UNA INTRODUZIONE
Luigi Mondello
Dipartimento Farmaco-chimico
Università degli Studi di Messina
SOMMARIO
Introduzione p. 1
CAPITOLO 7 Rivelatori p. 41
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INTRODUZIONE
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Capitolo 1
STRUMENTAZIONE GASCROMATOGRAFICA
Siringhe
In figura 2 è mostrata una siringa per liquidi da 10 µl, generalmente usata per
iniettare volumi da 1 a 5 µL di liquidi puri o soluzioni. Il pistone di acciaio
inossidabile aderisce strettamente all’interno di una barra di precisione fatta di
vetro borosilicato. L’ago, anch’esso di acciaio inossidabile, è rimovibile e si
avvita all’estremità della barra. Altri modelli hanno un ago epossidizzato
all’interno della barra. Per volumi più piccoli è disponibile anche una siringa da 1
µl. Per l’iniezione di campioni gassosi fino ad un volume di circa 5 millilitri si
può usare invece una siringa a tenuta di gas da 10 millilitri. Un’utile regola
generale è di usare siringhe il cui volume totale sia pari ad almeno il doppio del
volume da iniettare.
2
Uso della siringa
Quando si deve riempire una siringa con del liquido, bisogna prima espellere tutta
l’aria in essa contenuta. Questo si fa aspirando ripetutamente del liquido nella
siringa e poi espellendolo di nuovo rapidamente nel volume di liquido. I liquidi
viscosi vanno aspirati nella siringa lentamente; l’espulsione troppo veloce di un
liquido viscoso potrebbe infatti crepare la siringa. Se troppo viscoso, il campione
può essere diluito con un solvente idoneo.
E’ opportuno prelevare più liquido di quanto se ne intende iniettare. Mantenere la
siringa in posizione verticale con l’ago rivolto verso l’alto, cosicché l’aria rimasta
all’interno della siringa andrà verso la sommità della barra. Poi fare scendere il
pistone fino a leggere il valore (volume) desiderato; l’aria in eccesso dovrebbe
essere stata a questo punto espulsa. Asciugare poi l’ago con un fazzoletto e una
volta misurato il volume esatto di liquido aspirare dell’aria all’interno della
siringa. Quest’aria servirà a due scopi:anzitutto, darà spesso origine ad un picco
nel cromatogramma, utile per misurare il tempo morto (che sarà descritto in
seguito); secondo, servirà a prevenire la perdita di liquido in caso il pistone fosse
accidentalmente abbassato.
Per iniettare, usare una mano per guidare l’ago all’interno del setto e con l’altra
fare forza per forare il setto e anche evitare che il pistone venga espulso a causa
della pressione all’interno del gas cromatografo. L’ultimo punto è importante
quando si iniettano grandi volumi (per esempio, campioni gassosi) o quando la
pressione d’iniezione è estremamente alta. In questi casi, se non si fa attenzione, il
pistone verrà spinto fuori dalla siringa.
Inserire quindi rapidamente l’ago attraverso il setto e poi nella porta di iniezione,
quindi spingerlo verso il basso, aspettare uno o due secondi, quindi ritrarre l’ago
(sempre tenendo il pistone abbassato) il più velocemente e delicatamente
possibile. Con colonne tubolari aperte spesso si opera diversamente. Bisogna fare
attenzione perché la maggior parte delle porte di iniezione sono riscaldate e ci si
può facilmente bruciare.
Tra un campione e l’altro bisogna pulire la siringa. Quando si usano liquidi
altobollenti la siringa andrebbe lavata con solventi volatili come cloruro di
metilene o acetone, aspirando ripetutamente il liquido di lavaggio all’interno della
siringa e poi espellendolo. Infine, il pistone va rimosso e la siringa asciugata
aspirando aria all’interno con una pompa da vuoto (con una trappola adeguata) o
un aspiratore d’aria. E’ utile aspirare l’aria anche attraverso l’ago per impedire che
della polvere entri nella barra otturandola.
Autocampionatori
Gli autocampionatori sono dei dispositivi meccanici, generalmente collocati sulla
sommità del gas cromatografo, designati per l’iniezione automatica dei campioni.
In figura 3 è mostrato un autocampionatore capace di gestire 150 campioni.
3
Figura 3. Autocampionatore per sistema gas cromatografico.
Setti
L’iniezione con siringa viene effettuata attraverso un setto autosigillante, un
polimero di silicone stabile ad alte temperature. In commercio sono reperibili
diversi tipi di setti; alcuni sono fatti a strati, altri hanno un film di Teflon dalla
parte della colonna. Le proprietà da considerare nella scelta di un setto sono:
stabilità ad alte temperature, grado di perdita (decomposizione) del setto, misura,
durata e costo.
Colonne
In gas cromatografia si incontrano generalmente due tipi di colonna, colonne
impaccate e colonne capillari. In passato, gran parte dei lavori erano effettuati con
colonne impaccate. Attualmente, queste sono state quasi totalmente rimpiazzate
dalle colonne capillari, caratterizzate da maggiore efficienza e tempi di analisi
ridotti.
In Figura 4 è mostrata schematicamente una colonna impaccata in sezione
trasversale.
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Figura 4. Sezione trasversale di una colonna impaccata.
5
Rivelatori
Il rivelatore monitorizza l’effluente della colonna e registra graficamente il
processo cromatografico, sotto forma di cromatogramma. Il segnale generato dal
rivelatore è proporzionale alla quantità di ciascun soluto (analita), rendendo così
possibile l’analisi quantitativa.
Le caratteristiche ideali richieste ad un rivelatore per gas cromatografia sono:
- Adeguata sensibilità
- Buona stabilità e riproducibilità della risposta
- Linearità fra concentrazione e risposta del rivelatore, in un intervallo di
parecchi ordini di grandezza
- Temperatura di esercizio fino ad almeno 400°C
- Tempi di risposta brevi ed indipendenti dal flusso
- Alta affidabilità e facilità d’uso
- Risposta altamente prevedibile e selettiva nei confronti di una o più classi
di soluti
- Non distruttività del campione
Naturalmente non esiste un rivelatore in grado di soddisfare tutte le richieste sopra
citate. Sono stati però sviluppati, migliorati ed ampiamente utilizzati numerosi i
sistemi di rivelazione in gas cromatografia.
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possedere maggiore capacità di memoria, velocità di elaborazione ed interfacce
flessibili per l’operatore li ha resi più popolari degli integratori.
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Capitolo 2
FASE MOBILE
Un gas inerte (elio, argon, azoto, idrogeno) fluisce in continuo dalla bombola
attraverso l’iniettore, la colonna e il rivelatore, spingendo le diverse componenti
della matrice in esame.
E’ importante che il gas di trasporto abbia un’elevata purezza, poiché
contaminanti quali idrocarburi, ossigeno e/o acqua possono attaccare
chimicamente la fase liquida della colonna e distruggerla. Inoltre, tracce di acqua
possono provocare il rilascio di contaminanti dalla colonna e generare
l’innalzamento della linea di base (background) o addirittura la rivelazione di
sostanze non appartenenti alla matrice, i cosiddetti “picchi fantasma”.
Un parametro fondamentale correlato al gas di trasporto è il flusso presente in
colonna. Esso risulta essenziale sia per l’efficienza della colonna che per l’analisi
qualitativa. Per quanto concerne l’efficienza della colonna, essa dipende da un’
idonea velocità lineare del gas; questa può essere determinata cambiando la
velocità di flusso fino a raggiungere la maggiore efficienza del sistema analitico.
Considerando l’analisi qualitativa, invece, è essenziale ottenere valori di flusso
costanti e stabili nel tempo al fine di ottenere separazioni riproducibili. In
cromatografia l’approccio più semplice e veloce per l’identificazione di un
composto consiste infatti nel confronto dei tempi di ritenzione. E’ possibile che
due o più composti abbiano lo stesso tempo di ritenzione, ma nessun composto
può avere due tempi di ritenzione diversi; i tempi di ritenzione sono quindi
caratteristici di un soluto, ma non unici. Ovviamente, un buon controllo del flusso
è essenziale per questo metodo di identificazione.
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Figura 6. Flussimetri - dispositivi per la misurazione del flusso: a) a bolla di
sapone; b) digitale.
Il flussimetro a bolla di sapone non è altro che un tubo calibrato, in genere una
pipetta o buretta modificata, attraverso il quale fluisce il gas di trasporto.
Schiacciando un bulbo di gomma, una soluzione di sapone viene fatta salire nel
percorso del gas che fluisce. Dopo che il tubo è stato inumidito da diverse bolle di
sapone, una bolla viene accuratamente cronometrata mentre attraversa un volume
definito, con un cronometro. Da questa misurazione si può facilmente calcolare la
velocità di flusso del gas di trasporto, in mL/min. Alcuni flussimetri elettronici
funzionano in base allo stesso principio, ma utilizzano delle radiazioni luminose
per le misure.
I gas cromatografi di ultima generazione sono provvisti di speciali dispositivi,
integrati nello strumento, capaci di controllare elettronicamente il flusso del
sistema (elemento 3 di figura 1).
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p 2
i − 1
3 p
j = o 3 (2)
2 p
i − 1
p o
e:
Fc = jxFc (3)
V R0 = jVR = jt R Fc (4)
Questo termine non va confuso con il volume di ritenzione corretto che sarà
presentato successivamente.
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Capitolo 3
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Tipo di colonna Volume
Regolare analitica impaccata: 1/4” o.d.*, 10% di liquido 0,2-20 µL
Impaccata ad alta efficienza: 1/8” o.d.*, 3% di liquido 0,01-2 µL
Capillare (tubolare aperta): 250 µm i.d.*, 0,2 µm di film 0,01-3 µL
*o.d. e i.d.: diametro esterno e interno, rispettivamente.
Tabella 2. Volumi di campione per diversi tipi di colonne.
Campionamento di gas
I metodi di campionamento dei gas richiedono che l’intero campione si trovi allo
stato gassoso nelle condizioni operative. Particolari difficoltà insorgono nel caso
di miscele gas-liquido. Se possibile, la miscela dovrebbe essere o riscaldata, per
convertire tutti i componenti in gas, o compressa per convertire tutti i componenti
in liquido. Purtroppo non sempre questo è possibile. I metodi di campionamento
più comunemente usati consistono nell’uso di siringhe a tenuta di gas e valvole
per il campionamento di gas. La siringa è più flessibile, meno costosa, ed è lo
strumento usato più di frequente. D’altra parte, una valvola per il campionamento
di gas offre una migliore ripetibilità, richiede meno manualità e si presta
maggiormente ad essere automatizzata.
Campionamento di liquidi
I liquidi si espandono notevolmente quando vaporizzano, perciò è preferibile
usare piccole quantità di campione, dell’ordine di microlitri. Le siringhe
rappresentano il dispositivo standard universale per l’introduzione di liquidi; le
misure più comunemente usate sono 1, 5 e 10 µl. In situazioni in cui campioni
liquidi sono riscaldati (come in tutti i tipi di iniezione per vaporizzazione) per
consentirne una rapida vaporizzazione prima del passaggio in colonna, bisogna
fare attenzione ad evitare il surriscaldamento, che provocherebbe ad una
decomposizione termica.
Campionamento di solidi
Nel caso di solidi la procedura migliore consiste nel discioglierli in un solvente
appropriato ed usare una siringa per iniettare la soluzione ottenuta.
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Capitolo 4
PROCESSO CROMATOGRAFICO
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lungo nella fase stazionaria. Quindi, la separazione di A da B si verifica durante il
loro percorso attraverso la colonna. Infine, i componenti lasciano la colonna e
vengono rivelati generando delle variazioni di segnale all’interno della camera di
rivelazione. Il segnale in uscita dal rivelatore dà origine ad un cromatogramma,
mostrato nella parte destra della figura 7.
Dalla figura si evince come ciascun picco cromatografico subisca un
“allargamento di banda” nel corso del processo cromatografico.
La tendenza di un dato componente ad interagire con la fase stazionaria viene
descritta in termini chimici attraverso una costante di equilibrio nota come
costante di distribuzione, o anche coefficiente di ripartizione (Kc). La costante di
distribuzione è in linea di principio simile al coefficiente di ripartizione che
controlla un’estrazione liquido-liquido. In cromatografia, maggiore è il valore
della suddetta costante, maggiore è l’affinità del soluto per la fase stazionaria.
In alternativa, questa attrazione può essere classificata in base al tipo di
assorbimento del soluto. Se l’interazione analita/fase stazionaria avviene solo
sulla superficie della fase stazionaria si parla di adsorbimento, mentre se
l’interazione interessa la parte più interna dello strato di fase stazionaria liquida, si
usa il termine assorbimento.
La costante di distribuzione fornisce un valore numerico per l’assorbimento totale
del soluto all’interno o al di sopra della fase stazionaria. Essa descrive pertanto il
grado di interazione e regola i movimenti del soluto attraverso il sistema
cromatografico. Sono proprio le differenze nelle costanti di distribuzione
(parametri sotto controllo termodinamico) a rendere possibile la separazione
cromatografica.
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Figura 8. Cromatogramma.
VR = tR x Fc (2)
15
colonna. Il termine volume morto, sebbene non convenzionale, è anch’esso
ampiamente usato.
L’equazione 3, una delle equazioni fondamentali della cromatografia, mette in
relazione il volume di ritenzione cromatografico con la costante di distribuzione
teorica:
VR = VM + KcVS (3)
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essenziale di limetta in soli 90 secondi, ottenuta con una strumentazione
specificatamente designata per analisi veloci.
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separazione di composti volatili. In entrambe le tecniche la temperatura è una
variabile critica, ma le separazioni in GC dipendono anche dalla natura chimica
(polarità) della fase stazionaria. Questa variabile addizionale rende la tecnica GC
più potente. In aggiunta, il fatto che i soluti si trovino a concentrazioni molto
basse in colonna esclude la possibilità di formazione di azeotropi, che spesso
inficiano le separazioni per distillazione.
Entrambi i metodi sono tuttavia ristretti a campioni volatili.In pratica, un limite
superiore di temperatura in GC è circa 180 °C, per cui i campioni devono
possedere un’apprezzabile pressione di vapore (60 torr o più) a quella
temperatura. Di solito i soluti hanno punti di ebollizione che non superano i 500
°C e pesi molecolari di 1000 Daltons.
Questa notevole limitazione della tecnica è riportata di seguito, insieme ad altri
svantaggi.
• Limitata a campioni volatili
• Non adatta a campioni termolabili
• Difficoltosa per la separazione su scala preparativa di grandi quantità di
campione
• Richiede analisi spettroscopiche, di solito mediante spettroscopia di massa,
per la conferma dell’identità dei picchi
Riassumendo, si può affermare che per la separazione di sostanze volatili in
genere la gas cromatografia costituisce la tecnica di elezione per velocità, elevata
capacità di risoluzione e facilità d’uso.
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CAPITOLO 5
Costante di distribuzione
La costante di equilibrio termodinamico prima definita come costante di
distribuzione, Kc, è il parametro di controllo che determina la velocità alla quale
un dato soluto si muove attraverso una colonna GC. Per un soluto o analita
indicato come A, si ha:
[ A] S
Kc = (1)
[ A] M
Kc = k x β (2)
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VM
β= (3)
VS
Per colonne capillari il cui spessore di film, df, è conosciuto, β si può calcolare
dall’equazione 4,
(rc − d f )2
β= (4)
2rc d f
dove rc è il raggio della colonna capillare. Se, come di solito, rc >> df, l’equazione
4 si riduce a:
rc
β= (5)
2d f
Per colonne capillari, valori tipici di β sono nell’ordine delle centinaia, circa 10
volte il valore corrispondente per le colonne impaccate, per le quali del resto
β non è facilmente calcolabile. Il rapporto di volume di fase è un parametro molto
utile da conoscere, in grado di fornire preziose indicazioni nella scelta della
colonna appropriata.
Il fattore di ritenzione, k, è il rapporto tra la quantità di soluto (non la
concentrazione di soluto) nella fase stazionaria e la corrispondente quantità nella
fase mobile:
(W A )S
k = (6)
(W A )M
Maggiore è questo valore, maggiore sarà la concentrazione di soluto nella fase
stazionaria e, quindi, più a lungo questo sarà ritenuto sulla colonna. In questo
senso, il fattore di ritenzione esprime la misura in cui un soluto è ritenuto. Come
tale, è un parametro importante quanto la costante di distribuzione e può essere
facilmente calcolato dal cromatogramma.
Dal riarrangiamento dell’equazione 2 e sostituendo in essa l’equazione 3 si arriva
ad un’utile equazione:
Kc K CVS
k = = (7)
β VM
20
V R = VM + K C VS (8)
VR' VR
k= = − 1 (10)
VM VM
21
Si noti che più un soluto è ritenuto dalla fase stazionaria, maggiore è il volume di
ritenzione e più alto è il fattore di ritenzione. Quindi, anche se la costante di
distribuzione per un dato soluto non è nota, il fattore di ritenzione può essere
facilmente misurato dal cromatogramma ed usato al posto della costante di
distribuzione per esprimere il grado relativo di assorbimento del soluto. Del resto,
se β è conosciuto (come è in genere il caso per le colonne OT), la costante di
distribuzione può essere facilmente calcolata dall’equazione 2.
