelare emo zioni importanti e
il coaching
nascoste, e dovrebbe essere ascoltato attentamente. Una certa
quindi
monotonia nelle inflessioni può indicare la ripetizione di una vecchia
linea di pensiero, mentre una voce più animata segnala il risveglio di
idee nuove. Anche la scelta delle parole può essere rivelatrice: sia una
preponderanza di termini negativi sia il passaggio a un linguaggio più
formale o, al contrario, quasi infantile possiedono un significato
nascosto che può aiutare il coach a comprendere meglio la situazione e
quindi facilitare la risoluzione dei problemi.
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dell’osservazione bensì per giungere a formulare la domanda migliore.
Una postura leggermente tesa in avanti può suggerire un alto grado di
coinvolgimento nella direzione in cui sta procedendo il coaching, mentre
una mano portata a coprire parzialmente la bocca può rivelare
un’eventuale incertezza o l’ansia legata alle risposte da dare. Le braccia
incrociate sul petto indicano di norma un atteggiamento di resistenza o
di diffidenza, mentre una postura rilassata suggerisce una buona
recettività e flessibilità. Non intendo addentrarmi nelle tante sfumature
che caratterizzano il linguaggio delcorpo, ma vorrei comunque ribadire
che, se le parole dicono una cosa e il corpo sembra comunicarne
un’altra, è molto probabile che sia il corpo a rivelare i veri sentimenti
del nostro interlocutore.
Il feedback
Oltre ad ascoltare, sentire, osservare
e capire, il coach deve possedere
una sufficiente per sapere con precisione ciò che
consapevolezza di sé
sta facendo. Per quanto sicuro possa
sentirsi, tuttavia, è buona norma
che riassuma di tanto in tanto all’allievo ciò che è stato detto fino a quel
punto e ne tiri le somme. Questo, oltre a garantire una migliore
comprensione da parte del coach, rassicurerà l’allievo, che avrà
conterma di essere stato ascoltato e compreso e potrà inoltre verificare
ulteriormente la veridicità di quanto ha detto. Nella maggior parte delle
sessioni di coaching può emergere l’esigenza di prendere appunti, cosa
che di solito viene concordata con l’allievo. Quando conduco una
sessione, sono io stesso a prendere appunti, in modo che nel frattempo
l’allievo si senta libero di riflettere.
La consapevolezza di sé
Un bravo coach saprà infine fare buon uso della sua consapevolezza di
sé per controllare attentamente le proprie reazioni sia emotive sia
intellettuali alle risposte dell’allievo, comprese ovviamente quelle che lo
riguardano direttamente e che potrebbero pertantointerferire con la sua
indispensabile obiettività e distacco. Dobbiamo sempre pensare che il
nostro vissuto e i nostri preconcetti - e nessuno di noi ne è libero —
influenzano necessariamente il nostro modo di comunicare.
Il transfert
Proiezione e Trasfert sono i due termini che definiscono quelle
particolari alterazioni della psiche che chiunque eserciti un’attività
didattica o si ponga come guida, manager o coach, deve imparare a
riconoscere e ridurre al minimo. Per proiezione intendiamo quel
processo che ci porta
mentale ad attribuire all’altra persona, o a
percepire e caratteristiche positive o negative che in realtà
in lei, qualità
appartengono a noi. Il transfert è invece il momento in cui «trasferiamo
nelle persone con cui abbiamo una certa consuetudine di rapporto
modelli emotivi e comportamentali originariamente appresi dalle figure
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più significative della nostra infanzia». Sul lavoro, una delle più fre
quenti manifestazioni di tale fenomeno avviene quando si trasferiscono
negli altri determinati modelli autoritari.
In ogni rapporto che venga percepito come gerarchico, per esempio tra
manager e dipendente o persino tra coach e allievo, entrambi gli attori
saranno influenzati da problemi e sentimenti inconsci legati all’esercizio
dell’ autorità. Molte persone, per esempio, abdicano a ogni loro potere in
favore di altri la cui autorità sia in qualche modo data per scontata «lui
sa, ha tutte le risposte, ha più esperienza… eccetera» — e finiscono per
farsi piccoli e infantili. Ciò forse può soddisfare il desiderio di dominio e
di dipendenza di un manager autocratico, ma resta il fatto che tale
atteggiamento contrasta con l’obiettivo del coaching, che è quello di
generare il senso di responsa bilità nel collaboratore.
Un altro esempio piuttosto frequente di tipica reazione all’autorità
altrui, sempre legato al transfert inconscio, è quello della ribellione e del
sabotaggio subdolo degli obiettivi di lavoro. Ogni volta che un modello
manageriale limiterà la possibilità di scelta, il transfert di ogni
dipendente non farà che aumentare un senso di frustrazione collettiva e
una sensazione di totale impotenza. Un grande industriale del settore
automobilistico era in grado di valutare lo stato delle relazioni di lavoro
dalla percentuale di pezzi privi di difetti che erano stati gettati nei
bidoni degli scarti disposti lungo la catena di montaggio.
Il controtransfert
Il controtransfert. che rappresenta un’ulteriore complicazione del
fenomeno del transfert, già di per sé complesso, avviene quando la
persona investita di una qualche autorità, manager o coach che sia,
reagisce inconsciamente al transfert generato dal suo vissuto
perpetuando nell’altro atteggiamenti di dipendenza o di ribellione. Un
buon manager o un bravo coach devono saper riconoscere questa loro
potenziale reazione e compensare gli effetti di ogni manifestazione di
transfert applicandosi consciamente a
generare nel sottoposto o
nell’allievo sicurezza e autorità. Se ciò non avverrà, tali alterazioni
comportamentali e psicologiche si insinueranno nel rapporto con il
manager o con il coach e, nel lungo termine, comprometteranno
seriamente i risultati che si intendevano conseguire mediante un certo
stile di management.
Domande utili
Vorrei riportare alcune delle domande che io giudico di effettiva utilità
in una sessione di coaching. Può darsi che vogliate aggiungerle a quelle
che avete già individuato nelle vostre esperienze di coaching. Il loro
primo requisito è che devono essere sincere.
«E poi? Che cos’altro?» posta al la fine di una sequenza di altre domande
riesce a sollecitare ulte riori informazioni. Spesso però anche un totale
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silenzio riesce a sollecitare dell’altro, permettendo intanto a! coach di
riflettere sulla sessione in corso.
«Supponendo che lei conosca la risposta, quale
sarebbe?» non è una domanda così sciocca come può sembrare,
dato che pone l’allievo in grado di lanciare uno sguardo al di là dei limiti
che si è imposto.
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Formale o informale?
A questo punto è importante
sottolineare che una sessione di coaching
può essere molto disinvolta e informale, al punto che l’allievo stesso
potrebbe non rendersi conto di essere sottoposto a tale pratica. Nella
vita lavorativa di ogni giorno, quando un manager deve fornire ai propri
collaboratori le necessarie informazioni o attingerle da loro, niente è
meglio dell’applicazione del coaching se si riesce a non farla identificare
come tale: è meglio se appare come il semplice svolgimento delle
mansioni manageriali. In questo caso, il coaching non è più uno
strumento per dirigere gli altri ma soltanto un modo di gestire le
persone (e il modo più efficace, a mio giu dizio). All’altra estremità dello
spettro, una sessione di coaching può essere programmata e strutturata
in modo tale che non vi sia alcuna ambiguità in merito agli scopi che si
perseguono e ai ruoli che le persone coinvolte rivestono. Benché la
maggior parte delle sessioni di coaching appartenga al primo tipo, noi
esamineremo più dettagliatamente il secondo, in quanto, anche se il
processo è assolutamente identico, le sue varie fasi appaiono più
nettamente definite.
A quattr’occhi
Per ragioni di semplicità e chiarezza, esamineremo la sessione di
coaching a quattr’occhi (cioè solo coach e allievo), anche se la struttura
di una sessione di squadra, o persino quella dell’autocoaching, rimane
esattamente la stessa (analizzeremo entrambe nei prossimi capitoli).
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Il coaching a quattr’occhi può persone di pari grado,
avvenire tra due
tra manager e dipendente, tra un allievo e un suo vecchio insegnante,
tra un allievo e il suo coach o anche tra un consulente e la persona che
ha richiesto il suo aiuto. Questo tipo di coaching può addirittura
applicarsi — in genere non apertamente — dal basso verso l’alto, vale a
dire tra un dipendente (in questo caso il coach) e il suo capo (che
diventa l’allievo). In fondo, dal momento che nessuno fa troppa strada
se pretende di dire al proprio capo quello che deve fare, praticare il
coaching dal basso verso l’alto è un modo assai più sicuro per ottenere
dei risultati positivi!
GROW: la crescita
La sequenza di domande che io suggerisco dovrebbe seguire quattro
punti ben distinti:
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estrapolazione dei dati, di ottenere molto meno di quanto sarebbe
possibile e di risultare addirittura controproducenti. Obiettivi a breve
termine possono poi persino allontanarci da quelli a lungo termine. In
base alla mia esperienza nella definizione di obiettivi nei corsi di
formazione per team, il team tende invariabilmente a fissare i propri
obiettivi basandosi su quanto è stato fatto in passato piuttosto che su
quanto è possibile fare in futuro, e in molti casi non si tenta neppure di
veri ficare eventuali nuove possibilità.
In generale, gli obiettivi fissati accertando prima quale sia la soluzione
ideale a lungo termine e stabilendo poi quali possano essere,
realisticamente, i passi da intraprendere per raggiungere quella
soluzione, offrono maggiori ispirazioni, inducono a una maggiore
creatività e favoriscono una reale motivazione interiore. Vorrei illustrare
questo punto — decisamente importante — con un esempio: se ci
accingiamo ad affrontarea il problema dell’eccessivo volume di traffico
su un’importan te strada di scorrimento limitandoci a indagare la
realtà, e probabile che finiremo per fissare come obiettivo quello d
rendere il traffico più scorrevole semplicemente ampliando la sede
stradale. Così facendo, potremmo oscurare un obiettivo a lungo termine
più «visionario», per esempio l’individuazione di un modello futuro ideale
di traffico per quella data area e la conseguente definizione dei passi da
seguire per procedere iii quella direzione.
Il mio suggerimento, nella maggior parte dei casi, è pertanto quello di
attenersi alla sequenza che abbiamo esposto in precedenza.
Devo sottolineare,
tuttavia, e lo farò spesso. che la semplice
applicazione sequenza
della GROW, estrapolato dal contesto della
consapevolezza e del senso di responsabilità, e senza la necessaria
capacità di porre le giuste domande per generarle entrambe, ha ben
poco valore. Nei corsi di formazione abbondano acronimi che si possono
facilmente ricordare, recepiti come una sorta di panacea per tutti i mali
che affliggono la vita aziendale. In realtà il loro valore risiede
unicamente nel contesto vengono usati, e il contesto del
in cui GROW è
rappresentato dalla consapevolezza e dal senso di responsabità.
Il tipico capo dai metodi autocratici potrebbe rivolgersi ai suoi sottoposti
nel modo seguente:
1. il mio obiettivo (Goal) è quello di vendere questo mese mille esemplari
del nostro prodotto:
2. un dato di fatto (Reality) è che il mese scorso avete avuto dei risultati
molto scarsi e siete riusciti a venderne sol tanto 400. Siete una massa
di pigroni perdigiorno eccetera eccetera. Il nostro principale concorrente
sta commercializzando un prodotto migliore del nostro, quindi dovrete
mettercela tutta:
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3. ho considerato tutte le opzioni (Options) e non intendiamo né
aumentare la nostra pubblicità né presentare il prodotto in una
confezione diversa:
Contesto e flessibilità
Se intendete ricavare un qualche risultato dalla lettura di questo libro,
fate in modo che si tratti di consapevolezza e di una certa dose di
ripensamento, nel senso che, fino a quando non si sono esaminati nel
dettaglio i dati di fatto, cioè la realtà, l’obiettivo può essere fissato in
termini ancora vaghi e si renderà quindi necessario riprendere il primo
punto (cioè tornare all’obiettivo) allo scopo di definirlo con maggior pre
cisione prima di passare alla fase successiva. Una volta che la realtà sia
chiarita, può capitare che anche un obiettivo all’inizio nettamente
definito si riveli sbagliato o inadeguato.
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CAPITOLO 7 FISSARE GLI OBIETTIVI
Lavoro meglio se sono ioa volerlo fare, non se devo farlo.
Se lo voglio fare, è per me: se lo devo fare, è per altri.
La nostra motivazione interiore dipende dalla libertà di scelta.
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eche se per la sua performance si fosse prefissocome obiettivo di
saltare, diciamo. 8 metri e 30 centimetri, o quanto meno di ripetere il
suo record personale, probabilmente avrebbe vinto la medaglia
d’argento.
Gli obiettivi finali e quelli di performance vanno spesso corredati da altri
due elementi, che forse non possiamo defìnire esattamente obiettivi.
Prendiamo l’esempio di Rebecca Stevens, la prima donna di nazionalità
britannica a scalare il Monte Everest: tiene regolarmente conferenze e
incontri in aziende e in scuole nei quali racconta delle vette da lei rag
giunte, e non solo nel senso orografico del termine. Potete stare certi
che, dopo averla ascoltata mentre narra ispirata le sue imprese. molti
alunni corrono a casa e fanno impazzire a i genitori perché li portino
scalare le montagne o una palestra dove sia possibile
almeno in
arrampicare. «Salirò in cima all’Everest» può essere la frase tipica di un
bambino, ma rappresenta allo stesso tempo un sogno personale, una
sorta di visione che ci spinge ad agire. A volte abbiamo bisogno di
ricordare, oppure che ci venga fatto ricordare con la giusta domanda,
che cos’è che ci ha ispirato a iniziare o a continuare a fare ciò che
amiamo fare. Si tratta di quello che potremmo definire l’obiettivo
sognato.
Dopo alcune scalate di considerevole importanza, Rebecca Stevens
raggiunse quel livello di perizia tecnica e di abilità grazie alle quali salire
l’Everest poteva considerarsi ragione volmente un obiettivo finale
(ammesso che dare la scalata al l’Everest possa mai considerarsi un’
impresa ragionevole!) Tuttavia, prima di arrivare in cima alla montagna
più alta del mondo, aveva ancora una montagna di lavoro da
Rebecca
svolgere, tra cui fisico e acclimatazione.
allenamento Se nofl avesse
avuto la ferma volontà tutta se stessa nel l’ardua fase di
di investire
preparazione, l’Everest sarebbe rimasto soltanto un sogno. «Quanto è
disposto a investire prima di poter toccare con mano l’obiettivo?» è una
domanda che rivolgo spesso all’allievo nella fase in cui si fissano gli
obiettivi, qualunque sia il campo di attività in cui il coaching viene
applicato. È quello che io chiamo «obiettivo di processo» o anche
«obiettivo operativo».
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possibilità di scelta e di coinvolgimento relativamente a modi e tempi di
esecuzione del lavoro.
Di chi è l’obiettivo?
Quando si parla di motivazione personale, il valore dell libertà di scelta
e del senso di responsabilità non andrebbe mai sottovalutato. Se, per
esempio, il team di un ufficio vendite propone un obiettivo di vendita
inferiore alle aspettative personali del capo, quest’ultimo, prima di
cestinare in quattro e quattr’otto la proposta e imporre la propria,
dovrebbe considerare con grande attenzione le possibili conseguenze.
Farebbe infatti molto meglio a tenere a bada il suo orgoglio ad accettare
i
numeri presentati dal team, tanto più che, insistendo sui suoi,
potrebbe ottenere l’effetto di compromettere la performance dei suoi
collaboratori, nonostante l’obiettivo più ambizioso da lui imposto. I
membri del team, infatti, potranno anche giudicare i numeri imposti dal
capo piu o meno realistici, ma è certo che, non avendo alcuna libertà di
scelta, si sentiranno totalmente demotivati. Ovviamente, se il capo è
molto sicuro del proprio obiettivo, possiede ancora un’opzione a sua
disposizione: quella di accettare inizialmente i numeri proposti dal team
per ricorrere successivamente al coaching e guidare i collaboratori
nell’analisi e nel superamento delle eventuali barriere che ostacolavano
la definizione di obiettivi più ambiziosi. Solo così il team potrà sentirsi
responsabile del raggiungimento di un obiettivo che originariamente
non era il suo.
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Gli obiettivi di performance/processo in vista
dell’obiettivo finale
preciso,
surabile,
concordato,
realistico (se non è realistico, non c’è speranza)
progressivo.
deve essere altresì:
lecito,
ecologicamente corretto,
appropriato,
ufficializzato.
posto in forma positiva. Che cosa accade infatti quando un
obiettivo è formulato negativamente? Per esempio: «Non dobbiamo restare gli ultimi tra
i
venditori che operano nella nostra regione». Su che cosa si concentra l’attenzione?
Ovviamente fatto di essere gli ultimi. Se io vi dico: «Non pensate
sul a un pallone
rosso», a checosa pensate immediatamente? Oppure se dico a un bambino: «Non far
cadere il bicchiere! Non versare l’acqua! Non fare errori!» Un esempio particolarmente
icastico lo possiamo trarre dal mondo del calcio: se quando si tratta di batte re un
rigore l’allenatore dicesse al giocatore incaricato: «Guai a te se la butti fuori!», costui
avrebbe tutto il tempo, intanto che raggiunge il dischetto e sistema la palla, per
pensare al rischio che sta correndo, con risultati, come è facile intuire, disastrosi sulla
sua performance. Insomma non è difficile trasformare gli obiettivi in forma negativa in
formulazioni positive. come per esempio: “Dobbiamo raggiungere il quarto posto per
volumi di vendite”, oppure “Manderç la palla esattamente all’incrocio dei pali, per
quanto difficile possa essere”.
Gli obiettivi devono essere concor dati tra tutte le parti coinvolte: il capo
che pensa di doverli stabilire, il direttore delle vendite e la squadra che
deve svolgere il lavoro. Se non c’è accordo, si perdono il coinvolgimento
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e il raggiungimento di un obiettivo, il senso di responsabilita del team e
ilsuo rendimento ne risentirà conseguentemente.
