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GAS CROMATOGRAFIA

UNA INTRODUZIONE

Luigi Mondello

Dipartimento Farmaco-chimico
Università degli Studi di Messina
SOMMARIO

Introduzione p. 1

CAPITOLO 1 Strumentazione Gas cromatografica p. 2

CAPITOLO 2 Fase mobile p. 8

CAPITOLO 3 Iniezione del campione p. 11

CAPITOLO 4 Processo cromatografico p. 13

CAPITOLO 5 Concetti e terminologia di base p. 19

CAPITOLO 6 Fasi stazionarie p. 35

CAPITOLO 7 Rivelatori p. 41

CAPITOLO 8 Analisi qualitativa e quantitativa p. 55

CAPITOLO 9 Programma di temperatura p. 65

CAPITOLO 10 Argomenti speciali p. 71

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INTRODUZIONE

La cromatografia, tecnica di grande rilievo nel campo della scienza della


separazione, si sviluppò agli inizi del XX secolo, quando Ramsey realizzò la
separazione di miscele di gas e vapori su materiali adsorbenti come il carbone e
Tswett separò alcuni pigmenti delle piante mediante cromatografia liquida. Tswett
è indicato come ‘il padre della cromatografia’, per aver coniato il termine
cromatografia (dal greco χρώµα, colore, e γραφή, scrittura) e per avere descritto
dal punto di vista scientifico il processo cromatografico.
La cromatografia è un metodo di separazione nel quale i componenti di un
campione si ripartiscono tra due fasi: una di queste è un letto di fase stazionaria
con estesa area superficiale, l’altra è un gas che fluisce attraverso la fase
stazionaria e rappresenta la fase mobile.
Il primo importante lavoro di gas cromatografia fu pubblicato nel 1952, quando
Martin ed il suo collega James concretizzarono quella che 11 anni prima era stata
un’ispirazione dello stesso Martin, con un lavoro sulla cromatografia di
ripartizione che vinse il premio Nobel. Presto la gas cromatografia si sarebbe
rivelata come una tecnica semplice, veloce ed applicabile alla separazione di molti
materiali volatili. Oggi, la gas cromatografia è una tecnica molto sviluppata e di
grande importanza, al punto che è difficile immaginare un laboratorio analitico
che non abbia un gas cromatografo. In brevissimo tempo la gas cromatografia
(GC) è diventata la più importante tecnica per la separazione e l’analisi quali-
quantitativa di composti volatili.
La definizione ufficiale IUPAC (Unione Internazionale di Chimica Pura e
Applicata) è: “La cromatografia è un metodo fisico di separazione nel quale i
componenti da separare sono distribuiti tra due fasi, una delle quali è fissa (fase
stazionaria), mentre l’altra (fase mobile) si muove in una direzione definita.
La gas cromatografia è una tecnica adatta all’analisi di sostanze volatili che
prevede la vaporizzazione del campione in esame e il suo successivo trasporto
nella fase mobile, attraverso una colonna contenente la fase stazionaria. Una sub-
classificazione delle tecniche è basata sullo stato fisico della fase stazionaria: se la
fase stazionaria è un solido, la tecnica GC è chiamata cromatografia gas-solida
(GSC), se è un liquido, cromatografia gas-liquido (GLC). La GLC è di gran lunga
la più usata e prevede che i componenti del campione in esame (soluti o analiti) si
separino gli uni dagli altri sulla base delle loro differenti pressioni di vapore
relative ed affinità per la fase stazionaria. Questo tipo di processo cromatografico
è detto eluizione. La cromatografia di eluizione è una tecnica nella quale la fase
mobile è fatta passare in continuo attraverso tutta la lunghezza del letto
cromatografico, mentre il campione viene introdotto nel sistema in quantità
finita”.

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Capitolo 1

STRUMENTAZIONE GASCROMATOGRAFICA

Sin dall’introduzione in commercio dei primi sistemi, nel 1954, la strumentazione


in GC ha subito una continua evoluzione. In figura 1 è riportato un sistema gas
cromatografico di ultima generazione con le varie componenti richieste per un suo
funzionamento ottimale.

Figura 1. Gas cromatografo e varie componenti strumentali: 1)Bombola di gas;


2) manometro a due stadi; 3) sistema di controllo del flusso; 4)
autocampionatore; 5) iniettore; 6) colonna; 7) zona a temperatura controllata
(forno); 8) sistema di rivelazione; 9) sistema di elaborazione dei dati.

Siringhe
In figura 2 è mostrata una siringa per liquidi da 10 µl, generalmente usata per
iniettare volumi da 1 a 5 µL di liquidi puri o soluzioni. Il pistone di acciaio
inossidabile aderisce strettamente all’interno di una barra di precisione fatta di
vetro borosilicato. L’ago, anch’esso di acciaio inossidabile, è rimovibile e si
avvita all’estremità della barra. Altri modelli hanno un ago epossidizzato
all’interno della barra. Per volumi più piccoli è disponibile anche una siringa da 1
µl. Per l’iniezione di campioni gassosi fino ad un volume di circa 5 millilitri si
può usare invece una siringa a tenuta di gas da 10 millilitri. Un’utile regola
generale è di usare siringhe il cui volume totale sia pari ad almeno il doppio del
volume da iniettare.

Figura 2. Siringa per iniezioni gas cromatografiche.

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Uso della siringa
Quando si deve riempire una siringa con del liquido, bisogna prima espellere tutta
l’aria in essa contenuta. Questo si fa aspirando ripetutamente del liquido nella
siringa e poi espellendolo di nuovo rapidamente nel volume di liquido. I liquidi
viscosi vanno aspirati nella siringa lentamente; l’espulsione troppo veloce di un
liquido viscoso potrebbe infatti crepare la siringa. Se troppo viscoso, il campione
può essere diluito con un solvente idoneo.
E’ opportuno prelevare più liquido di quanto se ne intende iniettare. Mantenere la
siringa in posizione verticale con l’ago rivolto verso l’alto, cosicché l’aria rimasta
all’interno della siringa andrà verso la sommità della barra. Poi fare scendere il
pistone fino a leggere il valore (volume) desiderato; l’aria in eccesso dovrebbe
essere stata a questo punto espulsa. Asciugare poi l’ago con un fazzoletto e una
volta misurato il volume esatto di liquido aspirare dell’aria all’interno della
siringa. Quest’aria servirà a due scopi:anzitutto, darà spesso origine ad un picco
nel cromatogramma, utile per misurare il tempo morto (che sarà descritto in
seguito); secondo, servirà a prevenire la perdita di liquido in caso il pistone fosse
accidentalmente abbassato.
Per iniettare, usare una mano per guidare l’ago all’interno del setto e con l’altra
fare forza per forare il setto e anche evitare che il pistone venga espulso a causa
della pressione all’interno del gas cromatografo. L’ultimo punto è importante
quando si iniettano grandi volumi (per esempio, campioni gassosi) o quando la
pressione d’iniezione è estremamente alta. In questi casi, se non si fa attenzione, il
pistone verrà spinto fuori dalla siringa.
Inserire quindi rapidamente l’ago attraverso il setto e poi nella porta di iniezione,
quindi spingerlo verso il basso, aspettare uno o due secondi, quindi ritrarre l’ago
(sempre tenendo il pistone abbassato) il più velocemente e delicatamente
possibile. Con colonne tubolari aperte spesso si opera diversamente. Bisogna fare
attenzione perché la maggior parte delle porte di iniezione sono riscaldate e ci si
può facilmente bruciare.
Tra un campione e l’altro bisogna pulire la siringa. Quando si usano liquidi
altobollenti la siringa andrebbe lavata con solventi volatili come cloruro di
metilene o acetone, aspirando ripetutamente il liquido di lavaggio all’interno della
siringa e poi espellendolo. Infine, il pistone va rimosso e la siringa asciugata
aspirando aria all’interno con una pompa da vuoto (con una trappola adeguata) o
un aspiratore d’aria. E’ utile aspirare l’aria anche attraverso l’ago per impedire che
della polvere entri nella barra otturandola.

Autocampionatori
Gli autocampionatori sono dei dispositivi meccanici, generalmente collocati sulla
sommità del gas cromatografo, designati per l’iniezione automatica dei campioni.
In figura 3 è mostrato un autocampionatore capace di gestire 150 campioni.

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Figura 3. Autocampionatore per sistema gas cromatografico.

Gli autocampionatori simulano il processo di iniezione appena descritto, mediante


una siringa come quella riportata in figura 2. Dopo il lavaggio con solvente,
prelevano ripetutamente il campione da un apposito contenitore sigillato (vial),
poi iniettano un volume definito nella normale porta di iniezione del GC. Gli
autocampionatori consistono in un carrello che contiene il posizionamento di un
dato numero di campioni e solventi di lavaggio, i quali vengono a turno
posizionati sotto la siringa attraverso lo spostamento di un braccio meccanico e di
un carrello mobile. L’utilizzo degli autocampionatori ha due peculiarità
fondamentali: primo, minimizza l’errore umano, offrendo una precisione di gran
lunga maggiore rispetto all’iniezione manuale, con valori tipici di deviazione
standard relativa (RSD) dello 0,2%. In secondo luogo, offre la possibilità di
iniettare un elevato numero di campioni, previa impostazione mediante software
delle procedure di iniezione da eseguire.

Setti
L’iniezione con siringa viene effettuata attraverso un setto autosigillante, un
polimero di silicone stabile ad alte temperature. In commercio sono reperibili
diversi tipi di setti; alcuni sono fatti a strati, altri hanno un film di Teflon dalla
parte della colonna. Le proprietà da considerare nella scelta di un setto sono:
stabilità ad alte temperature, grado di perdita (decomposizione) del setto, misura,
durata e costo.

Colonne
In gas cromatografia si incontrano generalmente due tipi di colonna, colonne
impaccate e colonne capillari. In passato, gran parte dei lavori erano effettuati con
colonne impaccate. Attualmente, queste sono state quasi totalmente rimpiazzate
dalle colonne capillari, caratterizzate da maggiore efficienza e tempi di analisi
ridotti.
In Figura 4 è mostrata schematicamente una colonna impaccata in sezione
trasversale.

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Figura 4. Sezione trasversale di una colonna impaccata.

La colonna è in genere di acciaio inossidabile ed è strettamente impaccata con la


fase stazionaria su un supporto solido inerte di terra di diatomee, rivestito con un
sottile film di liquido. La fase costituisce tipicamente il 3, 5 o 10% in peso della
fase stazionaria totale.
Le colonne impaccate sono lunghe normalmente 1, 2 o 4 metri, con un diametro
esterno da 1/4” o 1/8” (pollici). L’acciaio inossidabile è il materiale più usato,
soprattutto per la sua robustezza; le colonne in vetro sono invece preferibili per
l’analisi di pesticidi e campioni bio-medici che, se posti in contatto con l’ acciaio
inossidabile, potrebbero facilmente subire degradazione.
Le colonne capillari sono realizzate in silice fusa (figura 5), con la superficie
interna rivestita da un sottile film di fase liquida.

Figura 5. Sezione trasversale di una colonna capillare.

Queste colonne vengono chiamate “tubolari aperte a parete rivestita” o


semplicemente colonne WCOT (wall coated open tubular). A differenza delle
colonne impaccate, le colonne capillari sono aperte, quindi generano una
resistenza al flusso molto bassa; questo consente l’utilizzo di colonne con
lunghezze notevoli, fino a 100 metri.

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Rivelatori
Il rivelatore monitorizza l’effluente della colonna e registra graficamente il
processo cromatografico, sotto forma di cromatogramma. Il segnale generato dal
rivelatore è proporzionale alla quantità di ciascun soluto (analita), rendendo così
possibile l’analisi quantitativa.
Le caratteristiche ideali richieste ad un rivelatore per gas cromatografia sono:
- Adeguata sensibilità
- Buona stabilità e riproducibilità della risposta
- Linearità fra concentrazione e risposta del rivelatore, in un intervallo di
parecchi ordini di grandezza
- Temperatura di esercizio fino ad almeno 400°C
- Tempi di risposta brevi ed indipendenti dal flusso
- Alta affidabilità e facilità d’uso
- Risposta altamente prevedibile e selettiva nei confronti di una o più classi
di soluti
- Non distruttività del campione
Naturalmente non esiste un rivelatore in grado di soddisfare tutte le richieste sopra
citate. Sono stati però sviluppati, migliorati ed ampiamente utilizzati numerosi i
sistemi di rivelazione in gas cromatografia.

Sistemi di elaborazione dati


Dal momento che le colonne OT producono picchi “veloci”, il requisito principale
di un buon sistema di analisi dei dati è l’abilità di misurare il segnale GC con alte
velocità di campionamento. Grazie ai progressi della tecnologia informatica,
attualmente esiste una varietà di sistemi in grado di svolgere facilmente questa
funzione. In generale, ci sono due tipi di sistemi in uso comune – integratori e
computer.
Gli integratori basati su microprocessori usano un convertitore analogico-digitale
(A-to-D) per produrre sia il cromatogramma (segnale analogico) sia un report
digitale per l’analisi quantitativa. La maggior parte degli integratori effettua
calcoli di area percentuale, percento in peso, standard interno, standard esterno e
normalizzazione. Per rivelatori non lineari si possono iniettare standard multipli
che coprano l’area del picco di interesse, il programma effettuerà quindi una
calibrazione multilivello. L’operatore sceglierà poi una calibrazione di routine per
l’integratore adatta per la risposta specifica del rivelatore.
Molti integratori offrono una programmazione BASIC, il controllo digitale dei
parametri strumentali e la possibilità di analisi automatizzate, dall’iniezione del
campione al lavaggio della colonna e all’iniezione del campione successivo. Quasi
tutti gli integratori usano un’interfaccia RS-232-C per rendere il segnale in uscita
dal GC compatibile con i network digitali dell’utente.
I sistemi basati su personal computer hanno ormai fatto il loro ingresso definitivo
nei laboratori di cromatografia. Essi forniscono un mezzo semplice per gestire
sistemi cromatografici singoli o multipli e sono in grado di inviano la risposta sia
a terminali locali che remoti. I computer hanno una maggiore flessibilità
nell’acquisizione dei dati, nel controllo della strumentazione, nell’elaborazione
dei dati, nella visualizzazione e nel trasferimento ad altri dispositivi. Il fatto di

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possedere maggiore capacità di memoria, velocità di elaborazione ed interfacce
flessibili per l’operatore li ha resi più popolari degli integratori.

Zone a temperatura controllata


Le varie parti componenti del gas cromatografo (iniettore, forno e rivelatore)
operano a temperatura controllata al fine di poter garantire la massima
riproducibilità delle diverse condizioni analitiche adottate per le diverse
separazioni gas cromatografiche.
L’iniettore deve essere abbastanza caldo da vaporizzare il campione rapidamente,
al fine di non provocare alcuna perdita di efficienza. Di contro, la temperatura
della porta d’iniezione deve essere sufficientemente bassa da evitare fenomeni di
decomposizione termica o riarrangiamento chimico.
Nell’iniezione per vaporizzazione flash, una regola generale è di mantenere la
temperatura di iniezione circa 50 °C più alta del punto di ebollizione del
campione. Una maniera pratica per individuarla consiste nell’aumentare
gradualmente la temperatura della porta di iniezione; se l’efficienza della colonna
o la forma dei picchi migliorano, significa che la temperatura della porta di
iniezione era troppo bassa. Se il tempo di ritenzione, l’area del picco o la forma
cambiano drasticamente, allora la temperatura potrebbe essere troppo alta e
potrebbe essersi verificata una decomposizione o un riarrangiamento.
La temperatura della colonna deve essere abbastanza alta perché i componenti di
un campione la attraversino ad una velocità ragionevole. Non è necessario che sia
più alta del punto di ebollizione del campione; di solito infatti si preferisce
mantenerla ad un livello considerevolmente inferiore. Se questo appare illogico, si
ricordi che la colonna opera ad una temperatura alla quale il campione si trova
allo stato di vapore – non è necessario che sia allo stato gassoso.
La separazione gas cromatografica può essere condotta in condizioni di isoterma o
in programma di temperatura. L’analisi in isoterma prevede di mantenere una
temperatura costante del forno e, quindi, della colonna. Il termine programma di
temperatura indica invece un aumento lineare della temperatura della colonna nel
tempo. Il programma di temperatura è molto utile per la separazione di miscele di
campioni con punti di ebollizione molto diversi.
In GC, la temperatura della colonna deve essere mantenuta al di sopra della
temperatura di vaporizzazione del campione, ma non al di sopra del suo punto di
ebollizione. Inoltre, il controllo della temperatura del forno contenente la colonna
separativa è fondamentale per ottenere una buona separazione in tempi
ragionevoli. I forni installati negli strumenti di ultima generazione consentono di
impostare rampe di temperatura che vanno dalla temperatura ambiente ai 450 °C,
con una precisione del centesimo di grado.
Per quanto concerne la temperatura del rivelatore, essa dipende dal tipo di
rivelatore impiegato. Come regola generale, tuttavia, il rivelatore ed i suoi
collegamenti all’uscita della colonna devono essere abbastanza caldi da impedire
la condensazione del campione e/o della fase liquida. Se la temperatura è troppo
bassa si verifica la condensazione, con possibile allargamento della banda
cromatografica o perfino la totale perdita dei picchi.