E’ importante assicurarsi di non confondere i due termini: il volume di ritenzione
relativo sopra descritto e la definizione ad esso correlata di volume di ritenzione
corretto. Ciascuno ha una sua particolare definizione: il volume di ritenzione
relativo VR' è il volume di ritenzione che esclude il volume misurato dal picco del
metano o dell’aria, come mostrato nell’equazione 9; il volume di ritenzione
corretto, VR0 , è il valore che corregge per la comprimibilità del gas carrier e si basa
sulla velocità media di flusso. C’è ancora un altro volume che rappresenta il
valore sia relativo che corretto; esso è chiamato volume di ritenzione netto, VN:
( )
V N = j VR − VM = jV R' = VR0 − VM0 (11)
V N = K CVS (12)
Fattore di ritardo
Un altro modo per esprimere il comportamento di ritenzione di un soluto consiste
nel paragonare la sua velocità attraverso la colonna, µ, con la velocità media della
fase mobile gassosa, ū:
µ
=R (13)
u
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Per arrivare ad una definizione numerica, la velocità del soluto può essere
calcolata dividendo la lunghezza della colonna, L, per il tempo di ritenzione di un
dato soluto,
L
µ= (14)
tR
L
u= (15)
tM
VM
R= (16)
VR
1
R= (17)
(1 + k )
Il fattore di ritardo misura l’entità in cui il soluto è ritardato nel suo passaggio
attraverso la colonna, o la velocità frazionale alla quale un soluto si sta muovendo.
Il suo valore è sempre pari o inferiore a uno. Esso rappresenta anche la frazione di
soluto nella fase mobile in un dato tempo e, alternativamente, la frazione di tempo
che il soluto medio trascorre nella fase mobile. Per esempio, se un tipico soluto, A
ha un fattore di ritenzione di 5, significa che è ritenuto 5 volte di più rispetto ad un
picco non ritenuto. Il suo fattore di ritardo, 1/(1+k), è 1/6 o 0,167. Ciò significa
che man mano che il soluto passava attraverso la colonna, il 16,7% di esso si
trovava nella fase mobile e l’84,3% nella fase stazionaria, in ogni istante. Per un
altro soluto, B, con un fattore di ritenzione di 9, le percentuali relative sono del
10% nella fase mobile e 90% nella fase stazionaria. Chiaramente, il soluto che ha
maggiore tendenza ad essere assorbito nella fase stazionaria, nel nostro esempio
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B, trascorre una frazione maggiore di tempo nella fase stazionaria, il 90% contro il
10% di A.
Il fattore di ritardo può essere anche usato per illustrare la tecnica di iniezione on-
column. Quando B viene iniettato on-column, il 90% di esso viene assorbito nella
fase stazionaria e solo il 10% passa allo stato di vapore. Questi numeri dimostrano
che non è necessario evaporare tutto il materiale iniettato; infatti, la maggior parte
del soluto va direttamente all’interno della fase stazionaria. Similmente, nel
capitolo 9, R sarà di aiuto nella comprensione del programma di temperatura in
GC.
Il fattore di ritardo appenda descritto per la cromatografia su colonna è simile al
fattore RF nella cromatografia su strato sottile, il che permette a chi lavora in
cromatografia liquida di usare questi due parametri per confrontare dati TLC e
HPLC. Infine, può essere utile nella comprensione del significato del fattore di
ritenzione osservare che il concetto è simile teoricamente a quello di frazione
estratta in un’estrazione liquido-liquido.
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A seconda della loro forma, i picchi asimmetrici sono classificati come “fronting”
(quando l’asimmetria è localizzata all’inizio del picco) e “tailing” (quando
l’asimmetria è localizzata in coda al picco). L’entità di asimmetria è definita come
fattore di scodatura (TF, figura. 12).
b
TF = (18)
a
Sia a che b sono misurati al 10% di altezza del picco, come mostrato. Come si può
vedere dall’equazione, un picco “tailing” avrà un TF superiore a uno; il caso
opposto, cioè “fronting”, darà un TF inferiore a uno. Sebbene la definizione sia
stata designata per dare una misura del grado di tailing ed è così chiamata, essa
misura anche il fronting.
Un picco sdoppiato, come (e) in figura 11, può rappresentare una coppia di soluti
non adeguatamente separati, un’altra sfida per il cromatografista. Si dovrebbe
verificare che il picco sdoppiato sia ripetibile, perché questa forma di picco può
anche risultare da una tecnica di iniezione inadeguata, troppo campione, o colonne
degradate.
Tutte le considerazioni che verranno effettuate, si assimileranno a picchi con
forma gaussiana. Le caratteristiche di una forma gaussiana sono ben conosciute;
in figura 13 è mostrato un picco cromatografico ideale. I punti di flessione si
originano a 0,607 dell’altezza del picco e le tangenti a questi punti producono un
triangolo con un’ampiezza di base, wb, uguale a quattro volte la deviazione
standard, 4σ, ed un’ampiezza a metà altezza, wh, di 2,354σ. L’ampiezza del picco
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è 2σ al punto di inflessione (60,7% dell'altezza). Queste caratteristiche sono usate
nelle definizioni di alcuni parametri, incluso il numero di piatti.
Numero di piatti
Per descrivere l’efficienze di una colonna cromatografica è necessaria una misura
dell’ampiezza del picco, ma che sia correlata al tempo di ritenzione del picco, dal
momento che come abbiamo visto prima l’ampiezza aumenta con il tempo di
ritenzione. La misura più comune dell’efficienza di un sistema cromatografico è il
numero di piatti, N:
2 2 2
t t t
N = R = 16 R = 5,54 R (19)
σ wb wb
26
Figura 14. Parametri cromatografici richiesti per definire il numero di
piatti N di una colonna.
Diversi termini hanno origine dal fatto che la misura di σ può essere fatta a
diverse altezze del picco. Alla base del picco, wb è 4σ, cosicché la costante
numerica è 42 o 16. A metà altezza, wh è 2,354σ e la costante diventa 5,54 (fare
riferimento alla Fig. 13).
Indipendentemente dai simboli usati, sia il numeratore sia il denominatore devono
essere espressi nelle stesse unità e, quindi, N è adimensionale. Tipicamente sia il
tempo di ritenzione sia l’ampiezza del picco sono misurati come distanze sul
tracciato cromatografico. In alternativa, entrambi possono essere espressi sia in
unità di volume sia in unità di tempo. A prescindere dal calcolo eseguito, un
valore alto di N indica una colonna efficiente, il che è altamente auspicabile.
Da un cromatogramma contenente molti picchi i valori di N per i picchi
individuali possono variare (dovrebbero aumentare leggermente con il tempo di
ritenzione) a seconda dell’accuratezza con la quale è stata eseguita la misura. E’
pratica comune, tuttavia, assegnare un valore ad una data colonna sulla base di
un’unica misura, anche se sarebbe meglio un valore medio.
L
H= (20)
N
27
Dove L è la lunghezza della colonna. H è espressa in unità di lunghezza ed è
migliore di N per confrontare le efficienze di colonne di lunghezza diversa. E’
anche chiamata altezza equivalente ad un piatto teorico (HEPT), un termine che
deriva dalla terminologia della distillazione. Ulteriori chiarimenti su H si trovano
più avanti in questo capitolo. Una buona colonna avrà un valore grande di N e
piccolo di H.
Risoluzione
Un’altra misura dell’efficienza di una colonna è la risoluzione, RS. Come in altre
tecniche analitiche, il termine risoluzione è usato per esprimere la misura in cui
picchi adiacenti sono separati. In cromatografia, la definizione è:
(t R )B − (t R ) A 2d
RS = = (21)
(wb ) A + (wb )B (wb ) A + (wb )B
2
dove d è la distanza tra i massimi dei picchi di due soluti, A e B. La Figura 3.7
mostra il calcolo della risoluzione. Per determinare le ampiezze dei picchi alla
base si tracciano le tangenti ai punti di flesso. Normalmente, picchi adiacenti di
uguale area avranno la stessa ampiezza di picco, e (wb)A sarà uguale a (wb)B.
L’equazione 21 si riduce quindi a:
d
RS = (22)
wb
In figura 15 le tangenti si toccano appena, così d = wb e RS = 1,0. Più alta è la
risoluzione, migliore la separazione; una separazione completa alla linea di base
richiede una risoluzione di 1,5.
In concreto, le equazioni 21 e 22 sono valide solo quando le altezze dei due picchi
sono uguali, come mostrato in figura 15. Per altri rapporti di altezza dei picchi, si
può consultare il lavoro di Snyder per alcuni esempi.
28
Figura 15. Due picchi quasi risolti per definire la risoluzione.
B
H = A+ + Cu (23)
u
29
Poiché l’altezza del piatto è inversamente proporzionale al numero di piatti, un
valore piccolo indica un picco stretto – la condizione desiderabile. Quindi ognuna
delle tre costanti, A, B e C dovrebbe essere ridotta al minimo per massimizzare
l’efficienza della colonna.
L’equazione di Golay
In caso di colonne tubolari aperte o capillari, l’equazione di velocità non include il
termine A. Questa conclusione è stata tratta da Golay, il quale ha anche proposto
un nuovo termine per descrivere il processo di diffusione in fase gassosa nelle
colonne tubolari aperte. La sua equazione aveva due termini C, uno per il
trasferimento di massa nella fase stazionaria, CS (similmente a van Deemter) e uno
per il trasferimento di massa nella fase mobile, CM. L’equazione di Golay assunse
perciò questa formula:
B
H= + (C S + C M )u (24)
u
B = 2 DG (25)
2kd 2f
CS = (26)
3(1 + k ) DS
2
30
dove df è lo spessore medio del film di fase stazionaria liquida e DS è il
coefficiente di diffusione del soluto nella fase stazionaria. Per minimizzare il
contributo di questo termine, lo spessore del film deve essere piccolo e il
coefficiente di diffusione grande. Una rapida diffusione attraverso film sottili
consente alle molecole di soluto di restare vicine l’una all’altra. Film sottili si
possono ottenere rivestendo le pareti capillari con piccole quantità di liquido, ma i
coefficienti di diffusione di solito non possono essere controllati se non
scegliendo, per la fase stazionaria, liquidi a bassa viscosità.
Il termine CS sarà minimo quando il trasferimento di massa dentro e fuori la fase
stazionaria liquida è il più veloce possibile. Si può fare un paragone con una
persona che salta dentro e fuori da una piscina; se l’acqua è poco profonda, il
processo si compirà velocemente, altrimenti no.
Se la fase stazionaria è solida sono necessarie delle modifiche al termine CS per
correlarlo alle appropriate cinetiche di assorbimento-desorbimento. Ancora una
volta, più le cinetiche sono veloci più il processo sarà vicino all’equilibrio e
minore sarà l’allargamento di banda.
L’altra parte del termine CS è il rapporto k/(1+k2). Valori alti di k risultano da
elevate solubilità nella fase stazionaria; mentre questo rapporto è minimo per
valori alti di k, mentre al di sotto un valore di k di circa 20 la diminuzione è molto
piccola. Poiché valori alti del fattore di ritenzione risultano in lunghi tempi di
analisi, si ottiene poco vantaggio da valori di k superiori a 20.
Il trasferimento di massa nella fase mobile può essere ravvisato riferendosi alla
figura 16 che mostra il profilo di una zona di soluto in conseguenza ad un flusso
non turbolento attraverso un tubo.
31
minimizzano questo allargamento poiché le distanze per il trasferimento di massa
sono relativamente piccole. L’equazione di Golay per il termine CM è:
CM =
(1 + 6k + 11k )r
2
C
2
(27)
24(1 + k ) DG
2
32
Nella figura sono mostrati i percorsi di diffusione di tre molecole. Tutte e tre
cominciano dalla stessa posizione iniziale, ma trovano diversi percorsi attraverso
il letto impaccato e giungono alla fine della colonna dopo aver percorso distanze
differenti. Poiché la velocità di flusso del gas carrier è costante, esse arrivano in
tempi diversi e sono separate l’una dall’altra. Quindi, per un numero grande di
molecole, il processo di diffusione vorticosa o gli effetti di percorso multiplo
risultano in un allargamento della banda come mostrato.
Il termine A nell’equazione di van Deemter è:
A = 2λd p (28)
B 8kd 2f u ωd p2 u
H = A+ + 2 + (29)
u π [1 + k ] DS
2
DG
dove ω è il fattore di ostruzione per letti impaccati (funzione del supporto solido).
Quest’equazione è stata generalmente accettata, anche se ne sono state proposte
altre che saranno discusse nella sezione successiva.
Bisogna anche notare che il termine B nell’equazione originale di van Deemter
includeva un fattore di tortuosità, γ, che tiene conto anche della natura del letto
impaccato. Ovviamente, questo fattore non compare nel termine B per le colonne
impaccate.
33
preferendo un termine unico che combina la diffusione vorticosa ed il
trasferimento di massa per produrre una nuova equazione.
Altri hanno definito delle equazioni di velocità utili sia in GC sia in LC. Una
discussione interessante che riepiloga gran parte di questo lavoro fu pubblicata da
Hawkes. La sua equazione risultante è espressa nella stessa forma di quella di
Golay, ma è meno specifica. Si consultino i riferimenti bibliografici per maggiori
dettagli.
34
CAPITOLO 6
FASI STAZIONARIE
35
Le fasi stazionarie liquide (GLC) nelle colonne impaccate e nelle SCOT (support
coated open tubular) sono ancorate ad un supporto solido inerte che presenta i
seguenti requisiti:
inerzia chimica, in modo da non interferire nel processo cromatografico
resistenza meccanica e termica, in modo da non pregiudicare
l’impaccamento ottimale della colonna
buon grado di “bagnabilità” da parte del liquido di ripartizione, che deve
depositarsi come film sottile in modo molto uniforme
bassa resistenza al flusso del gas
disponibilità sotto forma di particelle di forma il più possibile sferica
Per quanto riguarda la granulometria delle particelle, le colonne impaccate
richiedono materiali da 60-80 mesh (0,25-0,18 mm di diametro), 80-100 mesh
(0,18-0,15 mm) e 100-120 mesh (0,15-0,13 mm). In pratica, con colonne di
diametro interno di 3 mm, le migliori prestazioni si ottengono con una
granulometria di 80-100 mesh. In generale, per ottenere un buon impaccamento il
diametro interno (i.d.) della colonna deve essere almeno otto volte maggiore del
diametro medio dei granuli del supporto.
Le colonne SCOT e PLOT richiedono granuli di diametro medio inferiore a 1µm
(colonne con 0,32-0,53 mm i.d.), mentre lo strato di materiale sulle pareti può
variare da 5 a 50 µm di spessore. I materiali di supporto più comunemente usati
sono :
• terra di diatomee
• teflon
• microsfere di vetro
Il liquido di ripartizione da depositare sul supporto solido o sulle pareti di una
colonna capillare deve soddisfare numerosi requisiti, fra cui i più importanti sono:
bassa tensione di vapore nelle condizioni di esercizio (0,01-0,1 mm Hg)
elevata stabilità termica
elevata inerzia chimica dei componenti della miscela, per il
supporto e anche per il materiale di cui è costituita la colonna
buon effetto solvente sulla miscela, sia pure con una affinità diversa per
ciascun componente, per favorirne la separazione
bassa viscosità alle temperature di esercizio
36
Supporti solidi per fase stazionaria
Dei molti materiali utilizzati, quelli realizzati con terra di diatomee (Chromosorb)
si sono rivelati i migliori. Le proprietà dei principali tipi sono elencate in tabella
3, dove sono riportati anche i limiti superiori per alcuni supporti. Il limite più
basso rappresenta in genere la quantità minima in grado di assicurare la completa
copertura della superficie del supporto, una quantità che dipende dall’area
superficiale.
La superficie dei supporti a base di terra di diatomee è spesso troppo reattiva per
campioni polari. Essi contengono infatti gruppi ossidrilici liberi in grado di
formare legami idrogeno indesiderati con le molecole di soluto, provocando lo
scodamento dei picchi cromatografici corrispondenti. Anche il materiale più inerte
(Chromosorb W bianco) deve essere lavato con un acido (in questo caso,
designato come AW) e silanizzato per renderlo ancora più inerte. Reagenti tipici
per la silanizzazione sono il dimetildiclorosilano (DMDCS) e l’esametildisilazano
(HMDS); i supporti bianchi disattivati sono conosciuti come Supelcoport,
Chromosorb W-HP, Gas Chrom Q II e Anachrom Q. Uno svantaggio della
disattivazione è che questi supporti diventano idrofobici, cosicché il rivestimento
con la fase stazionaria liquida risulta difficoltoso. Come prima detto,
l’impaccamento con particelle piccole produce colonne più efficienti, le
dimensioni di vengono indicate secondo il “mesh range” (intervallo interstiziale),
definito dalle dimensioni dei pori dei setacci usati per la selezione delle particelle.