Può sembrare un eccesso di zelo suggerire che gli obiettivi dovrebbero
essere leciti dal punto di vista legale, eticamente ineccepibili ed
ecologicamente corretti, ma ogni singolo individuo possiede dei propri
codici personali in materia e l’unico modo per sincerarci che i nostri
dipendenti si attengano ai più sani principi è quello di uniformare i
nostri obiettivi agli stan dard più alti. I giovani lavoratori di oggi
tendono, per esem pio, a seguire standard etici più elevati di quelli dei
loro manager più anziani, che restano spesso di stucco e si scusano con
la solita frase «da noi si è sempre fatto così». Oltre tutto, in forza del
senso di responsabilità civile e legale che oggi viene auspicato nel
mondo degli affari come in tutti gli altri aspetti della vita sociale, le
conseguenze negative derivanti un richiamo o
da da una condanna per
comportamenti illeciti o da una causa intentata da un’associazione di
consumatori inciderebbero pesantemente sui profitti generati da attività
non pienamente lecite.
Nel suo libro Sporting Escellence, David Hernery riporta le parole di sir
Michael Edwardes:Non riuscirete a far lavorare per voi i migliori se nella
vostra attività non vi attenete ai più elevati standard di integrità morale.
Se pensate alle 1000 sterline che potreste guadagnare aggirando
qualche normativa, sappiate che il danno che causerete demotivando i
vostri dipendenti sarà di 20.000 sterline.
Occorre anche fare in modo che ciascun obiettivo sia chiaramente
compreso, dato che troppo spesso dei presupposti errati possono
indurre a pericolosi fraintendimenti, persino tra le persone che hanno
collaborato direttamente alla definizione dell’obiettivo.
Obiettivi olimpici
Forse è proprio dalle Olimpiadi che posso trarre l’esempio più lampante
che io conosca di una buona definizione degli obiettivi. Un giorno un
certo John Nabor, giovane matricola di un college americano, vide
appuntare sul petto di Mark Spitz ben sette medaglie vinte nel nuoto
durante le Olimpiadi di Monaco deI 1972. In quel momento, il nostro
John decise che nei giochi olimpici del 1976 si sarebbe aggiudicato lui
la medaglia d’oro nei 100 metri dorso. a quell’epoca avesse già
Benché
vinto il Campionato nazionale era ancora sotto di cinque
juniores,
secondi rispetto al record olimpico, e ricuperare quei secondi non era
uno scherzo alla sua età e per di più su una distanza breve come i 100
metri. Decise di tentare l’impossibile fissando prima di tutto come
proprio obiettivo di performance un nuovo record mondiale e dividendo
poi i cinque secondi che gli mancavano per il numero di ore di
allenamento che avrebbe potuto sostenere nel giro di quattro anni. Dal
risultato così ottenuto dedusse che doveva migliorare il SUO tempo di
una piccola frazione di secondo per ogni ora di allenamento e, pertanto,
ritenne la cosa pienamente fattibile: occorreva soltanto che si mettesse
al lavoro con molta intelligenza e altrettanto impegno. E fattibile lo fu
51
veramente: nel 1976 aveva talmente migliorato la sua prestazione da
essere nominato capitano della squadra di nuoto americana in partenza
per le Olimpiadi di Montreal, dove si aggiudicò la medaglia d’oro nei 100
e nei 200 metri dorso, stabilendo inoltre sulla prima distanza il record
mondiale e sulla seconda quello olimpico. Quando si dice definire gli
obiettivi ! John Nabor era motivato da un obiettivo finale ben preciso
che seppe supportare con un obiettivo di performance interamente sotto
il suo controllo, il tutto perfettamente sostenuto da un processo
sistematico, come è visualizzato nella Figura 7.1.
SOG NO
O BIET T I
VO FI
NA LE
O BI
ET T I
VO DIPERFO RMA NC E
PRO C ES S O
JOE: No, certo che no, quello sarebbe voler puntare troppo in alto, e poi
anche la vita potrebbe cambiare una volta che comincio a stare meglio.
Mi basterebbe un programma realistico per i prossimi tre mesi, sarebbe
perfetto.
52
MIKE: Cerchiamo di considerare la cosa anche a lungo termine, per un
momento. Secondo te qual è lo scopo per cui vuoi essere più in forma?
JOE: Il fatto è che mi sento uno schifo e questo si ripercuote sul lavoro.
Vorrei tornare a star bene.
JOE: Vorrei riuscire a perdere sette chili ed essere in grado, nel giro di
qualche mese, non soltanto di fare le scale o di correre per prendere il
treno senza sentirmi il cuore in gola, ma anche di provare piacere a
correre.
MIKE: Esattamente, a quanti chili vorresti arrivare e per quale data?
JOE: Vorrei pesare 84 chili alla fine dell’estate, il che vuol dire
all’incirca perderne sei o sette.
MIKE: Pe che giorno ?
JOE: lI 20 settembre.
MIKE: Bene, oggi è il 19 febbraio, quindi hai sette mesi di tempo.
JOE: Mmmh! Più o meno un chilo al mese, magari all’inizio anche di
più.
MIKE: Quanti chili vuoi perdere per il primo di giugno?
JOE: Più o meno cinque chili.
MIKE: Potresti farcela limitandoti nel mangiare, ma non è detto che ti
basterà a farti sentire in forma. In che modo potremo misurare il tuo
«essere in forma»?
53
CAPITOLO 8 CHE COS’E’ LA REALTA’ ?
Essere obiettivi
Il criterio fondamentale a cui attenersi nel valutare una situazione è
l’obiettività, cioè il fattore sul quale più influiscono le opinioni, i giudizi
ei pregiudizi, le aspettative e le speranze, le preoccupazioni e i timori
della persona che percepisce tale realtà.
Distacco
54
Apprestandoci dunque a esaminare la realtà, occorre fare in modo che il
processo mentale, sia del coach sia dell’allievo, non subisca alcuna
potenziale distorsione. Questo richiede al coach un notevole grado di
distacco nonché la capacità di formulare le domande in maniera tale
che la risposta dell’allievo sia il più concreta possibile. A una domanda
del tipo «Quali sono stati i fattori che hanno determinato la sua
decisione?» seguirà una risposta molto più precisa che a una domanda
formulata così: «Perché lo ha fatto?», che tende a indurre l’allievo a
rispondere in base a quelle che ritiene le aspettative del coach o a porsi
sulla difensiva, quasi fosse chiamato a giustificare in qualche modo la
sua azione.
55
possa applicare per favorire lo svi luppo della personalità parleremo più
diffusamente nel Capitolo 17). Comunque sia, la capacità di formulare
in maniera efficace domande inerenti la realtà ha un’importanza
sostanziale, quale che sia il campo di applicazione.
Approfondire la consapevolezza
Se, dopo aver posto le sue domande, il coach riceve dall’allievo risposte
che sembrano scaturire da un grado normale di consapevolezza, potrà
forse fornire un aiuto all’allievo per fargli strutturare meglio i propri
pensieri, ma di certo non scandaglierà nuovi o più profondi livelli della
sua consapevolezza. Quando l’allievo si ferma a riflettere prima di dare
la sua riposta, magari sollevando per un attimo lo sguardo, il coach ha
il segnale che nuovi o più profondi aspetti di consapevolezza stanno
maturando. Per attingere all’informazione che gli è stata richiesta dal
coach, l’allievo si trova costretto a sondare nuove profondità della sua
coscienza (è come se per trovare la risposta dovesse inabissarsi nelsuo
immenso schedario interiore),
poi, una volta acquisita la nuova
consapevolezza. quest’ultimaemerge a livello conscio, rendendo l’allievo
più forte. Disponiamo una certa possibilità di scelta e di controllo su
di
ciò di cui siamo consapevoli, ma ciò di cui non lo siamo controlla noi.
Seguire l’allievo
Un bravo coach farà il possibile per adeguarsi agli interessi o alla catena
di pensieri dell’allievo, verificando nel frattempo in che modo il tutto si
relazioni con l’argomento generale che viene affrontato nella sessione. Il
coach dovrebbe inoltre portare alla luce gli elementi che a suo avviso
sono stati trascurati soltanto quando si convince che l’allievo si sente
pronto a passare a un altro aspetto del problema. Se, per esempio,
costui dà l’impressione di aver divagato dal sentiero tracciato, una
domanda del tipo «ma in che modo questo si rapporta al nostro
problema?» può ricondurlo sul giusto percorso o indurlo a indicare una
ragione valida per cui ha cercato, per così dire, di scantonare. In un
caso come nell’altro, questo fa sì che sia sempre lui a condurre il gioco.
Un esempio connesso con il mondo del lavoro, supponiamo che un’alta dirigente di
un’azienda, Alice, voglia vederci chiaro in un problema di una certa consistenza
insorto nell’ufficio di Peter, per prendere adeguate misure correttive.
Se lei solleva senza preamboli il problema, è possibile che lui si senta minacciato e si
metta sulla difensiva e, in questo caso, la sua descrizione di quanto è accaduto sarà
immancabilmente distorta per far sì che le cose appaiano migliori di quanto sono in
realtà: tuttavia, se la dirigente lasciasse a Peter la libertà di condurre la conversazione,
arriverebbe mai al nocciolo della questione che le interessa? Probabilmente non
56
subito, ma se Alice saprà avere pazienza, cioè riuscirà a mordersi la lingua, Peter
comincerà a non sentirsi più minacciato, quel tanto per riuscire a esporre lui stesso il
problema. E lo stesso dipendente il primo a sapere che il problema esiste, anche se a
tutta prima può cercare di negarlo a se stesso e agli altri. Quando un subordinato
inizia a non vedere più nel proprio capo una minaccia bensì un possibile aiuto, sarà
ben felice di affrontare con lui qualsiasi problema e, quando questo avviene, si
rendono possibili sia un dialogo franco sia una diagnosi onesta, i due elementi
indispensabili per giungere a una rapida soluzione del problema.
La cultura del biasimo che ancora predomina nel mondo del lavoro
spinge esattamente verso comportamenti opposti, innescando la
cosiddetta «sindrome della realtà falsificata», ovvero del tipo: «Ti dirò
soltanto quello che credo tu voglia sentire o che mi terrà fuori dai guai».
Tutti gli interventi attivati da questo punto in poi saranno perciò basati
su una falsa realtà.
manager
I più saggi iniziano a indagare in termini molto generali e
ascoltano con attenzione ciò che il dipendente ha da dire. Il manager, in
questo caso, assiste il proprio sottoposto con minore difficoltà riuscendo
così a porsi ai suoi occhi come un sostegno anziché una minaccia. Èun
approccio di questo tipo a condurre con ogni probabilità alla vera causa
del problema, anziché impedire all’indagine di spingersi oltre i sintomi
superficiali. Se vogliamo eliminare una volta per tutte i problemi,
dobbiamo affrontarli a un livello più profondo di quello a cui essi
normalmente si palesano.
Usare i sensi
Nella maggior parte delle sessioni di coaching legate al mondo del
lavoro, gli elementi forniti dall’analisi della realtà saranno costituiti da
fatti e da numeri, da eventuali problemi insorti, dalle azioni intraprese
per correggerli, dagli ostacoli ancora umane e
da superarsi, dalle risorse
materiali disponibili e via dicendo: tutti elementi che vengono esposti e
discussi attivando facoltà puramente intellettuali. Nel caso in cui, però,
l’allievo debba appropriarsi di una qualche nuova abilità concreta, come
per esempio apprendere l’uso di un nuovo strumento utile alla sua
attività — non importa se una racchetta da tennis o una locomotiva —
la pratica del coaching dovrà concentrarsi anche sull’uso dei sensi
(tatto, udito e vista).
La consapevolezza del proprio corpo porta con un ‘autocorrezione
automatica. Se di primo acchito vi è difficile crederlo, provate
semplicemente a chiudere gli occhi per un istante e cercate di
concentrarvi sui vostri muscoli avere la
facciali. Magari vi accorgerete di
fronte corrugata o la mascella contratta e, quasi in simultanea con
questa vostra nuova consapevolezza, potreste avvertire una sorta di
rilassamento in virtù del quale la fronte e la mascella saranno
perfettamente distese. Lo stesso principio può applicarsi a movimenti
fisici più complessi. Concentrandoci sulle parti del nostro corpo che
devono esercitare un dato movimento, avvertiremo chiaramente le
diverse tensioni che impediscono una piena efficienza motoria e
otterremo automaticamente quella messa a punto che ci consentirà di
migliorare l’atto. E proprìo questa la base su cui poggia il nuovo
57
approccio del coaching all’apprendimento tecnico e alla condizione fisica
nello sport.
La consapevolezza interiore aumenta a sua volta
l’efficienza fisica che
permette di migliorare la tecnica. Stiamo quindi parlando di una tecnica
che scaturisce dall’interno verso l’esterno, anziché seguire il percorso
inverso. Si tratta inoltre di una tecnica totalmente integrata con il
corpo, a esso appartiene e da esso scaturisce, e quindi è ben lontana,
per non dire agli antipodi, dal concetto tradizionale di «tecnica che è
qualcosa a cui si è costretti ad adattare il corpo. Quale tra queste due
versioni ha maggiori probabilità di condurre a uno performance
ottimale?
Mettere in azione le emozioni
Come abbiamo visto, i sensi rappresentano uno degli aspetti della
consapevolezza di noi stessi. Un altro aspetto è costituito dalle
emozioni, che risultano particolarmente importanti in quelle
problematiche di ordine interpersonale tanto comuni sul lavoro ma
anche, a ben vedere. in ogni altra situazione della vita quotidiana. Le
domande più adatte in proposito sono le seguenti:
• Che cosa prova quando viene inaspettatamente convocato nell’ufficio
del capo?
Ciascuno di noi porta con se, a volte dal tempo dell’infanzia, convinzioni
e opinioni consolidate che imprimono inevitabilmente una certa
sfumatura alle nostre percezioni e ai nostri rapporti con gli altri. Se non
siamo in grado di riconosceme l’esistenza e di compensarne gli effetti, il
nostro senso della realtà ne rimarrà distorto.
58
Le interconnessioni tra corpo e niente
59
• Una domanda che esiga una risposta precisa è essenziale per
costringere l’allievo a riflettere, esaminare, guardare, sentire e sentirsi
impegnato.
• Le domande esigono una focalizzazione ad alta risoluzione, in modo da
ottenere risposte adeguatamente dettagliate.
• Le risposte concernenti la realtà dovrebbero essere descrittive e prive
di elementi di giudizio, al fine di garantire sincerità e precisione.
• Le risposte devono essere tali per qualità e frequenza da innescare
una spirale di feedback fra coach e allievo.
Èin questa fase del coaching, quella in cui si affrontano i dati di fatto
della situazione, che le domande dovrebbero esordire per lo più con
termini interrogativi come che cosa, quando, dove, chi e quanto. Come
ho già sottolineato, solo di rado e quando non vi sia altra scelta
dovremmo proporre domande che esordiscano con perché e come.
Queste due ultime forme interrogative inducono infatti all’analisi, a
esprimere un’opinione, e possono mettere l’allievo sulla difensiva
laddove dovrebbero invece soltanto servire a chiarire dei fatti. Nella fase
del coaching. in cui si affrontano gli aspetti della realtà, i fatti rivestono
una particolare importanza e, come accade nelle indagini di polizia,
un’analisi che preceda la raccolta di tutti gli elementi concreti porta a
elaborazioni puramente teoriche e alla conseguente distorsione di dati
fondamentali. Il coach dovrà restare particolarmente vigile, attento ad
afferrare con gli occhi e con le orecchie qualsiasi segnale che indichi
quale direzione seguire nella formulazione delle domande. Va precisato
a questo punto ancora una volta che lo scopo è accrescere la
consapevolezza di sé nell’interlocutore. Il coach non deve
necessariamente conoscere l’intera storia, la particolare situazione, ma
deve essere assolutamente certp, che sia l’allievo ad avere le idee chiare
in merito. Questo permette anche di non sprecare il tempo sempre -
prezioso - che occorrerebbe al coach per prendere conoscenza in
dettaglio di tutti i fatti prima di fornire la risposta più adeguata.
Una delle domande relative agli elementi fattuali che raramente manca
il bersaglio è:
Soluzioni affrettate
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Èsorprendente constatare con quale frequenza un’accurata indagine
della situazione porti in superficie la risposta giusta prima ancora che si
sia entrati nelle altre due fasi del coaching. Durante la fase di analisi
della realtà e talora persino durante quella di definizione degli
—
obiettivi —emergono spesso evidenti possibilità di azione,
invariabilmente accompa gnate dall’esclamazione «Eureka!» e da un
ulteriore impulso a condurre a termine il compito. Il valore di questo
fenomeno è tale che il coach dovrebbe avere la determinazione di
soffermarsi abbastanza a lungo nelle fasi degli obiettivi e dell’analisi
della realtà, resistendo alla tentazione di passare prematuramente alla
fase delle opzioni. Quindi, nel timore di commettere anche noi lo stesso
sbaglio, torniamo per un attimo alla sessione di coaching che si sta
svolgendo tra Mike (il coach) e Joe (l’allievo).
MIKE: Bene, abbiamo definito i tuoi obiettivi, Joe: diamo adesso uno
sguardo a come stanno le cose ora: quanto pesi ?
JoE: Novanta chili vestito.
JoE: La mia salute, il fatto che sono entrato negli «anta»... e poi negli
ultimi tempi mi sento insicuro del mio lavoro.
MIKE: Che cosa ti preoccupa maggiormente?
61
MIKE: Con gli amici o con tua moglie?
JOE: Sì. Caviglie dolenti, polpacci, cosce, il fiato corto.., tut te cose che
non sopporto.
MIKE: Che altro esercizio fisico fai ? Passeggi, vai in bicicletta, o
perlomeno eviti di prendere tutte le volte l’ascensore?
JOE: Niente di niente, giusto ogni tanto faccio la sauna.
MIKE: Quanto pensi che ti possa aiutare la sauna?
JOE: Aiuta a farmi sentire meno in colpa, e poi non è per niente
faticosa.