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Capitolo 2

FASE MOBILE
Un gas inerte (elio, argon, azoto, idrogeno) fluisce in continuo dalla bombola
attraverso l’iniettore, la colonna e il rivelatore, spingendo le diverse componenti
della matrice in esame.
E’ importante che il gas di trasporto abbia un’elevata purezza, poiché
contaminanti quali idrocarburi, ossigeno e/o acqua possono attaccare
chimicamente la fase liquida della colonna e distruggerla. Inoltre, tracce di acqua
possono provocare il rilascio di contaminanti dalla colonna e generare
l’innalzamento della linea di base (background) o addirittura la rivelazione di
sostanze non appartenenti alla matrice, i cosiddetti “picchi fantasma”.
Un parametro fondamentale correlato al gas di trasporto è il flusso presente in
colonna. Esso risulta essenziale sia per l’efficienza della colonna che per l’analisi
qualitativa. Per quanto concerne l’efficienza della colonna, essa dipende da un’
idonea velocità lineare del gas; questa può essere determinata cambiando la
velocità di flusso fino a raggiungere la maggiore efficienza del sistema analitico.
Considerando l’analisi qualitativa, invece, è essenziale ottenere valori di flusso
costanti e stabili nel tempo al fine di ottenere separazioni riproducibili. In
cromatografia l’approccio più semplice e veloce per l’identificazione di un
composto consiste infatti nel confronto dei tempi di ritenzione. E’ possibile che
due o più composti abbiano lo stesso tempo di ritenzione, ma nessun composto
può avere due tempi di ritenzione diversi; i tempi di ritenzione sono quindi
caratteristici di un soluto, ma non unici. Ovviamente, un buon controllo del flusso
è essenziale per questo metodo di identificazione.

Sistema di controllo del flusso


Il primo sistema di controllo del flusso è un regolatore a due stadi collegato alla
bombola di gas che riduce la pressione del serbatoio, di 200 bar, fino ad un livello
di esercizio che varia da 5 a 10 bar. Il primo indicatore segna la pressione residua
nella bombola di gas, mentre il secondo consente di regolare la pressione in uscita
dalla bombola a seconda delle condizioni operative richieste dallo strumento.
Ciascun manometro è munito di valvole di sicurezza e filtri interni per prevenire
l’ingresso di inquinanti.

Misurazione del flusso


I due strumenti più comunemente usati per la misurazione del flusso sono:
- flussimetro a bolla di sapone (figura 6a);
- flussimetro digitale (figura 6b);

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Figura 6. Flussimetri - dispositivi per la misurazione del flusso: a) a bolla di
sapone; b) digitale.

Il flussimetro a bolla di sapone non è altro che un tubo calibrato, in genere una
pipetta o buretta modificata, attraverso il quale fluisce il gas di trasporto.
Schiacciando un bulbo di gomma, una soluzione di sapone viene fatta salire nel
percorso del gas che fluisce. Dopo che il tubo è stato inumidito da diverse bolle di
sapone, una bolla viene accuratamente cronometrata mentre attraversa un volume
definito, con un cronometro. Da questa misurazione si può facilmente calcolare la
velocità di flusso del gas di trasporto, in mL/min. Alcuni flussimetri elettronici
funzionano in base allo stesso principio, ma utilizzano delle radiazioni luminose
per le misure.
I gas cromatografi di ultima generazione sono provvisti di speciali dispositivi,
integrati nello strumento, capaci di controllare elettronicamente il flusso del
sistema (elemento 3 di figura 1).

Comprimibiltà del gas di trasporto


Il gas di trasporto che entra in una colonna GC è sotto pressione mentre l’uscita
dalla colonna è in genere a pressione atmosferica, quindi la pressione d’ingresso,
pi, è maggiore della pressione in uscita, po. Di conseguenza, il gas è compresso
all’ingresso e si espande al suo passaggio attraverso la colonna; così la velocità
volumetrica di flusso aumenta procedendo dall’ingresso della colonna verso
l’uscita.
Usualmente la velocità volumetrica di flusso è misurata all’uscita, dove raggiunge
il massimo. Per ottenere la velocità media di flusso, Fc , il flusso in uscita va
moltiplicato per il cosiddetto fattore di comprimibilità, (j):

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 p 2 
  i  − 1
3 p 
j =  o 3  (2)
2 p 
  i  − 1
  p o  
 
e:

Fc = jxFc (3)

Per calcolare il volume di ritenzione dal tempo di ritenzione si usa la velocità


media di flusso; il volume di ritenzione risultante è chiamato volume di ritenzione
corretto, VR0 :

V R0 = jVR = jt R Fc (4)
Questo termine non va confuso con il volume di ritenzione corretto che sarà
presentato successivamente.

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Capitolo 3

Iniezione del campione

Il sistema di introduzione del campione (iniettore), dovrebbe essere adatto per


una grande varietà di campioni inclusi gas, liquidi e solidi e consentire che questi
vengano introdotti rapidamente e in maniera quantitativa nel flusso di gas di
trasporto. In tabella 1 sono riportati i sistemi di campionamento più comunemente
utilizzati per i due principali tipi di colonne utilizzate:

Colonne impaccate Colonne capillari


Vaporizzatore flash Split
On-column Splitless
On-column
PTV
Tabella 1. Colonne GC e sistemi di campionamento usati.

Idealmente, il campione andrebbe iniettato istantaneamente in colonna, in pratica


ciò è impossibile e pertanto un obiettivo più realistico è di introdurlo in una banda
affilata e simmetrica. La difficoltà di mantenere il campione in una banda ristretta
può essere facilmente compresa considerando ad es. che la vaporizzazione di 1 µl
di benzene , genera 600 µL di vapore, i quali ad un flusso di 1 mL/min, tipico di
colonne capillari, impiega circa 36 secondi per trasferirsi in testa alla colonna. La
lentezza del trasferimento del campione dalla camera di iniezione in testa alla
colonna risulta in una banda iniziale molto allargata, che abbassa l’efficienza del
sistema. Chiaramente il campionamento è una fase molto importante del processo
cromatografico e anche la dimensione del campione è critica. Non esiste un valore
ottimale per quanto concerne la quantità di campione da iniettare, ma sono
disponibili alcune linee guida generali. In Tabella 2 sono riportate le quantità di
campione tipiche per tre tipi di colonne. Per ottenere la miglior forma possibile
dei picchi e la massima risoluzione si dovrebbe sempre usare la minima quantità
possibile di campione.

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Tipo di colonna Volume
Regolare analitica impaccata: 1/4” o.d.*, 10% di liquido 0,2-20 µL
Impaccata ad alta efficienza: 1/8” o.d.*, 3% di liquido 0,01-2 µL
Capillare (tubolare aperta): 250 µm i.d.*, 0,2 µm di film 0,01-3 µL
*o.d. e i.d.: diametro esterno e interno, rispettivamente.
Tabella 2. Volumi di campione per diversi tipi di colonne.

Maggiore è il numero di componenti presenti nel campione, maggiore potrebbe


essere la quantità di campione necessaria. Nella maggior parte dei casi, la
presenza di altri componenti non influenza la posizione e la forma del picco di un
dato soluto. Nell’analisi in tracce o su scala preparativa è spesso meglio usare
grandi quantità di campione, sebbene queste sovraccaricheranno la colonna.
Verosimilmente, i picchi più abbondanti risulteranno fortemente distorti, ma i
picchi di interesse (corrispondenti ai composti in traccia) saranno anch’essi più
larghi, consentendo così di raggiungere i risultati desiderati.

Campionamento di gas
I metodi di campionamento dei gas richiedono che l’intero campione si trovi allo
stato gassoso nelle condizioni operative. Particolari difficoltà insorgono nel caso
di miscele gas-liquido. Se possibile, la miscela dovrebbe essere o riscaldata, per
convertire tutti i componenti in gas, o compressa per convertire tutti i componenti
in liquido. Purtroppo non sempre questo è possibile. I metodi di campionamento
più comunemente usati consistono nell’uso di siringhe a tenuta di gas e valvole
per il campionamento di gas. La siringa è più flessibile, meno costosa, ed è lo
strumento usato più di frequente. D’altra parte, una valvola per il campionamento
di gas offre una migliore ripetibilità, richiede meno manualità e si presta
maggiormente ad essere automatizzata.

Campionamento di liquidi
I liquidi si espandono notevolmente quando vaporizzano, perciò è preferibile
usare piccole quantità di campione, dell’ordine di microlitri. Le siringhe
rappresentano il dispositivo standard universale per l’introduzione di liquidi; le
misure più comunemente usate sono 1, 5 e 10 µl. In situazioni in cui campioni
liquidi sono riscaldati (come in tutti i tipi di iniezione per vaporizzazione) per
consentirne una rapida vaporizzazione prima del passaggio in colonna, bisogna
fare attenzione ad evitare il surriscaldamento, che provocherebbe ad una
decomposizione termica.

Campionamento di solidi
Nel caso di solidi la procedura migliore consiste nel discioglierli in un solvente
appropriato ed usare una siringa per iniettare la soluzione ottenuta.

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Capitolo 4

PROCESSO CROMATOGRAFICO

In figura 7 è riportato schematicamente un processo cromatografico.

Figura 7. Rappresentazione schematica di un processo cromatografico.

Le linee orizzontali rappresentano la colonna; ciascuna linea è un’istantanea del


processo in tempi differenti (il tempo aumenta dall’alto verso il basso). Nella
prima rappresentazione il campione, formato dai componenti A e B, viene
introdotto in una zona ristretta in testa alla colonna; esso viene quindi trasportato
dalla fase mobile (da sinistra a destra).
Ciascun componente si ripartisce tra le due fasi, come mostrato dai picchi al di
sopra e al di sotto della linea. I picchi al di sopra della linea rappresentano la
quantità di un dato componente nella fase mobile, quelli al di sotto della linea la
rispettiva quantità nella fase stazionaria. Il componente A si distribuisce
maggiormente nella fase mobile e di conseguenza viene trasportato attraverso la
colonna più velocemente rispetto al componente B, che permane invece più a

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lungo nella fase stazionaria. Quindi, la separazione di A da B si verifica durante il
loro percorso attraverso la colonna. Infine, i componenti lasciano la colonna e
vengono rivelati generando delle variazioni di segnale all’interno della camera di
rivelazione. Il segnale in uscita dal rivelatore dà origine ad un cromatogramma,
mostrato nella parte destra della figura 7.
Dalla figura si evince come ciascun picco cromatografico subisca un
“allargamento di banda” nel corso del processo cromatografico.
La tendenza di un dato componente ad interagire con la fase stazionaria viene
descritta in termini chimici attraverso una costante di equilibrio nota come
costante di distribuzione, o anche coefficiente di ripartizione (Kc). La costante di
distribuzione è in linea di principio simile al coefficiente di ripartizione che
controlla un’estrazione liquido-liquido. In cromatografia, maggiore è il valore
della suddetta costante, maggiore è l’affinità del soluto per la fase stazionaria.
In alternativa, questa attrazione può essere classificata in base al tipo di
assorbimento del soluto. Se l’interazione analita/fase stazionaria avviene solo
sulla superficie della fase stazionaria si parla di adsorbimento, mentre se
l’interazione interessa la parte più interna dello strato di fase stazionaria liquida, si
usa il termine assorbimento.
La costante di distribuzione fornisce un valore numerico per l’assorbimento totale
del soluto all’interno o al di sopra della fase stazionaria. Essa descrive pertanto il
grado di interazione e regola i movimenti del soluto attraverso il sistema
cromatografico. Sono proprio le differenze nelle costanti di distribuzione
(parametri sotto controllo termodinamico) a rendere possibile la separazione
cromatografica.

Alcuni termini e simboli cromatografici


Lo IUPAC ha provveduto ad ufficializzare termini, simboli e definizioni
convenzionali per tutte le tecniche cromatografiche; prima di questa pubblicazione
del 1993 non esisteva del resto alcuna uniformità.
La costante di distribuzione, Kc, è il fattore che governa l’equilibrio di ripartizione
tra un soluto e la fase stazionaria. Essa è definita come il rapporto tra la
concentrazione del soluto A nella fase stazionaria e la sua concentrazione nella
fase mobile:

Kc = [A]S / [A]M (1)

Questa costante è un valore termodinamico, dipendente dalla temperatura, che


esprime la tendenza relativa di un soluto a distribuirsi tra le due fasi. Differenze
nelle costanti di distribuzione risulteranno in differenti velocità di migrazione dei
soluti attraverso una colonna.
La figura 8 mostra un tipico cromatogramma per un singolo soluto, A, con un
altro piccolo picco all’inizio del cromatogramma.

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Figura 8. Cromatogramma.

Soluti come A sono ritenuti dalla colonna e quindi caratterizzati da un volume di


ritenzione, VR; il volume di ritenzione del soluto è rappresentato in figura come la
distanza tra il punto di iniezione e la massima altezza del picco. Esso rappresenta
il volume di gas carrier necessario ad eluire il soluto A. Questa caratteristica del
soluto può essere anche indicata come tempo di ritenzione, tR, posto che la
velocità di flusso, Fc, sia costante:

VR = tR x Fc (2)

Se non specificato diversamente, si assume che la velocità di flusso sia costante; il


tempo di ritenzione è dunque proporzionale al volume di ritenzione ed i due
termini possono essere usati indifferentemente per esprimere lo stesso concetto.
Il piccolo picco all’inizio del cromatogramma rappresenta un soluto che non viene
in alcun modo ritenuto dalla fase stazionaria – attraversa quindi senza interazione
la colonna. In GC, questo comportamento è spesso mostrato dall’aria o dal metano
ed il picco associato è frequentemente chiamato ‘picco d’aria’. Il simbolo VM, a
volte chiamato volume vuoto o di ‘hold-up’ serve a misurare il volume
interstiziale o interparticellare della colonna. Altri simboli approvati IUPAC
includono V0 e VG, che rappresentano il volume di fase mobile gassosa nella

15
colonna. Il termine volume morto, sebbene non convenzionale, è anch’esso
ampiamente usato.
L’equazione 3, una delle equazioni fondamentali della cromatografia, mette in
relazione il volume di ritenzione cromatografico con la costante di distribuzione
teorica:

VR = VM + KcVS (3)

V rappresenta un volume ed i termini R, M ed S in pedice stanno per ritenzione,


mobile e stazionario, rispettivamente. VM e VS rappresentano perciò i volumi di
fase mobile e fase stazionaria, rispettivamente, nella colonna. Il volume di
ritenzione, VR, può essere descritto facendo riferimento alla figura 8.
Attraverso l’equazione 3 è possibile esplicare il processo cromatografico. Il
volume totale di gas carrier che fluisce durante l’eluizione di un solvente può
essere considerato come composto di due parti: il gas che riempie la colonna o,
alternativamente, il volume attraverso il quale il soluto è obbligato a passare nel
suo percorso attraverso la colonna (rappresentato da VM), più il volume di gas che
eluisce mentre il soluto non si sta muovendo ma è fermo sul letto della colonna o
al suo interno. Quest’ultimo è determinato dalla costante di distribuzione (la
tendenza di un soluto ad essere assorbito) e dalla quantità di fase stazionaria nella
colonna, VS. Il soluto ha solo due possibilità: muoversi con il flusso di fase mobile
mentre si trova nella fase mobile, oppure restare immobile assorbito dalla fase
stazionaria. La somma di questi due effetti rappresenta il volume totale di
ritenzione, VR.