Intervalli tipici in GC sono 80/100 o 100/120 mesh.
La quantità di fase liquida che riveste il supporto solido dipende dal tipo di
supporto e varia in genere dall’1 al 25%. Dalla tabella 4 si evince che il 15% di
fase liquida su un supporto Chromosorb P equivale a circa il doppio (25,7%) su
Chromosorb W, a causa delle differenze di densità e area superficiale. D’latra
37
parte, il tipo Chromosorb G può invece supportare solo modeste quantità di
liquido (tipicamente il 3-5%).
Si deduce infine che bassi carichi sono preferibili per ottenere un’alta efficienza e
per composti altobollenti, mentre carichi elevati sono migliori quando si opera con
grandi quantità di campione e per soluti volatili – ad esempio gas. In questo caso
la preparazione del supporto prevede l’unione di una soluzione di fase stazionaria
in solvente volatile al supporto solido e la successiva evaporazione del solvente. Il
materiale risultante, perfino con il 25% di fase stazionaria liquida, apparirà secco
e verrà facilmente impaccato all’interno della colonna.
38
Fasi stazionarie solide (GSC)
A parte alcuni adsorbenti di uso comune, come il gel di silice e l’allumina, la
maggior parte dei soluti usati come fasi stazionarie sono stati messi a punto per
applicazioni specifiche in GSC. I due adsorbenti sopra citati danno risultati
soddisfacenti in termini di forma dei picchi e numero di piatti, mentre al contrario
molti dei solidi usati in GSC danno picchi scodati ed efficienze inadeguate. E’ da
notare inoltre che su gel di silice l’aria non viene separata in ossigeno e azoto.
La separazione dell’ossigeno dall’azoto è facilmente realizzabile su dei solidi
conosciuti come setacci molecolari, che comprendono zeoliti esistenti in natura e
materiali sintetici come alluminiosilicati di metalli alcalini. Questi setacci sono
denominati in base alle dimensioni reali approssimative dei loro pori, ad es. il tipo
5A ha pori da 5 Å e il tipo 13X ha pori da 9 Å. La separazione tra ossigeno e
azoto è all’incirca uguale su entrambi i setacci mentre una differenza si osserva
nel caso del monossido di carbonio, che impiega circa il doppio del tempo per
fluire dal setaccio molecolare da 5 Å.
I Carbosieves sono tipicamente costituiti da solidi appositamente messi a punto
per GC, in questo caso mediante pirolisi di un precursore polimerico che fornisce
carbonio puro contenente piccoli pori e che funge da setaccio molecolare. I
Carbosieves separano l’ossigeno dall’azoto e possono convenientemente sostituire
i setacci molecolari appena descritti. Essi trovano anche applicazione per la
separazione di idrocarburi a basso peso molecolare e formaldeide, metanolo e
acqua. Altri nomi commerciali sono Ambersorb e Carboxen. Un’altra classe di
adsorbenti a base di carbonio è rappresentata dai carboni neri grafitizzati
(Carbopack), non porosi e non specifici ed in grado di separare molecole
organiche sulla base della loro struttura geometrica e polarità. Spesso sono anche
leggermente ricoperti con una fase liquida per migliorarne la prestazione e
minimizzare lo scodamento dei picchi cromatografici. Nel 1996, Hollis sviluppò e
brevettò un polimero poroso messo in commercio con il nome di Porapak che
offrì una buona soluzione al problema analitico di separare ed analizzare l’acqua
in presenza di solventi polari. Infatti, per la spiccata tendenza a formare legami
idrogeno, di solito l’acqua dà origine a brutte scodature con la maggior parte delle
fasi stazionarie. Originariamente esistevano cinque diversi tipi di polimeri,
indicati da P a T in ordine di polarità crescente; oggi ne esistono invece otto
versioni. L’acqua fluisce molto velocemente sui Porapak P e Q, rendendoli ideali
per quelle applicazioni nelle quali normalmente l’acqua interferirebbe con i
composti di interesse. Il Porapak Q può essere usato anche per separare ossigeno
ed azoto a -78 °C. Una serie di polimeri competitivi per prestazioni è venduta
sotto il nome commerciale di Chromosorb Century Series.
In conclusione, è possibile individuare alcune grandi famiglie di fasi stazionarie:
- Fasi stazionarie “legate” chimicamente ai gruppi ossidrilici della silice del
supporto o alle pareti della colonna, molto usate nelle colonne capillari WCOT.
Le fasi siliconiche vengono immobilizzate per reticolazione mediante iniziatori di
39
radicali liberi (come i perossidi o i raggi γ); i ponti metilenici che si formano fra
le catene polisilossaniche e la colonna rendono la fase particolarmente stabile sia
al calore sia all’usura con il tempo.
- Fasi stazionarie “ad azione mista” costituite da co-polimeri reticolati porosi a
base di etil-vinilbenzene e divinil-benzene, che non hanno gruppi ossidrilici liberi
e quindi consentono di minimizzare i fenomeni di scodamento (sempre presenti
con le fasi silicee) in caso di composti molto polari (acqua, ammine, ammoniaca,
alcoli ed acidi grassi). Tali fasi sono oggi molto spesso utilizzate per le colonne
capillari PLOT.
- Fasi stazionarie “chirali”, usate sia in GC che in HPLC, in grado di separare gli
enantiomeri. Lo sviluppo di ammidi chirali ha portato alla messa a punto di fasi
stazionarie chirali (CSP) a largo spettro, per la risoluzione diretta di un gran
numero di sostanze otticamente attive mediante GC. Per la loro fabbricazione
sono state messe a punto due strategie: la prima si basa sulla formazione di
derivati con reagenti otticamente attivi, per formare una coppia di
diastereoisomeri separabili su una colonna achirale; l’altra si basa sull’uso di un
liquido chirale come fase stazionaria. A questo scopo sono state studiate molte
fasi chirali a base di amminoacidi; in questo caso il frammento molecolare più
importante per la ricognizione molecolare stereoselettiva è rappresentato dal
gruppo –CONHCHRCONH- che permette di raggiungere elevati coefficienti di
enantiorisoluzione (α).
Recentemente alcune ciclodestrine variamente funzionalizzate sono state utilizzate
con successo in GC capillare per la risoluzione diretta di miscele racemiche; in
particolare l’α-ciclodestrina terpenilata ha fornito elevati valori di
enantioselettività per gli zuccheri sotto forma di trifluoroacetil-derivati.
40
4. Le miscele contenenti sia sostanze non polari sia sostanze polarizzabili
(come per esempio n-esano e benzene) possono essere separate mediante fasi
molto polari, capaci di polarizzare i composti aromatici stabilendo legami di tipo
dipolo-dipolo indotto, trattenendo invece di meno i composti apolari. Solitamente
le fasi stazionarie prevedono delle catene funzionalizzate con gruppi metilici,
fenolici, -ciano, polisilossani, silareni o carbonati incorporati in uno scheletro di
polisilossani.
Per poter essere impiegate con colonne capillari, le fasi stazionarie polimeriche
devono soddisfare ai seguenti requisiti:
stabilità termica e fisica
un determinato grado di ancoraggio (crosslinking)
capacità di partizione
inerzia chimica
selettività di fase
riproducibilità nella sintesi del polimero costituente
41
CAPITOLO 7
RIVELATORI
Tranne poche eccezioni, la maggior parte dei rivelatori usati in GC sono stati
specificatamente designati per questa tecnica. Le principali eccezioni riguardano il
rivelatore a conducibilità termica (TCD), già in uso come analizzatore di gas al
tempo in cui la GC cominciò a svilupparsi e lo spettrometro di massa (o rivelatore
selettivo di massa, MSD), modificato in modo da supportare le elevate velocità di
scansione necessarie in GC. Altre tecniche spettroscopiche, come l’IR e
l’emissione atomica al plasma, sono state usate in seguito impiegate per
monitorare l’effluente gas cromatografico.
In totale, più di 60 rivelatori sono stati utilizzati in GC. Molti dei rivelatori
specificatamente designati si basano sulla formazione di ioni, realizzata con mezzi
diversi e, di questi, il rivelatore a ionizzazione di fiamma è diventato il più
popolare.
In questa sezione saranno discussi il FID, il TCD e il rivelatore a cattura di
elettroni (ECD), dal momento che rappresentano i rivelatori di uso più comune.
Anche altri rivelatori saranno discussi, seppure più brevemente; la combinazione
di GC e spettrometro di massa (MS) è d’altra parte tanto importante da meritare
una trattazione separata (capitolo 10).
Dapprima, tuttavia, è utile fornire una classificazione dei diversi tipi di rivelatori e
delle proprietà comuni, in modo da offrire un quadro d’insieme.
42
5. Analogico vs. Digitale
FID TCD ECD
43
aggiungendo un gas di supporto (make-up gas) all’effluente della colonna, in
modo da far passare il campione più velocemente attraverso la cella del rivelatore.
Questo stratagemma si rivela utile per i rivelatori del tipo a velocità di flusso di
massa, molto meno per quelli a concentrazione. Nell’ultimo caso infatti il gas di
make-up diluisce il campione, diminuendo la concentrazione come pure il segnale
risultante – in alcuni casi questa non rappresenta una soluzione soddisfacente. Di
conseguenza, è necessario che i rivelatori a concentrazione abbiano volumi molto
ridotti, per poter essere utilizzati con successo in GC capillare. L’uso del gas di
make-up comporta infatti il rischio di diminuire il segnale.
44
Caratteristiche dei rivelatori
La principale caratteristica di un rivelatore è ovviamente il segnale che esso
produce; altre due caratteristiche importanti sono il rumore e la costante di tempo.
Le ultime due saranno discusse per prime, in modo da fornire una base teorica per
la successiva discussione sul segnale.
Rumore
Il rumore è il segnale prodotto dal rivelatore in assenza di campione. E’ anche
chiamato “background” e si evidenzia dalla linea di base. In genere viene espresso
nelle stesse unità del normale segnale del rivelatore. In condizioni ideali, la linea
di base non dovrebbe mostrare rumore; in pratica si osservano delle fluttuazioni
casuali originate dalle componenti elettroniche che costituiscono gli amplificatori,
da segnale spurio derivante dall’ambiente, dalla presenza di contaminanti o
perdite nel sistema. Un design accurato ed efficiente del circuito può consentire di
abbattere parte del rumore, mentre un’appropriata schermatura e messa a terra del
rivelatore possono isolarlo dall’ambiente. Un adeguato pre-trattamento del
campione e l’ottenimento di picchi cromatografici il più possibile puri possono
invece contribuire ad eliminare parte del rumore derivante dalla contaminazione.
Il rumore a lungo termine (“long-term noise”) che si protrae per un periodo di
circa 30 minuti, viene chiamato drift. Le cause del rumore andrebbero
possibilmente trovate ed eliminate, o quantomeno minimizzate, in quanto
influenzano negativamente il segnale minimo rivelabile.
Un parametro molto utile nel descrivere le prestazioni di un rivelatore è il rapporto
segnale/rumore (S/N); esso fornisce più informazioni riguardo al limite inferiore
di rivelazione rispetto al rumore tal quale. Comunemente, il segnale minimo
attribuibile ad un analita è considerato quello il cui rapporto segnale/rumore o S/N
sia almeno pari a 2.
Segnale
La risposta del rivelatore o segnale è di particolare interesse nella rivelazione di
un analita. L’ampiezza di questo segnale (altezza o area del picco) è proporzionale
alla quantità di analita ed è alla base dell’analisi quantitativa. Le sue
caratteristiche sono molto importanti poiché l’analisi quantitativa è
un’applicazione di fondamentale rilievo in GC. Le specifiche da definire riguardo
al segnale sono sensibilità, minimo di rivelabilità, intervallo lineare ed intervallo
dinamico.
Sensibilità
La sensibilità, S, corrisponde alla risposta del rivelatore per unità di
concentrazione o per unità di massa di analita nel gas carrier. La sensibilità si
esprime in unità basate sulla misura delle aree dei picchi, che differiscono per i
45
due principali tipi di rivelatori (quelli a concentrazione e quelli a velocità di flusso
di massa).
Per i rivelatori del tipo a concentrazione, la sensibilità è calcolata per unità di
concentrazione di analita nella fase mobile gassosa,
AFC E
S= = (1)
W C
dove A è l’area integrata del picco (in unità come mV/min), E è l’altezza del picco
(in mV), C è la concentrazione di analita nel gas carrier (in mg/mL), W è la massa
di analita presente (in mg) e FC è la velocità di flusso del gas carrier (corretta) in
mL/min. Le dimensioni risultanti per la sensibilità di questo tipo di rivelatore sono
mV mL/mg.
Per i rivelatori del secondo tipo, la sensibilità è calcolata per unità di massa
dell’analita nella fase mobile gassosa, come riportato sotto:
A E
S= = (2)
W M
dove M è la velocità di flusso di massa dell’analita che entra nel rivelatore (in
mg/sec), W è la massa dell’analita (in mg), A l’area del picco in ampere-sec e E
l’altezza del picco in ampere.
In questo caso, le dimensioni per la sensibilità sono ampere-sec/mg o
coulomb/mg. Come notato prima, le differenze nelle unità di sensibilità tra i due
tipi di rivelatori rendono difficile confrontare le rispettive sensibilità.
Rivelabilità minima
Rappresenta il limite più basso di analita che può essere rivelato; viene indicata in
svariati modi tra cui: quantità minima rivelabile (MDQ), limite di rivelazione
(LOD) e rivelabilità. Lo IUPAC ha definito la rivelabilità minima, D, come:
2N
D= (3)
S
46
rappresenta la massa minima che può essere rivelata cromatograficamente,
tenendo conto della diluizione del campione che risulta dal processo. Questo
valore, talvolta chiamato MDQ, è un’utile misura di confronto dei limiti di
rivelabilità di rivelatori di tipo diverso.
Un termine correlato è il limite di quantificazione (LOQ), superiore al LOD. La
maggior parte delle linee guida (es., quelle dell’American Chemical Society,
ACS, sull’analisi ambientale) specificano che il LOD dovrebbe essere pari a 3
volte il S/N e il LOQ pari a 10 volte il S/N. Le definizioni della Farmacopea
statunitense (USP) sono simili e stabiliscono anche che il LOQ non dovrebbe
essere inferiore a 2 volte il LOD. Altre agenzie possono avere linee guida diverse,
ma tutte derivano dalla necessità di specificare i limiti di rivelabilità e
quantificazione e la relazione che tra essi intercorre, essendo diversi l’uno
dall’altro.
Intervallo di linearità
Riportando in grafico la risposta del rivelatore rispetto alla concentrazione
dell’analita rivelato, entro un determinato intervallo (range) di concentrazioni si
ottiene una linea retta. Superato un certo valore, ad alte concentrazioni, si registra
un appiattimento della risposta e l’andamento non è più lineare. Per poter misurare
l’intervallo di linearità, diventa necessario stabilire il limite superiore di
concentrazione. Poiché la linearità viene spesso rappresentata graficamente in
scala logaritmica, le deviazioni dalla linearità sono minimizzate e la curva non è
adatta ad evidenziare eventuali deviazioni. Un grafico migliore è quello della
sensibilità in funzione della concentrazione, dove la concentrazione dell’analita si
può esprimere in forma logaritmica, per ottenere un ampio intervallo mantenendo
nel contempo la linearità per l’asse y (sensibilità).
47
Figura 18. Schema di un rivelatore a ionizzazione di fiamma (FID).
48
vantaggi sono: buona sensibilità, ampio intervallo di linearità, semplicità,
robustezza e adattabilità a tutte le dimensioni delle colonne.
49
Figura 19. Schema di un rivelatore a termoconducibilità (TCD).
50
temperatura dei filamenti. I controlli del rivelatore possono quindi specificare le
impostazioni di corrente, voltaggio, temperatura o differenza di temperatura (∆T),
a seconda del particolare tipo di controllo. Il controllo della temperatura dei
filamenti per mantenerla costante provvede al bilanciamento del ponte,
diversamente dal più semplice circuito che misura direttamente lo sbilanciamento
del ponte. Il bilanciamento fornisce un intervallo di linearità più ampio, maggiore
amplificazione, limiti di rivelazione più bassi e meno rumore.
Come già spiegato, un volume piccolo della cella è preferibile per la
riproducibilità della forma dei picchi e per una maggiore sensibilità. Tipicamente,
le celle TCD hanno volumi intorno a 140 µL, ottimi per colonne impaccate o
capillari wide-bore. Il loro uso con colonne capillari narrow-bore non è
routinario, ma sono reperibili celle con volumi fino a 20 µL ed in alcuni casi è
possibile ottenere dei buoni cromatogrammi. Quando si usa il TCD con colonne
capillari è in genere richiesta l’aggiunta di gas di make-up. Una cella
estremamente piccola, dal volume di 1 nL, è stata realizzata per un sistema micro-
GC, su un chip al silicio. Un altro sistema utilizza una singola cella TCD di
volume ridotto (5 µL); i due flussi di gas (campione e riferimento) vengono fatti
passare alternativamente attraverso la cella ad una frequenza di 10 volte al
secondo.