A questo punto Joe è più onesto con se stesso per quanto riguarda la
realtà della sua indulgenza verso le proprie debolezze: eccessiva
alimentazione, alcol ed esercizio fisico ridot to al minimo. I suoi pii
desideri, o se le sue autoillusioni, ora poggiano su dati di fatto
vogliamo
e, ciò che più ora sa esattamente da dove parte.
importa,
Mike, quindi, lo consiglia di rivedere il suo iniziale obiettivo di arrivare a
pesare ottantaquattro chili, che appare forse poco realistico, visto che
adesso ne pesa novantaquattro. Joe, tuttavia, si sente così disgustato
dal suo peso attuale che non intende modificare l’obiettivo degli
62
ottantaquattro chili, anche se per raggiungerlo deveora riuscire a calare
mediamente quasi di un chilo e mezzo al mese. Mike lo ritiene
comunque realistico.
Fortunatamente, allo scopo di ridurre il disagio che Joe prova quando
corre, Mike si offre di fargli da coach anche durante una corsa (il che ci
offre un esempio di coaching applicato a un’attività fisica). I due si
preparano a una corsa non troppo lunga, dopo aver stabilito di tenere
un passo moderato e di avere come obiettivo la scoperta di un modo di
correre gradevole.
MIKE: Bene, per ora limitiamoci a trovare una velocità che risulti
piacevole... Che cosa senti nel tuo corpo?
JOE: Sento i polpacci rigidi.
MIKE: Cerca di concentrare la tua attenzione sui polpacci e dimmi
esattamente che cosa senti al loro interno.
JOE: Non sempre, soltanto quando porto avanti la gamba, ed è più forte
nel destro che nel sinistro.
MIKE: Stabilisci per la tensione una scala da uno a dieci, dove dieci è la
massima tensione che riesci a immaginare e dimmi quanto senti teso il
polpaccio destro
63
J0E: E’ ancora più calmo... Ehi, ma allora sto diventando un corridore!
MIKE: Quale caratteristica ti piacerebbe di più trovare nel tuo modo di
correre?
64
I
postulati negativi
Tra i fattori che più limitano l’individuazione di soluzioni creative —
tanto nel mondo del lavoro quanto in situazioni di altro tipo — vi sono
alcuni postulati impliciti di cui tutti siamo portatori, benché quasi mai
consciamente. Per esempio:
•Èimpossibile riuscirci.
•Èimpossibile riuscirci in questo modo.
• Non accetteranno mai una cosa simile.
Selezionare le opzioni
Costi e vantaggi
Una volta compilato un elenco esauriente di opzioni, la fa se del
coaching che riguarda il che cosa fare può semplice mente limitarsi alla
scelta dell’opzione migliore all’interno di
una rosa di possibilità. Nel caso di problemi più complessi, co me capita
quasi sempre in ambito lavorativo. potrebbe rendersi tuttavia necessario
riesaminare l’elenco, definendo con preci sione i costi e i vantaggi
inerenti a ciascuna opzione. Anche quest’indagine ulteriore andrebbe
condotta rispettando la tec nica del coaching. a questo punto che,
ed è
fondendo tra loro due o più idee, potremmo emergere la scelta
fare
ottimale. Di solito, durante questa fase, invito gli allievi a valutare
quanto gli piaccia ciascuna opzione secondo una scala da 1a 10.
L’input da parte del coach
Come si deve comportare un coach che, disponendo maga ri di
particolari conoscenze tecniche oppure di una certa espe rienza in
merito al problema in questione, si accorge che l’al lievo non ha
espresso quella che a suo avviso sarebbe la solu zione più ovvia? In
quale fase del processo un coach dovreb be fornire apertamente la
propria perizia tecnica? Ovviamen te, nel momento in cui si rende conto
67
che l’allievo ha esaurito tutte le sue possibilità. Ma in che modo può
dare il proprio in put senza con questo compromettere il senso di totale
respon sabilizzazione dell’allievo? Dicendo, molto semplicemente, una
frase del tipo: «Io avrei qualche altra opzione da suggerire. Le va di
ascoltarla?» A questo punto, quasi nessuno degli allievi risponde: «No.
grazie», anche se può sorgere la richie sta che venga concesso loro
ancora un po’ di tempo per com pletare un ragionamento in corso. Ai
suggerimenti offerti dal coach va ovviamente data la medesima
importanza che è stata attribuita alle altre opzioni indicate dagli allievi.
MIKE:Altro?
JOE: Potrei evitare i cibi particolarmente grassi.
MIKE: Che altro genere di esercizio fisico potresti fare?
JOE: Be’, penso che potrei iscrivermi a una palestra.
MIKE: Ti viene in mente altro?
JOE: Potrei andare in piscina oppure praticare lo squash, cosa a cui tra
l’altro avevo già pensato. O magari giocare a golf.
MIKE: Che cos’altro potresti fare che non richieda spese né attrezzature
particolari o iscrizioni a circoli o club, qual cosa che potresti praticare
normalmente nella vita di tutti i giorni?
68
MIKE: Prenderesti in considerazione ancora un’altra opzione?
JOE: Certamente, se tu ne hai una da suggerirmi.
MIKE Che diresti di esercitarti coi pesi e fare un po’ di ginnastica a
casa?
I
due amici esaminano poi l’aspetto pratico di cene diete e la possibilità
di evitare di assumere alcolici nell’ambiente di lavoro.
A questo
.
Sono sicuro di essere più in forma dei miei avversari e credo che questo
sia determinante. Nella mia squadra non vorrei nessuno che non fosse in
smagliante forma fisica”
punto Joe è perfettamente consapevole di tutte le opzioni e ha
fatto piena chiarezza sui rispettivi pro e contro. Èarrivato il momento di
prendere delle decisioni.
69
CAPITOLO 10 CHE COSA FARAI?
Le domande che vi suggerirò tra poco, quelle che rientrano nella quarta
fase (la fase «W» dell’acronimo GROW), sono applicabili alla maggior
parte delle situazioni in cui viene praticato il coaching. Il coach,
naturalmente, può aggiungere dei sottoinsiemi di domande volte a
chiarire i singoli punti, ma queste domande principali costituiscono già
un’ossatura efficace per questa fase.
Le richieste avanzate da manager dai modi autocratici vengono spesso
accolte con una calma rassegnata oppure con atteggiamenti di resistenza
o di risentimento,per quanto li si manifesti «diplomaticamente». Un coach,
al contrario, può introdurre nella successione di domande che
caratterizzano questa fase un sorprendente grado di severità, senza per
questo suscitare negli interlocutori malumori o offese, per il semplice
fatto che egli non sta imponendo la propria volontà ma si sta sforzando
di attivare quella degli altri. Poiché la scelta e la responsabilità del
processo restano comunque nelle mani dell’allievo, anche nel caso in
cui quest’ultimo decida di non intraprendere alcuna azione in
conseguenza del coaching, neppure le domande più dure e dirette
suscitano reazioni negative. Gli allievi di una sessione di coaching
possono persino di mostrarsi divertiti delle proprie indecisioni, se si
sentono in qualche modo spinti all’azione significa che il coach sta
inconsapevolmente dimostrando di pensare che essi dovrebbero
adottare una specifica azione.
Veniamo ora al valore e agli obiettivi di queste domande, cercando di
individuare il modo migliore per porle.
Che cosa intendete fare? Questa domanda è totalmente
diversa da «Che cosa potreste fare!» oppure «Che cosa pensate di fare» o
«Quale di queste azioni preferireste!» Nessuna di queste ultime, infatti,
implica una ferma decisione. Una volta che il coach ha posto la
domanda con voce chiara e decisa per far capire che è il momento di
prendere delle decisioni, può formularne una ulteriore: «A quale di
queste alternative vi atterrete!» Il piano d’azione elaborato durante la
sessione di coaching riquadrerà, nella maggior parte dei casi, più di una
opzione, o una combinazione di elementi tratti da diverse opzioni.
70
Le possibili opzioni sono state finora definite in modo generico, sicché
per il coach è giunto il momento di porre domande precise e
circostanziate, volte a chiarire in dettaglio la scelta effettuata. Direi che
a questo punto le domande più significative sono senza dubbio quelle
che seguono.
Quando lo farete? Questa è forse la domanda più
«impegnativa». avere grandi idee su ciò che ci piacerebbe
Tutti possiamo
fare o che faremo, ma è soltanto quando fissiamo delle scadenze precise
che la nostra azione passa a un livello di realtà (e talvolta non basta dire
«l’anno prossimo»: se qualcosa deve avvenire, occorre che le scadenze
siano definite nel dettaglio).
Quando si tratta di una singola azione, la risposta voluta potrebbe
essere: «Alle 10 in punto di martedì prossimo, giorno 12 di questo
mese». Spesso di fissare sia un’ora e una data per l’inizio
si richiederà
dell’azione che e una data per la sua conclusione. Se l’azione
un’ora
decisa si ripete nel tempo, occorre specificare gli intervalli: «Ci riuniremo
alle 9.00 del primo mercoledì del mese». E compito del coach fare in
modo che l’allievo definisca con precisione le scadenze temporali: questi,
infatti, può anche cominciare a dare risposte evasive nel tentativo di
svicolare, ma un buon coach non glielo permetterà.
71
Di quale aiuto avrete bisogno? Questo aspetto dell’azione
è probabilmente in stretto rapporto con il precedente, ma occorre
comunque tenere presente che un aiuto può presentarsi sotto forme
diverse: potrebbe comportare un’intesa con altri al fine di coinvolgere
persone o risorse esterne, oppure limitarsi al fatto di informare un
collega di quanto avete in mente di fare e pregarlo di rammentarvelo il
più spesso possibile. aiutandovi in questo modo a mantenere la
concentrazione e la determinazione necessarie. Il fatto stesso di
condividere con un’altra persona l’azione che intendete intraprendere
sortisce spesso l’effetto di rendervi più sicuri di attuarla.
Come e quando otterrete tale aiuto? Non ha molto
senso desiderare un aiuto senza compiere i passi necessari per
riceverlo. Su questo punto il coach deve insistere fino a che non sia
stata fatta completa chiarezza.
Quali altre considerazioni ci sono da parte vostra?
Si tratta di una domanda necessaria, che potremmo definire polivalente
e che impedisce all’allievo di attribuire al coach qualche dimenticanza.
Èresponsabilità dell’allievo fare in modo che nulla venga tralasciato.
Valutate su una scala da / a 10 il vostro grado di
sicurezza sul fatto che porterete a compimento le azioni
concordate. Non si tratta di valutare la certezza del risultato reale,
bensì la volontà da parte dell’allievo di portare a termine quanto gli
compete. La piena realizzazione del piano può dipendere da intese o da
azioni che dipendono a loro volta da altri, e questo non è possibile
valutarlo in alcun modo.
Che cosa vi impedisce di attribuirvi un bel 10? Se
avete espresso una valutazione inferiore a 8, in che modo potreste
ridurre la portata della vostra azione o prolungarne i tempi di
realizzazione così da far salire la valutazione fino a 8 o anche oltre? Se
la vostra valutazione continua a restare al di sotto di 8. rinunciate
all’azione perché è assai improbabile che possiate farcela.
La piena realizzazione
Il consiglio che ho appena dato non intende essere una forma di
disfattismo o peggio ancora di sabotaggio, come potrebbe sembrare. Il
fatto è che la nostra esperienza ci dice che chi si attribuisce una
valutazione inferiore a 8 raramente riesce ad arrivare fino in fondo. Può
capitare, tuttavia, che un allievo, posto di fronte alla necessità di
ammettere il proprio fallimento, sappia ritrovare la necessaria
motivazione per proseguire.
Molti di noi conoscono bene quel momento in cui ci accorgiamo che
dall’elenco delle nostre incombenze ve ne sono alcune ricorrenti che non
riusciamo mai a spuntare (e questo vale sia per il lavoro sia per i
lavoretti che dobbiamo fare in casa o in giardino). Alla fine, quell’elenco
è così spiegazzato e pasticciato che pensiamo bene di riscriverlo, ma
72
solo per accorgerci che alcune di quelle incombenze tornano puntual
mente a far capolino di carta. Cominciamo
sul foglio allora a sentirci
giustamente in ma questo non aiuta a risolvere il problema.
colpa,
«Com’è che non riesco a portare a termine questi lavori?» brontoliamo
con noi stessi. La lista che teniamo fra le mani, con le cose da fare che
continuano a non essere spuntate, è la prova evidente del nostro
fallimento. D’accordo, ma perché starci male? Se sapete che non
riuscirete a fare quella certa cosa, cancellatela dall’elenco, e se ‘volete
che il successo vi arrida sempre non mettete in elenco cose che non
avete in tenzione di portare a termine!
Non dimenticate che lo scopo del coaching è quello di creare e
conservare nell’allievo il senso di fiducia in se stesso e che dobbiamo
esercitare questa pratica con l’unico scopo di garantire che abbiano
successo, sia per se stesse che per l zienda in cui lavorano.
• praticare lo squash:
• giocare a golf;
• andare in bicicletta;
• fare passeggiate;
• fare le scale;
73
JOE: Speravo che non me l’avresti chiesto in modo così di retto! Ebbene
sì! Niente più vino e solo una birretta al giorno.
MIKE: Lo ritieni davvero possibile? Riesci a limitarti a una birra piccola
anche quando sei in compagnia degli amici?
JOE: No. probabilmente.
JOE:
°
MIKE: Ela lezione
MIKE: Altro?
JOE: Be’.
novembre.
il aprile.
scherzando!
condizioni
Credo
JOE:
patatine
Le
Te lo rammenterò
MIKE: Torneremo
JOE: Dovrebbe
MIKE: Sono
JOE: Penso
festività
meteorologiche
fritte
nevicherà?
in più
cosa
successiva!
non
dimmelo
natalizie
farai
di Natale
e
dopo.
comincerò
lascio la bicicletta
[estraendo
d’accordo, ma è realistico?
di sì.
disagevoli
la settimana
se in quei
mi
ad
l’agenda],
esercizio
spesso?
per quanto
c’è anche
queste difficoltà?
concederò
dopo,
giorni, o
al lavoro
in cui
e
di ginnastica
di prevedere?
per quanto riguarda
in altri,
il cibo
in bici
riconsidererò
e non pensare
riguarda
la mia pigrizia.
due birre
sarò
fuori
a casa.
il lilio
e un
e
in ferie,
ci
che stia
scopo.
il bere,
la
piatto
sarà
74
cletta
la
correrò
molto
e
corsa.
a
cosa
di
JOE: Sostituirò corsa con lo squash o con il nuoto. So già quello che
la
stai per chiedermi, per cui eccoti la mia risposta: quaranta minuti di
squash o venti vasche in piscina.
MIKE: E che cosa farai per la pigrizia, di cui del resto soffriamo tutti?
JOE: Avrò bisogno di essere spronato un po’ di tanto in tanto.
75
caso è meglio il numero delle serie di esercizi piuttosto che l’intensità
dello sforzo. Dieci minuti al giorno sarebbe l’ideale.
JOE: D’accordo: tutte le mattine appena alzato, e se per caso salto una
volta ho sempre la possibilità di recuperare la sera. Se salto un giorno
intero, farò esercizio doppio l’indomani.
MIKE: Quando pensi di cominciare?
JOE: Che ne dici di domani mattina?
MIKE: Tenendo conto della tua storia passata, hai dimostrato una
sorprendente determinazione fissando un programma che definirei
ambizioso. Come valuteresti, su un scala da I a 10, le tue possibilità di
farcela a mantenerlo nei prossimi tre mesi?
JOE: Mmmh, domanda difficile questa... direi 7.
MIKE: In che cosa potresti ridurre il tuo programma in modo da dare
una valutazione pià alta?
JOE: Credo che in effetti siaun po’ troppo per me e ho parecchi dubbi
sullo squash,perché so già che non riuscirò a mettermi lì a giocare tutto
solo non appena un attimo di tempo libero. Credo che eliminando lo
ho
squash potrei darmi un 9.
MIKE: Molto bene. Un’ultima verifica: con questo programma
raggiungerai il tuo obiettivo?
JOE: Direi che adesso è un pò meno pretenzioso ma altrettanto valido, e
soprattutto mi sento sicuro di farcela.
Non tutte le sessioni di coaching si svolgono in maniera così diretta ed
esplicita come questa e devo dire che spesso allievi oppongono
resistenze ben maggiori e tendono a complicare un pò di più tutto
quanto. La sessione di Mike e Joe comunque, è abbastanza tipica nel
suo genere e serve a illustrare gran parte dei principi che sottostanno
alla pratica di coaching.
Come appena detto, la maggior parte delle sessioni paiono meno
ho
strutturale e rigide di questa e, per lo più. svolgono in modo tale che
agli occhi di un profano potrebbero non sembrare neppure sessioni di
coaching. Penserebbe semplicemente che un tizio si sta dimostrando
particolarmente desideroso di aiutare un altro, rivelandosi prima di
tutto, un ottimo ascoltatore. Che si tratti di una sessione rigidamente
strutturata o informale, il principio fondamentale di un buon coaching
rimane quello di creare nell’allievo consapevolezza e senso di
responsabilità.
76
CAPITOLO 11 CHE COSA INTENDIAMO PER
PERFORMANCE ?
Se sono importanti sia la qualità di una performance sia la possibilità di imparare dall ‘esperienza,
77
così difficile sollecitare nell’atleta un buon grado di motivazione
interiore. Giornali e rotocalchi vorrebbero farci credere che fama e
ricchezza siano il sogno di ogni sportivo: forse per qualcuno è davvero
così, ma lo maggior parte degli atleti si mette alla prova mirando a
obiettivi meno concreti, come senso di identità, autostima, desiderio di
eccellenza e di esperienze estreme, tutti premi, per così dire,
intimamente personali, tanto che è l’atleta l’unico a poterli vedere,
sentire e apprezzare.
Il successo nel mondo del lavoro solleva meno clamori e, a paragone. è
assai più lento ad arrivare. D’altro canto, la qualità della vita sul posto
di lavoro, in virtù delle ore e degli anni che un individuo vi trascorre, è
di gran lunga più importante. Sono pochi i capitani di industria che
raggiungono un qualche tipo di riconoscimento pubblico, e quelli che lo
raggiungono rischiano il più delle volte di essere bollati da infamia
piuttosto che incensati dalla fama. Dall’altro lato, tutta via, il mondo del
business offre infinite opportunità, e piccole per conseguire
grandi
obiettivi personali a cui ciascuno può puntare per avere la possibilità di
crescere e sviluppare le proprie potenzialità. Purtroppo, ben pochi
riescono a vedere il posto di lavoro come un’arena nella quale
sviluppare la propria personalità né riescono a considerare la routine
lavorativa come una sorta di sfida da affrontare con determinazione.