La gas cromatografia offre numerosi e importanti vantaggi:


• Analisi veloci, tipicamente nell’ordine di minuti
• Efficiente, in grado di fornire elevata risoluzione
• Sensibile, rivela facilmente quantità nell’ordine di ppm e spesso ppb
• Non-distruttiva, rende possibile l’accoppiamento in linea, per esempio, alla
spettrometria di massa
• Analisi quantitative altamente accurate, con RSD (Deviazione Standard
Relativa) dell’1-5%
• Richiede piccole quantità di campione, tipicamente nell’ordine di µL
• Affidabile e relativamente semplice
• Poco costosa

In ambito cromatografico vi è sempre stato un ovvio interesse ad ottenere la


massima riduzione dei tempi di analisi; la tecnica GC è tra le più versatili in tal
senso. La strumentazione attualmente in commercio consente infatti di realizzare
analisi della durata di secondi. In figura 9 è riportata la separazione di un olio

16
essenziale di limetta in soli 90 secondi, ottenuta con una strumentazione
specificatamente designata per analisi veloci.

Figura 9. Analisi gas cromatografica veloce di un olio essenziale di limetta.


L’elevata efficienza della gas cromatografia è messa in evidenza in figura 9.
L’efficienza può essere espressa in termini di numeri di piatti; le colonne capillari
hanno tipicamente numeri di piatti dell’ordine di centinaia di migliaia. Come
prevedibile, esiste una tacita competizione per chi riesce a realizzare la colonna
con il più alto numero di piatti – la migliore colonna del mondo – e poiché
l’efficienza di una colonna aumenta all’aumentare della lunghezza, questo
significa fare a gara per realizzare la colonna più lunga. Attualmente, il record per
la colonna più lunga, continua, è della Chrompack International, che ha realizzato
una colonna in silice fusa di 1300 m (la misura massima che può essere alloggiata
all’interno di un forno per GC convenzionale). Ha un numero di piatti di 1,2
milioni che è inferiore a quanto previsto, in parte a causa di limitazioni nelle
condizioni operative.
Recentemente, una colonna più efficiente è stata realizzata unendo insieme nove
colonne da 50 m a formare un’unica colonna della lunghezza totale di 450 m.
Sebbene molto più corta della Chrompack, l’efficienza di questa colonna era pari
quasi al 100% di quella teorica, è stato calcolato infatti un numero di piatti di 1,3
milioni e si è riusciti a separare 970 componenti in un campione di nafta.
La tecnica GC, eccellente per l’analisi quantitativa, ha trovato conseguentemente
ampio uso in molte diverse applicazioni. Rivelatori sensibili consentono di
ottenere analisi quantitative veloci ed accurate ad un costo relativamente basso. La
gas cromatografia ha sostituito la distillazione come metodo di scelta per la

17
separazione di composti volatili. In entrambe le tecniche la temperatura è una
variabile critica, ma le separazioni in GC dipendono anche dalla natura chimica
(polarità) della fase stazionaria. Questa variabile addizionale rende la tecnica GC
più potente. In aggiunta, il fatto che i soluti si trovino a concentrazioni molto
basse in colonna esclude la possibilità di formazione di azeotropi, che spesso
inficiano le separazioni per distillazione.
Entrambi i metodi sono tuttavia ristretti a campioni volatili.In pratica, un limite
superiore di temperatura in GC è circa 180 °C, per cui i campioni devono
possedere un’apprezzabile pressione di vapore (60 torr o più) a quella
temperatura. Di solito i soluti hanno punti di ebollizione che non superano i 500
°C e pesi molecolari di 1000 Daltons.
Questa notevole limitazione della tecnica è riportata di seguito, insieme ad altri
svantaggi.
• Limitata a campioni volatili
• Non adatta a campioni termolabili
• Difficoltosa per la separazione su scala preparativa di grandi quantità di
campione
• Richiede analisi spettroscopiche, di solito mediante spettroscopia di massa,
per la conferma dell’identità dei picchi
Riassumendo, si può affermare che per la separazione di sostanze volatili in
genere la gas cromatografia costituisce la tecnica di elezione per velocità, elevata
capacità di risoluzione e facilità d’uso.

18
CAPITOLO 5

CONCETTI E TERMINOLOGIA DI BASE

Costante di distribuzione
La costante di equilibrio termodinamico prima definita come costante di
distribuzione, Kc, è il parametro di controllo che determina la velocità alla quale
un dato soluto si muove attraverso una colonna GC. Per un soluto o analita
indicato come A, si ha:

[ A] S
Kc = (1)
[ A] M

dove le parentesi quadre indicano concentrazioni molari e i simboli S ed M in


pedice si riferiscono alle fasi stazionaria e mobile, rispettivamente. Maggiore è la
costante di distribuzione, più forte sarà l’interazione del soluto con la fase
stazionaria e più a lungo lo stesso soluto sarà ritenuto dalla colonna. Data
l’esistenza di una costante di equilibrio, si potrebbe pensare che la cromatografia
sia un processo all’equilibrio, cosa che chiaramente non è, perché la fase mobile
gassosa spinge costantemente le molecole di soluto lungo la colonna. Tuttavia, se
le cinetiche di trasferimento di massa sono veloci, il sistema cromatografico
opererà vicino all’equilibrio e quindi la costante di distribuzione sarà un
parametro adeguato ed utile per la sua descrizione.
Si assume inoltre che i soluti non interagiscano l’uno con l’altro, cioè che le
molecole del soluto A passino attraverso la colonna come se non fossero presenti
altri soluti. Questa assunzione è ragionevole date le basse concentrazioni presenti
nella colonna e dato la separazione tra i soluti aumenta durante il loro passaggio
attraverso la colonna. Se si verificano delle interazioni, i risultati cromatografico
si discosteranno alquanto da quelli teorici; soprattutto ne saranno influenzati la
forma dei picchi ed i volumi di ritenzione.

Fattore di ritenzione o di capacità


Per comprendere meglio l’ importanza della costante di distribuzione in
cromatografia, è utile dividerla in due termini:

Kc = k x β (2)

dove β è il rapporto di fase e k è il fattore di ritenzione.

19
VM
β= (3)
VS

Per colonne capillari il cui spessore di film, df, è conosciuto, β si può calcolare
dall’equazione 4,
(rc − d f )2
β= (4)
2rc d f

dove rc è il raggio della colonna capillare. Se, come di solito, rc >> df, l’equazione
4 si riduce a:

rc
β= (5)
2d f

Per colonne capillari, valori tipici di β sono nell’ordine delle centinaia, circa 10
volte il valore corrispondente per le colonne impaccate, per le quali del resto
β non è facilmente calcolabile. Il rapporto di volume di fase è un parametro molto
utile da conoscere, in grado di fornire preziose indicazioni nella scelta della
colonna appropriata.
Il fattore di ritenzione, k, è il rapporto tra la quantità di soluto (non la
concentrazione di soluto) nella fase stazionaria e la corrispondente quantità nella
fase mobile:

(W A )S
k = (6)
(W A )M
Maggiore è questo valore, maggiore sarà la concentrazione di soluto nella fase
stazionaria e, quindi, più a lungo questo sarà ritenuto sulla colonna. In questo
senso, il fattore di ritenzione esprime la misura in cui un soluto è ritenuto. Come
tale, è un parametro importante quanto la costante di distribuzione e può essere
facilmente calcolato dal cromatogramma.
Dal riarrangiamento dell’equazione 2 e sostituendo in essa l’equazione 3 si arriva
ad un’utile equazione:

Kc K CVS
k = = (7)
β VM

Richiamando l’equazione 3 riportata nell’introduzione,

20
V R = VM + K C VS (8)

e riarrangiandola si ottiene un nuovo termine, VR' , il volume di ritenzione corretto,

V R − VM = VR' = K CVS (9)

Il volume di ritenzione relativo è un parametro direttamente proporzionale alla


costante di distribuzione termodinamica, ed è perciò un parametro spesso usato
nelle equazioni teoriche. Rappresenta il tempo di ritenzione misurato attraverso il
picco non ritenuto (aria o metano), come mostrato in figura 8.
Riarrangiando l’equazione 9 e sostituendola nell’equazione 7 si ottiene un’utile
definizione di k:

VR'  VR 
k= =  − 1 (10)
VM  VM 

Poiché entrambi i volumi di ritenzione, VR' e VM, possono essere misurati


direttamente dal cromatogramma, è semplice determinare il fattore di ritenzione di
un qualsiasi soluto, come illustrato in figura 10.

Figura 10. Rappresentazione del fattore di ritenzione k.

21
Si noti che più un soluto è ritenuto dalla fase stazionaria, maggiore è il volume di
ritenzione e più alto è il fattore di ritenzione. Quindi, anche se la costante di
distribuzione per un dato soluto non è nota, il fattore di ritenzione può essere
facilmente misurato dal cromatogramma ed usato al posto della costante di
distribuzione per esprimere il grado relativo di assorbimento del soluto. Del resto,
se β è conosciuto (come è in genere il caso per le colonne OT), la costante di
distribuzione può essere facilmente calcolata dall’equazione 2.
E’ importante assicurarsi di non confondere i due termini: il volume di ritenzione
relativo sopra descritto e la definizione ad esso correlata di volume di ritenzione
corretto. Ciascuno ha una sua particolare definizione: il volume di ritenzione
relativo VR' è il volume di ritenzione che esclude il volume misurato dal picco del
metano o dell’aria, come mostrato nell’equazione 9; il volume di ritenzione
corretto, VR0 , è il valore che corregge per la comprimibilità del gas carrier e si basa
sulla velocità media di flusso. C’è ancora un altro volume che rappresenta il
valore sia relativo che corretto; esso è chiamato volume di ritenzione netto, VN:

( )
V N = j VR − VM = jV R' = VR0 − VM0 (11)

Di conseguenza, in GC l’equazione 9 andrebbe riscritta in modo più appropriato


come:

V N = K CVS (12)

A seconda della particolare circostanza, i gas cromatografisti sostituiscono


liberamente il volume di ritenzione relativo in situazioni nelle quali dovrebbero
usare il volume di ritenzione netto. In cromatografia liquida non c’è invece alcuna
comprimibilità significativa della fase mobile e i due valori possono essere usati
scambievolmente.

Fattore di ritardo
Un altro modo per esprimere il comportamento di ritenzione di un soluto consiste
nel paragonare la sua velocità attraverso la colonna, µ, con la velocità media della
fase mobile gassosa, ū:

µ
=R (13)
u

Il nuovo parametro definito dall’equazione 13 è chiamato fattore di ritardo, R.


Sebbene non sia ampiamente usato, esso può essere calcolato direttamente dai dati
cromatografici ed introduce una interessante relazione con k.

22
Per arrivare ad una definizione numerica, la velocità del soluto può essere
calcolata dividendo la lunghezza della colonna, L, per il tempo di ritenzione di un
dato soluto,

L
µ= (14)
tR

dove L è espresso in cm o mm ed il tempo di ritenzione in secondi. In maniera


simile, la velocità lineare media del gas è calcolata dal tempo di ritenzione di un
picco non ritenuto come l’aria:

L
u= (15)
tM

Combinando le equazioni 10, 13 e 14 si ottiene le definizione di calcolo del fattore


di ritardo:

VM
R= (16)
VR

Poiché il valore di questi volumi può essere calcolato dal cromatogramma, il


fattore di ritardo si calcola facilmente, come descritto per il fattore di ritenzione.
Si noti che R e k sono inversamente proporzionali. Per giungere all’esatta
relazione, l’equazione 16 va sostituita nell’equazione 8, ottenendo:

1
R= (17)
(1 + k )
Il fattore di ritardo misura l’entità in cui il soluto è ritardato nel suo passaggio
attraverso la colonna, o la velocità frazionale alla quale un soluto si sta muovendo.
Il suo valore è sempre pari o inferiore a uno. Esso rappresenta anche la frazione di
soluto nella fase mobile in un dato tempo e, alternativamente, la frazione di tempo
che il soluto medio trascorre nella fase mobile. Per esempio, se un tipico soluto, A
ha un fattore di ritenzione di 5, significa che è ritenuto 5 volte di più rispetto ad un
picco non ritenuto. Il suo fattore di ritardo, 1/(1+k), è 1/6 o 0,167. Ciò significa
che man mano che il soluto passava attraverso la colonna, il 16,7% di esso si
trovava nella fase mobile e l’84,3% nella fase stazionaria, in ogni istante. Per un
altro soluto, B, con un fattore di ritenzione di 9, le percentuali relative sono del
10% nella fase mobile e 90% nella fase stazionaria. Chiaramente, il soluto che ha
maggiore tendenza ad essere assorbito nella fase stazionaria, nel nostro esempio

23
B, trascorre una frazione maggiore di tempo nella fase stazionaria, il 90% contro il
10% di A.
Il fattore di ritardo può essere anche usato per illustrare la tecnica di iniezione on-
column. Quando B viene iniettato on-column, il 90% di esso viene assorbito nella
fase stazionaria e solo il 10% passa allo stato di vapore. Questi numeri dimostrano
che non è necessario evaporare tutto il materiale iniettato; infatti, la maggior parte
del soluto va direttamente all’interno della fase stazionaria. Similmente, nel
capitolo 9, R sarà di aiuto nella comprensione del programma di temperatura in
GC.
Il fattore di ritardo appenda descritto per la cromatografia su colonna è simile al
fattore RF nella cromatografia su strato sottile, il che permette a chi lavora in
cromatografia liquida di usare questi due parametri per confrontare dati TLC e
HPLC. Infine, può essere utile nella comprensione del significato del fattore di
ritenzione osservare che il concetto è simile teoricamente a quello di frazione
estratta in un’estrazione liquido-liquido.

Forma dei picchi


Abbiamo visto che le molecole di soluto individuali si comportano
indipendentemente l’una dall’altra durante il processo cromatografico. Come
risultato, esse, dopo ripetuti assorbimenti e desorbimenti, producono un insieme
randomizzato di tempi di ritenzione. Il risultato per un dato soluto è una
distribuzione, o picco, la cui forma può essere approssimata come normale o
Gaussiana. E’ la forma ideale di picco ed è mostrata in tutte le figure del libro
eccetto per quei cromatogrammi reali i cui picchi non sono ideali.
I picchi non simmetrici in genere indicano che durante il processo cromatografico
si è verificata una qualche interazione indesiderata. La figura 11 mostra alcune
forme che a volte si incontrano con campioni reali.

Figura 11. Forma dei picchi. a) ideale, b) allargato, c) fronting, d) tailing, e)


sdoppiato.

24
A seconda della loro forma, i picchi asimmetrici sono classificati come “fronting”
(quando l’asimmetria è localizzata all’inizio del picco) e “tailing” (quando
l’asimmetria è localizzata in coda al picco). L’entità di asimmetria è definita come
fattore di scodatura (TF, figura. 12).

b
TF = (18)
a

Sia a che b sono misurati al 10% di altezza del picco, come mostrato. Come si può
vedere dall’equazione, un picco “tailing” avrà un TF superiore a uno; il caso
opposto, cioè “fronting”, darà un TF inferiore a uno. Sebbene la definizione sia
stata designata per dare una misura del grado di tailing ed è così chiamata, essa
misura anche il fronting.

Figura 12. Picco cromatografico sul quale definire rapporto di asimmetria e


fattore di scodatura.

Un picco sdoppiato, come (e) in figura 11, può rappresentare una coppia di soluti
non adeguatamente separati, un’altra sfida per il cromatografista. Si dovrebbe
verificare che il picco sdoppiato sia ripetibile, perché questa forma di picco può
anche risultare da una tecnica di iniezione inadeguata, troppo campione, o colonne
degradate.
Tutte le considerazioni che verranno effettuate, si assimileranno a picchi con
forma gaussiana. Le caratteristiche di una forma gaussiana sono ben conosciute;
in figura 13 è mostrato un picco cromatografico ideale. I punti di flessione si
originano a 0,607 dell’altezza del picco e le tangenti a questi punti producono un
triangolo con un’ampiezza di base, wb, uguale a quattro volte la deviazione
standard, 4σ, ed un’ampiezza a metà altezza, wh, di 2,354σ. L’ampiezza del picco

25
è 2σ al punto di inflessione (60,7% dell'altezza). Queste caratteristiche sono usate
nelle definizioni di alcuni parametri, incluso il numero di piatti.

Figura 13. Picco cromatografico ideale, caratterizzato da una forma Gaussiana.

Numero di piatti
Per descrivere l’efficienze di una colonna cromatografica è necessaria una misura
dell’ampiezza del picco, ma che sia correlata al tempo di ritenzione del picco, dal
momento che come abbiamo visto prima l’ampiezza aumenta con il tempo di
ritenzione. La misura più comune dell’efficienza di un sistema cromatografico è il
numero di piatti, N:
2 2 2
t  t  t 
N =  R  = 16 R  = 5,54 R  (19)
σ   wb   wb 

La figura 14 mostra le misure necessarie per fare questo calcolo.