Il gas di trasporto usato con il TCD deve avere una conducibilità termica (TC)
molto diversa da quella del campione da analizzare; i gas più frequentemente usati
sono di conseguenza elio e idrogeno, che hanno i più alti valori di TC. Tutti gli
altri gas, come pure i liquidi e i solidi, hanno valori di TC molto più piccoli.
Usando azoto come gas carrier ci si può aspettare di ottenere picchi di forma
irregolare, spesso a W a causa di una parziale inversione. Lo stesso accade se si
cerca di analizzare idrogeno usando l’elio come gas carrier. Sebbene la risposta
del TCD non sia direttamente correlabile ai valori TC, è ovvio che per l’analisi
quantitativa sono necessari dei fattori di calibrazione, similmente a quanto visto
per il FID.
A seguire un riepilogo delle caratteristiche del TCD, le cui principali proprietà
sono: robustezza, universalità, moderata sensibilità.
51
RIVELATORE A CATTURA DI ELETTRONI (ECD)
L’invenzione dell’ECD è attribuita a Lovelock, sulla base di una sua
pubblicazione risalente al 1961. Si tratta di un rivelatore selettivo che fornisce una
sensibilità molto alta per quei composti che “catturano gli elettroni”. Questi
composti includono materiali alogenati come i pesticidi e, di conseguenza, questo
è stato uno dei suoi usi primari. E’ un rivelatore a ionizzazione, ma a differenza
della maggior parte dei rivelatori di questa classe, i campioni sono rivelati a causa
di una diminuzione del livello di ionizzazione. Quando non sono presenti analiti,
il 63Ni radioattivo emette particelle beta come mostrato nell’equazione (5):
Ni → β − (5)
Queste particelle cariche negativamente collidono con il gas carrier idrogeno e
producono altri elettroni (equazione 6):
β − + N 2 → 2e − + N 2+ (6)
Gli elettroni formati in questo processo combinato risultano in una notevole
corrente (circa 10-8 a) quando vengono raccolti da un elettrodo positivo. Quando
un analita elettronegativo viene eluito dalla colonna ed entra nel rivelatore, esso
cattura una parte degli elettroni liberi e la corrente è diminuita dando un picco
negativo:
A + e − → A− (7)
Gli ioni negativi formati hanno mobilità inferiore a quella degli elettroni liberi e
non vengono raccolti dall’anodo.
La relazione matematica per questo processo è simile alla legge di Beers usata per
descrivere il processo di assorbimento di una radiazione elettromagnetica. Quindi,
il grado di assorbimento o cattura è proporzionale alla concentrazione di analita. Il
gas carrier usato per l’ECD può essere azoto puro (come indicato nel meccanismo
illustrato) o una miscela del 5% di metano in argo. Quando si usa questo rivelatore
con colonne capillari è in genere necessario un contributo di gas di make-up; in tal
caso è conveniente usare il gas più economico, cioè l’azoto, come make-up e
l’elio come gas carrier.
Lo schema tipico di un ECD è mostrato in figura 20.
52
Figura 20. Schema di un rivelatore a cattura di elettroni (ECD).
63
Ni è stato indicato come emettitore di particelle beta, ma è stato usato anche il
trizio; generalmente si preferisce il nichel perché può essere usato a temperature
più alte (fino a 400 °C) ed ha una minore attività (oltre ad essere più sicuro).
Sembra inoltre che applicando un voltaggio pulsato anziché continuo si raggiunge
una migliore prestazione. Un impulso a onda quadra di circa -50 V è applicato ad
una frequenza che mantiene una corrente costante, indipendentemente dalla
presenza o meno dell’analita nella cella; di conseguenza la frequenza d’impulso è
maggiore quando l’analita è presente. L’ECD pulsato ha un MDQ più basso e
quindi un intervallo di linearità più ampio.
Una limitazione dell’ECD è la necessità di usare una sorgente radioattiva che può
rendere necessaria un’autorizzazione speciale o quantomeno un periodico test
radiologico. Questo rivelatore è reperibile in commercio e può anche essere usato
in condizioni diverse, come rivelatore a ionizzazione di elio.
L’ECD è uno dei rivelatori più frequentemente contaminati ed è influenzato
negativamente da ossigeno e acqua. Sono necessari gas ultra-puri e secchi, privi di
perdite e campioni puliti. La contaminazione è in genere evidente da una linea di
base disturbata o da piccole inflessioni negative prima e dopo ciascun picco. A
volte si può effettuare un lavaggio operando con idrogeno come gas carrier ad alte
temperature per bruciare le impurezze, ma spesso si rende necessaria una
53
completa revisione del sistema. A seguire un riepilogo delle caratteristiche dell’
ECD, un rivelatore sensibile e selettivo per i composti alogenati, ma che può
essere facilmente contaminato e più frequentemente causa dei problemi.
54
è cambiato nel tempo, da rivelatore a ionizzazione termoionica (TID), rivelatore a
fiamma termoionica (FTD), rivelatore termoionico specifico (TSD), ecc.
Sostanzialmente, Karmen e altri hanno osservato che il FID mostra una sensibilità
maggiore quando nelle vicinanze della fiamma è presente un sale di un metallo
alcalino. Nell’attuale configurazione del rivelatore, un letto di rubidio o cesio è
riscaldato elettricamente nella zona in cui avviene la ionizzazione di fiamma.
Sebbene il meccanismo non sia ben compreso, il rivelatore mostra una sensibilità
più pronunciata per le sostanze contenenti fosforo, azoto ed alcuni alogeni.
55
CAPITOLO 8
ANALISI QUALITATIVA
Il parametro cromatografico usato per l’analisi qualitativa è il volume di
ritenzione (o qualche altro parametro strettamente correlato). Tuttavia, poiché i
parametri di ritenzione da soli non consentono di confermare l’identità dei picchi,
è uso comune accoppiare uno spettrometro di massa (MS) al GC per l’analisi
qualitativa. La tecnica GC-MS è ampiamente utilizzata e sarà discussa in dettaglio
successivamente.
Parametri di ritenzione
Il tempo di ritenzione di un dato soluto può essere usato per la sua identificazione
posto che le seguenti variabili della colonna siano mantenute costanti: lunghezza,
fase stazionaria e suo spessore (carico di liquido), temperatura e pressione
(velocità di flusso del gas di trasporto). Come esempio, si consideri un campione
incognito di cui si ottiene il cromatogramma; se si vuole sapere quali dei
componenti sono n-alcoli, si può analizzare una serie di n-alcoli standard
ottenendo il corrispondente cromatogramma. I picchi i cui tempi di ritenzione
corrispondono a quelli degli standard possono essere identificati n-alcoli.
Ovviamente questo sistema funzionerà soltanto se i componenti del campione
incognito sono alcoli.
La procedura non sarà efficace se il numero di possibili composti è elevato – i
volumi di ritenzione non sono così caratteristici. Poiché i composti organici di uso
comune sono più di 30000, la gas cromatografia non può essere impiegata da sola
per identificare un singolo composto da un insieme così grande. I tempi di
ritenzione sono caratteristici di un sistema GC, ma non sono unici e quindi non
possono essere usati per la conferma qualitativa.
D’altra parte, i volumi di ritenzione relativi sono più riproducibili dei volumi di
ritenzione individuali, per cui i dati qualitativi andrebbero riportati su una base
relativa. L’indice di ritenzione di Kovats è un metodo affidabile per riportare i dati
di ritenzione ed è un buon sistema da usare a scopo di identificazione o
classificazione. Di seguito sarà illustrata la teoria degli indici di ritenzione, che
riveste una notevole importanza in un’indagine GC a fini qualitativi .
56
Come già detto, in gas cromatografia le informazioni quantitative sono legate
all’ampiezza dei segnali (picchi cromatografici) registrati per ciascun
componente. Le informazioni qualitative sono legate al comportamento
cromatografico di una determinata sostanza in un sistema cromatografico e,
quindi, ai parametri di ritenzione cromatografica. Tra i parametri di ritenzione
cromatografica si riconoscono, in ordine di affidabilità crescente:
57
predire la ritenzione in diverse condizioni cromatografiche. Lo scopo di tali studi
è lo sviluppo di procedure di calcolo necessarie all’impiego comune di importanti
informazioni termodinamiche. I dati riguardanti il flusso, le dimensioni della
colonna, i rapporti di fase, i programmi di temperatura vengono applicati per l’uso
individuale. Entrambi gli approcci hanno avuto uno sviluppo parallelo nel tempo
ed i loro concetti non sono necessariamente opposti; l’approccio degli indici di
ritenzione tuttavia reca maggiori problemi, per due motivi fondamentali.
IT non è riproducibile se non in condizioni cromatografiche altamente
standardizzate; ciò è irrealizzabile sul piano pratico ed analitico poiché le
temperature di eluizione dipendono dal particolare caso (analita) e dalla necessità
di ottimizzare il processo di separazione.
Diversamente da quanto si verifica operando in GC in isoterma, nella GC in
programma di temperatura l’informazione termodinamica non può essere
determinata dall’ IT. Il calcolo degli indici di ritenzione dai dati termodinamici è
invece possibile sia in GC isoterma che in GC in programma di temperatura.
Dal momento che il tempo di ritenzione di un soluto varia secondo la temperatura
e l’entità del flusso in colonna, si deduce che è impossibile riprodurlo.
La reale mancanza di un sistema di riferimento condusse Kovats a proporre un
sistema per calcolare l’indice di ritenzione basato su serie omologhe di idrocarburi
usati come picchi di riferimento. Egli ideò un calcolo applicandolo all’analisi GC
in condizioni isoterme, dove il logaritmo del tempo di ritenzione corretto (t’r) è
proporzionale al numero di carboni omologhi.
Il sistema basato sugli indici di ritenzione si basa su due concetti fondamentali:
- ciascun analita è indicato in base alla posizione tra due n-idrocarburi che
includono il suo tempo di ritenzione, nel senso che i tempi di ritenzione di tutti gli
analiti sono racchiusi nell’intervallo di ritenzione dei picchi di riferimento
- il calcolo è basato su un’interpolazione lineare dei numeri di carboni dei due
idrocarburi. Convenzionalmente, al fine di evitare l’uso di frazioni decimali, il
numero di carboni viene moltiplicato per 100. Il tempo di ritenzione di un soluto è
uguale al numero di carboni (x100) di una ipotetica n-paraffina che dovrebbe
presentare lo stesso tempo di ritenzione corretto dello specifico soluto.
Riassumendo, gli indici di ritenzione possono essere calcolati sia in condizioni di
isoterma sia in programma di temperatura.
58
Gli indici di ritenzione di composti compresi tra due picchi di idrocarburi
denominati z e z + 1 possono essere calcolati con la seguente equazione:
59
composti disposti in ordine di similarità decrescente con il composto incognito. La
probabilità di giungere ad una corretta identificazione è tanto più alta quanto più
alta è la similarità tra lo spettro del campione e quello del composto standard.
D’altra parte, anche la conoscenza generale della natura del campione è
fondamentale per una corretta interpretazione dei dati spettrali. Le difficoltà
riscontrabili nell’identificazione GC/MS sono connesse a due fattori fondamentali
e distinti: il composto in analisi e la libreria utilizzata.
• Ragioni connesse al composto:
- Alcune miscele complesse presenti in natura sono costituiti da un insieme di
composti appartenenti alla medesima categoria (ad es. i terpeni), da loro derivati
ossigenati e da composti alifatici ossigenati. Le difficoltà che si presentano nella
identificazione GC/MS dei picchi di queste miscele complesse è connessa all’alto
livello di similarità spettrale che molti di essi mostrano. Questa deriva dalle
caratteristiche strutturali delle molecole, dalle frammentazioni ottenute ed infine
dai riarrangiamenti in seguito alla ionizzazione. Perciò l’identificazione MS
dovrebbe sempre essere accompagnata da ulteriori informazioni sul tempo di
ritenzione che supportino la ricerca in una libreria spettrale
- La composizione di una matrice complessa viene comunemente determinata
attraverso una serie di separazioni su più fasi stazionarie polari /apolari. La
procedura risulta lunga e laboriosa e spesso comunque inadeguata per il genere di
campioni (ad es. oli essenziali). In tal caso, la rivelazione MS attendibile di molti
composti incogniti, che punta all’ottenimento di spettri di massa di alta qualità, è
impedita dalla presenza di composti interferenti.
• Ragioni connesse alla libreria:
- Nelle librerie commerciali le informazioni sulle condizioni sperimentali sono
inesistenti o poco accurate, perché gli spetti inseriti provengono dalla letteratura o
da strumenti diversi (quadrupoli, magnetici, a trappola-ionica) che presentano
differenze significative
- In alcune librerie sono riportati spettri differenti per il medesimo composto, a
causa di errori nell’interpretazione o nel campionamento
- In alcune librerie sono riportati vari spettri per lo stesso composto, perché questo
è menzionato con nomi diversi (nome sistematico e/o nome comune) o con diversi
numeri di CAS.
L’uso di informazioni cromatografiche, come gli indici, può essere usato per
filtrare in modo interattivo i risultati MS così da ottenere un’attribuzione più
attendibile dei picchi dei componenti di una miscela complessa. L’LRI, parametro
ben noto in gascromatografia, è stato introdotto nelle migliori librerie spettrali
attualmente in commercio allo scopo di fornire maggiori informazioni sull’identità
dell’analita, restringendo l’intervallo di percentuale di similarità nel quale uno
spettro ricade dopo la ricerca. In molti casi, attivando questa funzione si ottiene un
composto unico nella lista di quelli probabili. Questo genere di approccio
60
consente l’identificazione di un elevato numero di componenti una miscela
complessa di qualunque natura: vegetale, biologica, sintetica, farmaceutica,
alimentare, con estrema precisione. La procedura di ricerca è enormemente
semplificata ottenendo spesso soltanto il composto corretto, evitando inoltre la
confusione generata dall’uso di librerie commerciali. Infatti, una ricerca su una
comune libreria commerciale può anche fornire una lunga lista di possibili scelte
per ogni componente, e la prima scelta non necessariamente è quella giusta.
Strumenti on-line
La GC-MS è stata già menzionata come metodo di scelta per l’analisi qualitativa.
Una tecnica complementare di identificazione è la spettroscopia infrarossa a
Trasformata di Fourier accoppiata alla gas cromatografia (GC-FTIR). La
migliorata sensibilità dei sistemi a Trasformata di Fourier nella gestione dei dati
ha fortemente contribuito ad aumentarne l’utilità.
Le due interfacce IR comunemente in uso sono la “light pipe” e la cosiddetta
“matrix isolation” (isolamento su matrice). Nel primo metodo, l’effluente della
colonna viene fatto passare attraverso una cella IR per gas riscaldata (light pipe);
61
nel secondo, l’effluente è condensato e congelato in una matrice idonea per
l’analisi IR.
Poiché l’IR è una tecnica non distruttiva, è possibile accoppiare sia l’IR sia l’MS
allo stesso GC, ottenendo un sistema GC-FTIR-MS.
ANALISI QUANTITATIVA
L’effettuazione di misure quantitative è sempre accompagnata da errori e
necessita di una buona comprensione dei rivelatori e dei sistemi di elaborazione
dei dati. Campionamento, preparazione del campione, validazione della
strumentazione e del metodo e controllo qualità rappresentano fasi importanti del
processo.
L’analisi in traccia, che sta diventando sempre più popolare, richiede che tutte le
fasi dell’analisi siano condotte con grande cura. A seguire sarà presentata una
breve descrizione dei metodi statistici di trattazione degli errori nell’analisi,
seguita da una breve discussione degli errori tipici. Seguirà un’introduzione ai più
comuni metodi di analisi.
σ=
(
ΣX−X )
2
(1)
(n − 1)
dove n è il numero di misure. Il quadrato della deviazione standard è chiamato
varianza. L’abilità di un analista di acquisire dati con un valore piccolo di σ è
chiamata precisione.
Altri due termini sono comunemente usati per distinguere due tipi di precisione.
Uno e la ripetibilità, che si riferisce alla precisione all’interno di un laboratorio, di
un analista e su uno strumento. L’altro è la riproducibilità, che si riferisce alla
precisione tra laboratori diversi e quindi analisti diversi e strumenti diversi. Come
62
prevedibile, si verifica in genere che la riproducibilità non sia altrettanto buona
come la ripetibilità.
Un termine correlato usato dalla Farmacopea statunitense (United States
Pharmacopoeia, USP) per indicare la riproducibilità strumentale è la robustezza.
Essa fa riferimento ad un test effettuato in maniera molto rigorosa, dove lo stesso
protocollo è usato da molti laboratori diversi e per un esteso periodo di tempo.