Non deve sorprendere quindi che la loro performance non faccia faville.
La Johnsonville Sausage
Vorrei raccontarvi la storia della Johnsonville Sausage. Èil nome di una
piccola azienda famigliare produttrice di insaccati che si trova nel
Wisconsin e il cui CEO nel 1980 era Ralph Stayer. Sul numero di
novembre-dicembre 1990 della Harvard Business Review è comparso un
articolo dal titolo «Come ho imparato a lasciare che fossero i miei operai
a comandare», in cui Stayer racconta della sua azienda e da cui citerò
alcuni passi significativi.
Alla Johnsonville Sausage livelli di crescita, fatturato e profitti erano
ottimi, cosa che, dal punto di vista commerciale, lasciava presagire
buoni risultati, tuttavia... preoccupava
«Ciò più che
della mi
concorrenza era la frattura esistente tra potenzialità e performance»,
riferisce Stayer. «Non si trattava del fatto che qualcuno causasse
deliberatamente uno spreco di denaro, tempo e materie prime le
persone, semplicemente, non si assumevano alcuna responsabilità del
loro lavoro: arrivavano al mattino, facevano senza entusiasmo quello
che gli era stato detto di fare e se ne ritornavano a casa al la sera.»
La situazione descritta da Stayer è più diffusa di quanto sì creda e il suo
merito sta nell’aver chiaramente identificato il ruolo vitale che spetta al
senso di responsabilità individuale per innalzare i livelli della
performance fino alla compleu espressione delle potenzialità. Èlo stesso
Stayer a riferire che un giorno decise di passare «da una forma di
controllo autoritario a una forma di abdicazione autoritaria». Costrinse
la sua squadra di dirigenti ad assumersi tutta la responsabilità,
78
aspettandosi che capissero quello La cosa non funzionò.
che lui voleva.
«All’inizio degli anni Ottanta, capii non potevo essere io a ‘forzare’
che
negli altri il senso di responsabilità: erano loro i primi a doverlo volere, a
esigerlo persino [... ..] Per portarli a questo (...] dovevo imparare a
praticare meglio la tec nica del coaching.»
Fu così che Stayer cambiò radicalmente approccio: toccò agli operai, e
non agli alti dirigenti, assaggiare gli insaccati che loro stessi
producevano e farsi carico del controllo della qualità, oltre che della
ricerca per migliorare il prodotto e il packaging. In seguito il reparto
produzione sollevò il problema dei colleghi la cui performance era
insoddisfacente:
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costituiva il vero lavoro di chi è responsabile della vita di un’azienda e
intende svolgere il proprio compito in maniera efficace, dato che il
cambiamento è rivolto al presente e al futuro e non al passato. Non c’è
mai fine al cambiamento. Un’altra cosa che ho imparato è che a
innescare quell’atmosfera di eccitazione alla Johnsonville Sausage non
era stato il cambiamento in sé bensì il processo con cui esso era
avvenuto. La possibilità di apprendere cose nuove e di sentirsi
responsabili infonde energie fresche nelle persone e le nuove aspirazioni
fanno battere più velocemente i cuori.
Performance
Èchiaro che Stayer mise in pratica quello che predicava. Le maestranze
della Johnsonville Sausage risposero con una performance eccezionale e
non c’è dubbio che presso quell’azienda anche le attività di
apprendimento siano state particolarmente significative il grado di
soddisfazione decisamente elevato. Ci vuole coraggio per dare il via a
cambiamenti così radicali in un’azienda, ma qualsiasi capo azienda che
voglia garantirsi performance eccezionali (e magari anche la
sopravvivenza dell’azienda in un futuro sempre più incerto) farà bene a
considerare l’eventualità di avviare cambiamenti di grande portata. Ma
da dove iniziare?
Apprendimento
Molte aziende cominciano a rendersi conto del fatto che, se davvero
vogliono stimolare e motivare i loro dipendenti e intendono far fronte
positivamente all’esigenza di cambiamenti pressoché continui, devono
diventare organizzazioni che apprendono. Performance, apprendimento
esoddisfazione sono tre elementi strettamente connessi che vengono
intensificati da un elevato livello di consapevolezza (che, non di
80
mentichiamolo, è l’obiettivo fondamentale del coaching). E tuttavia
impossibile sviluppare con un certo successo uno solo di questi
elementi: quando uno dei tre viene trascurato, presto o tardi inizieranno
a soffrirne anche gli altri due. Una buona performance, per esempio,
non può essere sostenuta dove non c’è apprendimento o soddisfazione
per quello che si fa.
Divertimento
Molti sportivi professionisti hanno sperimentato nel corso della loro
carriera momenti in cui sembrava loro di aver perso ogni gioia
nell’esercizio della loro disciplina, allo stesso modo in cui dopo due o tre
giorni ci stanchiamo di crogiolarci in spiaggia e cominciamo a cercare
nuove sfide alla nostra performance.,dal beach volley alle immersioni
subacquee. Le scuole di alto livello che non offrono ai loro allievi la
possibilità di confrontarsi con una qualche attività sportiva o con le arti
dello spettacolo, disapprovando la parola stessa «divertimento», non
sono in grado di mantenere quegli standard educativi di cui tanto si
vantano. L’unica e autentica definizione di performance, secondo i fini
che il coaching si pone, dovrebbe inglobare anche momenti di
apprendimento e di divertimento/soddisfazione.
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82
risulta appreso pienamente e integralmente. e se siamo pronti a
proseguire nei nostri sforzi per continuare a migliorare, possiamo
affrontare un ciclo successivo.
83
risultati migliori adottando una volta identificata la
la seguente tecnica:
caratteristica che vogliamo per esempio, la dolcezza
acquisire, diciamo,
nel cambiare le marce, anziché manovrare con dolcezza il
sforzarci di
cambio, possiamo semplicemente soffermarci a osservare fino a che
punto sia liscio il nostro cambio di marcia. Allo scopo di dare una
qualche valutazione al grado di dolcezza, così da poter usufruire di un
feedback più preciso, possiamo ideare una scala da 1 a 10 della
dolcezza nella quale il 10 rappresenta un cambio di marcia talmente
liscio da passare inavvertito. Continueremo a guidare normalmente, ma
semplicemente valutando quanto sia liscia ogni cambiata. Vedrete che,
senza alcuno sforzo, il vostro voto comincerà a salire e in un tempo
sorprendentemente breve la valutazione sarà compresa tra 9 e 10.
Entrerete così senza accorgervene nella fase di competenza inconscia,
nella non è più necessario esprimere valutazioni e misure sui
quale
propri atti, riuscendo a cambiare le marce con dolcezza anche nei
momenti di guida più difficili o quando vi troverete al volante di un’auto
diversa dal solito. Qualora si avverta di aver commesso un errore,
basterà tornare alla fase della competenza conscia per due o tre
chilometri ripren dendo l’osservazione e la valutazione del movimento, e
vedrete che la scioltezza tornerà. Il procedimento mediante il quale
riusciamo ad apprendere qualche cosa senza sforzo oppure a migliorare
la nostra performance è estremamente rapido e garantisce ottimi
risultati.
Il divertimento
Se dedicassi al divertimento un intero capitolo di un libro che intende
rivolgersi in primo luogo a quanti si interessano di economia e
management, lascerei molto perplesso più di un lettore. Quindi, benché
si tratti di un argomento che meriterebbe senz’altro un capitolo tutto
suo, cercherò di limitarmi. Persone diverse sperimentano in modo
84
diverso i momenti ma io tenterò ugualmente di ridurre
di divertimento,
al nocciolo la questione in non più di un paio di pagine.
L’esperienza del divertimento passa anzitutto attraverso i nostri sensi.
Con tutti i comfort materiali di cui siamo circon dati, nel mondo
contemporaneo siamo sempre meno a casa come al lavoro, a
esposti.
sensazioni forti: è questa per cui si escogitano sport e svaghi
la ragione
sempre più estremi, al solo scopo di provare l’effetto di qualche scarica
di adrenalina. Finiamo così per cercare stimoli sempre più forti, senza
pensare che potremmo godere delle medesime sensazioni migliorando
semplicemente le nostre capacità sensoriali, in modo da avvertire anche
gli stimoli più impercettibili. A mano a mano che diventiamo più
consapevoli dei nostri sensi, anche le sensazioni più comuni della vita
quotidiana diventano letteral mente «sensazionali». I fatti di ogni giorno,
anche i più banali, possono offrirci forme di puro godimento, se siamo
in grado di filtrarli attraverso capacità sensoriali più affinate.
Questa maggiore consapevolezza è conseguibile in vari modi: attraverso
l’ascesi o la fede, con o l’assunzione di farmaci, con
la meditazione
l’esercizio fisico o oppure ricorrendo semplicemente
l’estasi mistica,
all’autocoaching, che comporta tra l’altro assai meno rischi. Chiederci
che cosa stiamo provando esattamente con il tatto, il gusto, l’olfatto, la
vista e l’udito e persino con il pensiero – e cercando di mettere a fuoco
una risposta precisa — rafforza sia il nostro grado di consapevolezza sia
il piacere che proviamo dalle sensazioni, offrendoci inoltre un feedhack
oun input migliori.
Un’altra forma di piacere può essere raggiunta sperimentando la piena
espressione delle nostre potenzialità latenti. Ogni volta che sentiamo di
spingerci fin dove non abbiamo mai osato — in termini di esercizio
fisico, di coraggio, di azione. di destrezza, di scioltezza, di efficienza — le
nostre facoltà sensoriali si elevano a veri e propri picchi, accompagnate
da un incremento del flusso adrenalinico. Il coaching agisce
direttamente sui sensi, soprattutto in quei casi in cui sono direttamente
interessate attività di tipo fisico. Il coaching, pertanto, per sua stessa
natura intensifica il piacere. Così, nella pratica la distinzione tra
performance, apprendimento e divertimento/piacere acquista contorni
sempre meno definiti e al vertice di questa fusione si verifica quella che
viene spesso descritta come «esperienza totalizzante». Ben lungi dal
voler incitare a vivere «esperienze totalizzanti» sul lavoro, devo tuttavia
sottolineare che dietro a tutto ciò esiste un aspetto decisamente serio: la
necessità di comprendere esattamente in che modo funzioni il coaching
e, soprattutto, quel suo obiettivo particolare che chiamiamo
consapevolezza.
85
CAPITOLO 13 MOTIVAZIONE
Che cosa possiamo dunque imparare dallo sport, ammesso che ci sia
qualcosa da imparare?
Praticamente tutte le discipline sportive coinvologno il corpo e la mente
nell’esercizio di un’attività che richiede seppure in diverse combinazioni,
equilibrio, tempismo. scioltezza. forza fisica e via dicendo. Più riusciamo
a fare un uso del nostro corpo tale da permettergli di esprimere l’intero
uso potenziale, maggiore è la sensazione di benessere e di piacere che
ne ricaviamo. Lo sport. Pertanto, è in grado di generare per sua stessa
natura un godimento tale da indurre in qualche modo una sorta di
assuefazione: un’attività di lavoro, manua e o intellettuale non importa,
è invece ben diversa, o quanto meno lo è per la maggior parte delle
persone. Se ne deduce pertanto che, per quanto concerne la
motivazione interiore, lo sport presenta dei chiari vantaggi, benché in
tal senso non vadano dimenticati anche altri fattori.
I
riconoscimenti esterni che si possono ottenere dallo sport hanno un
carattere di maggiore immediatezza, portano subito all’atleta fama e
onori e a volte, quando si raggiunge l’apice della carriera, anche
ricchezza. L’elemento più importante. tuttavia, non è costituito dai
premi «materiali» bensì dal fatto che, in ultima analisi, una performance
di tipo sportivo, a tutti i livelli, resta comunque nelle mani dell’atleta
(egli ne ha cioè la totale responsabilità). Si aggiunga inoltre che la scelta
di intraprendere una determinata attività agonistica, quale che essa sia,
è spesso dettata dal desiderio di confermare la propria identità e
dimostrare a se stessi il proprio valore, un fatto che costituisce di per sé
una valida motivazione interiore. Ecco che abbiamo dunque elencato
tutti gli ingredienti della ricetta che consente di essere vincenti.
86
Dal momento che non si può parlare del divertimento come di una
caratteristica intrinseca del lavoro, almeno per quanti non possono
godere dei benefici offerti dal sentirsi in teramente responsabili di
un’attività svolta unicamente per e stessi, i datori di lavoro hanno
dovuto fare leva su fattori esterni. Tutti abbiamo bisogno di soldi. È fuor
di dubbio che il denaro sia in grado di motivare una persona, ma se la
retribuzione subisce aumenti minimi, legati a estenuanti contrattazioni
ed elargiticon estrema riluttanza, la sua capacità di creare un’autentica
motivazione sarà minima.
Il bastone e la carota
Sin dalle prime forme di lavoro dipendente, alcuni uomini hanno
pensato bene di fare ricorso a un misto di minaccia e di ricompensa per
costringere altri uomini a fare ciò che essi volevano. Risalendo fino
all’epoca dello schiavismo, constatiamo come a quei tempi vigesse
soltanto la regola del bastone:
poi, con il passare del tempo, venne introdotta anche la carota, nella
speranza di ottenere dai lavoratori maggiore impegno e migliori
performance. E così fu, in effetti, ma in misura limita ta e per un
limitato periodo di tempo. Furono allora introdotte alcune modifiche: la
carota, per esempio, venne lavata e cucinata, oppure si offrirono carote
più grandi, si tentò persino di rivestire di velluto il bastone o addirittura
di nasconderlo, facendo finta di averlo abolito, fino a quando non
serviva nuova mente. Di nuovo la performance migliorò, seppure di
poco.
Oggigiorno, le condizioni attuali dell’economia impongono limiti severi
agli aumenti di stipendio e,
sono sempre meno le
al tempo stesso,
possibilità di ottenere avanzamenti
Abbiamo un bisogno di carriera.
disperato di performance ma siamo ormai a corto di
ad alto livello,
carote e il bastone, dal canto suo, non è più uno strumento così utile, in
quanto politicamente scorretto. È l’intero sistema su cui abbiamo
pensato di fondare la motivazione a crollarci addosso, ed è bene che sia
così, dal momento che non aveva mai funzionato bene. Nel lavoro le
persone offrono una performance ben al di sotto delle loro possibilità e
per convincersene, come ho già ricordato, basta osservare anche solo di
sfuggita a che livelli di rendimento riescono ad arrivare quando si
presentano situazioni di reale emergenza.
L’analogia del bastone e della carota deriva dal modo di motivare un
asino. A quanto posso ricordare, la performance degli asini non ci lascia
esattamente a bocca aperta. Spero di non essere ingiusto con questi
simpatici equini affermando che essi fanno giusto il minimo
indispensabile. Se si trattano lepersone come fossero asini, esse non
potranno che svolgere il loro come asini. Dobbiamo mutare
lavoro
radicalmente le nostre idee a proposito della motivazione: se una
persona deve prodursi in una performance autenticamente buona, la
sua motivazione deve essere interiore.
87
Le ricerche svolte in questo campo hanno costantemente dimostrato che
per un numero considerevole di persone la sicurezza del posto di lavoro
e la qualità della vita nel luogo in cui lavorano sono assolutamente
prioritarie. Quando uno o entrambi questi «motivatori interni» vengono a
mancare, ciò che assume un’importanza sempre maggiore è il denaro, il
più ovvio dei «motivatori esterni». «È l’unica cosa che possiamo ricavare
da questo posto, per cui siamo pronti a lottare per ogni centesimo in più
che riusciremo a spuntare» una frase che può ben configurare un
atteggiamento di questo genere. Comunque, se il denaro finisce per
essere percepito, concesso e accettato come un indicatore del nostro
valore, sappiamo che esiste una spiegazione più che logica per il suo
significato.
88
punto, esigiamo da noi stessi degli standard di comportamento e di
rendimento ben più elevati e, per misurare il nostro effettivo valore, non
consideri arno più il modo in cui gli altri ci vedono ma ci atteniamo a
criteri di giudizio che noi stessi abbiamo fissato nei nostri confronti.
Al vertice della piramide gerarchica creata da Maslow vi è la persona
che sta realizzando il proprio Io, una condizione che scaturisce allorché
risulta soddisfatto sia il bisogno di apprezzamento da parte degli altri
sia quello dell’autostima e in cui l’individuo non è più spinto dal bisogno
di provare quanto vale, né ai propri occhi né a quelli degli altri. Maslow
ricorre alla forma verbale «sta realizzando» perché la forma «ha
realizzato» implicherebbe la possibilità di arrivare effettivamente fino a
questo punto conclusivo, mentre secondo lo psicologo si tratta in realtà
di un percorso che non ha mai fine.
Il bisogno che lo psicologo americano associa alla persona che «sta
realizzando il proprio Io» è l’esigenza di avvertire chiaramente il senso e
loscopo della vita. Ciò che più desidera questa persona, infatti, è che il
suo lavoro, ogni sua attività e la sua intera esistenza abbiamo un
qualche valore e rappresentino un contributo anche per gli altri.
La motivazione sul lavoro
In che modo quanto detto in rapporto con la motivazione?
finora entra
Va da sé che persone cercano di impegnarsi soprattutto in quelle
le
attività che possono aiutarle a soddisfare i loro bisogni: si tratta di un
processo del quale tuttavia possiedono solo una coscienza parziale, in
quanto il lavoro è andato storicamente evolvendo proprio per andare
incontro a tali esigenze. Tuttavia, quanto più gli schemi e i sistemi
89
motivazionali sapranno sintonizzarsi con l’esatto livello dei bisogni delle
persone in cui intendiamo creare una valida motivazione, tanto
maggiore ne sarà l’efficacia e, di conseguenza, la soddisfazione delle
persone coinvolte.
Il lavoro soddisfa i bisogni primari della persona offrendole un guadagno
con cui può garantire alla propria famiglia cibo, acqua, abbigliamento e
abitazione. In passato, contribuivano a soddisfare questi bisogni
essenziali anche le mense aziendali oppure le case che le grandi aziende
costruivano per i loro dipendenti. Il lavoro, inoltre, inserisce la persona
in un contesto di socializzazione, offre possibilità di promozione,
prestigio, aumenti salariali e talvolta persino un’automobile fornita
dall’azienda con cui sollecitare l’altrui ammirazione. I fattori
motivazionali normalmente all’opera sul posto di lavoro — vale a dire
una retribuzione sotto varie forme — riescono in qualche modo a
soddisfare i bisogni di base, legati alla sopravvivenza, i bisogni di
appartenenza nonché il primo dei bisogni connessi al desiderio di
sentirsi apprezzati. Tutto perfetto, finora.