26
Figura 14. Parametri cromatografici richiesti per definire il numero di
piatti N di una colonna.

Diversi termini hanno origine dal fatto che la misura di σ può essere fatta a
diverse altezze del picco. Alla base del picco, wb è 4σ, cosicché la costante
numerica è 42 o 16. A metà altezza, wh è 2,354σ e la costante diventa 5,54 (fare
riferimento alla Fig. 13).
Indipendentemente dai simboli usati, sia il numeratore sia il denominatore devono
essere espressi nelle stesse unità e, quindi, N è adimensionale. Tipicamente sia il
tempo di ritenzione sia l’ampiezza del picco sono misurati come distanze sul
tracciato cromatografico. In alternativa, entrambi possono essere espressi sia in
unità di volume sia in unità di tempo. A prescindere dal calcolo eseguito, un
valore alto di N indica una colonna efficiente, il che è altamente auspicabile.
Da un cromatogramma contenente molti picchi i valori di N per i picchi
individuali possono variare (dovrebbero aumentare leggermente con il tempo di
ritenzione) a seconda dell’accuratezza con la quale è stata eseguita la misura. E’
pratica comune, tuttavia, assegnare un valore ad una data colonna sulla base di
un’unica misura, anche se sarebbe meglio un valore medio.

Altezza del piatto


Un parametro correlato che esprime l’efficienza di una colonna è l’altezza del
piatto, H,

L
H= (20)
N

27
Dove L è la lunghezza della colonna. H è espressa in unità di lunghezza ed è
migliore di N per confrontare le efficienze di colonne di lunghezza diversa. E’
anche chiamata altezza equivalente ad un piatto teorico (HEPT), un termine che
deriva dalla terminologia della distillazione. Ulteriori chiarimenti su H si trovano
più avanti in questo capitolo. Una buona colonna avrà un valore grande di N e
piccolo di H.

Risoluzione
Un’altra misura dell’efficienza di una colonna è la risoluzione, RS. Come in altre
tecniche analitiche, il termine risoluzione è usato per esprimere la misura in cui
picchi adiacenti sono separati. In cromatografia, la definizione è:

(t R )B − (t R ) A 2d
RS = = (21)
(wb ) A + (wb )B (wb ) A + (wb )B
2

dove d è la distanza tra i massimi dei picchi di due soluti, A e B. La Figura 3.7
mostra il calcolo della risoluzione. Per determinare le ampiezze dei picchi alla
base si tracciano le tangenti ai punti di flesso. Normalmente, picchi adiacenti di
uguale area avranno la stessa ampiezza di picco, e (wb)A sarà uguale a (wb)B.
L’equazione 21 si riduce quindi a:

d
RS = (22)
wb
In figura 15 le tangenti si toccano appena, così d = wb e RS = 1,0. Più alta è la
risoluzione, migliore la separazione; una separazione completa alla linea di base
richiede una risoluzione di 1,5.
In concreto, le equazioni 21 e 22 sono valide solo quando le altezze dei due picchi
sono uguali, come mostrato in figura 15. Per altri rapporti di altezza dei picchi, si
può consultare il lavoro di Snyder per alcuni esempi.

28
Figura 15. Due picchi quasi risolti per definire la risoluzione.

TEORIA DELLA VELOCITA’


I primi tentativi di descrivere il fenomeno dell’allargamento di banda in
cromatografia erano basati su un modello di equilibrio che diventò noto come
teoria del piatto. Sebbene avesse una certa validità, non considerava le condizioni
di non-equilibrio che in realtà esistono nella colonna e non trattava le cause
all’origine dell’allargamento delle bande. D’altra parte è stato presto introdotto un
approccio alternativo per la descrizione dei fattori cinetici, esso divenne
conosciuto come teoria della velocità.

L’equazione originale di van Deemter


Il lavoro più significativo basato sull’approccio cinetico è stato pubblicato da van
Deemter, Klinkenberg e Zuiderweg nel 1956. Esso individuava tre effetti che
contribuivano all’allargamento di banda con colonne impaccate: la diffusione
vorticosa detta anche “eddy-diffusion” (termine A), la diffusione molecolare
longitudinale (termine B) e il trasferimento di massa nella fase liquida stazionaria
(termine C). L’allargamento era espresso in termini di altezza del piatto, H, in
funzione della velocità lineare media del gas, ū. L’equazione di van Deemter è
così espressa:

B
H = A+ + Cu (23)
u

29
Poiché l’altezza del piatto è inversamente proporzionale al numero di piatti, un
valore piccolo indica un picco stretto – la condizione desiderabile. Quindi ognuna
delle tre costanti, A, B e C dovrebbe essere ridotta al minimo per massimizzare
l’efficienza della colonna.

L’equazione di Golay
In caso di colonne tubolari aperte o capillari, l’equazione di velocità non include il
termine A. Questa conclusione è stata tratta da Golay, il quale ha anche proposto
un nuovo termine per descrivere il processo di diffusione in fase gassosa nelle
colonne tubolari aperte. La sua equazione aveva due termini C, uno per il
trasferimento di massa nella fase stazionaria, CS (similmente a van Deemter) e uno
per il trasferimento di massa nella fase mobile, CM. L’equazione di Golay assunse
perciò questa formula:

B
H= + (C S + C M )u (24)
u

Il termine B dell’equazione 24 tiene conto della ben nota diffusione molecolare.


L’equazione che governa la diffusione molecolare è:

B = 2 DG (25)

dove DG è il coefficiente di diffusione del soluto nel gas di trasporto. L’equazione


mostra come sia desiderabile avere un valore basso del coefficiente di diffusione,
in modo che la diffusione sia minima, dando un valore basso di B e di H. In
generale, un basso coefficiente di diffusione può essere ottenuto usando gas
carrier con peso molecolare più elevato, come l’azoto o l’argon. Nell’equazione di
Golay (24) questo termine è diviso per la velocità lineare, cosicché anche una
velocità lineare o velocità di flusso ridurranno il contributo del termine B
all’allargamento globale del picco. In pratica, una velocità elevata ridurrà il tempo
che il soluto passa nella colonna e quindi il tempo disponibile per la diffusione
molecolare.
Il termine C nell’equazione di Golay fa riferimento al trasferimento di massa del
soluto, sia nella fase stazionaria che nella fase mobile. In teoria, assorbimento e
desorbimenti veloci del soluto manterranno vicine le molecole del soluto stesso
minimizzando l’allargamento di banda.
Il termine CS dell’equazione di Golay è:

2kd 2f
CS = (26)
3(1 + k ) DS
2

30
dove df è lo spessore medio del film di fase stazionaria liquida e DS è il
coefficiente di diffusione del soluto nella fase stazionaria. Per minimizzare il
contributo di questo termine, lo spessore del film deve essere piccolo e il
coefficiente di diffusione grande. Una rapida diffusione attraverso film sottili
consente alle molecole di soluto di restare vicine l’una all’altra. Film sottili si
possono ottenere rivestendo le pareti capillari con piccole quantità di liquido, ma i
coefficienti di diffusione di solito non possono essere controllati se non
scegliendo, per la fase stazionaria, liquidi a bassa viscosità.
Il termine CS sarà minimo quando il trasferimento di massa dentro e fuori la fase
stazionaria liquida è il più veloce possibile. Si può fare un paragone con una
persona che salta dentro e fuori da una piscina; se l’acqua è poco profonda, il
processo si compirà velocemente, altrimenti no.
Se la fase stazionaria è solida sono necessarie delle modifiche al termine CS per
correlarlo alle appropriate cinetiche di assorbimento-desorbimento. Ancora una
volta, più le cinetiche sono veloci più il processo sarà vicino all’equilibrio e
minore sarà l’allargamento di banda.
L’altra parte del termine CS è il rapporto k/(1+k2). Valori alti di k risultano da
elevate solubilità nella fase stazionaria; mentre questo rapporto è minimo per
valori alti di k, mentre al di sotto un valore di k di circa 20 la diminuzione è molto
piccola. Poiché valori alti del fattore di ritenzione risultano in lunghi tempi di
analisi, si ottiene poco vantaggio da valori di k superiori a 20.
Il trasferimento di massa nella fase mobile può essere ravvisato riferendosi alla
figura 16 che mostra il profilo di una zona di soluto in conseguenza ad un flusso
non turbolento attraverso un tubo.

Figura 16. Illustrazione del trasferimento di massa in fase mobile.

Una miscelazione inadeguata (cinetiche lente) in fase gassosa può comportare un


allargamento di banda poiché le molecole di soluto al centro della colonna si
muovono più avanti rispetto a quelle alle pareti. Diametri ridotti delle colonne

31
minimizzano questo allargamento poiché le distanze per il trasferimento di massa
sono relativamente piccole. L’equazione di Golay per il termine CM è:

CM =
(1 + 6k + 11k )r
2
C
2
(27)
24(1 + k ) DG
2

dove rc è il raggio della colonna.


L’importanza relativa dei due termini C nell’equazione della velocità dipende
soprattutto dallo spessore del film e dal raggio della colonna. Ettre ha pubblicato
dei calcoli per alcuni soluti su delle tipiche colonne da 0,32 i.d.[5]. Da questi
calcoli si evince che in film sottili (0,25 µm) il 95% dell’intero termine C è
attribuibile al trasferimento di massa nella fase mobile, (CM), laddove invece per
film spessi (5,0 µm) è solo il 31,5%. Estendendo questi calcoli ad altri valori di
diametro delle colonne si nota che per diametri piccoli (es., 0,25 mm), il termine
CM è meno importante, mentre per diametri maggiori (es., 0,53 mm) è circa tre
volte più grande, fino a circa il 50%.
Generalizzando, possiamo concludere che per film sottili (<0,2 µm), il termine è
controllato dal trasferimento di massa nella fase mobile; per film spessi (da 2 a 5,0
µm), esso è controllato dal trasferimento di massa nella fase stazionaria; ed infine
per film intermedi (da 0,2 a 2,0 µm) bisogna considerare entrambi i fattori. Per le
colonne “wide-bore”, di dimensioni maggiori, l’importanza del trasferimento di
massa nella fase mobile è considerevolmente maggiore.
Infine, si nota che i termini C nell’equazione 24 sono moltiplicati per la velocità
lineare, cosicchè diventano minimi a basse velocità. Basse velocità danno tempo
alle molecole di soluto di diffondere all’interno e al di fuori della fase mobile e di
diffondere attraverso la colonna nella fase mobile gassosa.

Trasferimento di massa in fase mobile nelle colonne impaccate


Come proposto in origine da van Deemter et al., il termine A tiene conto della
diffusione longitudinale(“eddy-diffusion”) come mostrato in figura 17.

Figura 17. Illustrazione della diffusione longitudinale (eddy-diffusion).

32
Nella figura sono mostrati i percorsi di diffusione di tre molecole. Tutte e tre
cominciano dalla stessa posizione iniziale, ma trovano diversi percorsi attraverso
il letto impaccato e giungono alla fine della colonna dopo aver percorso distanze
differenti. Poiché la velocità di flusso del gas carrier è costante, esse arrivano in
tempi diversi e sono separate l’una dall’altra. Quindi, per un numero grande di
molecole, il processo di diffusione vorticosa o gli effetti di percorso multiplo
risultano in un allargamento della banda come mostrato.
Il termine A nell’equazione di van Deemter è:

A = 2λd p (28)

dove dp è il diametro delle particelle della colonna impaccata e λ è un fattore di


impaccamento. Per minimizzare A, si dovrebbero usare particelle piccole e
strettamente impaccate. In pratica, il limite più basso delle dimensioni delle
particelle è determinato dalla perdita di pressione attraverso la colonna e
dall’abilità ad impaccare in maniera uniforme particelle molto piccole.
Dimensioni intorno a 100/120 sono d’uso comune. Anche piccoli intervalli delle
dimensioni particellari favoriscono l’impaccamento (minimizzando λ), così
100/120 è un intervallo di dimensioni migliore di 80/120.
Dal momento che l’equazione originale di van Deemter non includeva il termine
C, è stata proposta una forma estesa dell’equazione che includesse entrambi i
termini A e C. Una versione semplificata di questa equazione estesa è:

B 8kd 2f u ωd p2 u
H = A+ + 2 + (29)
u π [1 + k ] DS
2
DG

dove ω è il fattore di ostruzione per letti impaccati (funzione del supporto solido).
Quest’equazione è stata generalmente accettata, anche se ne sono state proposte
altre che saranno discusse nella sezione successiva.
Bisogna anche notare che il termine B nell’equazione originale di van Deemter
includeva un fattore di tortuosità, γ, che tiene conto anche della natura del letto
impaccato. Ovviamente, questo fattore non compare nel termine B per le colonne
impaccate.

Altre equazioni di velocità


Altri ricercatori hanno proposto addizionali modifiche dell’equazione originale di
van Deemter. Per esempio, si può discutere sul fatto che la diffusione vorticosa
(termine A) sia parte del trasferimento di massa in fase mobile (termine C) o sia
accoppiato ad esso. Giddings ha discusso a fondo il trasferimento di massa,

33
preferendo un termine unico che combina la diffusione vorticosa ed il
trasferimento di massa per produrre una nuova equazione.
Altri hanno definito delle equazioni di velocità utili sia in GC sia in LC. Una
discussione interessante che riepiloga gran parte di questo lavoro fu pubblicata da
Hawkes. La sua equazione risultante è espressa nella stessa forma di quella di
Golay, ma è meno specifica. Si consultino i riferimenti bibliografici per maggiori
dettagli.

34
CAPITOLO 6

FASI STAZIONARIE

Teoricamente, ad ogni composto o classe di composti corrisponderebbe una fase


stazionaria ottimale.
Prima classe: composti apolari, come idrocarburi o siliconi con costituenti non
polari.
Seconda classe: composti a bassa polarità, come esteri di alcoli ad elevato peso
molecolare o derivati siliconici (polilossani) con sostituenti polari.
Terza classe: composti polari, come poliglicoli, polialcoli e loro esteri.
Quarta classe: composti molto polari, come glicoli, glicerina, idrossiacidi.

Classificazione delle fasi stazionarie


In gas cromatografia la fase stazionaria può essere solida (GSC) oppure liquida
(GLC).
Nella cromatografia gas-solido (GSC), il meccanismo di separazione è basato
sull’adsorbimento. La GSC viene applicata soprattutto nell’analisi di gas
permanenti, di idrocarburi leggeri e di composti bassobollenti in genere (come
formaldeide, metanolo, acqua).
I materiali sono gli stessi usati per le colonne impaccate e per le colonne capillari
PLOT (porous layer open tubular). Per la scelta della fase stazionaria solida è
decisivo il grado di polarità delle molecole da separare: per molecole molto polari
si usano fasi poco adsorbenti, in presenza di molecole polarizzabili si usano fasi
abbastanza adsorbenti e polarizzabili (come il carbone attivo), infine nel caso di
molecole apolari si usano fasi molto adsorbenti.
Nel caso di colonne impaccate la granulometria non ha molta importanza, perché
la separazione dipende soprattutto dalla selettività piuttosto che dall’efficienza
della fase.
I materiali più usati sono:
• gel di silice
• allumina
• carbone attivo
• setacci molecolari
• zeoliti
• sali inorganici

35
Le fasi stazionarie liquide (GLC) nelle colonne impaccate e nelle SCOT (support
coated open tubular) sono ancorate ad un supporto solido inerte che presenta i
seguenti requisiti:
ƒ inerzia chimica, in modo da non interferire nel processo cromatografico
ƒ resistenza meccanica e termica, in modo da non pregiudicare
l’impaccamento ottimale della colonna
ƒ buon grado di “bagnabilità” da parte del liquido di ripartizione, che deve
depositarsi come film sottile in modo molto uniforme
ƒ bassa resistenza al flusso del gas
ƒ disponibilità sotto forma di particelle di forma il più possibile sferica
Per quanto riguarda la granulometria delle particelle, le colonne impaccate
richiedono materiali da 60-80 mesh (0,25-0,18 mm di diametro), 80-100 mesh
(0,18-0,15 mm) e 100-120 mesh (0,15-0,13 mm). In pratica, con colonne di
diametro interno di 3 mm, le migliori prestazioni si ottengono con una
granulometria di 80-100 mesh. In generale, per ottenere un buon impaccamento il
diametro interno (i.d.) della colonna deve essere almeno otto volte maggiore del
diametro medio dei granuli del supporto.
Le colonne SCOT e PLOT richiedono granuli di diametro medio inferiore a 1µm
(colonne con 0,32-0,53 mm i.d.), mentre lo strato di materiale sulle pareti può
variare da 5 a 50 µm di spessore. I materiali di supporto più comunemente usati
sono :
• terra di diatomee
• teflon
• microsfere di vetro
Il liquido di ripartizione da depositare sul supporto solido o sulle pareti di una
colonna capillare deve soddisfare numerosi requisiti, fra cui i più importanti sono:
ƒ bassa tensione di vapore nelle condizioni di esercizio (0,01-0,1 mm Hg)
ƒ elevata stabilità termica
ƒ elevata inerzia chimica dei componenti della miscela, per il
supporto e anche per il materiale di cui è costituita la colonna
ƒ buon effetto solvente sulla miscela, sia pure con una affinità diversa per
ciascun componente, per favorirne la separazione
ƒ bassa viscosità alle temperature di esercizio

36
Supporti solidi per fase stazionaria
Dei molti materiali utilizzati, quelli realizzati con terra di diatomee (Chromosorb)
si sono rivelati i migliori. Le proprietà dei principali tipi sono elencate in tabella
3, dove sono riportati anche i limiti superiori per alcuni supporti. Il limite più
basso rappresenta in genere la quantità minima in grado di assicurare la completa
copertura della superficie del supporto, una quantità che dipende dall’area
superficiale.