In una serie di dati, la deviazione standard relativa (RSD) fornisce più
informazioni della deviazione standard in sé stessa. La deviazione standard
relativa, o coefficiente di variazione come viene a volte chiamata, è definita come:
σ
RSD = σ rel = (2)
X
L’informazione minima fornita per corredare i risultati di un’analisi è una delle
variabili di ciascuno dei due tipi appena discussi – solitamente la media e la
deviazione standard relativa. Una fase di tutte le procedure quantitative è quella di
calibrazione. La calibrazione è indispensabile e rappresenta spesso il fattore
limitante per ottenere una buona accuratezza nell’analisi in tracce; una buona
calibrazione e precisione forniscono un’alta accuratezza.
63
L’analisi dei dati ed i sistemi di elaborazione sono discussi in una sezione a parte.
Di particolare interesse è la conversione del segnale analogico in digitale. Questa
può essere ottenuta in due modi – integrazione dell’area sottostante i picchi o
misura dell’altezza dei picchi. Quello dell’area del picco è il metodo preferito con
gli integratori elettronici e i computer di oggi, specialmente se durante l’analisi
cambiano le condizioni cromatografiche, come la temperatura della colonna, la
velocità di flusso o la riproducibilità di iniezione del campione. D’altra parte, la
misura dell’altezza del picco è meno influenzata in presenza di sovrapposizione
dei picchi, rumore o deriva della linea di base. Nella discussione che segue tutti i
dati verranno presentati come aree dei picchi.
Aggiunta di standard
Anche in questo metodo lo standard viene aggiunto al campione, ma il composto
chimico scelto come standard è uguale all’analita di interesse. Esso richiede un
volume di campione altamente riproducibile, una limitazione in caso di iniezione
manuale con siringa.
Il principio di questo metodo è che l’incremento del segnale, provocato
dall’aggiunta dello standard, è proporzionale alla quantità di standard aggiunto e
questa proporzionalità può essere usata per determinare la concentrazione di
analita nel campione originale. Per fare i calcoli necessari si possono utilizzare
delle equazioni, ma il principio può essere compreso più facilmente da una
rappresentazione grafica. In figura 8.8 è mostrato un grafico tipico di una
calibrazione mediante aggiunta di standard. Si noti la presenza di un segnale
laddove non è stato aggiunto alcuno standard; esso rappresenta la concentrazione
originale che deve essere determinata. Il segnale aumenta man mano che aumenta
la quantità di standard aggiunto al campione, producendo una linea retta di
calibrazione. Per trovare la quantità originaria incognita la linea retta viene
estrapolata fino ad intersecare l’asse delle ascisse; il valore assoluto sulle ascisse è
la concentrazione originaria. In pratica, la preparazione dei campioni e il calcolo
dei risultati possono essere effettuati in svariati modi.
Matisóva e collaboratori hanno suggerito che la necessità di ottenere un volume di
campione riproducibile può essere eliminata combinando il metodo dell’aggiunta
di standard con un metodo in situ basato sullo standard interno. Nell’analisi
quantitativa di idrocarburi del petrolio essi scelgono l’etilbenzene come standard
per le aggiunte, ma usano un picco vicino incognito come standard interno al
quale rapportare i dati. Questa procedura ha eliminato la dipendenza dalla quantità
di campione, consentendo una quantificazione migliore del metodo di
normalizzazione delle aree usato in precedenza.
64
CAPITOLO 9
PROGRAMMA DI TEMPERATURA
65
Effetto dell’aumento di temperatura
Il tempo di ritenzione e il volume di ritenzione diminuiscono
Il fattore di ritenzione diminuisce
La selettività (α) cambia (generalmente diminuisce)
L’efficienza (N) aumenta leggermente
L’effetto della temperatura sull’efficienza è piuttosto complesso e non sempre
consiste in un aumento. In genere si tratta di un effetto di minore importanza,
meno importante dell’effetto sui parametri termodinamici della colonna
(selettività). Globalmente, tuttavia, gli effetti della temperatura sono molto
significativi e la PTGC è una tecnica molto potente.
66
Vantaggi
1. Buon mezzo d’indagine (rapido)
2. Tempo di analisi inferiore per campioni complessi
3. Migliore separazione di composti con ampio intervallo di punti di
ebollizione
4. Migliori limite di rivelazione, forma dei picchi e precisione, specialmente
per i picchi eluiti per ultimi
5. Mezzo eccellente di pulizia della colonna
Svantaggi
1. Strumentazione più complessa
2. Segnali più rumorosi alle alte temperature
3. Limitato numero di fasi stazionarie adatte
4. Può essere più lenta, considerati i tempi di raffreddamento
Esiste anche la possibilità che il programma sia impostato in diversi “steps”, per
ottenere la migliore separazione possibile nel minimo tempo di analisi. I
programmi moderni consentono tipicamente fino a cinque rampe di temperatura.
Operare a temperatura programmata è utile per lo screening di nuovi campioni,
poiché si ottiene la massima quantità di informazioni sulla composizione del
campione nel minimo tempo di analisi. In genere si è in grado di stabilire se
l’intero campione è stato eluito, giudizio che è difficile dare quando si opera in
isoterma.
67
In cromatografia con colonne impaccate, il controllo del flusso del gas carrier si
ottiene in genere per mezzo di una valvola differenziale pneumatica di controllo
che viene posta nella linea del gas superiormente alla porta di iniezione.
In cromatografia su colonne capillari è richiesta una regolazione a pressione
costante per il campionamento split/splitless e non si può usare una valvola per il
controllo del flusso. Di conseguenza, la velocità di flusso del gas carrier durante
l’analisi a temperatura programmata a causa dell’aumento di viscosità del gas.
Poiché la perdita di pressione attraverso una colonna OT è relativamente bassa, la
variazione della velocità di flusso è meno grave rispetto a quanto avviene per le
colonne impaccate. Una soluzione consiste nell’impostare la velocità di flusso
iniziale al di sopra del valore ottimale e più vicina al flusso atteso a circa il 70% di
durata del programma. Ciò assicura un flusso adeguato alle temperature più alte.
D’altra parte, su alcuni strumenti è disponibile un controllo elettronico della
pressione (EPC) ed esso può essere usato per mantenere un flusso costante
aumentando la pressione durante l’analisi.
Altri requisiti riguardano il gas carrier e la fase stazionaria. Come si evince
dall’elenco della strumentazione per PTGC, il gas carrier deve essere secco per
evitare che l’acqua (e altre impurezze volatili) si accumuli all’ingresso della
colonna (prima dell’inizio di un’analisi), poiché questo fenomeno darebbe luogo a
“picchi fantasma” durante l’analisi PTGC. Una comune soluzione a questo
problema consiste nell’inserire un essiccatore a setaccio molecolare di 5Å nella
linea del gas prima dello strumento.
A seguire un elenco di alcuni requisiti della fase liquida.
68
Poiché il rapporto dei volumi di ritenzione corretto è inversamente proporzionale
al logaritmo del rapporto delle pressioni di vapore del soluto, secondo l’equazione
integrata di Clausius-Clapeyron, possiamo concludere che:
P2 ∆H∆T
ln = ln 2 = (3)
P1 RT1 T2
dove ∆T è la differenza tra le due temperature T1 e T2. Calcolando il logaritmo e
riarrangiando otteniamo,
0,693RT 2
∆T = (4)
∆H
Considerando la regola di Trouton secondo la quale ∆T/Teboll. = 23 ed una
temperatura di ebollizione di 227 °C (500 °K) per un campione tipico:
∆T =
(0,693)(2)(500)2 ≈ 30°C (5)
23(500)
In maniera approssimativa, quindi, un aumento di temperatura di 30 °C dimezzerà
il volume di ritenzione. Questa regola generale è utile anche per operazioni in
isoterma.
L’effetto di un programma di temperatura sulla migrazione di un tipico analita
attraverso una colonna è mostrato in Figura 9.4, dove il valore di 30 gradi è usato
per impostare le diverse fasi (steps). La velocità relativa di migrazione
raddoppierà quindi ogni 30 °C. Si assume arbitrariamente che l’eluizione finale
dalla colonna si verifichi a 265 °C, come mostrato nella figura. In realtà, il
movimento dell’analita attraverso la colonna potrebbe procedere secondo la linea
curva (mostrata pure in figura), poiché il programma di temperatura sarà graduale
e non procederà linearmente come assunto nel nostro modello.
Considerando x la distanza lungo la quale l’analita si è mosso attraverso la
colonna negli ultimi 30 gradi di incremento della temperatura, allora metà di x
sarà la distanza percorsa nei 30 gradi precedenti, un quarto di x quella percorsa nei
30 gradi ancora precedenti e così via. La somma di queste frazioni si avvicina a 2,
che deve uguagliare la lunghezza totale L della colonna (2x=L). Quindi l’analita
ha percorso l’ultima metà della colonna negli ultimi 30 °C, i tre quarti della
colonna in 60 °C, ecc. Inizialmente il soluto era “congelato” all’ingresso della
colonna, ma quando ha cominciato a migrare, la sua velocità di migrazione si è
raddoppiata ogni 30 gradi di aumento della temperatura.
I principi operativi in PTGC possono essere riepilogati come segue: il campione
viene iniettato all’estremità fredda della colonna ed i suoi componenti rimangano
lì condensati; man mano che la temperatura aumenta, gli analiti vaporizzano e
percorrono la colonna a velocità crescente man mano che fluiscono. E’ per questo
motivo che la tecnica di iniezione non è critica in PTGC e che tutti i picchi hanno
69
all’incirca la stessa ampiezza – essi impiegano all’incirca lo stesso tempo
ripartendosi attivamente lungo la colonna.
Per una serie di motivi, come lavoro di routine si preferisce spesso operare in
isoterma. Se si effettua uno screening iniziale mediante PTGC, si potrebbe essere
interessati a conoscere la temperatura migliore da usare in isoterma. Giddings ha
chiamato questa temperatura isoterma la temperatura significativa, T’.
Ragionando sulla base del valore di 30 °C, egli ha scoperto che:
T’ = Tf – 45 (6)
dove Tf è la temperatura finale, la temperatura alla quale l’analita eluisce
nell’analisi PTGC. Quindi, per esempio, un soluto che eluisce ad una temperatura
di 225 °C in analisi PTGC sarebbe separato al meglio in isoterma a 180 °C.
Altre tre variabili importanti sono la velocità del programma, la velocità di flusso
e la lunghezza della colonna. In generale, la lunghezza non si varia ma si usano
colonne più corte (e temperature più basse) e velocità di flusso relativamente alte.
La velocità del programma si sceglie spesso in modo da essere abbastanza alta da
risparmiare tempo ma nel contempo abbastanza lenta da ottenere separazioni
soddisfacenti, qualcosa tra 4 e 10 °C/min. Tuttavia, per colonne OT, un gruppo di
ricercatori ha concluso che sono da preferire basse velocità di programma (intorno
a 2,5 °C/min) e alte velocità di flusso (circa 1 mL/min). Un altro studio condotto
da Hinshaw su una miscela di pesticidi clorurati ha mostrato che una velocità di 8
°C/min era preferibile rispetto a velocità inferiori (fino a 1,5 °C/min) o superiori
(fino a 30 °C/min).
ALTRI APPROFONDIMENTI
In questa sezione saranno discussi brevemente alcuni argomenti correlati al
programma di temperatura.
Analisi quantitativa
I dati presentati in questo capitolo mostrano chiaramente l’effetto della PTGC
sulle dimensioni e sulla forma dei singoli picchi. Questo potrebbe indurre a
concludere che la PTGC non possa essere usata per analisi quantitativa, ma non è
così.
Si considerino i dati illustrati in Tabella 9.2 per l’analisi di una miscela sintetica di
n-paraffine analizzate in isoterma e in PTGC. Essi mostrano che non ci sono
differenze significative tra PTGC e GC in isoterma quando le calibrazioni sono
effettuate coerentemente con l’una o con l’altra tecnica. Gli strumenti moderni
consentono di mantenere costante la temperatura del rivelatore anche durante
l’utilizzo delle colonna con un programma di temperatura, cosicché la
quantificazione da parte del rivelatore non è influenzata ed è indipendente dalla
temperatura della colonna.
70
Modalità criogenica
Alcuni cromatografi sono dotati di forni in grado di operare a temperature
inferiori a quella ambiente, estendendo così l’intervallo possibile di
programmazione della temperatura.
GC ad alte temperature
C’è sempre stato un ovvio interesse a spingere la GC verso le più alte temperature
possibili. Parecchi strumenti in commercio consentono limiti superiori di
temperatura per i forni della colonna e del rivelatore fino a 400 °C. Tuttavia poche
colonne possono essere utilizzate ad una temperatura così alta; è stato però
pubblicato qualche lavoro in cui le colonne venivano programmate di routine fino
a 400 °C. Da qui ha avuto origine la definizione di GC ad alta temperatura
(HTGC) definita come quella in cui la temperatura di routine della colonna supera
i 325 °C.
71
CAPITOLO 10
ARGOMENTI SPECIALI
Gran parte della ricerca attuale è focalizzata sulle tecniche speciali accoppiate alla
GC. La più importante è la GC-MS, acronimo comune per la tecnica in cui un gas
cromatografo è direttamente accoppiato ad uno spettrometro di massa da banco.
Altri argomenti trattati in breve saranno: la separazione di composti chirali, alcune
tecniche speciali di campionamento (spazio di testa e micro-estrazione in fase
solida) e la derivatizzazione.
GC-MS
Si stima che ci siano oggi in tutto il mondo più di 25000 sistemi GC-MS da banco
e che le vendite annuali superino le 2000 unità. Che cosa rende questa
combinazione così potente e popolare?
Come abbiamo prima notato, la GC è la tecnica analitica più importante per la
separazione di composti volatili. Essa combina velocità di analisi, risoluzione,
facilità di operazione, eccellenti risultati quantitativi e costi moderati.
Sfortunatamente, i sistemi GC non sono in grado di confermare l’identità o la
struttura dei picchi. I tempi di ritenzione sono correlati ai coefficienti di
ripartizione e sebbene siano caratteristici di sistemi ben definiti, non sono unici. I
dati GC non possono quindi essere usati da soli per l’identificazione dei picchi.
La spettroscopia di massa d’altra parte è un sistema di rivelazione capace di
fornire una grande quantità di informazioni. Richiede solo microgrammi di
campione, ma fornisce dati utili sia all’identificazione qualitativa di composti
incogniti (struttura, composizione elementare e peso molecolare) sia per la loro
quantificazione. Inoltre, può essere facilmente accoppiata ad un sistema GC.
Strumentazione
La Figura 10.1 illustra schematicamente un tipico spettrometro di massa a bassa
risoluzione del tipo comunemente usato in GC. A causa delle sue ridotte
dimensioni, è spesso chiamato spettrometro da banco.
72
La Figura 10.2 mostra schematicamente l’accoppiamento di un sistema GC ad un
sistema MS. Entrambi sono riscaldati (200-300 °C), entrambi usano composti allo
stato di vapore, entrambi richiedono piccole quantità di campione (micro- o
nanogrammi). I sistemi GC e MS sono molto compatibili. L’unico problema è che
la pressione atmosferica in uscita dal GC deve essere ridotta ad un vuoto di 10-5-
10-6 torr per l’introduzione in MS. L’accoppiamento richiede una riduzione della
pressione ed è realizzato mediante un’interfaccia.
In Figura 10.3 è mostrata un’interfaccia oggi comunemente in uso. La maggior
parte dei sistemi GC-MS usano colonne capillari; i tubi in silice fusa consentono il
trasferimento inerte e ad alta efficienza direttamente tra i due sistemi. Per velocità
di flusso capillari di 5 mL/min o inferiori, è possibile l’interfacciamento diretto. I
sistemi GC-MS da banco supportano facilmente queste velocità di flusso e
forniscono una migliore sensibilità (il trasferimento del campione è quantitativo)
preservando al meglio la qualità dei risultati GC.
I vecchi sistemi GC-MS utilizzavano colonne impaccate, in genere con diametro
interno di 2 mm, con velocità di flusso di circa 30 mL/min. Questi sistemi con
colonne impaccate richiedevano un’interfaccia come il separatore di getto
mostrato in Figura 10.3B. Questo separatore consiste di due tubi di vetro allineati
a breve distanza (circa 1 mm). La maggior parte del gas carrier (in genere elio)
proveniente dalla colonna GC viene allontanato da un sistema di vuoto separato.
Le molecole del campione più grandi passano all’interno del secondo capillare e
da qui all’interno della sorgente MS. Si verifica un arricchimento del campione e
la pressione atmosferica iniziale è drasticamente ridotta, consentendo al vuoto
dello spettrometro di massa di supportare la minore velocità di flusso. E’
necessario controllare accuratamente sia la temperatura sia l’attività di superficie
del separatore di vetro, sia per massimizzare il trasferimento del campione sia per
preservarne l’integrità.