Se procediamo a ritroso nella storia, scopriremo che, fino a qualche
decennio fa, ai complessi residenziali costruiti dalle aziende, ai circoli
del dopolavoro e a quelli sportivi veniva attribuita un’importanza assai
maggiore che non oggi, mentre gli avanzamenti di carriera e le forme di
prestigio personale avevano un rilievo minore. In altre parole, la società
attuale cerca di soddisfare i bisogni prossimi al vertice della piramide
proposta da Maslow, e tale cambiamento comincia a ripercuotersi sulla
concezione dei sistemi premianti.
L’ulteriore bisogno verso cui un ampio segmento della società moderna
sta rivolgendo sempre maggiori attenzioni quello dell’autostima, un
bisogno che la cultura aziendale e i metodi manageriali di tipo
tradizionale sono oltremodo inadatti a soddisfare, e questo,
principalmente, per il semplice fatto che lo stesso concetto di autostima
contraddice tale cultura e tali metodi.
Whitmore, nel suo testo, dà per acclarati i risultati e l’evoluzione degli studi sulla
motivazione al lavoro.
Quelle che seguono non sono tutte le teorie sulla motivazione a lavoro, ma si intuisce come
dal taylorismo in avanti il tema sia stato via via raffinato.
La motivazione al lavoro può essere definita come la spinta interiore che porta l'individuo ad
applicarsi con impegno nel lavoro. Può essere definito come una sorta di forza interna che stimola,
regola e sostiene le principali azioni compiuti dalla persona e può essere descritto in modo ciclico:
dall'origine del bisogno, avvertito come una tensione interiore, l'individuo ricerca in mezzi per poterlo
soddisfare; quando il soggetto riescea soddisfare il proprio bisogno rivaluta la situazione e verifica
la presenza di nuovi ed ulteriori bisogni. Essa è intrinseca all'individuo e non può essere indotta
dall'esterno. Mediante esterni si riesce a sollecitarla o, al più, ad alimentarla.
interventi
Il sistema motivazionale può essere inteso come l'insieme dei bisogni percepiti con varia intensità e
le relazioni fra questi e il comportamento. Per definire quali siano gli elementi che governano la
motivazione sono state formulate numerose teorie.
Secondo Frederic Taylor occorre stimolare la motivazione del lavoratore mediante sistemi che
incentivino la produttività: le soluzioni da lui proposte hanno riguardato l'introduzione del lavoro a
cottimo, della partecipazione ai profitti, la partecipazione al risparmio. Questi sistemi sono rivolti a
garantire che ogni lavoratore impieghi sul lavoro tutte le sue energie al fine di mantenere ed
incrementare la produttività. Aumentando la produttività infatti il lavoratore può aumentare il proprio
stipendio, riuscendo così ad aumentare la propria autostima ed il proprio status. La motivazione
procurata dal denaro tuttavia è discutibile.
La teoria dei bisogni di Maslow sostiene che il comportamento della persona, anche sul lavoro,
tende alla soddisfazione di bisogni ordinati secondo una precisa gerarchia, che egli ha indicato
all'interno di una piramide. Partendo dal basso si distinguono le seguenti categorie di bisogni umani:
• bisogni fisiologici, legati alla sopravvivenza immediata (respirare, bere, mangiare, riposare,
muoversi);
• bisogni di sicurezza, fisica ed emotiva, relativi alla sopravvivenza a lungo termine (libertà da
pericoli, minaccee privazioni provocati da danni fisici, difficoltà economiche, malattia);
• bisogno amore e di appartenenza, cioè identificazione con il gruppo o l'azienda, e
di di un
ambiente e gradevole (relazioni affettive, accettazione
socievole da parte dei pari,
riconoscimento come membro del gruppo, stare insieme) ;
• bisogno di autorealizzazione.
Il comportamento dell'ind ividuo è finalizzato ad appagare prima i bisogni di livello inferiore, la cui
soddisfazione cessa di renderli motivanti e che fa emergere i bisogni gerarchicamente superiori.
Questa teoria fu molto importante nell'ambito del management del secolo scorso, ma presenta
alcuni lati problematici: ciascun individuo, dagli altri ed avverte e soddisfa i bisogni
infatti, differisce
con modalità differente. Ad esempio per alcune persone sono sufficienti poche ore di sonno
mentre
per riposare, altre hanno bisogno ore; mentre la maggior parte delle persone quando ha
di molte più
fame desidera mangiare, altre persone digiunano per soddisfare bisogni più elevati.
91
Salvemini ha definitouna diversa scala di bisogni che l'uomo prova nei contesti di lavoro. Essi sono:
1. bisogni di consumo;
2. bisogni di sicurezza;
3. bisogni di socialità;
4. bisogni di stima;
5. bisogni di potere;
6. bisogni di realizzazione.
Secondo lo stesso autore la soddisfazione di un bisogno, definito come la carenza di un oggetto
desiderato, può essere funzionale o disfunzionale all'appagamento di un altro bisogno. Ad esempio
l'appagamento del bisogno di potere può essere funzionale anche al bisogno di autorealizzazione.
Herzberg e colleghi nel 1959 effettuarono uno studio finalizzato ad approfondire le modalità con cui i
bisogni di stima e di autorealizzazione si sviluppano. Da questo studio emerse che esistono due
ordini di fattori che determinano la insoddisfazione e la soddisfazione del lavoratore. I
primi sono
detti fattori igienici: questi fattori sono quelli che non motivano, ma che se non trovano
soddisfazione producono malcontento ed insoddisfazione. Fanno parte di questa categoria la
supervisione da parte dei superiori, le politiche e l'amministrazione dell'azienda, le condizioni di
lavoro (orario, riposo settimanale, stipendio), le relazioni con i superiori, i pari ed i subordinati, lo
status, la sicurezza del lavoro e gli effetti sulla propria vita personale. La seconda categoria
comprende i fattori motivanti esono quelli che motivano la persona al lavoro. Questi elementi
appagano dei bisogni superiori e portano la persona ad una maggiore produttività. Rientrano in
questa categoria il riconoscimento, la responsabilità, la crescita professionale, risultati ottenuti, il
lavoro in sé, l'avanzamento nella carriera. Anche questa teoria fu oggetto di molte critiche, in quanto
fu formulata solo mediante interviste condotte a due categorie di lavoratori (ingegneri e contabili),
senza ricorrere anche all'osservazione sul lavoro.
Un'ulteriore elaborazione fu prodotta da Chris Argyris che definì la coesistenza all'interno del lavoro
di bisogni personali dei lavoratori e di bisogni dell'organizzazione e che i lavoratori danno la
preminenza al soddisfacimento dei propri bisogni. Nelle situazioni in cui i due ordini di bisogni non
coincidono, o sono addirittura in contrasto, si creano situazioni di conflitto, di tensione, di
insoddisfazione. Per questo motivo secondo Argyris occorre che l'organizzazione sostenga la
possibilità per i lavoratori di soddisfare i propri bisogni di ordine superiore e che sia realizzata una
direzione ispirata alla teoria Y, poiché è l'unico modo per promuovere la crescita professionale ed
umana del lavoratore. Gravi sarebbero, infatti, le conseguenze nel caso in cui in presenza di
lavoratori con personalità mature, fosse realizzata una direzione di carattere prescrittivo, autoritario,
rigido e punitivo, in quanto porterebbe alla passività, alla dipendenza, alla frustrazione ed alla
insoddisfazione professionale. Per questo motivo occorre coniugare lo stile direttivo alle
caratteristiche del lavoratore valorizzandone i talenti, gli interessi e le abilità: solo così la crescita
della persona si coniuga ad un aumento della produttività del lavoratore e anche l'organizzazione ne
trae beneficio.
92
Il coaching è essenziale
Il semplice fatto di godere di prestigio e di determinati privilegi — più
simbolici che sostanziali — non è sufficiente a creare nel lavoratore la
necessaria autostima, che nasce soltanto quando a quest’ultimo è
riconosciuta la facoltà di operare proprie scelte personali. Un
avanzamento di carriera che non preveda né la possibilità di esercitare
un reale mandato né l’opportunità di esprimere appieno le proprie
potenzialità finisce addirittura per essere controproducente. Mentre la
prescrittività nega la possibilità di scelta, toglie capacità di azione,
limita le potenzialità del lavoratore e lo demotiva fortemente, il coaching
fa l’esatto contrario.
I
valori aziendali e il futuro
Tra le persone che lavorano nelle aziende, soprattutto fra i giovani,
inizia a essere evidente il bisogno di «autorealizzazione», il che è
possibile soltanto se nel lavoro si identificano chiaramente un valore,
un senso e uno scopo. Oggi, quindi, l’obiettivo principale non deve più
essere quello di riempire le tasche degli azionisti, e le aziende
cominciano a comprenderlo. Su di esse grava sempre più l’obbligo di
guardare con attenzione agli aspetti etici delle loro azioni e di porsi
l’obiettivo di bilanciare e soddisfare le esigenze di tutti i soggetti sui
quali queste impattano (i cosiddetti stakeholders), vale a dire
dipendenti, clienti, società in generale e ambiente (e naturalmente
anche gli azionisti).
Il problema viene sollevato con sempre maggiore frequenza dai
dipendenti e dai manager che frequentano i nostri corsi. Le imprese
stanno effettivamente cercando di cambiare il loro stile di management,
93
ma sono per primi gli stessi dipendenti a esigerlo. Se vogliamo che
questi giovani lavoratori — i più maturi, secondo la terminologia di
Maslow — non perdano ogni affezione al lavoro, tale cambiamento dovrà
avvenire rapidamente, perché, anche se si tratta di un processo per sua
natura tutt’altro che di tempo non ne è rimasto
fulmineo, molto. In
effetti, è così poco a disposizione e il problema è di
il tempo che abbiamo
una nuova edizione del mio libro ho aggiunto i
tale gravità che in questa
tre prossimi capitoli proprio per affrontare più in dettaglio la questione.
Si sta creando dunque una situazione in cui la presenza e l’operato del
coach saranno determinanti e questo richiede di approfondire l’analisi.
94
le persone che lavorano alle sue dipendenze; il secondo è rappresentato
dal fatto che nei dipendenti diminuisce il rispetto verso i capi che
appaiono ai loro occhi come psicologicamente meno evoluti. E così che
un manager caratterizzato dal bisogno di confermare costantemente il
proprio status e da uno stile di comando e controllo finisce per
diventare lo zimbello dell’ufficio o l’oggetto di battute irriverenti.
La fiducia in se stessi rappresenta un utile criterio di valutazione
mediante il quale misurare l’impatto del nostro comportamento sugli
altri. E molto più facile infatti, seppure più doloroso, osservare fino a
che punto il nostro modo di intervenire nella vita altrui rafforzi o
indebolisca la fiducia in se stessi delle nostre controparti. La direttività,
la critica negativa, la limitazione delle possibilità di scelta, l’imposizione
del la nostra posizione gerarchica riducono sensibilmente la loro fiducia
in se stessi. Il coaching, dare credito agli altri, dimostrarsi aperti,
disponibili e rispettosi, riconoscere sinceramente i loro meriti, concedere
piena libertà di scelta e, ovviamente, il successo incrementano invece la
fiducia in se stessi.
95
CAPITOLO 14 - COACHING E RICERCA DELLO SCOPO
96
ricevuto a quella precedente. Supponiamo in questo caso che l’allievo
abbia già indicato come suo desiderio quello di impegnarsi a migliorare
la qualità della sua vita professionale.
L’obiettivo
La realtà
97
allievi di una sessione di coaching, è un grosso prohl ma riuscire a
prendere coscienza del fatto che la situazione in cui si trovano è
frutto, in definitiva, di una loro scelta. Spesso si sentono vittime e
di conseguenza si credono totalmente impotenti)
Le opzioni
98
99
CAPITOLO 15 -COACHING E RICERCA DI SIGNIFICATO
L’intelligenza emotiva
L’intelligenza emotiva può essere descritta come la facoltà che interviene
nelle relazioni interpersonali, o, più semplicemente, come la capacità di
socializzare con gli senza difficoltà. Al suo interno si possono
altri
distinguere cinque aree:
Conoscere le proprie emozioni (consapevolezza di sé)
100
nuove pubblicazioni che decantavano i meriti dell’intelligenza spirituale
(SQ). In questa accezione, l’elemento «spirituale» non va inteso in senso
mistico o religioso, bensì nel significato definito da Elizaheth Denton: «Il
desiderio fondamentale di trovare il significato e lo scopo ultimo della
vita e a questi ultimi un’esistenza equilibrata».
vivere in base
Da tutto questo emerge chiaramente il concetto che, oggi giorno, molti
tra coloro che operano nel mondo del business si trovano ad affrontare
un momento particolarmente critico, legato proprio alla difficoltà di
trovare un senso nella loro attività. Nel suo libro La coscienza
intelligente, Danah Zohar cita le parole di un uomo d’affari di trentasei
anni che descrive così la propria crisi personale:
“Dirigo un’azienda piuttosto grande e ben avviata qui in Svezia. Godo di
ottima salute, ho una famiglia stupenda e un’ottima posizione sociale.
Suppongo di poter dire di avere nelle mie mani un certo «potere».
Eppure, se penso a che cosa sto facendo della mia vita, sento che il mio
lavoro non mi offre alcuna certezza di aver fatto le scelte giuste”.
Il giovane dirigente prosegue spiegando di sentirsi preoccupato dalla
situazione del mondo contemporaneo, soprattutto dalle condizioni in cui
si trova l’ambiente e dallo sfacelo della società. Avverte inoltre dentro di
sé che le persone sembrano non voler vedere la reale portata dei
problemi che le sovrastano. Le grandi aziende, come quelle in cui lui
stesso opera, sono le prime responsabili dell’incuria dimostrata verso
tali problemi. «Vorrei fare qualcosa in tal senso», prosegue il giovane
manager, oppure, per meglio dire, vorrei fare in modo che la mia vita
servisse a qualcosa, ma non so come. So soltanto che vorrei essere
parte della soluzione, non del problema».
101
psicoanalista freudiano in Italia. Come CarI Jung, suo amico e
compagno di studi, si era ribellato alla visione freudiana dell’uomo,
limitata e incentrata sostanzialmente sul momento patologico. Secondo
Assagioli e Jung, gran parte delle disfunzioni psichiche nascono dal
senso di frustrazione e persino di disperazione innescato dalla
mancanza di un significato e di uno scopo nella vita.
Le tesi di Assagioli erano ben più avanti del loro tempo e la psicosintesi
rimase di fatto ignorata fino agli anni Sessanta, quando divenne una
delle principali componenti della psicologia transpersona]e, riconosciuta
come la quarta forza emer gente della psicologia. Essa non nega affatto i
postulati della cosiddetta terza forza «psicologia umanistica», anzi li
accetta in pieno, costruendo proprio su questi ultimi i propri stessi
fondamenti. La psicosintesi, tuttavia, vi aggiunge un significato più
profondo della, dell’esperienza del significato, dello scopo e della
direzione della nostra vita, insieme con il senso di responsabilità
personale e con l’esigenza interiore di porre gli altri prima di noi: il tutto
fondato sull’ipotesi che ciascuno di noi possiede un’identità più
profonda, o, se un principio organizzativo più elevato.
vogliamo,
La psicosintesi offre un gran numero di modelli e mappe, che creano un
tessuto molto utile per forme di coaching che investano l’interiorità.
Essa fornisce un modello dello sviluppo umano che, come ogni modello,
non costituisce una verità assoluta ma una semplice rappresentazione
che rende però possibile sia il dialogo interiore nella nostra coscienza
sia quello con gli altri esseri umani. Supponendo che tale teoria sia
anche solo parzialmente corretta, ne consegue comunque che nei
prossimi anni ci sarà molto lavoro per i coach.
Un coach formatosi secondo i modelli della psicosintesi può esortare
l’allievo a riconsiderare la propria vita in termini di percorso evolutivo, a
identificare chiaramente le potenzialità creative che si celano in ogni
problema, a vedere gli ostacoli come pietre che emergono dal torrente
della vita e ne permettono il guado, a immaginare che tutti abbiamo uno
scopo nella vita e che per raggiungerlo dobbiamo forzatamente vincere
grandi sfide e superare barriere. Le domande del coach, in questo caso,
cercheranno di fare in modo che l’allievo sia portato a riconoscere le
potenzialità positive insiste nel problema che deve affrontare e nelle
azioni che sceglie di intraprendere.
102
Il percorso spirituale
La Figura 15.1 illustra graficamente il tracciato della nostra vita, o di
quella altrui, ricorrendo a un modello bidimensionale: l’asse orizzontale
rappresenta
(Figura 15.1 - Gli assi sui quali si colloca il tracciato della vita)
103
dei paesi asiatici, tali distinzioni puramente geografiche rischiano di
creare soltanto ulteriore confusione.
Non credo che si possa obiettare alcunché alla tesi secondo cui gli
occidentali hanno concentrato le loro energie per muoversi lungo l’asse
orizzontale (Figura 15.2), e occorre comunque dire che lo hanno fatto
con particolare slancio e con risultati di tutto rispetto.
o
v
i
a
t
i
l
a
u
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/
e
l
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Psicologico/quantitativo
a
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q
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e
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t
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i
p
S
Psicologico/quantitativo
Figura 15.3 Tracciato della vita ascetica e avulsa dai valori del mondo
orientale
104
L’influenza occidentale e gli imperativi economici si sono ormai diffusi a
livello globale, anche se, tanto in Oriente quanto in Occidente, si sono
create delle nicchie in cui conducono la loro esistenza quanti hanno
preferito concentrarsi su un percorso che si dipana lungo l’asse
verticale (Fig. 15.3).
Più si procede lungo uno degli assi, escludendo quindi sempre di più il
percorso dell’altro, più ci allontaniamo da un cammino più equilibrato,
per così dire ideale, che si snoda tra i primi due, con il risultato di un
aumento di tensione, come visualizzato nella Figura 15.4.