Nome Area Densità di Dimensione % Max di


superficiale impacchettamento dei pori fase
(m2/g) (gg/cc) (µm) liquida
Tipi a terra di diatomee
Chromosorb P® 4,0 0,47 0,4-2 30
Chromosorb W® 1,0 0,24 8-9 15
Chromosorb G® 0,5 0,58 ND 5
Chromosorb 50® 0,7 0,40 ND 7
Polimeri fluorocarbonici
Chromosorb T® 7,5 0,42 ND 10
ND: non disponibile
Tabella 3. Caratteristiche di alcuni supporti solidi.

La superficie dei supporti a base di terra di diatomee è spesso troppo reattiva per
campioni polari. Essi contengono infatti gruppi ossidrilici liberi in grado di
formare legami idrogeno indesiderati con le molecole di soluto, provocando lo
scodamento dei picchi cromatografici corrispondenti. Anche il materiale più inerte
(Chromosorb W bianco) deve essere lavato con un acido (in questo caso,
designato come AW) e silanizzato per renderlo ancora più inerte. Reagenti tipici
per la silanizzazione sono il dimetildiclorosilano (DMDCS) e l’esametildisilazano
(HMDS); i supporti bianchi disattivati sono conosciuti come Supelcoport,
Chromosorb W-HP, Gas Chrom Q II e Anachrom Q. Uno svantaggio della
disattivazione è che questi supporti diventano idrofobici, cosicché il rivestimento
con la fase stazionaria liquida risulta difficoltoso. Come prima detto,
l’impaccamento con particelle piccole produce colonne più efficienti, le
dimensioni di vengono indicate secondo il “mesh range” (intervallo interstiziale),
definito dalle dimensioni dei pori dei setacci usati per la selezione delle particelle.
Intervalli tipici in GC sono 80/100 o 100/120 mesh.
La quantità di fase liquida che riveste il supporto solido dipende dal tipo di
supporto e varia in genere dall’1 al 25%. Dalla tabella 4 si evince che il 15% di
fase liquida su un supporto Chromosorb P equivale a circa il doppio (25,7%) su
Chromosorb W, a causa delle differenze di densità e area superficiale. D’latra

37
parte, il tipo Chromosorb G può invece supportare solo modeste quantità di
liquido (tipicamente il 3-5%).

Chromosorb P® Chromosorb W® Chromosorb G®

5,0 9,3 4,1


10,0 17,9 8,3
15,0 25,7 12,5
20,0 32,8 16,8
25,0 39,5 21,3
30,0 45,6 25,8

Tabella 4. Equivalente in peso percentuale di fase stazionaria per tre supporti


solidi.

Si deduce infine che bassi carichi sono preferibili per ottenere un’alta efficienza e
per composti altobollenti, mentre carichi elevati sono migliori quando si opera con
grandi quantità di campione e per soluti volatili – ad esempio gas. In questo caso
la preparazione del supporto prevede l’unione di una soluzione di fase stazionaria
in solvente volatile al supporto solido e la successiva evaporazione del solvente. Il
materiale risultante, perfino con il 25% di fase stazionaria liquida, apparirà secco
e verrà facilmente impaccato all’interno della colonna.

Fasi stazionarie liquide (GLC)


Quasi tutti i liquidi non volatili comunemente presenti in un laboratorio chimico
sono stati testati come possibili fasi stazionarie. Come risultato, una gran quantità
di fasi liquide sono state introdotte in commercio e sono disponibili nei cataloghi
dei diversi distributori (circa 200). Nasce quindi l’esigenza di individuare quelle
poche che abbiano la capacità di adattarsi al maggior numero possibile di analiti.
In generale, esse includono una colonna non polare come quelle a base di metil-
siliconi, diverse a polarità intermedia, un silicone altamente polare come l’OV-
275 ed un poliglicole come il Carbowax.
Una seconda considerazione riguarda la quantità di fase stazionaria necessaria per
rivestire il supporto solido. In pratica tuttavia è difficile ottenere dei rivestimenti
uniformi, specialmente per liquidi polari e la quantità minima necessaria viene in
genere determinata sperimentalmente dopo una serie di prove ed errori.
Una terza considerazione riguarda la lunghezza della colonna, ma questa non è di
importanza critica se lo strumento è in grado di operare con un programma di
temperatura. Le colonne hanno in genere lunghezze ridotte (da 1 a 3 m), che
risultano convenienti sia per l’impaccamento sia per la maneggevolezza.

38
Fasi stazionarie solide (GSC)
A parte alcuni adsorbenti di uso comune, come il gel di silice e l’allumina, la
maggior parte dei soluti usati come fasi stazionarie sono stati messi a punto per
applicazioni specifiche in GSC. I due adsorbenti sopra citati danno risultati
soddisfacenti in termini di forma dei picchi e numero di piatti, mentre al contrario
molti dei solidi usati in GSC danno picchi scodati ed efficienze inadeguate. E’ da
notare inoltre che su gel di silice l’aria non viene separata in ossigeno e azoto.
La separazione dell’ossigeno dall’azoto è facilmente realizzabile su dei solidi
conosciuti come setacci molecolari, che comprendono zeoliti esistenti in natura e
materiali sintetici come alluminiosilicati di metalli alcalini. Questi setacci sono
denominati in base alle dimensioni reali approssimative dei loro pori, ad es. il tipo
5A ha pori da 5 Å e il tipo 13X ha pori da 9 Å. La separazione tra ossigeno e
azoto è all’incirca uguale su entrambi i setacci mentre una differenza si osserva
nel caso del monossido di carbonio, che impiega circa il doppio del tempo per
fluire dal setaccio molecolare da 5 Å.
I Carbosieves sono tipicamente costituiti da solidi appositamente messi a punto
per GC, in questo caso mediante pirolisi di un precursore polimerico che fornisce
carbonio puro contenente piccoli pori e che funge da setaccio molecolare. I
Carbosieves separano l’ossigeno dall’azoto e possono convenientemente sostituire
i setacci molecolari appena descritti. Essi trovano anche applicazione per la
separazione di idrocarburi a basso peso molecolare e formaldeide, metanolo e
acqua. Altri nomi commerciali sono Ambersorb e Carboxen. Un’altra classe di
adsorbenti a base di carbonio è rappresentata dai carboni neri grafitizzati
(Carbopack), non porosi e non specifici ed in grado di separare molecole
organiche sulla base della loro struttura geometrica e polarità. Spesso sono anche
leggermente ricoperti con una fase liquida per migliorarne la prestazione e
minimizzare lo scodamento dei picchi cromatografici. Nel 1996, Hollis sviluppò e
brevettò un polimero poroso messo in commercio con il nome di Porapak che
offrì una buona soluzione al problema analitico di separare ed analizzare l’acqua
in presenza di solventi polari. Infatti, per la spiccata tendenza a formare legami
idrogeno, di solito l’acqua dà origine a brutte scodature con la maggior parte delle
fasi stazionarie. Originariamente esistevano cinque diversi tipi di polimeri,
indicati da P a T in ordine di polarità crescente; oggi ne esistono invece otto
versioni. L’acqua fluisce molto velocemente sui Porapak P e Q, rendendoli ideali
per quelle applicazioni nelle quali normalmente l’acqua interferirebbe con i
composti di interesse. Il Porapak Q può essere usato anche per separare ossigeno
ed azoto a -78 °C. Una serie di polimeri competitivi per prestazioni è venduta
sotto il nome commerciale di Chromosorb Century Series.
In conclusione, è possibile individuare alcune grandi famiglie di fasi stazionarie:
- Fasi stazionarie “legate” chimicamente ai gruppi ossidrilici della silice del
supporto o alle pareti della colonna, molto usate nelle colonne capillari WCOT.
Le fasi siliconiche vengono immobilizzate per reticolazione mediante iniziatori di

39
radicali liberi (come i perossidi o i raggi γ); i ponti metilenici che si formano fra
le catene polisilossaniche e la colonna rendono la fase particolarmente stabile sia
al calore sia all’usura con il tempo.
- Fasi stazionarie “ad azione mista” costituite da co-polimeri reticolati porosi a
base di etil-vinilbenzene e divinil-benzene, che non hanno gruppi ossidrilici liberi
e quindi consentono di minimizzare i fenomeni di scodamento (sempre presenti
con le fasi silicee) in caso di composti molto polari (acqua, ammine, ammoniaca,
alcoli ed acidi grassi). Tali fasi sono oggi molto spesso utilizzate per le colonne
capillari PLOT.
- Fasi stazionarie “chirali”, usate sia in GC che in HPLC, in grado di separare gli
enantiomeri. Lo sviluppo di ammidi chirali ha portato alla messa a punto di fasi
stazionarie chirali (CSP) a largo spettro, per la risoluzione diretta di un gran
numero di sostanze otticamente attive mediante GC. Per la loro fabbricazione
sono state messe a punto due strategie: la prima si basa sulla formazione di
derivati con reagenti otticamente attivi, per formare una coppia di
diastereoisomeri separabili su una colonna achirale; l’altra si basa sull’uso di un
liquido chirale come fase stazionaria. A questo scopo sono state studiate molte
fasi chirali a base di amminoacidi; in questo caso il frammento molecolare più
importante per la ricognizione molecolare stereoselettiva è rappresentato dal
gruppo –CONHCHRCONH- che permette di raggiungere elevati coefficienti di
enantiorisoluzione (α).
Recentemente alcune ciclodestrine variamente funzionalizzate sono state utilizzate
con successo in GC capillare per la risoluzione diretta di miscele racemiche; in
particolare l’α-ciclodestrina terpenilata ha fornito elevati valori di
enantioselettività per gli zuccheri sotto forma di trifluoroacetil-derivati.

Scelta della Fase stazionaria


I criteri per la scelta del tipo di fase stazionaria sono sostanzialmente quattro:
1. I gas permanenti e gli idrocarburi bassobollenti (C1-C10) necessitano di
fasi stazionarie solide.
2. Le miscele di composti con polarità simile, ma con punti di ebollizione
abbastanza diversi, non richiedono un’elevata selettività della fase stazionaria, per
cui solitamente se ne impiega una apolare, con la quale i composti saranno eluiti
in funzione della loro volatilità.
3. In presenza di composti a polarità molto diverse, ma con punti di
ebollizione molto simili, si possono usare fasi stazionarie sia polari che apolari.
Nel caso di colonne polari, i componenti più polari saranno trattenuti
maggiormente, per il più alto grado di affinità con la fase stazionaria. Al contrario
nel caso di colonne apolari le sostanze polari trattenute meno saranno rese più
volatili dalla repulsione con la fase stazionaria.

40
4. Le miscele contenenti sia sostanze non polari sia sostanze polarizzabili
(come per esempio n-esano e benzene) possono essere separate mediante fasi
molto polari, capaci di polarizzare i composti aromatici stabilendo legami di tipo
dipolo-dipolo indotto, trattenendo invece di meno i composti apolari. Solitamente
le fasi stazionarie prevedono delle catene funzionalizzate con gruppi metilici,
fenolici, -ciano, polisilossani, silareni o carbonati incorporati in uno scheletro di
polisilossani.
Per poter essere impiegate con colonne capillari, le fasi stazionarie polimeriche
devono soddisfare ai seguenti requisiti:
ƒ stabilità termica e fisica
ƒ un determinato grado di ancoraggio (crosslinking)
ƒ capacità di partizione
ƒ inerzia chimica
ƒ selettività di fase
ƒ riproducibilità nella sintesi del polimero costituente

41
CAPITOLO 7

RIVELATORI

Tranne poche eccezioni, la maggior parte dei rivelatori usati in GC sono stati
specificatamente designati per questa tecnica. Le principali eccezioni riguardano il
rivelatore a conducibilità termica (TCD), già in uso come analizzatore di gas al
tempo in cui la GC cominciò a svilupparsi e lo spettrometro di massa (o rivelatore
selettivo di massa, MSD), modificato in modo da supportare le elevate velocità di
scansione necessarie in GC. Altre tecniche spettroscopiche, come l’IR e
l’emissione atomica al plasma, sono state usate in seguito impiegate per
monitorare l’effluente gas cromatografico.
In totale, più di 60 rivelatori sono stati utilizzati in GC. Molti dei rivelatori
specificatamente designati si basano sulla formazione di ioni, realizzata con mezzi
diversi e, di questi, il rivelatore a ionizzazione di fiamma è diventato il più
popolare.
In questa sezione saranno discussi il FID, il TCD e il rivelatore a cattura di
elettroni (ECD), dal momento che rappresentano i rivelatori di uso più comune.
Anche altri rivelatori saranno discussi, seppure più brevemente; la combinazione
di GC e spettrometro di massa (MS) è d’altra parte tanto importante da meritare
una trattazione separata (capitolo 10).
Dapprima, tuttavia, è utile fornire una classificazione dei diversi tipi di rivelatori e
delle proprietà comuni, in modo da offrire un quadro d’insieme.

Classificazione dei rivelatori


Dei cinque sistemi di classificazione sotto elencati, in questa sezione saranno
discussi i tre più importanti; gli altri due sono piuttosto ovvi.

Classificazione dei rivelatori GC


1. Concentrazione vs. Velocità di flusso di massa
TCD ECD FID
2. Selettivo vs. Universale
ECD (FID) TCD
3. Distruttivo vs. Non distruttivo
(FID) TCD ECD
4. Grandi quantità vs. Proprietà specifiche
TCD ECD FID

42
5. Analogico vs. Digitale
FID TCD ECD

Concentrazione vs. velocità di flusso di massa


Questo sistema di classificazione distingue tra quei rivelatori che misurano la
concentrazione di analita nel gas di trasporto e quelli che misurano invece la
quantità assoluta, indipendentemente dal volume di gas di trasporto. Si noti che
nel primo esempio dell’elenco sopra riportato, il TCD e l’ECD sono del tipo a
concentrazione mentre il FID è del tipo a velocità di flusso di massa. Una
conseguenza di questa differenza è che le aree dei picchi e le altezze dei picchi
sono influenzate dalle variazioni nella velocità di flusso del gas di trasporto.
Per capire la ragione di questa differenza nel tipo di rivelatore, si consideri
l’effetto su un segnale TCD da un totale arresto del flusso. Nella cella del
rivelatore rimane una data concentrazione di analita e la sua conducibilità termica
continua ad essere misurata ad un livello costante. Al contrario, per un rivelatore a
velocità di flusso di massa come è il FID, per il quale il segnale ha origine quando
il campione viene bruciato, il completo arresto del flusso farà cessare l’arrivo di
analita al rivelatore ed il segnale scenderà a zero.
Questa differenza di prestazione ha altre due conseguenze. Prima di tutto, è
difficile confrontare le sensibilità di questi due tipi di rivelatori poiché i loro
segnali hanno unità diverse; è meglio piuttosto confrontare le quantità minime
rivelabili, poiché queste sono espresse in unità di massa in entrambi i casi. In
secondo luogo, un paragone valido tra i vari tipi di rivelatori richiede che il
parametro velocità di flusso e la concentrazione siano specificate.
Tutti i rivelatori offrono le migliori prestazioni se caratterizzati da volumi ridotti,
in tal modo l’allargamento di banda è infatti minimizzato. Il volume ha particolare
importanza nel caso dei rivelatori a concentrazione, per i quali è definito un
volume di cella entro in cui avviene la rivelazione. Se, per ipotesi, il volume di
cella di un rivelatore a concentrazione fosse così grande da poter contenere in una
sola volta l’intera quantità di campione, il picco cromatografico risultante avrebbe
una brutta forma, sarebbe slargato e distorto.
E’ possibile stimare i requisiti del volume di cella ideale, considerato che
l’ampiezza di un picco può essere espressa in unità di volume (ampiezza alla base,
4σ, mentre l’asse x è in unità di mL). Un picco stretto generato da una colonna
capillare può avere un’ampiezza limitata a 1 secondo, che corrisponde ad un
volume di 0,017 mL (17 µL) ad una velocità di flusso di 1 mL/min. Se il volume
del rivelatore fosse uguale o maggiore, l’intero picco potrebbe essere contenuto al
suo interno in una sola volta, ed il picco sarebbe molto slargato. Un rivelatore
ideale in questo caso dovrebbe avere un volume significativamente più piccolo,
diciamo di 2 µL. Se questo non è disponibile, si può ovviare al problema

43
aggiungendo un gas di supporto (make-up gas) all’effluente della colonna, in
modo da far passare il campione più velocemente attraverso la cella del rivelatore.
Questo stratagemma si rivela utile per i rivelatori del tipo a velocità di flusso di
massa, molto meno per quelli a concentrazione. Nell’ultimo caso infatti il gas di
make-up diluisce il campione, diminuendo la concentrazione come pure il segnale
risultante – in alcuni casi questa non rappresenta una soluzione soddisfacente. Di
conseguenza, è necessario che i rivelatori a concentrazione abbiano volumi molto
ridotti, per poter essere utilizzati con successo in GC capillare. L’uso del gas di
make-up comporta infatti il rischio di diminuire il segnale.