Sorgenti di ionizzazione
Le molecole dell’analita devono essere anzitutto ionizzate per essere poi attratte (o
respinte) dai campi magnetici o elettrici del sistema. Tra le numerose tecniche di
ionizzazione, l’impatto elettronico (EI) è la più vecchia, la più semplice e la più
diffusa. La sorgente di ionizzazione è riscaldata e sotto vuoto cosicché la maggior
parte dei campioni sono facilmente vaporizzati e poi ionizzati. La ionizzazione si
ottiene in genere mediante l’impatto di un raggio di elettroni ad alta energia (70
ev).
Una tipica sorgente è mostrata schematicamente in Figura 10.4. L’effluente dalla
colonna GC passa attraverso una sorgente di ionizzazione a vuoto ridotto. Gli
elettroni sono estratti da un filamento di tungsteno da un voltaggio del collettore
di 70 ev. Il voltaggio applicato al filamento determina l’energia degli elettroni.
Questi elettroni ad alta energia collidono con le molecole neutre di analita,
causandone la ionizzazione (generalmente perdita di un elettrone) e la
73
frammentazione. Questa tecnica di ionizzazione produce quasi esclusivamente
ioni postivi:
M + e − → M + + 2e − (1)
Tecniche alternative per ottenere la ionizzazione includono la ionizzazione
chimica (CI), la ionizzazione chimica negativa (NCI) e il bombardamento atomico
veloce (FAB). In CI, un gas reagente come il metano viene introdotto nella camera
dove viene ionizzato, producendo un catione che va incontro ad ulteriori reazioni
per produrre ioni secondari. Per esempio:
CH 4 + e − → CH 4+ + 2e −
(2-3)
CH 4+ + CH 4 → CH 5+ + CH 3
Analizzatori e rivelatori
Dopo la ionizzazione, le particelle cariche vengono respinte e attratte da lenti
cariche all’interno dell’analizzatore di massa. Qui le specie ioniche sono separate
in base ai loro valori di rapporto massa-carica (m/z) da campi elettrici o
magnetici. Analizzatori di massa tipici sono i quadrupoli e le trappole ioniche.
Altri analizzatori sono: il settore magnetico a focalizzazione singola (“single-
focusing magnetic sector”), il settore magnetico a doppia focalizzazione (“double-
focusing magnetic sector”, alta risoluzione, più costoso) e il tempo di volo (“time
of flight”, TOF).
L’analizzatore di massa a quadrupolo consiste in quattro sbarre iperboliche poste
ad angolo retto l’una rispetto all’altra (vedi Figura 10.6). A tutte le sbarre è
applicato un voltaggio DC (sbarre adiacenti hanno voltaggi opposti) e i segni del
voltaggio possono essere invertiti rapidamente. Alle quattro sbarre è applicata
anche una radiofrequenza. A seconda della combinazione della radiofrequenza e
del potenziale di corrente, soltanto gli ioni con un certo valore del rapporto massa-
carica riescono a passare attraverso le sbarre e raggiungono il rivelatore. Gli ioni
con altri valori del rapporto m/z collideranno contro le sbarre e verranno annullati.
74
L’analizzatore a quadrupolo mostra i vantaggi di semplicità, dimensioni ridotte,
costo moderato e velocità di scansione che lo rendono ideale per i sistemi GC-MS.
E’ però limitato a circa 2000 Daltons e mostra una bassa risoluzione in confronto
agli spettrometri a doppia focalizzazione.
La Figura 10.7 mostra lo schema di un analizzatore a trappola ionica che è stato
specificatamente sviluppato per GC-MS. Consiste in una versione più semplice
del quadrupolo nella quale un elettrodo ad anello, al quale è applicata una singola
radiofrequenza, funge essenzialmente da monopolo per definire una zona stabile
per le specie cariche all’interno dello spazio dell’elettrodo circolare. Ci sono due
cappelli terminali all’estremità superiore e inferiore dell’elettrodo circolare ad
anello. L’effluente dal GC entra nel terminale superiore, alcuni analiti vengono
ionizzati e poi intrappolati in traiettorie stabili all’interno dell’elettrodo ad anello.
La radiofrequenza può essere variata in modo da espellere in sequenza ioni con un
determinato rapporto m/z dalla trappola ionica e farli passare attraverso il
terminale inferiore fino al rivelatore.
Anche le trappole ioniche hanno un design semplice, sono piuttosto economiche e
capaci di scansioni veloci per applicazioni GC-MS. Gli spettri generati sono
spesso diversi dai classici spettri di un quadrupolo e alcuni ioni possono subire
dissociazione e/o collisioni ione/molecola all’interno della trappola ionica.
Una volta effettuata la separazione degli ioni un rivelatore, in genere una versione
a dinodo continuo di un moltiplicatore elettronico, è usato per il conteggio degli
ioni e per generare lo spettro di massa. Gli ioni provenienti dall’analizzatore di
massa collidono contro la superficie del semi-conduttore e generano una cascata
di elettroni. Questi vengono accelerati da una differenza di potenziale verso
un’altra porzione della superficie del semi-conduttore, dove viene prodotta una
cascata di elettroni più ampia. Questo processo viene ripetuto parecchie volte fino
a che il debole segnale originario non viene amplificato di circa 1 milione di volte.
Da notare che l’intero sistema MS è sotto vuoto. Questo è un requisito essenziale
per evitare la perdita di specie cariche per collisione con altri ioni, molecole o
superfici.
Lo spettro di massa riporta semplicemente in grafico l’abbondanza degli ioni in
funzione del rapporto m/z. In condizioni controllate, i rapporti di abbondanza
ionica e le specifiche specie m/z presenti sono unici per ciascun composto. Essi
possono essere quindi usati per determinare il peso molecolare e la struttura
chimica di ciascun composto.
Storia
La spettroscopia MS cominciò il suo lento sviluppo come tecnica analitica da
quando J.J. Thompson usò uno spettrometro di massa per separare degli isotopi di
alcuni atomi, nel 1913. Essa si rivelò subito molto potente per l’identificazione di
composti incogniti, così come per elucidare le strutture di composti organici ed
75
inorganici. E’ stata ampiamente usata per la caratterizzazione dei derivati del
petrolio e probabilmente si sarebbe sviluppata anche in maniera più evidente se,
nel 1952, non fosse stata introdotta la GC.
La spettroscopia MS fu per la prima volta accoppiata alla GC nel 1959, ad opera
di Gohlke. I primi strumenti erano costosi, ingombranti e complessi, in genere
mantenerli operativi richiedeva una notevole perizia e manutenzione. Gli
strumenti a settore magnetico erano i tipi di analizzatori più diffusi; tuttavia essi
non erano in grado di fornire la rapidità di scansione (pochi secondi) necessaria a
generare lo spettro di massa di un picco che fluisce da un GC. Si rendevano perciò
necessari degli analizzatori più veloci.
Verso la fine degli anni ’60 fu chiaro che la GC rappresentava un mercato enorme
nel settore analitico ed in rapida crescita, ma nessun rivelatore GC era in grado di
fornire la stessa quantità di informazioni di uno spettrometro di massa. Nacquero
così i sistemi “GC-MS”, nei quali un nuovo MS era designato come rivelatore per
GC.
Specificando che l’introduzione del campione avveniva attraverso un GC, i
requisiti per l’MS furono semplificati. L’intervallo di massa poteva essere ristretto
fino a circa 600 Daltons; la bassa risoluzione era soddisfacente poiché possedeva
elevate capacità di risoluzione cosicché i picchi eluiti sarebbero stati, nella
maggior parte dei casi, “puri”. La parte difficile consisteva nello sviluppo di
dispositivi di scansione veloci (possibilmente 40-400 Daltons diverse volte al
secondo) e strumenti più semplici e robusti da usarsi in laboratori analitici di
routine. Queste necessità furono soddisfatte dal quadrupolo e, più tardi, dalle
trappole ioniche.
76
Un cromatogramma tipico (su colonna capillare) di un campione di idrocarburi
ottenuto mediante GC-MS ha lo stesso aspetto di quello ottenuto con un FID; ad
es. con i picchi affilati, tipicamente con ampiezze di circa 1 secondo o meno, a
metà altezza. Ciò significa che il sistema MS deve riuscire a scansire il picco GC
circa 10 volte al secondo per ottenere un buon spettro di massa.
La Figura 10.10 mostra il meccanismo proposto per la frammentazione dell’n-
esano (picco 4 in Figura 10.9) nella sorgente ionica di un sistema GC-MS. Un
elettrone collide con la molecola parent, espellendo un elettrone e generando lo
ione molecolare (m/z = 86). Questa specie però non è stabile e decompone
rapidamente per dare frammenti più stabili; in questo caso m/z di 71, 57, 43 e 29
Daltons. Il frammento più abbondante, m/z = 57, è chiamato picco base ed il
sistema di elaborazione dei dati lo riporta in grafico al 100% della scala dello
spettro. Gli altri picchi sono riportati in rapporto al picco base ed il risultato è lo
spettro di massa tipico dell’n-esano (vedi Figura 10.11).
I dati possono essere elaborati in due modi; o come scansione totale (TIC-Total
Ion Chromatogram) o come un piccolo numero di ioni individuali (SIM-Selected
Ion Monitoring) caratteristici di un particolare composto (vedi Figura 10.12). Il
TIC è usato per monitorare dei composti incogniti; viene esaminato un intervallo
di massa specifico – per esempio 40-400 Daltons. –vengono riportati tutti i picchi
cosicché lo spettro elaborato dal computer può essere usato per identificare
ciascun picco. Il database del computer confronta rapidamente ciascun picco
incognito con più di 150000 spettri di riferimento presenti nei files del suo
archivio-libreria. Con gli ultimi sistemi di elaborazione dati il confronto richiede
solo pochi secondi, per ottenere l’analisi qualitativa desiderata. La velocità di
acquisizione dei dati necessaria per la scansione di tutti gli ioni è bassa; la
sensibilità è limitata ed in genere la quantificazione non è ottimale (troppo pochi
punti).
Nella modalità SIM, invece, viene monitorato solo un numero limitato di ioni
(tipicamente 6). La velocità di acquisizione dei dati è maggiore per la durata di un
picco GC (circa 1 secondo), cosicché i dati quantitativi sono migliori e la
sensibilità risulta nettamente migliore. Il SIM non può essere usato per analisi
qualitative (non tutti i valori di massa vengono analizzati), ma rappresenta uno dei
mezzi migliore per l’analisi in traccia di composti target, spesso fino ad un livello
di ppb.
Una versione più recente della trappola ionica consente che i frammenti originatisi
dal processo di ionizzazione siano di nuovo esposti alle molecole di gas ad alta
energia, causando una frammentazione secondaria dalla dissociazione indotta
dalla collisione (CID). Il risultato è simile a quello ottenuto con uno spettrometro
di massa a doppio stadio (generalmente indicato come MS/MS) e fornisce una
selettività addirittura superiore; questa modalità operativa è chiamata
monitoraggio selettivo di reazione (“Selected Reaction Monitoring, SRM”) ed è
disponibile in alcuni strumenti GC-MS a trappola ionica più recenti.
77
ANALISI CHIRALI MEDIANTE GC
Spazio di testa
I campioni che contengono materiali non volatili danno dei problemi in gas
cromatografia. I componenti non volatili non possono essere iniettati in GC
perché occluderebbero rapidamente la porta di iniezione e potrebbero anche
distruggere la colonna GC. Comunemente si impiega una tecnica di separazione
dei componenti volatili della matrice del campione da quelli non volatili, come
l’estrazione liquido-liquido, l’estrazione in fase solida (SPE), la microestrazione
in fase solida (SPME), l’estrazione con fluido supercritico (SFE) e lo spazio di
testa. Il campionamento in spazio di testa è probabilmente la tecnica più semplice:
il campione (liquido o solido) viene posto in un contenitore sigillato (“vial”) e
riscaldato ad una temperatura prefissata per un determinato periodo di tempo. I
componenti volatili del campione si ripartiscono tra la fase gassosa e il campione,
raggiungendo in genere un equilibrio. Alcuni monomeri residui diffondono molto
lentamente da certi polimeri ad elevato grado di “cross-linking”, per cui bisogna
far trascorrere tempo sufficiente per la vaporizzazione di questi campioni.
Un’aliquota dei componenti volatili nella fase gassosa (spazio di testa) viene
rimossa e iniettata nel gas cromatografo. La tecnica di trasferimento più semplice
78
consiste nell’uso di una siringa riscaldata a tenuta di gas per il campionamento
manuale da contenitori adatti.
79
dell’analita, della matrice del campione e del polimero di rivestimento; il tempo di
estrazione e la temperatura; il grado di agitazione e la concentrazione dell’analita.
La fase di desorbimento dipende primariamente dalla temperatura della porta di
iniezione, dalla volatilità dell’analita e dallo spessore del film.
I campioni volatili possono essere estratti semplicemente esponendo la fibra allo
spazio di testa sopra un campione (matrice liquida o solida). I campioni solidi
possono essere trattati sia con la tecnica dello spazio di testa sia solubilizzandoli
in adatto solvente. In alcuni casi, l’aggiunta di sali (“salting out”) aumenta
l’efficienza di estrazione di composti non polari da soluzioni acquose.
In Figura 10.14 è mostrata una tipica applicazione SPME.
DERIVATIZZAZIONE
Sussistono diverse ragioni per effettuare delle reazioni chimiche sui campioni per
formare dei derivati. Due ragioni che apportano vantaggi all’analisi gas
cromatografica sono: la derivatizzazione rende volatile un campione non volatile,
o ne migliora la rivelabilità. Questa discussione riguarda principalmente
l’aumento della volatilità che può prevenire l’intasamento della colonna, un
problema comune nelle bio-separazioni. Inoltre, la derivatizzazione presenta
spesso un effetto secondario desiderabile, a causa della maggiore termostabilità
dei derivati. La derivatizzazione offre un metodo per l’analisi di campioni
relativamente non volatili mediante GC, ma secondo alcuni sarebbe meglio
effettuare queste analisi con altri mezzi, per cui la scelta è soggettiva.
Sicuramente, la formazione di derivati introduce una o più fasi aggiuntive nella
procedura analitica, sollevando il problema di errori addizionali e richiedendo
un’ulteriore validazione del metodo.
L’uso di uno standard interno può rendere più semplice l’inserimento della
derivatizzazione in un metodo quantitativo di analisi In questo caso, lo standard
interno va aggiunto al campione prima di effettuare la derivatizzazione.
80
la maggior parte di essi è designata per l’introduzione di un gruppo trimetilsilil-
nell’analita per renderlo volatile.
In generale, la facilità di reazione segue l’ordine:
alcoli ≥ fenoli ≥ acidi carbossilici ≥ ammine ≥ ammidi
Se viene usato un solvente, esso è generalmente polare; le basi DMF e la piridina
sono usate comunemente per assorbire i sottoprodotti acidi. Qualche volta per
accelerare la reazione è richiesto il riscaldamento o l’uso di un catalizzatore acido
(TMCS).
Metodi di derivatizzazione
I metodi di derivatizzazione possono essere divisi in varie categorie: metodi pre-
colonna e post-colonna, metodi “off-line” (fuori linea) e “on-line” (in linea). Per
esempio, la formazione di derivati volatili per GC si ottiene generalmente off-line
in vials separate prima dell’iniezione nel gas cromatografo (pre-colonna).
Esistono alcune eccezioni, come quando i reagenti sono miscelati e iniettati
insieme; la reazione di derivatizzazione avviene in questo caso all’interno della
porta d’iniezione calda del GC (on-line).
Le reazioni pre-colonna che non vanno a compimento producono delle miscele
ancora più complesse del campione di partenza. Il reagente in eccesso è quindi
usato per spingere la reazione al completamento, lasciando così un eccesso di
reagente nel campione. A meno che non si adotti un sistema di separazione
preliminare, il metodo cromatografico dovrà essere messo a punto per separare
queste impurezze addizionali. Se effettuate off-line, le tecniche pre-colonna
possono essere impiegate effettuando delle reazioni lente e riscaldando per fornire
migliori risultati quantitativi.
Una migliore rivelabilità si ottiene in genere incorporando negli analiti un
cromoforo. Un esempio tipico in GC consiste nell’incorporazione negli analiti di
gruppi funzionali che aumentano la loro rivelabilità da parte di rivelatori selettivi
come l’ECD. Lo scopo della formazione di derivati è di migliorare il limite di
rivelazione o la selettività o entrambi. Un altro esempio è l’uso di reagenti
deuterati per formare derivati facilmente distinguibili per il loro maggiore peso
molecolare nell’analisi GC-MS.