La conoscenza
L’asse orizzontale può anche essere considerato come quello della
conoscenza: la «crisi del significato» avviene allorché il nostro accumulo
di conoscenza neutralizza l’effetto mitigante del nostro sistema
assiologico. Durante la crisi sperimentiamo infatti il crollo di quel falso
senso di sicurezza poggiato sull’illusione di potere e di certezze che un
enorme bagaglio di conoscenze ci conferisce.
La saggezza si trova al di là della conoscenza ed è ben più profonda.
Essa genera lungimiranza, spesso sfiora il paradosso e offre una
sicurezza di tipo diverso, cui riesce finalmente ad accostarsi la persona
che emerge dalla crisi. La linea bisettrice rispetto ai due assi del
diagramma potrebbe dunque rappresentare la saggezza, collocata tra
due estremi che potremmo definire, con una punta di cinismo, come lo
sfruttamento indiscriminato della conoscenza da un lato e un fanatismo
spirituale privo di fondamenti fattuali dall’altro.
Si dicespesso che la conoscenza è oggi la valuta più preziosa e che lo
sarà ancora di più in futuro. Per secoli l’umanità ha organizzato
l’economia basandosi sulla proprietà terriera, poi, con la rivoluzione
industriale, si è verificato il passaggio verso un’economia basata sulla
proprietà del capitale. Gli aristocratici terrieri lasciarono il campo ai
nuovi ricchi mercanti.
Nelle nuove forme di economia basate sul possesso della conoscenza
può sembrare che a dominare siano i tecnocrati, anche se il loro potere
ha già dato segni di debolezza, lasciandone presagire la caduta. E forse
questa una chiara indicazione del fatto che il divario tra la nostra
conoscenza e la nostra saggezza si sta facendo troppo grande e ormai
quasi insostenibile? E forse possibile che cominciamo a intravedere
nella storia dell’umanità l’alba di una nuova fase, quella di un’economia
fondata sulla saggezza? Possiamo sperare
dunque che i politici e i
grandi uomini d’affari del futuro sapranno essere saggi o dovremo
piuttosto cercare la saggezza dentro di noi, cercando ciascuno una
propria leadership interiore?
106
materiali e dalle nostre ambizioni. Fino a qualche tempo fa una simile
idea sarebbe stata liquidata dal pensiero scientifico razionale come una
sorta di strampalata specula zione filosofica. I recenti progressi della
neurobiologia, tuttavia, hanno messo in luce nel lobo temporale del
cervello la cosiddetta «area di Dio», che, secondo Danah Zohar, potrebbe
costituire «l’elemento fondamentale di un’intelligenza spirituale di più
ampio respiro».
Il mondo economico riconosce giustamente che molti sistemi economici
stanno passando dallo spingere (push) al tirare (puli), cioè, come ho già
spiegato, dall’imposizione alla libertà di scelta. Tirare giù da Internet
quello che vogliamo, rifiutando una supina accettazione di ciò che «altri»
vogliono propinarci, ne è un esempio: un altro è quello di sostituire il
coaching a uno stile manageriale basato sul comando.
Una delle risorse di valore inestimabile di quello che definiamo
«coaching in profonità» è rappresentata dalla possibilità di fornire un
effettivo aiuto alle persone, sgombrando il campo sia dai loro scudi
difensivi, sia dai blocchi che sono stati loro imposti, in modo che
possano prestare ascolto alla loro guida interiore. Riuscire a udire
quella voce interiore ancora flebile e imparare a obbedirle è un buon
modo per scongiurare la crisi, e non c’è dubbio che in tal senso il
coaching possa offrire un importante contributo.
107
problemi possono insorgere soltanto nel caso in cui il coach, non
avvezzo alla forte instabilità emotiva dell’allievo e ai suoi sfoghi, si lasci
prendere dal panico e finisca per intervenire cercando di aiutare la
persona a controllare le proprie emozioni. L’allievo in realtà ha un
assoluto bisogno di addentrarsi nelle suo mondo emotivo represso e di
riportarlo alla superficie della coscienza, sia pure con la guida e le
attenzioni offerte dal coach.
Se si vuole esercitare la tecnica del coaching con una persona che sta
attraversando la crisi del significato, occorre tenere presente che molto
raramente può bastare un’unica sessione, anzi, è assai probabile che
occorrano più sedute da svolgersi corso di parecchi mesi.
nel Inoltre,
dopo che l’azienda ha investito tempo e denaro per offrire al proprio
dipendente la possibilità di usufruire del cosiddetto «coaching in
profondità», alla processo l’allievo può anche decidere di
fine dell’intero
abbandonare il posto di lavoro per trovarne un altro più in sintonia con
quegli obiettivi intimamente persona li che è riuscito a identificare e a
chiarire.
108
Anche sotto questo aspetto, infatti, non mancano chiari segni rivelatori.
Gli indicatori economici, per esempio. non sono più in grado di offrirci
un quadro preciso di quanto sta avvenendo. Sia le nuove forme di etica
aziendale sia le esigenze legate alla conservazione dell’ambiente stanno
lanciando al mondo del business sfide di una portata senza precedenti.
Negli ultimi tempi, i summit dei grandi leader della globalizzazione sono
stati accolti dalle proteste di quanti avversano sia il mercato globale, sia
ivalori che muovono il business. I paesi ricchi si arricchiscono sempre
di più, quelli poveri divengono sempre più poveri.
Nel tentativo di risolvere qnest’ ultimo problema, la Gran Bretagna ha
operato una scelta d’avanguardia, cancellando parte dei crediti che
vanta nei confronti di alcuni paesi del Terzo Mondo: un’ iniziativa
inimmaginabile anche soltanto dieci anni fa, allorché l’idea fu lanciata
per la prima volta o leader cubano Fidel Castro. Persino BilI Gates,
109
proprietario del colosso Microsoft nonche strenuo difensore del mercato
globale, ha finalmente capito che i compuler non bastano a tenere in
vita gli esseri umani e ha dato il buon esempio finanziando
generosamente un programma di vaccinazioni nei paesi più poveri del
mondo.
La globalizzazione
Nel 2000 la rivista Newsweek ha dedicato un numero speciale a quelli
che, a suo avviso, sarebbero stati i maggiori problemi dell’anno
successivo, indicando nella globalizzazione il fenomeno che più avrebbe
influenzato la vita del pianeta ed esprimendo a tale proposito due forti
preoccupazioni: le grandi aziende private avrebbero dovuto farsi
maggiormente carico dei gravi problemi sociali e il mercato non avrebbe
più potuto considerarsi come la giusta risposta a qualsiasi situazione
critica. Ha scritto Claude Smadja, del World Economie Forum:
Nelle grandi società private deve affermarsi un più forte senso di
responsabilità sociale. Da parte nostra, dobbiamo invece prestare più
ascolto alle voci responsabili che giungono dalla «società civile». [
L’incremento numerico delle organizzazioni non governative riflette inoltre
l’atteggiamento di totale disincanto con cui la società guarda a tutte le
istituzioni: governi, multinazionali. organizzazioni internazionali, mass
media...
110
farci carico, nel con tempo, anche di tutte le responsabilità connesse
con questa presa di coscienza.
111
anzi, sia già in corso sotto la spinta di un’esigenza palesemente
espressa dalla società. La gente lascia chiaramente intendere di non
essere più disposta a mettersi al servizio dell’economia, esprimendo
piuttosto a chiare lettere l’idea che è l’economia a dover servire la
società. Come avverrà il cambiamento? Con una serie di correzioni
attentamente manovrate, man mano che il mondo del business
imparerà ad assumersi le proprie responsabilità e ad accettare il suo
vero scopo e significato? Oppure il business continuerà a perseguire a
qualsiasi costo e con miopia il proprio tornaconto, fino a cozzare contro
barricate erette da gente comune ma dotata di aspirazioni più elevate e
con esigenze più nobili?
I cambiamenti concernenti etica e valori che hanno progressivamente
luogo nella società e nell’economia coinvolgono i numerosi aspetti del
business che toccano da vicino sia la gente sia i prodotti:
Il trattamento riservato ai dipendenti e lo stile del management.
L’impegno ecologico: smaltimento e riciclaggio.
112
Il coaching come mezzo di cambiamento culturale
Una cultura che sappia prestare ascolto, che sia aperta
all’apprendimento e all’applicazione del coaching rappresenta per le
aziende la migliore possibilità di cavalcare le onde agitate che si
abbattono sul mondo del business. possono adottare una
Le imprese
cultura più attenta alle esigenze delle persone, vale a dire una cultura
in cui il coaching rappresenti una pratica comune, ormai consolidata e
applicata sia verso i dipeendenti che si collocano in una posizione
gerarchica inferiore sia verso le alte sfere o i colleghi di pari grado. Èper
questa via che un’azienda può finalmente assegnare il giusto
riconoscimento alle esigenze dei suoi dipendenti, che a loro voita
riescono a in modo chiaro e preciso proprio grazie all’aiuto che
definirle
il coaching può loro fornire. Dai loro desideri dalle loro speranze un
coach manager ha molto da imparare. Quando il management si
dimostra capace di ascoltare la voce dei dipendenti e di agire di
conseguenza, il personale lavora con maggiore serenità e garantisce una
performance migliore, con il vantaggio aggiuntivo di un abbattimento
del turnover. Se, al contrario, il management manifesta un’attenuzione
puramente formale alle esigenze dei dipendenti, si creano aspettative
destinate ad andare deluse, e le cose andranno di male in peggio.
Parallelamente a questo cambiamento dello stile di management, le
aziende dovranno di essere
dimostrare all’altezza di quei valori e
fondamenti esse stesse tanto insistono nella stesura delle
etici sui quali
proprie dichiarazioni di mission. Se non li onoreranno, saranno i loro
dipendenti e i loro clienti a richiamarle all’ordine, visto che sia gli uni
sia gli altri hanno la possibilità di punirle troncando ogni rapporto. Le
aziende che con i loro prodotti o servizi offrono un reale contributo alla
società sono quelle che per loro stessa natura garantiscono al personale
un lavoro dotato di significati e scopi, mentre quelle con produzioni
discutibili, quando non decisamente nocive, entreranno quasi senz’altro
in conflitto con i dipendenti più sensibili alla ricerca di un significato in
ciò che fanno.
113
potremmo rispondere. Una democrazia imposta e una cooperazione
forzata sono contraddizioni in termini e, pertanto, assolutamente
inaccettabili. Ecco, a tale proposito, alcune indicazioni generali:
• Se riprogettiamo la struttura della nostra azienda in modo troppo
radicale o troppo rapidamente. rischiamo di trovarci troppo avanti
rispetto ai nostri dipendenti.
• Se la ristrutturazione viene imposta dall’alto ai dipendenti, è possibile
che questi finiscano per opporvisi, anche se il cambiamento è rivolto a
loro stesso beneficio.
114
Per consolidare e mantenere nel tempo i risultati del cambiamento, si
prevedono inoltre regolari sessioni di aggiornamento, supervisioni,
amichevoli scambi di opinioni, feedback e valutazioni di vario tipo.
Quanto più sarà possibile organizzare internamente questi momenti di
riesame, migliori saranno i risultati: alla Performance Consultants
preferiamo infatti non intervenire direttamente, bensì addestrare
all’interno dell’organizzazione dei «coach permanenti» che, vivendo
nell’azienda, sono assai più coinvolti dai cambiamenti avviati.
115
Il feedback
Esistono comunemente cinque livelli di feedback, che in dichiamo
nell’elenco seguente con le lettere dalla A (il meno Utile) alla E (il più
efficace e anche l’unico che garantisce i maggiori benefici in termini sia
di apprendimento sia di performance) I primi quattro livelli producono
al massimo un qualche miglioramento di breve durata e, nella peggiore
delle ipotesi, provocano un’ulteriore diminuzione del senso di autostima
eun deterioramento della performance. Iprimi quattro livelli sono quelli
che più ricorrono nel mondo del lavoro e a prima vista sono del tutto
ragionevoli: soltanto a un’anali più attenta, infatti, rivelano i propri
elementi di debolezza. Vediamone un esempio relativo alla
presentazione di una relazione da parte di un dipendente.
116
Il lavoratore viene coinvolto ma è molto probabile che si
direttamente
limiti a dare una risposta oppure a esprimere un giudizio
molto generica
di valore del tipo «Mi pare ottima» o
potevo fare meglio», senza
«Forse
addentrarsi in una descrizione dettagliata e più utile.
E. Il manager fa osservazioni del tipo: «Qual è lo scopo fondamentale
della sua relazione?» <In che misura, a suo giudizio, questa bozza può
essere utile per raggiungerlo?» «Quali altri punti sente che andrebbero
posti in maggiore evidenza?» «A chi ritiene debba rivolgersi la sua
relazione?»
117
Processo e risultato
Come abbiamo visto, il feedback, sia il nostro sia quello degli altri, è di
vitale importanza per migliorare l’apprendimento e la performance. Esso
deve fare chiaramente riferimento tanto al risultato ottenuto dall’azione
quanto al processo che lo ha determinato. Volendo offrire un esempio
tratto dal mondo dello sport, possiamo dire che il punto in cui finisce la
pallina da golf è il risultato mentre il colpo è il processo. Nello sport è
facile definire un risultato, cosa che a volte risulta invece più complessa
nel mondo del lavoro. Anche nello sport, comunque, spesso nel valutare
il risultato si cade nell’errore di emettere giudizi di valore, mentre quel
che serve è un’accurata e dettagliata descrizione: «La palla era fuori» è
un’affermazione in sé molto più utile che «Quella palla l’hai sbagliata”, e
ancora meglio sarebbe «La palla è cadutaquasi venti centimetri oltre la
linea di fondo”.
L’ informazione d’ anticipo»
Il feedback non può che riferirsi al passato, un passato molto prossimo
nel caso in cui il coaching avvenga in tempo reale, come nello sport,
oppure un passato più lontano, come spesso accade nel mondo del
lavoro. A indurre la piena consapevolezza del presente è tuttavia
l’anticipazione della domanda, ed è questa consapevolezza immediata a
118
produrre un risultato positivo. Per fare un esempio, io posso dire a un
allievo: «Alla prossima palla ti chiederò quale componente dei movimenti
che devi fare ti crea maggiore disagio». Nel compiere un particolare
movimento, egli si concentrerà sul proprio corpo con il probabile effetto
di impedire il manifestarsi del difetto nel corso della prima esecuzione,
in questo caso, sto equipL rando la sensazione di scioltezza nel
movimento e l’efficienza biomeccanica, dal che discende che qualsiasi
ineffìcienza biomeccanica verrà sperimentata come una sensazione di
disagio localizzata nel punto interessato dal movimento.
Cambiare è difficile
Perché persistiamo a usare le forme meno efficaci di feedback? Per il
semplice fatto che lo consideriamo dal nostro punto di vista e non da
quello del lavoratore/allievo; perché diciamo quello che vogliamo senza
capire quale può essere l’effetto che le nostre parole sortiscono. Che poi
tale comportamento nasca dall’abitudine, da modelli di ruolo
insoddisfacenti, da arroganza gerarchica o dal semplice fatto che
neppure ci viene in mente di andare appena sotto ciò che è in superficie
è una questione che varia da manager a manager. La cosa importante,
se davvero vogliamo ricavare il meglio dagli altri — da noi stessi, dai
nostri dipendenti o persino dai nostri figli — è abituarsi a riconsiderare
le cose in modo più approfondito. Il nostro obiettivo primario deve
essere la piena comprensione di ciò di cui il lavoratore/allievo ha
bisogno per eseguire bene il proprio compito, e a tal fine dobbiamo
chiedere, dire o fare qualsiasi cosa occorra per essergli d’aiuto nel
soddisfare tale esigenza. Se ciò a cui puntiamo è una performance di
alto livello, dobbiamo mettere da parte il nostro de siderio di mantenere
tutto sotto controllo o di esibire le nostre superiori conoscenze, o, molto
più semplicemente, quella pigrizia che ci impedisce di abbandonare
119
vecchie abitudini e avviare il cambiamento. È molto difficile farla finita
con le abitudini radicate, ma dobbiamo riuscirci.
Torniamo ora all’esempio da cui eravamo partiti: non perdere d’occhio la
pallina. Guardare costantemente la palla è estremamente importante
per un giocatore di tennis e in questo non c’è nulla di sbagliato.
Tuttavia, ordinarglielo in modo imperativo non necessariamente lo
indurrà a farlo. D’altro lato, e qui sta il paradosso, quante volte giri su
se stessa la pallina è totalmente ininfluente, ma se noi chiediamo al
giocatore di provare a concentrarsi su quell’aspetto siamo sicuri che
non la perderà di vista un solo secondo. Chiedere di contare quanti giri
fa la palla è soltanto una delle tante domande possibili, la cui scelta
dipende unicamente dall’effetto che vogliamo ottenere.
Ancora un altro esempio. Supponiamo che una tennista non faccia che
mandare la palla fuori campo oppure in rete: la giocatrice riesce a
giudicare i propri sforzi soltanto i termini di buono/cattivo,
successo/fallimento e, pertanto, non può che tormentarsi rivolgendo a
se stessa critiche durissime. Di questa sua comprensibile reazione
risentiranno inevitabilmente il senso di autostima, la sicurezza di sé e la
performance, come pure la qualità del suo feedback, peggiorato,
probabilmente, dal fatto che ogni volta che sbaglia ella si volta dall’altra
parte con un’espressione di frustrazione dipinta sul volto. La tennista si
sforza troppo di correggere i propri errori, ma così facendo innesca una
stressante lotta con se stessa e tende a compensare eccessivamente i
precedenti sbagli, con il risulta to di fallire nuovamente (il colpo è
sempre o troppo lungo o troppo corto).
Molti allenatori di tennis cercherebbero di fronteggiare questa
situazione una
imponendo «correzione» di tipo tecnico, ma
commetterebbero un errore, perché si rivolgerebbero al sintomo, non
alla causa. Nel tennis, la ragione di gran lunga più frequente che porta
il giocatore a sbagliare il colpo sta in un feedback insufficiente rispetto
sia al punto da cui la pallina sta arrivando sia a quello verso cui
dirigerla. Ipotizzando quest’ultimo caso, direi che un allenatore saggio, o
meglio un coach, potrebbe domandare: «Quanto era alta sulla rete
quella palla?» magari chiedendo al giocatore di indicare ogni volta ad
alta voce di quanti centimetri a suo giudizio essa ha sorvolato il nastro.