Selettivo vs. universale


Questa caratteristica dei rivelatori fa riferimento al numero o percentuale di analiti
che possono essere rivelati da un dato sistema. Un rivelatore universale
teoricamente rivela tutti i soluti, mentre uno di tipo selettivo è sensibile solo a
determinati tipi o classi di composti. Esistono diversi gradi di selettività; per
esempio il FID non è molto selettivo e rivela tutti i composti organici; l’ECD è
invece altamente selettivo e rivela solo le specie molto elettronegative, come i
pesticidi alogenati.
Entrambi i tipi di rivelatori offrono dei vantaggi. L’uso dei rivelatori universali si
rivela particolarmente utile nello screening qualitativo di nuovi campioni, la cui
composizione è sconosciuta. In questo caso si vorrà infatti avere la certezza che
tutte le specie eluite vengano rivelate. D’altra parte, un rivelatore selettivo che ha
una sensibilità pronunciata verso una ristretta classe di composti può consentire di
effettuarne un’analisi in traccia, permettendone la determinazione anche in
presenza di altri composti a concentrazione maggiore. Una rivelazione selettiva
può inoltre rendere più semplice un cromatogramma complesso, rivelando
soltanto pochi tra i composti presenti ed ignorando selettivamente tutti gli altri.
Un esempio è rappresentato dal rivelatore a fiamma fotometrico (FPD), che
consente di rivelare selettivamente i composti contenenti zolfo all’interno della
miriade di picchi di idrocarburi normalmente presenti in un campione di gasolio o
benzina.

Distruttivo vs. non distruttivo


L’uso di rivelatori non distruttivi diventa necessario quando gli analiti, dopo
essere stati separati, devono essere sottoposti ad ulteriori analisi (per esempio nel
caso in cui per l’identificazione sia richiesta una strumentazione ausiliaria al GC).
Se invece si fosse costretti (o si desiderasse per altre ragioni) ad utilizzare
rivelatori distruttivi in una situazione di questo tipo, una maniera per superare tale
difficoltà potrebbe consistere nello “splittare” (dividere) il flusso di effluente della
colonna cromatografica, inviandone una parte al rivelatore e mettendo da parte il
resto per l’analisi.

44
Caratteristiche dei rivelatori
La principale caratteristica di un rivelatore è ovviamente il segnale che esso
produce; altre due caratteristiche importanti sono il rumore e la costante di tempo.
Le ultime due saranno discusse per prime, in modo da fornire una base teorica per
la successiva discussione sul segnale.

Rumore
Il rumore è il segnale prodotto dal rivelatore in assenza di campione. E’ anche
chiamato “background” e si evidenzia dalla linea di base. In genere viene espresso
nelle stesse unità del normale segnale del rivelatore. In condizioni ideali, la linea
di base non dovrebbe mostrare rumore; in pratica si osservano delle fluttuazioni
casuali originate dalle componenti elettroniche che costituiscono gli amplificatori,
da segnale spurio derivante dall’ambiente, dalla presenza di contaminanti o
perdite nel sistema. Un design accurato ed efficiente del circuito può consentire di
abbattere parte del rumore, mentre un’appropriata schermatura e messa a terra del
rivelatore possono isolarlo dall’ambiente. Un adeguato pre-trattamento del
campione e l’ottenimento di picchi cromatografici il più possibile puri possono
invece contribuire ad eliminare parte del rumore derivante dalla contaminazione.
Il rumore a lungo termine (“long-term noise”) che si protrae per un periodo di
circa 30 minuti, viene chiamato drift. Le cause del rumore andrebbero
possibilmente trovate ed eliminate, o quantomeno minimizzate, in quanto
influenzano negativamente il segnale minimo rivelabile.
Un parametro molto utile nel descrivere le prestazioni di un rivelatore è il rapporto
segnale/rumore (S/N); esso fornisce più informazioni riguardo al limite inferiore
di rivelazione rispetto al rumore tal quale. Comunemente, il segnale minimo
attribuibile ad un analita è considerato quello il cui rapporto segnale/rumore o S/N
sia almeno pari a 2.

Segnale
La risposta del rivelatore o segnale è di particolare interesse nella rivelazione di
un analita. L’ampiezza di questo segnale (altezza o area del picco) è proporzionale
alla quantità di analita ed è alla base dell’analisi quantitativa. Le sue
caratteristiche sono molto importanti poiché l’analisi quantitativa è
un’applicazione di fondamentale rilievo in GC. Le specifiche da definire riguardo
al segnale sono sensibilità, minimo di rivelabilità, intervallo lineare ed intervallo
dinamico.

Sensibilità
La sensibilità, S, corrisponde alla risposta del rivelatore per unità di
concentrazione o per unità di massa di analita nel gas carrier. La sensibilità si
esprime in unità basate sulla misura delle aree dei picchi, che differiscono per i

45
due principali tipi di rivelatori (quelli a concentrazione e quelli a velocità di flusso
di massa).
Per i rivelatori del tipo a concentrazione, la sensibilità è calcolata per unità di
concentrazione di analita nella fase mobile gassosa,

AFC E
S= = (1)
W C
dove A è l’area integrata del picco (in unità come mV/min), E è l’altezza del picco
(in mV), C è la concentrazione di analita nel gas carrier (in mg/mL), W è la massa
di analita presente (in mg) e FC è la velocità di flusso del gas carrier (corretta) in
mL/min. Le dimensioni risultanti per la sensibilità di questo tipo di rivelatore sono
mV mL/mg.
Per i rivelatori del secondo tipo, la sensibilità è calcolata per unità di massa
dell’analita nella fase mobile gassosa, come riportato sotto:

A E
S= = (2)
W M

dove M è la velocità di flusso di massa dell’analita che entra nel rivelatore (in
mg/sec), W è la massa dell’analita (in mg), A l’area del picco in ampere-sec e E
l’altezza del picco in ampere.
In questo caso, le dimensioni per la sensibilità sono ampere-sec/mg o
coulomb/mg. Come notato prima, le differenze nelle unità di sensibilità tra i due
tipi di rivelatori rendono difficile confrontare le rispettive sensibilità.

Rivelabilità minima
Rappresenta il limite più basso di analita che può essere rivelato; viene indicata in
svariati modi tra cui: quantità minima rivelabile (MDQ), limite di rivelazione
(LOD) e rivelabilità. Lo IUPAC ha definito la rivelabilità minima, D, come:

2N
D= (3)
S

dove N è il livello di rumore e S è la sensibilità appena definita.


Si noti che il numeratore è moltiplicato per 2 perché, sulla base della definizione
discussa prima, un segnale rivelabile dovrebbe essere almeno doppio rispetto al
livello del rumore.
La rivelabilità si esprime in mg/mL per un rivelatore a concentrazione, in mg/sec
per il tipo a velocità di flusso di massa.
Moltiplicando la rivelabilità minima per l’ampiezza del picco dell’analita misurato
e usando le unità appropriate, il valore risultante è espresso in unità di mg e

46
rappresenta la massa minima che può essere rivelata cromatograficamente,
tenendo conto della diluizione del campione che risulta dal processo. Questo
valore, talvolta chiamato MDQ, è un’utile misura di confronto dei limiti di
rivelabilità di rivelatori di tipo diverso.
Un termine correlato è il limite di quantificazione (LOQ), superiore al LOD. La
maggior parte delle linee guida (es., quelle dell’American Chemical Society,
ACS, sull’analisi ambientale) specificano che il LOD dovrebbe essere pari a 3
volte il S/N e il LOQ pari a 10 volte il S/N. Le definizioni della Farmacopea
statunitense (USP) sono simili e stabiliscono anche che il LOQ non dovrebbe
essere inferiore a 2 volte il LOD. Altre agenzie possono avere linee guida diverse,
ma tutte derivano dalla necessità di specificare i limiti di rivelabilità e
quantificazione e la relazione che tra essi intercorre, essendo diversi l’uno
dall’altro.

Intervallo di linearità
Riportando in grafico la risposta del rivelatore rispetto alla concentrazione
dell’analita rivelato, entro un determinato intervallo (range) di concentrazioni si
ottiene una linea retta. Superato un certo valore, ad alte concentrazioni, si registra
un appiattimento della risposta e l’andamento non è più lineare. Per poter misurare
l’intervallo di linearità, diventa necessario stabilire il limite superiore di
concentrazione. Poiché la linearità viene spesso rappresentata graficamente in
scala logaritmica, le deviazioni dalla linearità sono minimizzate e la curva non è
adatta ad evidenziare eventuali deviazioni. Un grafico migliore è quello della
sensibilità in funzione della concentrazione, dove la concentrazione dell’analita si
può esprimere in forma logaritmica, per ottenere un ampio intervallo mantenendo
nel contempo la linearità per l’asse y (sensibilità).

RIVELATORE A IONIZZAZIONE DI FIAMMA (FID)


Il FID è un rivelatore a ionizzazione specificatamente designato per la GC.
L’effluente della colonna è bruciato in una piccola fiamma aria-idrogeno e durante
questo processo si producono degli ioni. Questi ioni danno poi origine ad una
piccola corrente che genera il segnale. In assenza di campione, la ionizzazione
sarà ridotta ad una piccola quantità di corrente derivante da impurezze nei
contenitori di idrogeno e aria. Il FID è un rivelatore sensibile ad una proprietà
specifica ed ha una sensibilità caratteristicamente elevata.
Uno schema di FID è mostrato in figura 18.

47
Figura 18. Schema di un rivelatore a ionizzazione di fiamma (FID).

L’effluente della colonna è miscelato con idrogeno (combustibile) e condotto


verso un piccolo puntale bruciatore circondato da un alto flusso di aria
(comburente). Un sistema apposito provvede all’accensione della fiamma.
L’elettrodo collettore ha una differenza di circa +300 V rispetto al puntale della
fiamma e la corrente raccolta viene amplificata da un circuito ad alta resistenza.
Nel processo di combustione si produce acqua, quindi il rivelatore deve essere
riscaldato almeno a 125 °C per prevenire la condensazione dell’acqua e di
campioni altobollenti; la maggior parte dei FID opera infatti a 250 °C o più.
Il FID rivela tutti i composti organici che sono bruciati nella fiamma aria-
idrogeno, dando un segnale all’incirca proporzionale al contenuto di carbonio. La
ragione di questo fattore di risposta costante è la conversione di tutti gli atomi di
carbonio di un soluto organico a metano, nel processo di combustione del FID.
Tutti gli idrocarburi dovrebbero quindi mostrare la stessa risposta, proporzionale
al numero di atomi di carbonio. Tuttavia quando sono presenti eteroatomi come
ossigeno o azoto, il fattore decresce; i valori di risposta relativa sono spesso
tabulati come numeri di carbonio effettivi, ECN; per esempio il metano ha un
valore di 1,0, l’etano di 2,0, ecc. Chiaramente la conoscenza dei fattori di risposta
è necessaria per una corretta analisi quantitativa. Per operare in modo efficiente, i
gas (idrogeno e aria) devono essere puri e privi di materiale organico che
aumenterebbe la ionizzazione di fondo. Le loro velocità di flusso devono essere
ottimizzate per il particolare schema del rivelatore (e, in misura minore, per il
particolare analita). A seguire un riepilogo delle caratteristiche del FID, i cui

48
vantaggi sono: buona sensibilità, ampio intervallo di linearità, semplicità,
robustezza e adattabilità a tutte le dimensioni delle colonne.

Caratteristiche del rivelatore a ionizzazione di fiamma (FID)


1. MDQ – 10-11 g (~50 ppb)
2. Risposta – solo composti organici, né gas permanenti né acqua
3. Linearità – 106 – eccellente
4. Stabilità – eccellente, poca influenza di variazioni di flusso o temperatura
5. Limite di temperatura – 400 °C
6. Gas carrier – azoto o elio

RIVELATORE A CONDUCIBILITA’ TERMICA (TCD)


Inizialmente era presente in quasi tutti i primi strumenti per GC; il suo uso è
ancora piuttosto diffuso, specialmente per le colonne impaccate e per particolari
analiti come H2O, CO, CO2 e H2. Il TCD è un rivelatore differenziale che misura
la conducibilità termica dell’analita nel gas carrier, rispetto alla conducibilità
termica del gas carrier puro. In un rivelatore convenzionale sono richieste almeno
due cavità nella cella, sebbene sia più comune la cella con quattro cavità. Le
cavità sono scavate in un blocco di metallo (in genere acciaio inossidabile) e
ciascuna contiene una resistenza elettrica o filamento (i cosiddetti “hot-wires”,
filamenti caldi). I filamenti sono montati su dei supporti, come mostrato in figura
19, o tenuti insieme concentricamente nella cavità del cilindro, un assetto che
consente di minimizzare il volume della cella. Sono fatti di tungsteno o di una
lega tungsteno-renio (i cosiddetti “filamenti WX”) ad alta resistenza.

49
Figura 19. Schema di un rivelatore a termoconducibilità (TCD).

I filamenti sono incorporati in un circuito costituito dal Ponte di Wheatstone, il


metodo classico di misura della resistenza. Una corrente DC è fatta passare
attraverso i filamenti per riscaldarli al di sopra della temperatura della cella,
creando un gradiente di temperatura. Con il gas carrier puro che passa in tutti i
quattro elementi, il circuito a ponte è bilanciato con un controllo a zero. Quando
un analita eluisce, la conducibilità termica della miscela di gas nelle due cavità
dove si trova il campione diminuisce, mentre la temperatura dei filamenti aumenta
leggermente, causando un notevole aumento della resistenza dei filamenti ed il
ponte diventa sbilanciato – cioè si origina un voltaggio attraverso gli angoli
opposti del ponte. Questo voltaggio è diviso da un divisore di voltaggio (il
cosiddetto attenuatore) e poi tutto o parte di esso è inviato ad un registratore, un
integratore o un altro sistema di elaborazione dei dati. Dopo che l’analita è eluito
completamente, la conducibilità termica nelle cavità contenenti il campione
ritorna al suo valore originario ed il ponte ritorna bilanciato.
Maggiore è la corrente di riscaldamento applicata ai filamenti, maggiore sarà il
differenziale di temperatura e più alta la sensibilità. Tuttavia, alte temperature dei
filamenti risultano anche in una minore durata dei filamenti stessi, poiché piccole
impurezze di ossigeno ossidano velocemente i filamenti di tungsteno, arrivando
infine a bruciarli. Da qui la necessità che il sistema GC sia privo di perdite e il gas
carrier utilizzato privo di ossigeno.
Il Ponte di Wheatstone può essere impiegato a voltaggio costante o a corrente
costante; si può impiegare un circuito più elaborato per mantenere costante la

50
temperatura dei filamenti. I controlli del rivelatore possono quindi specificare le
impostazioni di corrente, voltaggio, temperatura o differenza di temperatura (∆T),
a seconda del particolare tipo di controllo. Il controllo della temperatura dei
filamenti per mantenerla costante provvede al bilanciamento del ponte,
diversamente dal più semplice circuito che misura direttamente lo sbilanciamento
del ponte. Il bilanciamento fornisce un intervallo di linearità più ampio, maggiore
amplificazione, limiti di rivelazione più bassi e meno rumore.
Come già spiegato, un volume piccolo della cella è preferibile per la
riproducibilità della forma dei picchi e per una maggiore sensibilità. Tipicamente,
le celle TCD hanno volumi intorno a 140 µL, ottimi per colonne impaccate o
capillari wide-bore. Il loro uso con colonne capillari narrow-bore non è
routinario, ma sono reperibili celle con volumi fino a 20 µL ed in alcuni casi è
possibile ottenere dei buoni cromatogrammi. Quando si usa il TCD con colonne
capillari è in genere richiesta l’aggiunta di gas di make-up. Una cella
estremamente piccola, dal volume di 1 nL, è stata realizzata per un sistema micro-
GC, su un chip al silicio. Un altro sistema utilizza una singola cella TCD di
volume ridotto (5 µL); i due flussi di gas (campione e riferimento) vengono fatti
passare alternativamente attraverso la cella ad una frequenza di 10 volte al
secondo.
Il gas di trasporto usato con il TCD deve avere una conducibilità termica (TC)
molto diversa da quella del campione da analizzare; i gas più frequentemente usati
sono di conseguenza elio e idrogeno, che hanno i più alti valori di TC. Tutti gli
altri gas, come pure i liquidi e i solidi, hanno valori di TC molto più piccoli.
Usando azoto come gas carrier ci si può aspettare di ottenere picchi di forma
irregolare, spesso a W a causa di una parziale inversione. Lo stesso accade se si
cerca di analizzare idrogeno usando l’elio come gas carrier. Sebbene la risposta
del TCD non sia direttamente correlabile ai valori TC, è ovvio che per l’analisi
quantitativa sono necessari dei fattori di calibrazione, similmente a quanto visto
per il FID.
A seguire un riepilogo delle caratteristiche del TCD, le cui principali proprietà
sono: robustezza, universalità, moderata sensibilità.