81
CROMATOGRAFIA LIQUIDA
AD ALTA PRESTAZIONE
UNA INTRODUZIONE
Luigi Mondello
Dipartimento Farmaco-chimico
Università degli Studi di Messina
Messina, Italia
1
SOMMARIO
CAPITOLO 1 Introduzione
Fase mobile
Pompe
Valvola di iniezione
Colonna
Rivelatori
2
Capitolo 1
INTRODUZIONE
Il mondo reale è caratterizzato da matrici enormemente eterogenee, sia in termini
di complessità sia in termini di composizione chimica. Alcune matrici, come i
grassi e gli oli naturali (per es. burro, olio d’oliva, etc.) sono relativamente
semplici, mentre altre, come l’aroma del caffè tostato o i prodotti petroliferi, sono
altamente complesse. Un indice della complessità del mondo reale è riscontrabile
nel numero totale di proteine presenti nei tessuti e nei liquidi umani, che è stato
stimato essere superiore a 150000.
La cromatografia, che è certamente la tecnica separativa più utilizzata da
scienziati ed analisti, è stata scoperta all’inizio del ventesimo secolo dal botanico
russo Tswett [1]. Questi effettuò la separazione di un estratto vegetale utilizzando
una colonna impaccata con carbonato di calcio e osservò la formazione di una
serie di bande colorate. Il termine “chromatography”, introdotto dallo stesso
Tswett, è connesso a quella separazione visibile, e deriva dalle parole greche
“chroma” (colore) e “grafos” (scrittura). Sfortunatamente, quell’idea brillante e
rivoluzionaria non fu subito accettata dalla comunità scientifica, e la sua
diffusione avvenne soltanto negli anni ’30. Sono molti gli scienziati che in seguito
hanno apportato dei contributi notevoli all’evoluzione della cromatografia
moderna. Uno dei più importanti è certamente A.J.P. Martin, il quale introdusse la
cromatografia di ripartizione liquido-liquido nel 1941 [2] e la cromatografia gas-
liquido nel 1952 [3], quando intuì che i gas potevano essere sfruttati come fase
mobile.
I notevoli progressi nel campo della cromatografia hanno portato allo sviluppo di
numerose tecniche e, di conseguenza, non è semplice darne una definizione
univoca. Oggi la definizione di cromatografia, ufficialmente riconosciuta dalla
IUPAC, è quella di un metodo fisico di separazione nel quale i componenti da
risolvere sono distribuiti tra due fasi, una delle quali è stazionaria (fase
stazionaria) mentre l’altra (fase mobile) si muove in una direzione ben definita.
Un processo cromatografico efficace si osserva quando le interazioni fisiche degli
analiti nelle due fasi sono caratterizzate da forze diverse e quando le proprietà di
trasferimento del sistema attraverso e tra le fasi sono favorevoli. Un processo di
separazione ideale ha luogo quando tutti i componenti di una miscela sono
localizzati in zone diverse, in modo tale da occupare delle bande distinte lungo la
fase stazionaria in direzione della migrazione cromatografica. Il grado di
allargamento di una banda di soluto è strettamente connesso alla capacità
separativa del sistema cromatografico: un eccessivo allargamento della banda ha
un effetto fortemente negativo sulla capacità del sistema. Quest’ultima può essere
definita come il massimo numero di picchi che possono essere separati, con un
valore di risoluzione specifico, in un dato intervallo temporale. Le tecniche
cromatografiche vengono solitamente classificate in base allo stato fisico delle
fasi coinvolte nel processo di separazione. Per esempio, nella cromatografia
liquido-liquido (LLC o semplicemente LC) le due fasi sono liquide. Quando
invece la fase mobile è un gas e la fase stazionaria è un solido o un liquido, le
3
tecniche di separazione vengono definite rispettivamente come cromatografia gas-
solido (GSC) e cromatografia gas-liquido (GLC).
4
Capitolo 2
CROMATOGRAFIA LIQUIDA
A differenza di quanto avviene in gascromatografia, in LC qualunque sia il
meccanismo di separazione, i soluti interagiscono sia con la fase mobile che con
la fase stazionaria. Infatti con la fase mobile liquida, il soluto subisce quantomeno
delle interazioni che possono essere ricondotte alla solvatazione. Le tecniche di
cromatografia liquida possono essere suddivise in base alla natura della fase
stazionaria e, quindi, al processo di separazione:
¾ cromatografia liquido-liquido o di ripartizione (denominata anche
cromatografia su fasi legate) nella quale le fasi stazionaria e mobile sono
entrambe liquide. È basata sulla solubilità relativa dei soluti nelle fasi, tra loro
immiscibili; la separazione avviene per via della diversa affinità dei composti
nelle due fasi (coefficiente di ripartizione, K).
¾ cromatografia di adsorbimento nella quale la fase stazionaria è solida
(un adsorbente). È basata sulla interazione tra i siti attivi dell’adsorbente solido
(generalmente silice o allumina) ed i gruppi funzionali presenti nelle molecole dei
soluti da separare. Queste interazioni sono il risultato di un fenomeno di
competizione tra le molecole della fase mobile e del soluto per i siti attivi.
Per quanto concerne questi due casi, si preferisce utilizzare una definizione che
tiene conto della polarità delle due fasi:
nella cromatografia a fase normale, la fase stazionaria è di natura fortemente
polare (per es. silice o silice funzionalizzata con gruppi polari quali ciano-, nitro-,
etc.), mentre la fase mobile è non polare (per es. esano o tetraidrofurano) (Figura
1);
nella cromatografia a fase inversa, la fase stazionaria ha carattere non polare
(silice chimicamente modificata con gruppi apolari quali l’ottil, ottadecil, etc.),
mentre la fase mobile è un liquido polare, come ad esempio acqua o alcool
(Figura 2).
¾ cromatografia di esclusione (denominata anche filtrazione o permeazione
su gel) nella quale la colonna è riempita con un materiale poroso. In questo tipo di
cromatografia non si verifica interazione chimica tra i soluti e la fase stazionaria;
la separazione avviene in quanto il supporto si comporta come un setaccio
molecolare (Figura 3). I soluti a grande dimensione molecolare (maggiore dei
pori) non vengono trattenuti, al contrario di quanto avviene per le molecole di
minori dimensioni.. Le fasi fisse utilizzate si possono dividere in semirigidi e
rigidi: i primi, costituiti da polimeri come polistirene, poli(stirene-divinilbenzene),
ecc., presentano un grado abbastanza elevato di ramificazione onde consentire un
più basso potere di rigonfiamento (da 1,1 a 1,8 volte il loro volume secco); i
secondi, costituiti essenzialmente da vetri porosi o perle di silice microporosa,
presentano una elevata rigidità che conferisce loro una maggiore stabilità e facilità
di impaccamento.
¾ cromatografia a scambio ionico nella quale la fase stazionaria reca una
superficie ionica avente carica opposta a quella del campione. Questo metodo di
separazione, che può essere considerato di adsorbimento, è utilizzato per
5
Fase mobile (Esano)
HO
Fenolo
O OH
Si
O
O O
Si CH3
O OH
Fase
stazionaria
(Silice) HO
CH3
2,6-Dimetilfenolo
analizzare composti ionici e ionizzabili. Quanto più forte è la carica del campione,
tanto più esso verrà attratto dalla superficie ionica della fase stazionaria. La fase
mobile è un tampone acquoso, contenente un sale che fornisce un controione la
cui carica è dello stesso segno dei composti da separare ma di segno opposto a
quella della fase stazionaria. La ritenzione e separazione cromatografica
dipendono dalla competizione delle molecole di soluto e del controione per i siti
attivi del materiale di impaccamento. Perciò un campione fortemente ionizzato
entro una fase mobile ionizzata debolmente sarà fortemente ritenuto dalla
colonna, mentre al contrario, le molecole di soluto debolmente cariche non
saranno in grado di spostare gli ioni forti dell’eluente, e pertanto subiranno una
ritenzione blanda, a secondo della loro funzione, i sistemi a scambio ionico sono
scambiatori di anioni (Figura 4) oppure di cationi. Gli scambiatori di cationi
contengono gruppi solfonici (fortemente cationici) o carbossilici (debolmente
6
Fase mobile (CH3CN-H2O)
Fenolo
O O CH2CH2CH2CH2CH2CH
Si
Si
O CH
O O
Si
Si
O O CH2CH2CH2CH2CH2CH
Fase stazionaria
(Silice chimicamente legata, C6)
Toluene
7
Fase mobile
Molecole di soluto
8
Fase mobile (CH3CN-H2O)
X Y
CH3 Y
Cl Controione
9
metodo (soprattutto la lentezza, l’abilità manuale richiesta e lo scarso potere di
separazione), non bisogna trascurare il fatto che esso ha consentito lo sviluppo
rivoluzionario che avvenne nella chimica delle sostanze naturali negli anni 30’ e
40’.
Rivelatore
Colonna
Pompe
Iniettore
Solventi
10
Fase mobile
L’individuazione della fase mobile più opportuna rappresenta una delle fasi più
importanti del processo di ottimizzazione del metodo cromatografico ed è in
relazione alla sua forza di desorbimento o solubilizzazione (forza eluente). In
HPLC si può usare come fase mobile un solvente o una miscela di due o più
solventi. Durante l’analisi LC si può operare mantenendo costante la
composizione della fase mobile (eluizione isocratica), o variando la composizione
percentuale dei solventi (eluizione a gradiente). In Figura 6 viene illustrata una
rappresentazione grafica di un’eluizione isocratica, caratterizzata da una fase
20 Isocratica 20 Gradiente
%B %B
16 16
12 12
8 8
4 4
0 0
0 1 2 3 4 5 6min7 0 1 2 3 4 5 6min7
11
diminuisce linearmente (la forza eluente aumenta); in questo caso, la separazione
cromatografica avviene in 40 min, e i picchi sono molto meno slargati e più alti.
Poiché tutti solventi presenti in commercio (anche quelli puri per analisi)
contengono particelle in sospensione, la filtrazione dei solventi in HPLC,
mediante filtri aventi pori con dimensioni dell’ordine del µm, è essenziale. Queste
particelle possono infatti depositarsi all’interno delle pompe o in testa alla
colonna, riducendone l’efficienza. Il serbatoio del solvente (o i serbatoi per
operazioni in “gradiente”) è connesso alla pompa solitamente mediante un tubo di
teflon.
Tabella 1. Fasi mobili più frequentemente usate nelle varie tecniche LC.
4 5 50% Metanolo
a
50% Acqua
3
7
2
6
0 20 40 60 80 min
12
5
4 20% MeOH / 80% H2O (0 min)
a
75% MeOH / 25% H2O (60 min)
7
3
6
0 20 40 60 80 min
Pompe
La pompa viene comunemente considerata il componente più importante di un
sistema HPLC. La funzione della pompa è quella di inviare nella colonna la fase
mobile ad una pressione tale da creare il flusso desiderato. Le pompe utilizzate
negli strumenti HPLC devono possedere una serie di requisiti:
1) inerzia chimica
2) capacità di generare pressioni elevate (5000 psi) e flussi da 0,5 a 10
mL/min
3) assenza di pulsazioni o pulsazioni smorzate
4) flussi riproducibili
5) possibilità di cambiare rapidamente il solvente (eluizione a gradiente)
I tipi di pompe più utilizzate in HPLC sono a pistoni reciprocanti (molto
comuni), a doppia testa a pistoni reciprocanti e a siringa (usati soprattutto per
microHPLC). Le pompe reciprocanti sono costituite da una camma eccentrica
rotante collegata ad un motore che forza il pistone ad espellere la fase mobile
attraverso una valvola monovia (valvola di non-ritorno) (Figura 8). Quest’ultima
assicura che il liquido scorra in una direzione sola, per cui quando il pistone torna
13
serbatoio
motore
valvola
monovia
camma
pistone
camera idraulica
valvola monovia
alla colonna
valvola a sfera
di uscita
movimento
pistone
valvola a sfera
di ingresso
dal serbatoio
14
nella colonna (Figura 9). È chiaro che sistemi del genere generano un flusso
pulsato. Per questo motivo, si è cercato di ridurre al minimo questo aspetto
negativo con l’introduzione delle pompe reciprocanti a doppia testa. Lo schema di
un sistema di questo tipo è mostrato in Figura 10. Come si può vedere, entrambi i
pistoni vengono azionati dallo stesso motore mediante una camma unica,
permettendo uno di pompare mentre l’altro è in fase di aspirazione. Queste pompe
forniscono un flusso costante, quasi ma non totalmente esente da pulsazioni. Le
pompe a siringa consistono di un cilindro che contiene la fase mobile compressa
da un pistone, che viene fatto avanzare da un motore che aziona una vite senza
fine, generando un flusso esente da pulsazioni (Figura 11). Tra le limitazioni
vanno considerate la limitata capacità del serbatoio ed una lieve variazione di
portata all’avviamento. Bisogna aggiungere che a valle della pompa, è necessario
usare connessioni in acciaio perché il sistema è sotto pressione.
SERBATOIO
VALVOLE DI CAMERA
CONTROLLO IDRAULICA MOTORE
CAMMA
CAMERA
IDRAULICA
PISTONE
PISTONE
15
pistone
motore
solvente
guarnizione
Valvola di iniezione
L’iniettore è un dispositivo importante e delicato, perché deve consentire di
portare il campione liquido dalla pressione ambiente alla pressione presente in
testa alla colonna, possibilmente senza alterare il flusso del solvente. I sistemi di
iniezione mediante valvola, che sono gli iniettori maggiormente utilizzati in
HPLC, consentono l’introduzione del campione con notevole riproducibilità e
senza variazioni significative del flusso. Lo schema di un tipico iniettore a valvola
è illustrato nella Figura 12 (le frecce indicano la direzione di flusso del
campione): si tratta di tubi capillari d’acciaio montati su un disco metallico che
viene ruotato su un perno. Il campione viene introdotto, mediante una siringa,
entro un capillare di di acciaio (“sample loop”) caratterizzato da un volume
specifico (per esempio, 20 µL). Il riempimento del “loop” avviene quando esso
non è inserito nel circuito della fase mobile (la valvola è in posizione di carico)
(Figura 12a). Al termine del processo di “filling” (quando il campione comincia a
spurgare dal “loop”), la valvola viene fatta ruotare, cambiando così i collegamenti
fra i circuiti idraulici (Figura 12b). In questo modo il “sample loop” viene portato
in serie al circuito della fase mobile e il “loop” si inserisce nel cammino della fase
mobile (processo di iniezione). Le connessioni tra i circuiti sono rese possibili
dalla presenza di scanalature di piccole dimensioni sul rotore della valvola. Le
scanalature e tutti gli altri volumi del sistema di iniezione sono di dimensioni
minime, per evitare fenomeni di allargamento di banda al di fuori della colonna.
16
uscita campione
a) carico
ingresso capillare (loop)
campione
rotore
ingresso
eluente
b) iniezione
colonna
ingresso
eluente
ingresso
campione in
colonna
Colonna
La separazione dei componenti in una miscela avviene all’interno della colonna,
che può essere considerato il cuore di ogni sistema cromatografico. La maggior
parte delle colonne disponibili in commercio hanno una lunghezza tra 3 e 25 cm,
diametri interni di 2,6–3 mm, ovvero di 4,6–5 mm, e sono costruite in acciaio
inossidabile. Solitamente le colonne vengono commercializzate già impaccate,
con particelle con un diametro di 3, 5 o 10 µm. Le due estremità della colonna
sono racchiuse da filtri di acciaio sinterizzato (frit), evitando così la fuoruscita
della fase stazionaria. È stato menzionato che la colonna può essere danneggiata
dalla presenza di particelle in sospensione nella fase mobile. Per evitare questo
inconveniente, è utile far precedere la colonna analitica da una precolonna
(assente nello schema di un sistema HPLC illustrato in Figura 5), che funge da
filtro. La precolonna (definita anche “guard column”), che è lunga pochi mm,
viene impaccata con lo stesso tipo di materiale usato per il riempimento della
colonna (con particelle più grosse).
I sistemi HPLC possono essere operati a temperatura ambiente o a
temperature superiori. In qualunque caso, la temperatura è un parametro che deve
essere controllato se si desidera ottenere una buona riproducibilità analitica
17
(soprattutto nei tempi di ritenzione). Infatti, variazioni minime della temperatura
possono avere un effetto notevole sugli equilibri termodinamici che si instaurano
all’interno della colonna durante il processo cromatografico. In particolare, un
incremento di questo parametro si traduce: a) nella riduzione della viscosità della
fase mobile (e, quindi, delle pressioni di esercizio), favorendo i trasferimenti di
massa; b) nella diversa solubilità degli analiti nella fase mobile e stazionaria; c)
nell’aumento della velocità di migrazione ionica nei sistemi a scambio ionico; d)
in picchi più simmetrici ed una selettività minore; e) nella riduzione della durata
della colonna; f) in una riduzione dei tempi di analisi. Gli effetti di un incremento
della temperatura di 25°C su un’analisi HPLC, in termini di velocità di analisi,
forma dei picchi e risoluzione (che diminuisce), sono evidenti nella Figura 13.
40°C
65°C
0 5 10 min
Figura 13. Due analisi HPLC sullo stesso campione, effettuate a 40 e 65°C.