Il solo fatto di ricevere un feedback molto preciso circa il risultato della
sua stessa azione porta il giocatore a correggersi automaticamente,
senta doversi forzare. Grazie al fatto che evita di forzare la correzione (in
quanto ora tutta l’attenzione è rivolta a osservare attentamente la
pallina), il movimento del braccio tende a correggersi da solo a livello
subcosciente e, allo stesso tempo, il giocatore sente di aver dominato
pienamente il momento della correzione. Va da sé che l’esatta altezza in
centimetri alla quale la pallina oltrepassa la rete è del tutto irrilevante.
La cosa veramente importante è che il tennista si concentri sul risultato
della sua azione (cioè l’osservazione della pallina) e lo registri
mentalmente.
120
continuo, nello sport, ma anche sul lavoro e in tutti gli altri momenti
della vita.
Gli elogi
L’elogio è un’altra forma di feedhack, di un genere però che sul lavoro,
dove regnano le critiche, tende a essere con molta
offerto parsimonia e a
essere molto ambito. In tale contesto sembrerebbe auspicabile
aumentare i feedhack positivi e ridurre al minimo quelli negativi.
Visto che sul lavoro gli elogi non abbondano, sembrerebbe poco educato
metterne in dubbio il loro valore, eppure occorre ugualmente
raccomandare qualche cautela. La lode insincera o elargita
gratuitamente è priva di qualsiasi significato e reca più danni che
benefici, dal momento che la falsità e il tentativo di manipolazione
vengono smascherati assai più prontamente di quanto non creda chi si
è lanciato in lodi ed encomi immotivati. Il bugiardo vedrà ridursi
drasticamente il suo eventuale carisma, con conseguente peggioramento
dei rapporti interpersonali. Ma anche una lode autentica può causare
problemi: la persona elogiata può infatti abdicare alla propria capacità e
al proprio desiderio di autovalutarsi in favore di chi ha pronunciato
l’elogio, finendo così per essere ancora più dipendente dall’opinione
altrui. Per creare nei nostri sottoposti la necessaria autonomia e
renderli fiduciosi in loro stessi dobbiamo invece fare esattamente il
contrario.
121
Valutazioni
I
sistemi di valutazione sono oltremodo diffusi, non riscuotono grande
popolarità, vengono utilizzati malamente, sono limitanti ma, con tutto
ciò, rimangono necessari. In una cultura che ha abbandonato il biasimo
in favore dell’apprendimento, possono essere di aiuto a tutti
tali sistemi
quanti, ma se vengono utilizzati per valutare soltanto una performance
del passato e non le potenzialità future, se sono di tipo giudicante e non
descrittivo, non sono di aiuto a nessuno. Le circostanze, le finalità e la
storia stessa di un’azienda possono essere così varie che non mi
arrischierei mai a suggerire un qualche sistema di valutazione
universalmente valido. Comunque sia, un sistema di valutazione non
potrà mai essere del tutto sbagliato se è in sintonia con i criteri
fondamentali di un buon feedback, di cui abbiamo appena parlato, e
con i principi dell’autovalutazione, di cui parleremo ora.
L’ autovalutazione
Nel mondo del lavoro si dà una grande importanza alla valutazione degli
altri — colleghi, subordinati o persino capi — mentre, dal mio punto di
vista, la forma di valutazione più produttiva è senza dubbio
l’autovalutazione. La valutazione che diamo o riceviamo relativamente a
una certa competenza o qualità andrebbe piuttosto considerata come
una preziosa informazione in base alla quale scegliere di intraprendere
una certa azione, anziché come un giudizio critico se non addirittura
come la verità assoluta, che possono avere su di noi un impatto
fortemente negativo e inibitorio. Anche un video, d’altra parte, mostra la
realtà di ciò che è avvenuto in una data occasione, ma dovrebbe essere
impiegato per restituire informazione alla persona piuttosto che come
critica nei suoi confronti. L’ autovalutazione aggira gli effetti perniciosi
della critica e lascia intatto senso di responsabilità al fine di poter
il
intraprendere un’azione efficace e avviare noi stessi il processo volto a
migliorarci. Ecco un esempio.
Le qualità
Comprensivo 6 9
122
Paziente 7 9
Capace di usare 4 7
il pc
Capace di 6 8
organizzare
Capace di 8 8
entusiasmarmi
Attento 8 9
osservatore
Dotato di 5 7
conoscenze
nella contabilità
124
isolato. Come potete vedere, c’è ottima materia per applicare
individualmente (da parte di un
il coaching collega o di un esperto
esterno), per una discussione all’interno
aprire del team sulle possibili
opzioni e portare il gruppo a concordare quali passi abbia l’intenzione
(will) di intraprendere per elevare il livello di alcune delle qualità
elencate.
125
CAPITOLO 18 LO SVILUPPO DI UN TEAM
Un piccolo gruppo di persone dotate di capacità complementari
I
componenti si impegnano alla collaborazione reciproca,
• Sostegno reciproco
• Cooperazione
• Fiducia reciproca
• Adattabilità
• Pazienza
• Amicizia
• Impegno
• Coraggio
• Senso dell’umorismo
• Entusiasmo
• Compatibilità
• Altruismo
126
Un team che meritasse un 10 per ciascuna di queste qualità sarebbe
davvero una squadra con un alto grado di performance, anzi, sarebbe
una squadra eccezionale. In che modo, dunque, possiamo condurre un
team a simili livelli di efficienza? Qualcuno potrebbe rispondermi: con la
giusta aichimia e mia buona dose di fortuna, mentre altri potrebbero
anche non dichiararsi convinti che si tratti effettivamente di una grande
squadra, in quanto ritengono che qualche frizione interna e un pò di
competitività possano contribuire a generare una buona performance.
Lo credono, ma forse soltanto perché non hanno mai visto niente di
meglio. Per quanto rari, team come quello che auspico io esistono, tanto
nello sport quanto nel lavoro.
Fortuna o buonsenso?
Benché in passato team con un alto grado di performance
alcuni si
sianospesso formati grazie a un pizzico di fortuna, ve ne sono stati altri
che si sono sviluppati progressivamente grazie agli sforzi dei loro
membri e dei loro leader. Uno di questi è stata la squadra di hockey su
prato della Gran Bretagna, vincitrice della medaglia d’oro alle Olimpiadi
di Seul nel 1988. L’allenatore, o meglio il coach, che ha saputo
accompagnare passo dopo passo lo
squadra era
sviluppo di questa
David Whitaker. con a stretto contatto nell’ambito del
cui oggi lavoro
mondo del lavoro. Di quella squadra David era solito dire: «Sono riusciti
a diventare un’unità armonica e dinamica, sempre rispettosa del
particolare talento individuale che ciascun giocatore sapeva offrire alla
squadra».
Inclusione
La prima fase è chiamata a questo stadio che i
dell’inclusione perché è
singoli stabiliscono se sono — e se
essere un componente
si sentono di
del team. Quando si entra a far parte di un team, è piuttosto comune
che si manifesti un pò di ansia e una certa introversione, benché spesso
alcune persone riescano a dissimulare queste difficoltà dimostrando
estroverse e tranquille e adottando quindi comportamenti di
compensazione. Il desiderio di essere accettati e la paura di un possibile
rifiuto sono molto forti. Chissà, forse i nostri genitori hanno cambiato
127
casa quando eravamo piccoli e ci siamo trovati di colpo gettati in una
nuova scuola piena di estranei. Quel ricordo risale prontamente alla
nostra memoria con tutte le sensazioni allora provate: il senso di
sradicamento e il bisogno disperato di trovare un amico, anche uno
solo, in modo da sentirsi «integrati» nel nuovo gruppo, sentirsi come
tutti gli altri e, soprattutto, benvoluti. In questa fase, i membri di un
team possono non essere particolarmente produttivi a livello
intellettuale, in quanto la loro attenzione è concentrata su questa
preoccupazione e su bisogni di ordine emotivo.
Affermazione
Una volta che la maggior parte delle persone sente di essere «inclusa»
nel gruppo, emerge un diverso genere di dinamica, quella
dell’affermazione individuale, una fase nella quale ciascun membro del
team cerca la propria personalità e di estendere il proprio
di esprimere
«territorio». come quando gli animali marcano il proprio territorio
E
(almeno i maschi) e guai a chi osa entrarvi! Ci troviamo, cioè, in quella
fase in cui si creano le diverse posizioni gerarchiche, il momento nel
quale. secondo il linguaggio edulcorato del mondo del business, si
definiscono ruoli e funzioni (ma le parole sono spesso molto più gentili
della realtà dei fatti). All’interno del team esplode la competitività, che in
certi casi può persino portare ad alcune singole performance di
eccezionale valore, talvolta a scapito degli altri membri del gruppo. In
questa fase i vari membri saggiano la propria forza e la squadra può
compensare in produttività quello che ancora le manca in coesione.
Si tratta una fase dello sviluppo che riveste una grande importanza,
di
ma che può risultare anche molto dura per il leader, dato che non
mancheranno sfide apertamente lanciate alla sua leadership. Prima di
128
accettare di essere in accordo con il capo, i singoli membri del team
hanno bisogno di scoprire che possono anche trovarsi in pieno
disaccordo con lui, hanno bisogno di esercitare all’interno della squadra
la propria volontà al fine di poterla poi applicare esternamente per il
bene del gruppo. Un bravo leader proporrà ai membri di assumersi
precise responsabilità e li incoraggerà a farlo, soddisfacendo così il loro
desiderio di affermazione personale. E’ importante che il leader
permetta e accetti di essere sfidato, anche se, purtroppo, non manca
chi, sentendosi minacciato, si pone sulla difensiva e tenta di affermare
la propria autorità, nel tentativo di non perdere il controllo della
situazione. Qui si tratta soltanto di trovare il giusto equilibrio.
Chi conduce i corsi di formazione di cinque giorni per i team sperimenta
spesso questa fase nel giorno in cui diviene il bersaglio designato dei
membri del team (sembra che a quel punto la parola d’ordine sia
«ammazza il trainer»). La fase verso la sera del secondo
inizia di solito
giorno, ma un buon trainer riesce di norma a «risorgere» già il terzo
giorno. Se durante questa fase è in programma una presentazione da
parte di un esterno, questi può vedersela brutta se per caso commette
un errore, per quanto insignificante! Si tratta, tuttavia, di una
componente necessaria e persino salutare della dinamica di gruppo,
anche se spesso, soprattutto quando si lavora con i britannici, sempre
molto compassati, tale dinamica viene tenuta nascosta per salvare le
apparenze, con il risultato che si impiega più tempo per riuscire a
placare le ìnevitahili tensioni.
Come ho già detto, un team che stia attraversando que fase può
rivelarsi piuttosto produttivo, il che può addirittura giungere a far velo a
potenzialità anche maggiori, che così può diventare più difficile
riconoscere. Di fatto, la maggior parte delle squadre sportive o dei team
di lavoro raramente si spinge al di là ditale fase, in linea generale perché
si tratta del grado di sviluppo raggiunto dalla società industriale
occidentale nel suo complesso. Andare oltre, pertanto. equivarebbe a
spingersi oltre il limite, anche se riuscire a farlo non è poi così difficile
come comunemente si crede: grazie al coaching, naturalmente.
Cooperazione
All’inizio di questo capitolo abbiamo esemplificato alcune delle
caratteristiche più che emergono
positive nella fase della cooperazione
di un team, benché con questo non intenda dire che in tale fase per i
suoi membri sia tutto rose e fiori. In realtà, il pericolo insito nella fase
della cooperazione è che si accentui esageratamente l’aspetto di
«amalgama» del gruppo, ostacolando di conseguenza l’emergere di
qualsiasi forma di dissenso. Le squadre più produttive dispongono
senza dubbio al loro interno di un alto grado di cooperazione, ma sanno
mantenere nel contempo un certo livello di tensione dinamica, e un
buon leader cerca di conservarla, sia pure con grande tatto.
La Figura 18.1, oltre a riportare (tra parentesi) una terminologia
alternativa per definire il medesimo processo di sviluppo progressivo del
129
130
raggiungere rapidamente le vette della con risultati
cooperazione
eccellenti. Un team formato invece da individui che cercano di
sviluppare la propria autostima offrirà ottime performance a livello
individuale, anche se i vari membri tenderanno a fare ciascuno «il
proprio lavoro». Quelli che invece sono alla ricerca di apprezzamenti da
parte degli altri finiranno inevila bilmente
innescare per
una forte
competitività con i compagni creerà senza dubbio
di squadra, il che
qualche grande performance ma anche più di uno sconfitto. Un team
composto da persone alla ricerca di un senso di appartenenza al
gruppo, infine, si dimostrerà condiscendente e pieno di attenzioni
reciproche, ma più a parole che nei fatti.
Le demarcazioni fra queste tre fasi sono, naturalmente, permeabili e
sovrapponibili e sia la situazione sia la condizione della squadra sono
soggette a notevoli fluttuazioni, soprattutto quando uno dei membri
viene sostituito per un qualsiasi motivo.
Macrocosmo
Credo comunque che, in base all’esperienza direttamente acquisita sul
lavoro o praticando uno sport di squadra, ben pochi lettori non
riusciranno a riconoscere queste diverse fasi e le loro caratteristiche. Un
esempio particolarmente stimolante in tal senso è quello che potrei
trarre dal macrocosmo della nostra società industriale occidentale, che
sta vivendo gli ultimi momenti della fase dell’affermazione e mostra i
primi segnali della cooperazione (maggiore sensibilità ecologica,
sviluppo dell’integrazione europea eccetera). Il crollo dell’impero
sovietico è stato l’inevitabile risultato di un goffo tentativo di forzare la
società sovietica nella fase della cooperazione senza però permettere lo
sviluppo organico della fasi precedenti. I tentativi di ridisegnare la
mappa dell’Europa orientale e di altre regioni del globo appaiono come
una chiara manifestazione di un temporaneo scivolamento nella fase
dell’inclusione, anche se in alcuni casi i fattori determinanti sono
addirittura la sopravvivenza e la sicurezza.
131
team oggi
I
Potremmo dire che, all’alba del ventunesimo secolo, ottenere il meglio
da un team sembra ancora più difficile. Tra le molteplici ragioni, indico
le seguenti:
• Le persone non lavorano più in gruppi stabili ma in squadre che si
formano e si riformano continuamente.
• Alcuni team sono sparpagliati al di là di confini geografici, il che rende
i
contatti meno frequenti e più problematici.
•I
margini di tempo in cui ci si aspetta che un team si formi, raggiunga
la necessaria coesione e offra una performance adeguata agli obiettivi
sono molto più ridotti che in precedenza.
• Le sfide stesse che si ripetono all’interno del mondo del lavoro sono
diventate molto più complesse.
Non tutti i gruppi persone che collaborano devono necessariamente
di
dare vita a un team per conseguire i loro obiettivi.
La conseguenza è che al coaching spetta un ruolo di assoluto rilievo
nell’aiutare le persone a lavorare bene insieme. Il coaching può, per
esempio, essere di grande aiuto per chiarire se e quando le persone
hanno bisogno di costituirsi in un team. Tanto i gruppi quanto i team
veri e propri rappresentano un modo valido di lavorare e il coaching può
facilmente applicarsi a entrambi. Nel prossimo capitolo vedremo in che
modo può essere meglio utilizzato con i team.
132
La performance
Un’applicazione del coaching a un team per migliorarne la performance
si basa sugli stessi principi che intervengono allorché il coaching viene
applicato a un singolo individuo: più un team acquisisce
consapevolezza, sia individualmente sia collettivamente, migliore sarà la
sua performance.
Immaginiamo che una squadra di lavoro stia affrontando un nuovo
compito. Il responsabile del team, che normalmente viene individuato
con il termine «leader», può applicare coaching collettivamente ai vari
componenti gruppo ponendo loro determinate domande. Se si tratta
del
di un team una certa dimensione, il leader può porre inizialmente
di
alcune domande e suddividere quindi la squadra in gruppi di due tre
persone, invitandole a discutere tra loro le risposte date
successivamente a riferire le conclusioni all’intero team. In questo caso,
allo scopo di stimolare nuove idee, egli può mescolare tra loro anche
persone che svolgono normalmente mansioni diverse. Il leader può a
sua volta unirsi a uno de sottogruppi.
In questo modo i vari componenti della squadra avranno l’opportunità
per formulare i loro diversi obiettivi e offriranno il necessario input per
una chiara comprensione della realtà. Successivamente, le risorse e le
idee della squadra verranno utilizzate per un brainstorming sulle
possibili opzioni, fino a concordare un piano d’azione che verrà portato
avanti grazie alla volontà collettiva del gruppo. Ovviamente, il leader
non si limita a porre le domande previste dal coaching, ma offre anche il
proprio input specifico ogni volta che lo ritenga necessario. Un
procedimento tipo richiede un po’ più di tempo di un normale
di questo
briefing per un team, ma, grazie alla combinazione di tutte
prescrittivo
le risorse del gruppo e l’ acquisizione di consapevolezza e responsabilità
da parte dell’intera squadra che esso garantisce, è in grado di produrre
performance incomparabilmente superiori.
133
In determinate situazioni, il leader può applicare il coaching
contemporaneamente all’intero team, per esempio quando è necessario
rivedere e valutare l’esecuzione di un lavoro svolto in precedenza. In
questo caso, egli può riunire membri della squadra sollecitandoli a
rispondere alle sue domande mirate, ma può anche scegliere di chiedere
risposte scritte, per consentire a ciascun membro di analizzare con
maggior profondità il proprio contributo al lavoro svolto col
lettivamente.
134
Se il manager desidera avere una squadra onesta e sincera, dovrà lui
stesso dimostrarsi fin da subito onesto e sincero: se vuole che i membri
del team abbiano fiducia in lui e nei colleghi, dovrà essere lui il primo a
dimostrare di avere fiducia in loro e di esser degno della loro fiducia; se
reputa utile l’instaurarsi di contatti sociali fra i membri del team anche
al di fuori del lavoro, dovrà essere lui il primo a favorirli e a prender
parte agli incontri.