Caratteristiche del rivelatore a conducibilità termica (TCD)


1. MDQ – 10-9 g (~10 ppm)
2. Risposta – tutti i composti
3. Linearità – 104
4. Stabilità – buona
5. Limite di temperatura – 400 °C
6. Gas carrier – elio

51
RIVELATORE A CATTURA DI ELETTRONI (ECD)
L’invenzione dell’ECD è attribuita a Lovelock, sulla base di una sua
pubblicazione risalente al 1961. Si tratta di un rivelatore selettivo che fornisce una
sensibilità molto alta per quei composti che “catturano gli elettroni”. Questi
composti includono materiali alogenati come i pesticidi e, di conseguenza, questo
è stato uno dei suoi usi primari. E’ un rivelatore a ionizzazione, ma a differenza
della maggior parte dei rivelatori di questa classe, i campioni sono rivelati a causa
di una diminuzione del livello di ionizzazione. Quando non sono presenti analiti,
il 63Ni radioattivo emette particelle beta come mostrato nell’equazione (5):
Ni → β − (5)
Queste particelle cariche negativamente collidono con il gas carrier idrogeno e
producono altri elettroni (equazione 6):
β − + N 2 → 2e − + N 2+ (6)
Gli elettroni formati in questo processo combinato risultano in una notevole
corrente (circa 10-8 a) quando vengono raccolti da un elettrodo positivo. Quando
un analita elettronegativo viene eluito dalla colonna ed entra nel rivelatore, esso
cattura una parte degli elettroni liberi e la corrente è diminuita dando un picco
negativo:
A + e − → A− (7)
Gli ioni negativi formati hanno mobilità inferiore a quella degli elettroni liberi e
non vengono raccolti dall’anodo.
La relazione matematica per questo processo è simile alla legge di Beers usata per
descrivere il processo di assorbimento di una radiazione elettromagnetica. Quindi,
il grado di assorbimento o cattura è proporzionale alla concentrazione di analita. Il
gas carrier usato per l’ECD può essere azoto puro (come indicato nel meccanismo
illustrato) o una miscela del 5% di metano in argo. Quando si usa questo rivelatore
con colonne capillari è in genere necessario un contributo di gas di make-up; in tal
caso è conveniente usare il gas più economico, cioè l’azoto, come make-up e
l’elio come gas carrier.
Lo schema tipico di un ECD è mostrato in figura 20.

52
Figura 20. Schema di un rivelatore a cattura di elettroni (ECD).
63
Ni è stato indicato come emettitore di particelle beta, ma è stato usato anche il
trizio; generalmente si preferisce il nichel perché può essere usato a temperature
più alte (fino a 400 °C) ed ha una minore attività (oltre ad essere più sicuro).
Sembra inoltre che applicando un voltaggio pulsato anziché continuo si raggiunge
una migliore prestazione. Un impulso a onda quadra di circa -50 V è applicato ad
una frequenza che mantiene una corrente costante, indipendentemente dalla
presenza o meno dell’analita nella cella; di conseguenza la frequenza d’impulso è
maggiore quando l’analita è presente. L’ECD pulsato ha un MDQ più basso e
quindi un intervallo di linearità più ampio.
Una limitazione dell’ECD è la necessità di usare una sorgente radioattiva che può
rendere necessaria un’autorizzazione speciale o quantomeno un periodico test
radiologico. Questo rivelatore è reperibile in commercio e può anche essere usato
in condizioni diverse, come rivelatore a ionizzazione di elio.
L’ECD è uno dei rivelatori più frequentemente contaminati ed è influenzato
negativamente da ossigeno e acqua. Sono necessari gas ultra-puri e secchi, privi di
perdite e campioni puliti. La contaminazione è in genere evidente da una linea di
base disturbata o da piccole inflessioni negative prima e dopo ciascun picco. A
volte si può effettuare un lavaggio operando con idrogeno come gas carrier ad alte
temperature per bruciare le impurezze, ma spesso si rende necessaria una

53
completa revisione del sistema. A seguire un riepilogo delle caratteristiche dell’
ECD, un rivelatore sensibile e selettivo per i composti alogenati, ma che può
essere facilmente contaminato e più frequentemente causa dei problemi.

Sommario delle caratteristiche dell’ECD


1. MDQ – da 10-9 a 10-12 g
2. Risposta – molto selettivo
3. Linearità – da 103 a 104
4. Stabilità – sufficiente

Rivelatore fotometrico a fiamma (FPD)


La fotometria a fiamma è stata adattata all’uso in GC con una fiamma simile a
quella del FID, nel 1966. L’applicazione all’analisi di composti organici è utile
soprattutto per composti contenenti zolfo (a 394 nm) e fosforo (a 526 nm), come
quelli che si ritrovano nei residui di pesticidi e nei contaminanti ambientali.
Lo schema di un rivelatore a fiamma fotometrica è riportato in figura 21.

Figura 21. Schema di un rivelatore a fiamma fotometrica (FPD).


RIVELATORE AD AZOTO-FOSFORO (NPD)
Quando è stato inventato (da Karmen e Giuffrida nel 1964) questo rivelatore era
conosciuto come il rivelatore a ionizzazione alcalina di fiamma (AFID) perché
consisteva in un FID al quale era aggiunto un letto di un sale di un metallo
alcalino. Man mano che il rivelatore ha continuato ad evolversi anche il suo nome

54
è cambiato nel tempo, da rivelatore a ionizzazione termoionica (TID), rivelatore a
fiamma termoionica (FTD), rivelatore termoionico specifico (TSD), ecc.
Sostanzialmente, Karmen e altri hanno osservato che il FID mostra una sensibilità
maggiore quando nelle vicinanze della fiamma è presente un sale di un metallo
alcalino. Nell’attuale configurazione del rivelatore, un letto di rubidio o cesio è
riscaldato elettricamente nella zona in cui avviene la ionizzazione di fiamma.
Sebbene il meccanismo non sia ben compreso, il rivelatore mostra una sensibilità
più pronunciata per le sostanze contenenti fosforo, azoto ed alcuni alogeni.

Rivelatore a bilancio di densità di gas (GADE)


Questo rivelatore, inventato da Martin e James nel 1956, non ha avuto larga
diffusione ma è ancora reperibile in commercio e possiede alcune caratteristiche
uniche. Può essere usato per l’analisi quantitativa senza calibrazione, a condizione
che le densità degli analiti siano conosciute, poiché si basa proprio su questa
proprietà. Può anche essere usato per determinare i pesi molecolari degli analiti,
se le analisi sono effettuate con due gas carrier diversi.

Rivelatore a fotoionizzazione (PID)


Anche questo rivelatore a ionizzazione ha subito diverse modifiche nella
configurazione, fin dal 1960. Nel suo schema attuale, una lampada UV (per
esempio, 10,2 eV) emette fotoni con energia sufficientemente alta da ionizzare
direttamente molti composti organici. Gli ioni risultanti vengono convogliati ed
amplificati per formare il segnale.
Un rivelatore molto simile utilizza una scintilla per generare fotoni ad alta energia
che provocano la ionizzazione del campione. Questo è chiamato rivelatore a
scarto di ionizzazione (DID) e trova applicazione nell’analisi di gas permanenti
presenti a concentrazioni più basse di quelle rivelabili con un TCD.

Rivelatore selettivo di massa (MSD)


Gli spettrometri di massa usati come rivelatori in GC devono avere caratteristiche
operative compatibili e devono essere adeguatamente accoppiati al gas
cromatografo. Alcuni di essi sono noti come rivelatori di massa selettivi (MSD),
ma la tecnica accoppiata è più spesso chiamata GC/MS, indicando
l’accoppiamento di due strumenti analitici, indipendenti per utilizzo e finalità
analitiche. Al di là del nome, l’uso di uno spettrometro di massa accoppiato ad un
gas cromatografo fornisce una combinazione molto potente, utile e diffusa; la
GC/MS sarà oggetto di trattazione separata.

55
CAPITOLO 8

ANALISI QUALITATIVA E QUANTITATIVA

La gas cromatografia, come già affermato, è una tecnica che si presta ad


applicazioni analitiche sia qualitativi sia quantitative.

ANALISI QUALITATIVA
Il parametro cromatografico usato per l’analisi qualitativa è il volume di
ritenzione (o qualche altro parametro strettamente correlato). Tuttavia, poiché i
parametri di ritenzione da soli non consentono di confermare l’identità dei picchi,
è uso comune accoppiare uno spettrometro di massa (MS) al GC per l’analisi
qualitativa. La tecnica GC-MS è ampiamente utilizzata e sarà discussa in dettaglio
successivamente.

Parametri di ritenzione
Il tempo di ritenzione di un dato soluto può essere usato per la sua identificazione
posto che le seguenti variabili della colonna siano mantenute costanti: lunghezza,
fase stazionaria e suo spessore (carico di liquido), temperatura e pressione
(velocità di flusso del gas di trasporto). Come esempio, si consideri un campione
incognito di cui si ottiene il cromatogramma; se si vuole sapere quali dei
componenti sono n-alcoli, si può analizzare una serie di n-alcoli standard
ottenendo il corrispondente cromatogramma. I picchi i cui tempi di ritenzione
corrispondono a quelli degli standard possono essere identificati n-alcoli.
Ovviamente questo sistema funzionerà soltanto se i componenti del campione
incognito sono alcoli.
La procedura non sarà efficace se il numero di possibili composti è elevato – i
volumi di ritenzione non sono così caratteristici. Poiché i composti organici di uso
comune sono più di 30000, la gas cromatografia non può essere impiegata da sola
per identificare un singolo composto da un insieme così grande. I tempi di
ritenzione sono caratteristici di un sistema GC, ma non sono unici e quindi non
possono essere usati per la conferma qualitativa.
D’altra parte, i volumi di ritenzione relativi sono più riproducibili dei volumi di
ritenzione individuali, per cui i dati qualitativi andrebbero riportati su una base
relativa. L’indice di ritenzione di Kovats è un metodo affidabile per riportare i dati
di ritenzione ed è un buon sistema da usare a scopo di identificazione o
classificazione. Di seguito sarà illustrata la teoria degli indici di ritenzione, che
riveste una notevole importanza in un’indagine GC a fini qualitativi .

56
Come già detto, in gas cromatografia le informazioni quantitative sono legate
all’ampiezza dei segnali (picchi cromatografici) registrati per ciascun
componente. Le informazioni qualitative sono legate al comportamento
cromatografico di una determinata sostanza in un sistema cromatografico e,
quindi, ai parametri di ritenzione cromatografica. Tra i parametri di ritenzione
cromatografica si riconoscono, in ordine di affidabilità crescente:

- Tempo di ritenzione (tr): tempo intercorrente tra l’introduzione del


campione e il massimo della risposta per un dato componente. Tale valore dipende
da tutte le variabili sperimentali connesse al processo cromatografico.

- Tempo di ritenzione corretto (t’r = tR-tM): valore ricavato sottraendo dal


tempo di ritenzione (tR) il tempo morto (tM). Il tempo morto è il tempo di
ritenzione di un componente non trattenuto nella fase stazionaria che viaggia,
quindi, alla stessa velocità del gas di trasporto. Il t’r dipende da tutte le variabili
sperimentali, ad eccezione della velocità lineare del gas di trasporto.

- Tempo di ritenzione relativo (t’R(1) / t’R(S)): valore del rapporto tra il


tempo di ritenzione corretto di un composto e il tempo di ritenzione corretto di
uno standard cui si attribuisce tempo di ritenzione relativo uguale a 1. I tempi di
ritenzione relativi dipendono solo dal tipo di fase stazionaria utilizzata e dalla
temperatura alla quale si effettua l’analisi.

E’ importante ricordare che ciascun composto sarà caratterizzato da un


comportamento di ritenzione differente su una specifica colonna, espresso dal
tempo di ritenzione assoluto, dal fattore di ritenzione e dal tempo di ritenzione
relativo. Dal momento che il tempo di ritenzione assoluto varia non solo al variare
di tutti i parametri cromatografici (velocità lineare del gas, programma di
temperatura, rapporto di fase, lunghezza della colonna), ma anche tra analisi
successive condotte sulla stessa colonna, questa informazione non è molto valida
nell’analisi qualitativa. Il fattore di ritenzione è più utile; esso tiene conto di
alcune variabili come la velocità del gas e la lunghezza della colonna, includendo
il tempo di ritenzione di un composto non ritenuto. Il tempo di ritenzione relativo
considera anche variazioni nel rapporto di fase e non varia per colonne diverse nel
caso in cui il picco considerato e la temperatura della colonna siano gli stessi.

L’approccio dell’Indice di Ritenzione


Nello sviluppo della gas cromatografia in programma di temperatura si possono
individuare due diverse linee di indagine. La principale riguarda lo studio
dell’indice di ritenzione in programma di temperatura (IT) ed è definita anche
come “approccio dell’indice di ritenzione”. La seconda, definita “approccio
termodinamico”, riguarda lo studio dei dati di termodinamica di base al fine di

57
predire la ritenzione in diverse condizioni cromatografiche. Lo scopo di tali studi
è lo sviluppo di procedure di calcolo necessarie all’impiego comune di importanti
informazioni termodinamiche. I dati riguardanti il flusso, le dimensioni della
colonna, i rapporti di fase, i programmi di temperatura vengono applicati per l’uso
individuale. Entrambi gli approcci hanno avuto uno sviluppo parallelo nel tempo
ed i loro concetti non sono necessariamente opposti; l’approccio degli indici di
ritenzione tuttavia reca maggiori problemi, per due motivi fondamentali.
IT non è riproducibile se non in condizioni cromatografiche altamente
standardizzate; ciò è irrealizzabile sul piano pratico ed analitico poiché le
temperature di eluizione dipendono dal particolare caso (analita) e dalla necessità
di ottimizzare il processo di separazione.
Diversamente da quanto si verifica operando in GC in isoterma, nella GC in
programma di temperatura l’informazione termodinamica non può essere
determinata dall’ IT. Il calcolo degli indici di ritenzione dai dati termodinamici è
invece possibile sia in GC isoterma che in GC in programma di temperatura.
Dal momento che il tempo di ritenzione di un soluto varia secondo la temperatura
e l’entità del flusso in colonna, si deduce che è impossibile riprodurlo.
La reale mancanza di un sistema di riferimento condusse Kovats a proporre un
sistema per calcolare l’indice di ritenzione basato su serie omologhe di idrocarburi
usati come picchi di riferimento. Egli ideò un calcolo applicandolo all’analisi GC
in condizioni isoterme, dove il logaritmo del tempo di ritenzione corretto (t’r) è
proporzionale al numero di carboni omologhi.
Il sistema basato sugli indici di ritenzione si basa su due concetti fondamentali:
- ciascun analita è indicato in base alla posizione tra due n-idrocarburi che
includono il suo tempo di ritenzione, nel senso che i tempi di ritenzione di tutti gli
analiti sono racchiusi nell’intervallo di ritenzione dei picchi di riferimento
- il calcolo è basato su un’interpolazione lineare dei numeri di carboni dei due
idrocarburi. Convenzionalmente, al fine di evitare l’uso di frazioni decimali, il
numero di carboni viene moltiplicato per 100. Il tempo di ritenzione di un soluto è
uguale al numero di carboni (x100) di una ipotetica n-paraffina che dovrebbe
presentare lo stesso tempo di ritenzione corretto dello specifico soluto.
Riassumendo, gli indici di ritenzione possono essere calcolati sia in condizioni di
isoterma sia in programma di temperatura.