18
agevolmente, in quanto il fenolo, che è più polare, viene ritenuto più fortemente
rispetto al 2,6-dimetilfenolo, che è meno polare.
Considerando che il gel di silice è di gran lunga la fase stazionaria più comune, la
successiva discussione sarà limitata ad esso. Il gel di silice, che è una sostanza
amorfa, polare e acida, è generalmente disponibile sotto forma di perle di vetro
rivestite con uno strato di silice porosa (particelle pellicolari sferiche) o sotto
forma di particelle totalmente porose (microparticelle porose). La superficie del
gel di silice, in entrambi i tipi di particelle, non è mai omogenea ma sono presenti
diversi tipi di gruppi funzionali, come illustrato in Figura 14.
Le interazioni responsabili dell’adsorbimento sono principalmente i legami a
idrogeno e le interazioni dipolo-dipolo, che si instaurano tra gli analiti e i gruppi
silanolici. I “centri reattivi” presentano energie di legame elevate e possono
generare dei legami irreversibili con composti molto polari. Per questo motivo è
opportuno disattivare i centri reattivi, introducendo in colonna dell’acqua o un
alcool, nell’analisi di composti polari, quali per esempio alcoli, ammine e acidi. In
questo modo si bloccano i siti più attivi, il cui adsorbimento è quasi irreversibile.
a b c
δ+ H
H H
–
δ
O O O O
Si Si O Si Si O Si
Figura 14. Gruppi funzionali presenti sulla superficie del gel di silice: a) gruppi
silanolici, b) gruppi silossanici, c) centri reattivi.
19
part.: 5 µm
6000 N
P: 3000 psi
part.: 10 µm
4800 N
P: 900 psi part.: 20 µm
3000 N
P: 500 psi
Figura 15. Tre analisi NP-HPLC effettuate con particelle con un diametro di 5, 10
e 20 µm.
20
Cl
Cl Cl Cl
OH OH OH OH
Si Si Si Si
O O O O
Figura 16. Interazioni di isomeri -para -orto con i gruppi silanolici del gel di
silice.
CH3 CH3
Si OH + Cl Si C18H37 Si O Si C18H37
-HCl
CH3 CH3
21
Partendo dalla silice attivata, posta in sospensione in un solvente aprotico (per
esempio, esano), si aggiungerà cloruro di dimetilottadecilsilano mantenendo la
miscela in ebollizione (si libera acido cloridrico). In questo modo, viene prodotta
una fase legata con due gruppi metilici ed una catena C18H37.
Le catene hanno mobilità elevata e si comportano come una fase liquida
superficiale. Le interazioni delle catene legate con i soluti e le fasi mobili, sono
prevalentemente dovute a forze di dispersione (forze di Van der Waals), attrazioni
dipolo-dipolo, legami -H o di tipo dielettrico. Nel caso della BPC in fase
normale, la fase legata consiste in uno scheletro di natura apolare (etile, propile)
recante un gruppo terminale polare, tipicamente un gruppo –CN o –NH2. Nelle
applicazioni NP-HPLC, vengono utilizzati solventi non polari come l’esano, il
cloruro di metilene ed il cloroformio.
La cromatografia liquida di ripartizione in fase inversa, con fase legata
ottadecilsilicica, è la metodica LC oggigiorno più diffusa. Tuttavia, vengono
spesso usate fasi legate che possiedono una catena idrocarburica più corta, come
ad esempio un gruppo octilsililicico. Si è generalmente osservato che le catena più
corte mostrano una selettività più spiccata verso i componenti moderatamente
polari, mentre quelle più lunghe sono più adatte per la separazione dei composti
più liofili. La fase mobile è spesso costituita da acqua (anche se non sempre) e da
un solvente miscibile meno polare, come il metanolo, l’acetonitrile, ecc. L’acqua
è il solvente più debole in quanto interagisce in modo limitato con i soluti
trattenuti nella fase legata apolare, generando tempi di ritenzione prolungati.
Aumentando la concentrazione del solvente più forte (meno polare) nell’acqua, i
soluti vengono eluiti più rapidamente. Ciò viene illustrato nella Figura 17, in cui
si possono osservare i profili cromatografici di tre composti sottoposti ad analisi
RP-HPLC, usando diverse miscele di acqua-metanolo. La scelta della fase mobile
dipende da numerosi fattori come la solubilità del campione, la miscibilità dei
solventi, la natura del campione, le caratteristiche del rivelatore e la viscosità. Per
esempio, se si impiega un rivelatore UV a lunghezza d’onda variabile è molto
25%H20/75% MeOH
40%H20/60% MeOH
50%H20/50% MeOH
Figura 17. Tre analisi RP-HPLC dello stesso campione effettuate usando come
fase mobile miscele diverse di acqua e metanolo.
22
molto basso (0,37 cP a 20°C) e pertanto verrà scelto quando è necessario
mantenere la pressione di esercizio a valori bassi. Inoltre, l’acetonitrile darà per lo
stesso motivo l’efficienza maggiore, in quanto i processi di trasferimento di massa
sono agevolati.
Per l’analisi RP-HPLC di miscele eterogenee, risulta sicuramente utile l’impiego
di un “gradiente”. La scelta della miscela dei solventi segue gli stessi criteri usati
nelle analisi isocratiche, con l’eccezione che debbono essere considerate le
risposte del sistema di rivelazione ai singoli componenti, come per esempio nel
caso dell’assorbanza UV. Infatti, se sussistono grosse differenze nei loro valori di
assorbanza alla lunghezza d’onda prescelta, si potrebbe osservare uno
spostamento della linea di base. Spesso, l’eluizione a gradiente risulta
assolutamente necessaria per eluire tutti i composti presenti nel campione. In
generale si desidera una variazione lineare della forza eluente se non esistono
problemi di risoluzione in una parte del cromatogramma.
Rivelatori
Il sistema di rivelazione (“detector”) ha il compito di misure un parametro
caratteristico del soluto (assorbanza UV, indice di rifrazione, peso molecolare,
ecc.) e di trasformarlo in un segnale elettrico, che viene inviato ad un sistema di
elaborazione dati. I rilevatori si distinguono in “bulk property”, sensibili cioè a
proprietà specifiche dell’insieme analita-fase mobile (per es. l’indice di
rifrazione), e in “solute property”, sensibili cioè a caratteristiche specifiche del
soluto (per es. l’assorbanza UV).
Le caratteristiche fondamentali di un sistema di rivelazione sono:
9 il segnale di fondo
9 la costante di tempo
9 la sensibilità
9 la quantità minima rivelabile (MDQ)
9 la linearità
9 l’universalità o la selettività
Il segnale generato dal rivelatore in assenza di analita (quindi, senza la presenza di
un picco) produce un segnale di fondo (linea di base), che è spesso instabile. Le
cause di ciò si esprimono in due parametri del segnale di fondo: il rumore o
disturbo (il cosiddetto “noise”) e la deriva. Il primo è caratterizzato da oscillazioni
in entrambi i sensi, che possono essere ad alta o a bassa frequenza; il secondo si
può considerare essenzialmente come un’innalzamento graduale della linea di
base (Figura 18); la deriva viene normalmente misurata per un tempo determinato.
È importante limitare l’entità del rumore in quanto è un fattore che diminuisce la
sensibilità analitica.
La minima quantità rilevabile, un parametro strettamente connesso alla sensibilità
del rilevatore, è definita come la quantità di un soluto che genera un picco che
abbia un segnale di ampiezza pari ad almeno due volte l’ampiezza del rumore
(rapporto segnale/rumore di 2). Rilevatori poco sensibili presentono valori elevati
di MDQ.
La costante di tempo (τ) è una misura del tempo di risposta caratteristico del
rilevatore. In pratica é il tempo richiesto (in secondi o millisecondi) per rispondere
23
Deriva
Rumore
Risp.
100
∆E
0,632 ∆E
Flusso = 56 mL/min
0 20 40 60
Tempo (sec)
.
Figure 19. Costante di tempo.
24
al 63,2% di una improvvisa variazione del segnale, come mostrato in Figura 19.
La costante di tempo è un parametro che va selezionato con attenzione in quanto
un valore troppo basso genera un rumore eccessivo (la sensibilità diminuisce) ed
un valore troppo alto ha effetti negativi sulla separazione cromatografica. Gli
effetti negativi connessi alla riduzione della costante di tempo sull’ampiezza del
picco cromatografico sono evidenziati in Figura 20. Una raccomandazione tipica è
che la costante di tempo sia inferiore al 10% dell’ampiezza del picco a metà
altezza, wh.
0,1 sec
0,2 sec
1sec
2 sec
Idealmente, vi deve essere una relazione lineare tra la concentrazione dei soluti
nel campione e la risposta del rivelatore. Il “range” dinamico lineare viene
misurato considerando la minima (MDQ) e massima quantità di uno specifico
soluto che genera un segnale di entità proporzionale. In Figura 21 sono illustrati i
“range” di due rivelatori, caratterizzati da sensibilità diverse (a parità di
concentrazione forniscono una risposta diversa).
I rilevatori selettivi vengono usati per la rivelazione solo di alcuni composti (per
esempio, UV/Vis) mentre quelli universali sono adatti alla rivelazione di tutti i
soluti.
Nei sistemi HPLC vengono ampiamente impiegati come rivelatori
spettrofotometri che lavorano nel campo dell’UV e del visibile (solitamente fino a
600 nm). L’assorbimento in questa regione dello spettro è specifico di ogni
composto chimico, che sarà caratterizzato da uno spettro di assorbimento ben
definito. La semplicità di funzionamento ed il costo accessibile fanno del
rivelatore UV quello più usato. Un altro vantaggio notevole è costituito dal fatto
che questi sistemi possono operare con i solventi più comuni, in quanto non
interferiscono con assorbimenti di fondo elevati. I composti che assorbono le
radiazioni UV sono caratterizzati dalla presenza di uno o più insaturazioni (le
25
A
Risp.
MDQ Conc.
26
Specchio
Lampada Hg
Lampada W
Lampada deuterio
Filtro
Fenditura
Reticolo
Camera
spettroscopica
Specchio
27
LENTE LAMPADA W
FENDITURA
CAMPIONE RIFERIMENTO
FOTODIODO
CELLA
I rivelatori a fluorescenza sono lo strumento più sensibile per quei composti che
sono fluorescenti (o che lo possono diventare attraverso la formazioni di composti
derivatizzati). Sono sistemi altamente selettivi, caratterizzati da una sensibilità che
può essere fino a mille volte più elevata rispetto ai sistemi UV. Il loro principio di
funzionamento è basato sulla misurazione dell’intensità della radiazione di
fluorescenza emessa quando un soluto è eccitato con una radiazione UV di
opportuna lunghezza d’onda (o frequenza). L’attività di fluorescenza più intensa
si ritrova in quelle molecole che hanno gruppi funzionali aromatici con transizioni
di bassa energia (π→π*). Anche i composti alifatici lineari con gruppi carbonilici
e i composti con doppi legami coniugati danno luogo ad una emissione di
fluorescenza, seppure ad un’intensità minore. Uno schema di un fluorimetro è
illustrato in Figura 24. In questo caso la sorgente è una lampada a Xe, con un
monocromatore per selezionare la lunghezza d’onda di eccitazione; a 90° gradi
rispetto alla direzione del raggio di eccitazione sono localizzati la cella ed il
monocromatore di emissione. Un tubo fotomoltiplicatore (PMT) è usato per la
rivelazione del raggio di emissione. Un esempio della sensibilità elevata di
quest’approccio è illustrato in Figura 25, che riporta un cromatogramma HPLC
relativo all’analisi di 5 pg di benzo(a)pirene.
28
Compartimento
Monocromatore Cella del campione
di eccitazione
Compartimento
di riferimento
Lampada Xe
Compartimento
Monocromatore
sorgente
di eccitazione
29
5 pg di benzo(a)pirene
Iniezione
Tempo
Figura 25. Cromatogramma HPLC ottenuto con un rivelatore fluorimetrico.
30
Effluente LC Spettrometro di massa
Solvente
Campione
Acquisizione dati
Al vuoto
Spettro di massa
Campione concentrato
Int.
577
[PO]+
500e3
POP
400e3
300e3
[PP]+
200e3
551
+
[P]
100e3
313 [O]+
339
370
310 355 389409 430 465 489506 533549 580 606 640657 685 712 743 777 803 826 856874894
0e3
300 350 400 450 500 550 600 650 700 750 800 850 m/z
31
Attraverso il sistema MS viene prodotto un tracciato cromatografico misurando la
corrente ionica totale (somma delle correnti ioniche dovute a tutte le masse) in
funzione del tempo. Un cromatogramma RP-HPLC-MS della frazione lipidica di
un campione di siero umano è illustrato in Figura 28.
Int. TIC(1.00)
esteri colesterolo
5000e3 trigliceridi
4500e3
4000e3
3500e3
3000e3
2500e3
2000e3
colesterolo libero
1500e3
1000e3
500e3
10 20 30 40 50 60 70 80 90 min
32
Capitolo 3
t0 t1 t2
33
Ovviamente, si cerca di effettuare una scelta ottimale dei parametri analitici per
operare nelle condizioni di massima efficienza della colonna (o di minimo
allargamento di banda). Il numero dei piatti teorici (N) è un termine
adimensionale utilizzato per determinare l’efficienza:
tR
N = ( )2
wb
dove wb è l’ampiezza del picco alla base. Un parametro più utile, che non dipende
dalla lunghezza della colonna, è l’altezza equivalente di un piatto teorico (HETP)
o semplicemente altezza di un piatto (H):
L
HETP =
N
34
direttamente proporzionale al coefficiente di diffusione di un soluto nella fase
mobile (DM) ed inversamente proporzionale alla velocità di flusso (µ). - È chiaro
che ad un valore di flusso ridotto, il soluto ha a disposizione più tempo per
diffondere. Il fattore B è molto più importante nella GC dove i coefficienti DM
sono molto più elevati. Il fattore C corrisponde alla somma della resistenza al
trasferimento di massa in fase mobile e in fase mobile stagnante (CM) e la
resistenza al trasferimento di massa in fase stazionaria (CS). La resistenza al
trasferimento di massa in fase mobile è dovuto al fatto che le molecole più vicine
alle zone di contatto tra le fasi, avranno un più facile accesso nella fase stazionaria
rispetto ad altre molecole situate ad una distanza maggiore. Per questo motivo i
soluti situati nella zone più lontane dalla fase fissa viaggeranno ad una velocità
maggiore. Il contributo all’allargamento del picco dovuto a questo effetto è
direttamente proporzionale alla velocità di flusso. La resistenza al trasferimento di
massa in fase mobile stagnante è dovuto al fatto che la fase mobile contenuta
entro i pori delle particelle tende a ristagnare. Le molecole di soluto quindi
entrano ed escono da questi pori solo per diffusione. L’effetto è proporzionale alla
velocità di flusso della fase mobile, poiché con l’aumentare della velocità di
flusso aumenta la distanza percorsa lungo la colonna dalle molecole che
subiscono una diffusione limitata all’interno dei pori rispetto a quelle che vi
diffondono più profondamente. Il fattore CS misura le limitazioni in termini di
diffusione dell’analita nella fase stazionaria. Le molecole più vicine alle zone di
contatto tra le fasi, avranno un più facile accesso nella fase mobile rispetto ad altre
molecole situate ad una distanza maggiore all’interno della fase fissa. Anche in
questo caso, l’allargamento di banda dovuto a quest’effetto è proporzionale alla
velocità di flusso.
Riportando l’equazione di Van Deemter in grafico si ottiene un’iperbole (curva di
Van Deemter) che ha un minimo nel punto in cui si ottiene il valore più basso di
HETP (ovvero l’efficienza più elevata). La velocità (o flusso) corrispondente a
questo optimum è la velocità (o flusso) ottimale della fase mobile. In Figura 30
sono riportate 3 curve di Van Deemter relative ad analisi HPLC di terz-butil
benzene, utilizzando particelle da 3, 5 e 10 µm. Come si può osservare,
l’efficienza della colonna aumenta con una riduzione del diametro dello particelle;
inoltre, utilizzando particelle di impaccamento più piccole si ottengono flussi
ottimali più elevati (il punto minimo della curva si sposta a destra) e la parte
ascendente della curva si innalza più gradualmente (diventa possibile applicare
flussi elevati senza ridurre eccessivamente l’efficienza della colonna).
35
22 °C ; terz-butil benzene
10 µm
60
H
E 40
T
P
5 µm
20
3 µm
0
0 2 4 6 8
FLUSSO [ml/min]
Figura 30. Curve di Van Deemter relative ad analisi HPLC di terz-butil benzene
(22°C), utilizzando particelle di impaccamento da 3, 5 e 10 µm.
Riferimenti bibliografici
[1] M. Tswett, Ber. Dtsch. Botan. Ges. 24 (1906) 316.
[2] A.J.P. Martin, R.L.M. Synge, Biochem. J. 35 (1941) 1358.
[3] A.T. James, A.J.P. Martin, Biochem. J. 50 (1952) 679.
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