Poiché la maggior parte delle persone e dei team si aspetta ancora un
management di tipo autocratico, molti potranno restare sorpresi e
sentirsi persino disorientati da un manager che esordisce in un tono
partecipativo, anzi, agli occhi di qualcuno potrebbe addirittura apparire
debole e insicuro. E consigliabile pertanto che sia il manager stesso a
prevenire tali dubbi, chiarendo fin dal primo giorno a quale stile di
management egli intenda attenersi e chiedendo ai membri della squadra
la loro opinione in proposito.
Il leader deve inoltre esserein merito alla sua precisa
molto chiaro
volontà di investire tempo per lo sviluppodel
ed energieteam,
sottolineando che non punta mera esecuzione di un certo
soltanto alla
lavoro nei tempi preventivati, ma anche a creare rapporti e performance
di qualità e di lunga durata. Se il manager si limiterà a una professione
verbale dei principi su cui si fonda la creazione di un team valido, ciò
che otterrà in cambio sarà certamente poco. Ciò che veramente paga è
soltanto la completa dedizione allo sviluppo progressivo del team.
Il coaching è lo strumento essenziale sia per dirigere sia per sviluppare
un team. La rivista Management Today riporta una frase di Peter
Lenney, direttore generale di Courtaulds Coatings, destinata a diventare
una sorta di assioma per tutte le aziende: «Se non si è dei bravi coach,
non si è neppure dei bravi manager». Concordo pienamente. David
Kenney, direttore della divisione Management Developnient di Boots the
Chemist, afferma che una parte della sua missione consiste «nel fare in
modo che il cento per cento dei nostri manager si comporti come un
perfetto coach».
135
Le opzioni per realizzare la cooperazione del team
Il seguente elenco di opzioni contiene le risposte che i partecipanti ai
miei programmi di team building hanno dato alla domanda che ci siamo
testé posti.
• Discutere e concordare un insieme di obiettivi comuni al team. È
un’operazione da affrontare nell’ambito del team, indipendentemente
dall’obiettivo esterno che l’azienda gli ha assegnato. C’è sempre spazio
per qualche cambiamento e per decidere come realizzare l’obiettivo.
Ciascun membro viene a offrire il proprio contributo nonché ad
invitato
aggiungere eventuali obiettivi personali che possano rien trare in quelli
complessivi della squadra.
• Elaborare un insieme di regole fondamentali o di criteri operativi che
risultino accettabili per tutti membri de team e ai quali tutti abbiano
dato il proprio contributo. Ciascun membro dovrebbe accettare di
rispettare tali o criteri, anche nel caso che questi non lo
regole
soddisfino al cento per cento. Se un membro desidera che vengano
prese in considerazione alcune sue richieste personali, è essenziale che
sia disposto a rispettare anche quelle degli altri. Il complesso delle
regole di base andrebbe regolarmente verificato per accertarne il rispetto
ol’eventuale esigenza di modifiche o aggiornamenti. Se tutte le parti
coinvolte accettano le regole e dimostrano la ferma intenzione di
rispettarle, eventuali scorrettezze o trasgressioni non andrebbero
rimarcate con eccessivo rigore, a meno che non diventino frequenti.
Molti dei suggerimenti che seguono potrebbero essere considerati come
regole, ma preferisco inserirli nell’elenco delle possibili opzioni.
Riservare del tempo, a cadenze regolari (di solito in coincidenza con le
riunioni del team), per lavorare sugli aspetti del processo. È in questi
momenti che si rivedono le regole di base, si rivolgono elogi o si
esprimono lamentele, si utilizza il confronto per creare un’atmosfera di
franchezza e di reciproca fiducia. Sono i momenti in cui i membri della
squadra diventano persone e non semplici ruote di un ingranaggio
produttivo. In questo momenti andrebbe bandito ogni discorso inerente
lo specifico lavoro che il team sta svolgendo.
• Vagliare l’opinione di ciascun membro in merito alla possibilità di
fissare dei momenti di pura rere tutti insieme.
socialità da trascor
Qualora vengano programmati degli in contri. occorre rispettare
l’eventuale desiderio di un mem bro della squadra di non parteciparvi o
per impegni prece dentemente presi o per la volontà di trascorrere più
tempo con la I Questi, d’altro canto, deve sapere e accet tare che la sua
scelta può tradursi in una certa sensazione di isolamento.
• Prevedere forme di sostegno e di aiuto, anche in forma riservata, se
richiesto, nel caso insorgano problemi o preoccupazioni personali. Se i
momenti di verifica del processo non possono essere frequenti a causa
della distanza geografica o per altre ragioni, è possibile organizzare una
forma di «supporto amichevole» per cui ciascun membro del team,
qualora avverta il bisogno di uno sfogo, possa rivolgersi a un altro dei
componenti del gruppo in veste di amico. Èpossibile risolvere in questo
136
modo problemi di minore importanza, evitando così di sprecare tempo
prezioso durante gli incontri di verifica.
• Definire e una qualche tbr,na di attività in co mune esterna
realizzare
al lavoro. Alcuni team hanno scoperto che una qualche attività di
gruppo, sportiva o di altro genere, ma sempre esterna al luogo di lavoro,
può costituire un momento di particolare aggregazione. Ricordo un
team che decise di effettuare l’adozione a distanza di una bambina,
garantendole una buona istruzione scolastica con il versamento mensile
di un piccolo contributo. I membri del team sentivano che quella
bambina di un lontano paese in via di sviluppo avesse fatto per loro ben
di più di quanto essi non avessero fatto per lei.
Apprendere insieme qualcosa di nuovo. Questa opzione sembra in
parte analoga alla precedente, ma è più orientata verso il contenuto del
lavoro. Vi sono team che hanno de iso di apprendere la tecnica del
coaching o una lingua straniera, oppure di frequentare insieme un
corso inerente al lavoro stesso. Ne può nascere persino una salutare
forma di competizione con altri team appartenenti alla stessa azienda.
•Fare insieme l’esercizio sulle «qualità». I rapporti interni di un team
possono trarre notevole beneficio allorché i suoi membri si impegnano
nel praticare possibili varianti all’esercizio sulle «qualità» di cui ho
parlato nel Capitolo 17. Così possono mettere in luce
facendo, infatti, si
e sviluppare determinate qualità. L’esercizio riesce inoltre a creare
piuttosto rapidamente tra i membri della squadra un senso di fiducia,
di comprensione reciproca e di franchezza. La sua utilità è tale che può
essere ripetuto regolarmente (per esempio ogni due incontri di
valutazione del processo), nella forma da noi suggerita o in altre varianti
ad hoc.
137
basa non sull’imposizione bensì sulla crescita della consapevolezza e
della responsabilità, tanto individuali quanto collettive.
138
Ho già accennato in precedenza a quanto sia più facile apprendere
qualcosa di nuovo (i fondamenti alla base del coaching) che
abbandonare qualcosa di vecchio e superato (il vecchio sistema
prescrittivo). Siamo condizionati da una lun ga esperienza di
prescrittività, agita e subita. L’abitudine, persino l’attesa direi, e quindi
il desiderio di ricevere un comando sono così radicati in noi che spesso
dimentichiamo benefici che potremmo ricavare se, anziché impartirci
ordini, ci rivolgessero delle domande. Non è una cattiva cosa spiegare e
ricordare a coloro che dirigiamo quali benefici possono ricavare dal
coaching: imparare a pensare con la propria testa, acquisire una
maggiore consapevolezza di tutto ciò che può migliorare la nostra
performance, apprendere cose nuove e divertirsi allo stesso tempo,
avere più possibilità di scelta, un maggiore senso di responsabilità, più
fiducia in se stessi e più opportunità di avanzamenti di carriera, oltre
alla possibilità di imparare a esercitare il coaching su noi stessi e sugli
altri, sia sul lavoro sia nella vita di ogni giorno. E’ facile constatare come
i benefici siano davvero molteplici, eppure possono insorgere
ugualmente delle resistenze. Ma a che cosa esattamente la gente tende
aopporre resistenza? Al cambiamento, prima di tutto, e alle domande a
cui è richiesta di rispondere.
Quando i nostri genitori ci rivolgevano una domanda, di solito era
perché ne avevamo combinata qualcuna delle nostre. Erano domande
del tipo: «Si può sapere perché hai fatto una cosa simile?» alle quali non
c’era risposta che potesse metterci al riparo da una bella ramanzina: la
formulazione stessa della domanda eravamo nei
ci diceva che ormai
guai. Quando ci facevano delle domande i nostri insegnanti era per
verificare se avevamo studiato la lezione o se eravamo attenti.
Comunque fosse, era importante dare la risposta giusta ed è per questo
che le domande vengono percepite di per se stesse come una minaccia.
Non sorprende pertanto che su certe persone le domande previste dalla
tecnica del coaching abbiano un effetto intimidatorio,per cui spetta al
coach farle sentire a loro agio, gua dagnarsi la loro fiducia ed evitare
qualsiasi commento anche solo vagamente critico sulle risposte. Può
anche essere di aiuto spiegare e dimostrare semplicemente che lo scopo
delle domande previste dal coaching è quello di aumentare la
consapevolezza e non certo di sottoporre l’interlocutore a un qual che
tipo di test o interrogatorio. Raramente esistono risposte «giuste» alle
domande del coaching: ci sono soltanto risposte oneste.
Quando le resistenze permangono, significa che l’allievo si sta opponendo al
conseguimento di maggiori consapevolezza e responsabilità, probabilmente
perché avverte che entrambe lo a uscire dalla confortevole
costringeranno
nicchia in cui si è rifugiato. La sua paura può essere quella di trovarsi costretto
dalle domande a rivelare a se stesso e agli altri i fantasmi che teme si celino
nella sua psiche: è possibile, per esempio, che durante l’infanzia abbia subito
dei condizionamenti che lo hanno indotto a dissimulare emozioni o altre
debolezze per evitare che clualcuno potesse avvantaggiarsene e prendere il
sopravvento.
139
Comunque sia, per quanto possa essere persino irritante questo tipo di
ossessione, il miglior modo di procedere è quello di dimostrarsi pazienti e
comprensivi.
Barriere esterne
La nostra cultura aziendale è
“ Non c’è nulla che io faccia che non sia sostanzialmente rivolto a tenere
alta la performance. Ricorro al coaching come a uno strumento per
mantenere i miei dipendenti a un livello che mi permetta di delegare a
loro ciò che altrimenti sarei costretto a fare io. Considero il tempo speso
141
per il coaching come un autentico investimento, il cui profitto è
costituito dal tempo di gran lunga maggiore che posso a me dedicare
stesso proprio grazie alla possibilità di delegare agli altri. Se c’è un
incendio non esito a urlare: «Tutti fuori!» Ma sarò sempre impegnato a
spegnere incendi se non ricerco attivamente le occasioni per far crescere
le mie persone attraverso il coaching”.
Se prima non si è fatto altro che impartire loro degli ordini, è ovvio che i
dipendenti si aspettano di sentirne ma
altri, preferire di sentirsi dare
degli ordini non è esattamente la stessa cosa.
142
Barriere interne
Non mi sembra niente di nuovo; lo faccio da anni
Se questa è la vostra arrogante risposta, siamo sicuri che non lo state
affatto facendo!
143
quali risulterà più facile agire in termini di coaching: cominciate con
quelle, e dite loro quello che state facendo.
per
impappinarmi e non saprò che domande fare
Finirò
No, certo che non saranno gli stessi: saranno di gran lunga migliori !
Ampi studi condotti di recente dimostrano che questo non è del tutto
vero, ma potrà sembrarlo fino a che non imparerete a offrire alle
persone qualcosa di più significativo. Si veda a tale proposito il Capitolo
13.
144
da voi siano fittizie, ma perché dovreste sforzarvi di riconoscere che non
poche di esse sono in realtà barriere interne.
Tutti noi preferiamo credere che il problema siano sempre gli altri: in
questo modo ci mettiamo dalla parte della ragione e ci risparmiamo
qualsiasi cambiamento da parte nostra. Tale atteggiamento indica
anche, però, che ci troviamo in un vicolo cieco, dal momento che gli altri
non li possiamo certo cambiare. Se riusciamo ad ammettere che sono
nostre resistenze quelle che noi proiettiamo sugli altri, troveremo la
forza per cambiare le cose, visto che a questo punto avremo su di esse
un reale controllo!
Un migliore apprendimento
Il coaching equivale a una forma di apprendimento rapido, senza
perdite di tempo. Si rafforzano inoltre i momenti di puro divertimento e
si facilita la memorizzazione di quanto si è appreso.
146
Più tempo per il manager
Se un manager si comporta con i suoi collaboratori seguendo i criteri
del coaching, favorendo da parte loro una diretta assunzione di
responsabilità, non ha più bisogno di seguirli né di tenerli d’occhio
costantemente, ricavando in tal modo più tempo per svolgere al meglio
altre mansioni più delicate o più importanti per le quali prima non
aveva mai trovato il tempo necessario.
Molto spesso i manager non hanno idea di quali risorse nascoste siano
disponibili fino a che non iniziano ad applicare il coaching. Solo allora
riusciranno a scoprire nei team molti talenti fino ad allora celati come
pure soluzioni a problemi pratici, che di regola possono essere suggerite
soltanto da coloro che sono quotidianamente a contatto con il lavoro
concreto.
147
Un personale più motivato
Il cambiamento culturale
I
principi alla base del coaching sottostanno allo stile di management di
una cultura della performance di alto livello a cui così tanti leader
aziendali aspirano. Un programma di coaching renderà più facilmente
realizzabile questa trasformazione culturale.
148
“…cambiato tutto quest’anno, e se avessimo perso mi avrebbero messo
alla gogna. Invece. adesso sono l’uomo più famoso della Marina!”.
Per la prima volta nella storia di quella gara, tutti e cinque i trofei
furono conquistati da un’unica formazione: la prima squadra della forza
aerea della Marina aveva fatto registrare il miglior tempo, il miglior
tempo complessivo, il massimo punteggio e il minimo di penalità,
mentre la seconda squadra era risultata vincitrice nella propria gara.
Questo straordinario risultato era stato ottenuto con il trenta per cento
in meno di corse di allenamento rispetto agli anni precedenti e tra gli
atleti si erano avuti anche meno infortunati.
CAPITOLO 22 CONCLUSIONE
149
La pratica
Come accade per ogni tipo di abilità, atteggiamento, stile o convinzione,
anche il coaching esige impegno, pratica e anche un po’ di tempo prima
che esso operi in modo naturale e la sua efficacia sia portata al
massimo. E’ un tipo di pratica che alcuni troveranno più facile di altri.
Se il vostro stile comportamentale è già improntato al coaching, spero
che questo libro vi possa aiutare a conseguire risultati ancora migliori
in quello che già state facendo, o che fornisca un’impostazione logica e
razionale a ciò che ora fate in modo semplicemente intuitivo e
spontaneo. Se invece finora non avete mai adottato il coaching, spero
che il mio lavoro vi suggerirà una nuova visione del management, della
performance e delle altre persone che vi circondano. Ho cercato di
fornire al lettore almeno alcune indicazioni generali sul coaching con le
quali iniziare a fare pratica.
150
Non c’è un unico modo giusto
Ottimismo anzitutto
Personalmente, mi sento decisamente ottimista sul futuro del coaching.
E’ innegabile che la sua pratica, o i principi su cui essa si fonda, ottiene
riconoscimenti sempre più ampi ed è applicata sempre più di frequente.
Potremmo anche abbandonare il termine stesso «coaching» oppure
aggiungere nuove etichette a quelle già esistenti: counseling, facilitating,
mentoring. sostegno, guida, psicoterapia. In qualche misura, tutte
queste attività differiscono e allo stesso tempo si sovrappongono e.
benché possano esprimersi praticamente in modi diversi, esse hanno in
comune gli stessi principi fondamentali:
accrescere la consapevolezza, la responsabilità e la fiducia in se stessi,
vale a dire i principi che sono alla base di ogni sviluppo umano e di ogni
attività efficace.
152
Appendice (Armenio)
Di seguito presento alcuni cenni tratti da “ Toyota, Perché l’industria
italiana non progredisce ” 2005 di Alberto Galgano (presidente del
Gruppo Galgano, da oltre 40 anni riconosciuto come una tra le più
importanti società di consulenza organizzativa).
Questo testo si riferisce specificamente ai miglioramenti organizzativi di
cui necessitano le aziende di produzione in Italia, secondo i paradigmi
introdotti da Toyota, che sembra essere rivoluzionaria nel panorama
mondiale in fatto di organizzazione.
L’autore dice drasticamente che, malgrado le enunciazioni di principio,
nessuna azienda in Italia applica realmente il sistema Toyota e pertanto
non esiste vera innovazione.
In apparenza gli esempi di cui sotto sembrano inappropriati alle aziende
che si occupano di servizi e di servizi alla persona.
Quello che voglio sottolineare è che, malgrado Galgano non ne parli
espressamente, il sistema ruota intorno ad una cultura della
responsabilizzazione del personale operativo e a una relazione basata
sul coaching. L’autore dice testualmente:
.
Miglioramento Continuo. Questo miglioramento, riguardando i dettagli,
può essere realizzato soltanto da chi è coinvolto nei dettagli stessi e cioè
153
Alla Toyota l’empowerment del personale si ottiene con l’arte maieutica
della quale è stato maestro Socrate.
manager
I Toyota non dicono specificatamente agli operatori e ai
supervisori come fare il lavoro.
Piuttosto utilizzano un approccio di insegnamento ed apprendimento
che consente al personale di scoprire le regole come conseguenza della
soluzione dei problemi.
Il supervisore, per insegnare ad una persona i principi delle regole da
seguire, arriverà al posto di lavoro e, mentre l’operatore starà svolgendo
i
suoi compiti, porrà una serie di domande:
Come stai facendo questo lavoro?
Come sai che lo stai eseguendo correttamente?
Come sai che il prodotto realizzato è esente da difetti?
Cosa fai se hai problemi?
Questo continuo processo consente all’operatore una visione sempre più
profonda del suo specifico lavoro.
Da molte esperienze di questo tipo, la persona impara gradualmente a
generalizzare come realizzare tutte le attività in accordo ai principi del
Sistema Toyota.
Tutte le regole sono insegnate con una simile modalità socratica delle
domande iterative e del problem solving……..”.