Indice di ritenzione in isoterma


Effettuando analisi in condizioni isoterme gli indici di ritenzione si ottengono in
funzione di un calcolo semilogaritmico tra i tempi di ritenzione corretti degli
idrocarburi ed i loro numeri di atomi di carbonio (cn):
log t’R = a x cn + b
dove a e b rappresentano delle costanti.

58
Gli indici di ritenzione di composti compresi tra due picchi di idrocarburi
denominati z e z + 1 possono essere calcolati con la seguente equazione:

I = 100 [z + (log t’R i - log t’R z / log t’R(z+1) - log t’R z)

dove z indica la lunghezza della catena carboniosa dell’idrocarburo e i indica


l’analita.

Indice di ritenzione in programma di temperatura


Durante il programma di temperatura la serie di n-paraffine eluisce in modo
lineare. Ciascun picco aggiunge quindi un incremento costante al tempo di
ritenzione del suo predecessore, invece dell’incremento crescente che si osserva
nell’eluizione in isoterma. La relazione tra i tempi di ritenzione ed il numero di
atomi di carbonio sarà:
tRT = a’ x cn+ b’

dove a’ e b’ sono due costanti di proporzionalità.


Nel caso di analisi in programma di temperatura l’indice di ritenzione viene
espresso come segue:
IT = 100 [z + (tTR i - tTR z / tTR (z+1) - tTR z)
Gli indici così calcolati vengono denominati “indici di ritenzione lineari” (LRI).
Per un dato soluto ed una specifica fase stazionaria, i valori degli indici di
ritenzione ottenuti in isoterma e in programma di temperatura differiscono tra
loro. Inoltre in programma di temperatura gli IT possono variare anche in relazione
al particolare programma ed alla temperatura iniziale.

Gascromatografia ad alta risoluzione/spettrometria di massa (HRGC/MS)


L’identificazione dei componenti di una miscela gas cromatografica può basarsi
sui parametri di ritenzione o sul confronto con degli standard, precedentemente
analizzati o aggiunti alla miscela del campione. La corrispondenza dei tempi di
ritenzione non costituisce prova dell’identità di un composto incognito; per
giungere in tempi brevi ad una identificazione certa è particolarmente utile
usufruire di un sistema di rivelazione che fornisca informazioni strutturali sui
singoli composti, quale è un rivelatore di massa. Oggi l’impiego di GC/MS per
l’analisi di miscele complesse è ampiamente diffuso. Normalmente i rivelatori di
massa accoppiati ad un sistema gas cromatografico sono dotati di una o più
librerie di spettri di massa, utilizzate per l’identificazione dei componenti del
campioni in analisi mediante il confronto degli spettri con quello dell’analita. Il
processo di identificazione prevede le seguenti fasi: acquisizione dello spettro,
confronto dello spettro dell’analita con quelli presenti in libreria, selezione degli
spettri in libreria più simili a quello dell’analita, elaborazione di una lista di

59
composti disposti in ordine di similarità decrescente con il composto incognito. La
probabilità di giungere ad una corretta identificazione è tanto più alta quanto più
alta è la similarità tra lo spettro del campione e quello del composto standard.
D’altra parte, anche la conoscenza generale della natura del campione è
fondamentale per una corretta interpretazione dei dati spettrali. Le difficoltà
riscontrabili nell’identificazione GC/MS sono connesse a due fattori fondamentali
e distinti: il composto in analisi e la libreria utilizzata.
• Ragioni connesse al composto:
- Alcune miscele complesse presenti in natura sono costituiti da un insieme di
composti appartenenti alla medesima categoria (ad es. i terpeni), da loro derivati
ossigenati e da composti alifatici ossigenati. Le difficoltà che si presentano nella
identificazione GC/MS dei picchi di queste miscele complesse è connessa all’alto
livello di similarità spettrale che molti di essi mostrano. Questa deriva dalle
caratteristiche strutturali delle molecole, dalle frammentazioni ottenute ed infine
dai riarrangiamenti in seguito alla ionizzazione. Perciò l’identificazione MS
dovrebbe sempre essere accompagnata da ulteriori informazioni sul tempo di
ritenzione che supportino la ricerca in una libreria spettrale
- La composizione di una matrice complessa viene comunemente determinata
attraverso una serie di separazioni su più fasi stazionarie polari /apolari. La
procedura risulta lunga e laboriosa e spesso comunque inadeguata per il genere di
campioni (ad es. oli essenziali). In tal caso, la rivelazione MS attendibile di molti
composti incogniti, che punta all’ottenimento di spettri di massa di alta qualità, è
impedita dalla presenza di composti interferenti.
• Ragioni connesse alla libreria:
- Nelle librerie commerciali le informazioni sulle condizioni sperimentali sono
inesistenti o poco accurate, perché gli spetti inseriti provengono dalla letteratura o
da strumenti diversi (quadrupoli, magnetici, a trappola-ionica) che presentano
differenze significative
- In alcune librerie sono riportati spettri differenti per il medesimo composto, a
causa di errori nell’interpretazione o nel campionamento
- In alcune librerie sono riportati vari spettri per lo stesso composto, perché questo
è menzionato con nomi diversi (nome sistematico e/o nome comune) o con diversi
numeri di CAS.
L’uso di informazioni cromatografiche, come gli indici, può essere usato per
filtrare in modo interattivo i risultati MS così da ottenere un’attribuzione più
attendibile dei picchi dei componenti di una miscela complessa. L’LRI, parametro
ben noto in gascromatografia, è stato introdotto nelle migliori librerie spettrali
attualmente in commercio allo scopo di fornire maggiori informazioni sull’identità
dell’analita, restringendo l’intervallo di percentuale di similarità nel quale uno
spettro ricade dopo la ricerca. In molti casi, attivando questa funzione si ottiene un
composto unico nella lista di quelli probabili. Questo genere di approccio

60
consente l’identificazione di un elevato numero di componenti una miscela
complessa di qualunque natura: vegetale, biologica, sintetica, farmaceutica,
alimentare, con estrema precisione. La procedura di ricerca è enormemente
semplificata ottenendo spesso soltanto il composto corretto, evitando inoltre la
confusione generata dall’uso di librerie commerciali. Infatti, una ricerca su una
comune libreria commerciale può anche fornire una lunga lista di possibili scelte
per ogni componente, e la prima scelta non necessariamente è quella giusta.

Rivelatori selettivi e rivelatori doppi


L’uso di rivelatori GC selettivi, come precedentemente discusso, è a volte utile
nell’identificazione di classi di composti verso i quali tali rivelatori mostrano una
maggiore sensibilità. Più interessante è l’uso di due rivelatori diversi in parallelo
all’uscita di una colonna GC – la cosiddetta rivelazione “dual channel” (a doppio
canale). I rivelatori scelti dovrebbero mostrare differenze significative di
sensibilità per differenti classi di composti. Entrambi i segnali sono registrati
contemporaneamente per produrre cromatogrammi con un duplice segnale
cromatografico. L’identificazione può essere effettuata dall’esame dei
cromatogrammi o dai rapporti delle risposte dei rivelatori. Gli ultimi sono spesso
caratteristici delle diverse classi di composti. Il rapporto dei dati di rivelazione
usato in combinazione con l’indice di ritenzione può condurre all’identificazione
di un particolare omologo all’interno di una data classe.

Strumenti off-line ed analisi


In linea di principio, si potrebbe raccogliere l’effluente da una colonna GC in una
trappola fredda e identificarlo con uno strumento adatto. Il campione intrappolato
può essere trasferito a un altro strumento per l’identificazione (MS, FTIR, NMR,
UV), sottoposto a microanalisi, o fatto reagire con un reagente caratteristico per
produrre un derivato caratteristico. Generalmente, gli strumenti più utili (MS e
FTIR) sono però accoppiati on-line.
Altri metodi che possono essere impiegati per l’identificazione includono la
pirolisi, la derivatizzazione e la cromatografia a peso molecolare.

Strumenti on-line
La GC-MS è stata già menzionata come metodo di scelta per l’analisi qualitativa.
Una tecnica complementare di identificazione è la spettroscopia infrarossa a
Trasformata di Fourier accoppiata alla gas cromatografia (GC-FTIR). La
migliorata sensibilità dei sistemi a Trasformata di Fourier nella gestione dei dati
ha fortemente contribuito ad aumentarne l’utilità.
Le due interfacce IR comunemente in uso sono la “light pipe” e la cosiddetta
“matrix isolation” (isolamento su matrice). Nel primo metodo, l’effluente della
colonna viene fatto passare attraverso una cella IR per gas riscaldata (light pipe);

61
nel secondo, l’effluente è condensato e congelato in una matrice idonea per
l’analisi IR.
Poiché l’IR è una tecnica non distruttiva, è possibile accoppiare sia l’IR sia l’MS
allo stesso GC, ottenendo un sistema GC-FTIR-MS.

ANALISI QUANTITATIVA
L’effettuazione di misure quantitative è sempre accompagnata da errori e
necessita di una buona comprensione dei rivelatori e dei sistemi di elaborazione
dei dati. Campionamento, preparazione del campione, validazione della
strumentazione e del metodo e controllo qualità rappresentano fasi importanti del
processo.
L’analisi in traccia, che sta diventando sempre più popolare, richiede che tutte le
fasi dell’analisi siano condotte con grande cura. A seguire sarà presentata una
breve descrizione dei metodi statistici di trattazione degli errori nell’analisi,
seguita da una breve discussione degli errori tipici. Seguirà un’introduzione ai più
comuni metodi di analisi.

Metodi statistici per il calcolo quantitativo


Gli errori nelle misure si distinguono in determinati e indeterminati. Gli ultimi
sono casuali e si prestano ad una trattazione statistica (statistica Gaussiana); i
primi invece non sono casuali e la loro origine andrebbe individuata ed eliminata.
Se il numero di misure effettuate è abbastanza alto, la distribuzione degli errori
casuali dovrebbe seguire una curva normale o Gaussiana, già illustrata. Essa è
caratterizzata da due variabili – la tendenza centrale e la variazione simmetrica
intorno alla tendenza centrale. Due misure della tendenza centrale sono la media,
X , e la mediana. Uno di questi due valori è in genere considerato come valore
“corretto” per un’analisi, sebbene statisticamente non esista un valore “corretto”,
ma piuttosto il valore “più probabile”. L’abilità dell’analista nel determinare il
valore più probabile viene indicata come accuratezza.
La distribuzione dei dati intorno alla media viene in genere misurata come
deviazione standard, σ

σ=
(
ΣX−X )
2

(1)
(n − 1)
dove n è il numero di misure. Il quadrato della deviazione standard è chiamato
varianza. L’abilità di un analista di acquisire dati con un valore piccolo di σ è
chiamata precisione.
Altri due termini sono comunemente usati per distinguere due tipi di precisione.
Uno e la ripetibilità, che si riferisce alla precisione all’interno di un laboratorio, di
un analista e su uno strumento. L’altro è la riproducibilità, che si riferisce alla
precisione tra laboratori diversi e quindi analisti diversi e strumenti diversi. Come

62
prevedibile, si verifica in genere che la riproducibilità non sia altrettanto buona
come la ripetibilità.
Un termine correlato usato dalla Farmacopea statunitense (United States
Pharmacopoeia, USP) per indicare la riproducibilità strumentale è la robustezza.
Essa fa riferimento ad un test effettuato in maniera molto rigorosa, dove lo stesso
protocollo è usato da molti laboratori diversi e per un esteso periodo di tempo.
In una serie di dati, la deviazione standard relativa (RSD) fornisce più
informazioni della deviazione standard in sé stessa. La deviazione standard
relativa, o coefficiente di variazione come viene a volte chiamata, è definita come:
σ
RSD = σ rel = (2)
X
L’informazione minima fornita per corredare i risultati di un’analisi è una delle
variabili di ciascuno dei due tipi appena discussi – solitamente la media e la
deviazione standard relativa. Una fase di tutte le procedure quantitative è quella di
calibrazione. La calibrazione è indispensabile e rappresenta spesso il fattore
limitante per ottenere una buona accuratezza nell’analisi in tracce; una buona
calibrazione e precisione forniscono un’alta accuratezza.

Errori da evitare nelle misure


In un’analisi quantitativa la separazione gas cromatografica rappresenta solo una
fase dell’intera procedura. Eventuali errori in ciascuna delle fasi possono
invalidare anche la migliore analisi cromatografica cosicché bisogna prestare
attenzione a tutte le fasi.
Le fasi di un’analisi includono generalmente: campionamento, preparazione del
campione e lavorazione, separazione (cromatografia), rivelazione dell’analita,
analisi dei dati (inclusa l’integrazione dell’area dei picchi e il calcolo). Considerati
i significativi progressi nella strumentazione e nei sistemi di integrazione in GC
negli ultimi 20 anni, la principali cause di errore sono in genere rappresentate dal
campionamento e dalla preparazione del campione, specialmente se si ha a che
fare con matrici complesse e ricche di impurezze.
L’obiettivo della procedura di campionamento è ottenere una piccola quantità di
campione che sia rappresentativa dell’insieme. La preparazione del campione
include tecniche quali: triturazione e compressione, dissoluzione, filtrazione,
diluizione, estrazione, concentrazione e derivatizzazione. In ciascuna fase bisogna
fare attenzione ad evitare perdite e contaminazioni. Se si usa uno standard interno
(discusso in seguito) bisogna aggiungerlo al campione prima che questo sia
sottoposto qualsiasi trattamento.
La separazione GC dovrebbe essere condotta secondo i suggerimenti indicati;
alcuni obiettivi sono: buona risoluzione di tutti i picchi, picchi simmetrici, bassi
livelli di rumore, tempi di analisi brevi, quantità di campione piccole e
nell’intervallo di linearità dei rivelatore, ecc.

63
L’analisi dei dati ed i sistemi di elaborazione sono discussi in una sezione a parte.
Di particolare interesse è la conversione del segnale analogico in digitale. Questa
può essere ottenuta in due modi – integrazione dell’area sottostante i picchi o
misura dell’altezza dei picchi. Quello dell’area del picco è il metodo preferito con
gli integratori elettronici e i computer di oggi, specialmente se durante l’analisi
cambiano le condizioni cromatografiche, come la temperatura della colonna, la
velocità di flusso o la riproducibilità di iniezione del campione. D’altra parte, la
misura dell’altezza del picco è meno influenzata in presenza di sovrapposizione
dei picchi, rumore o deriva della linea di base. Nella discussione che segue tutti i
dati verranno presentati come aree dei picchi.

Aggiunta di standard
Anche in questo metodo lo standard viene aggiunto al campione, ma il composto
chimico scelto come standard è uguale all’analita di interesse. Esso richiede un
volume di campione altamente riproducibile, una limitazione in caso di iniezione
manuale con siringa.
Il principio di questo metodo è che l’incremento del segnale, provocato
dall’aggiunta dello standard, è proporzionale alla quantità di standard aggiunto e
questa proporzionalità può essere usata per determinare la concentrazione di
analita nel campione originale. Per fare i calcoli necessari si possono utilizzare
delle equazioni, ma il principio può essere compreso più facilmente da una
rappresentazione grafica. In figura 8.8 è mostrato un grafico tipico di una
calibrazione mediante aggiunta di standard. Si noti la presenza di un segnale
laddove non è stato aggiunto alcuno standard; esso rappresenta la concentrazione
originale che deve essere determinata. Il segnale aumenta man mano che aumenta
la quantità di standard aggiunto al campione, producendo una linea retta di
calibrazione. Per trovare la quantità originaria incognita la linea retta viene
estrapolata fino ad intersecare l’asse delle ascisse; il valore assoluto sulle ascisse è
la concentrazione originaria. In pratica, la preparazione dei campioni e il calcolo
dei risultati possono essere effettuati in svariati modi.
Matisóva e collaboratori hanno suggerito che la necessità di ottenere un volume di
campione riproducibile può essere eliminata combinando il metodo dell’aggiunta
di standard con un metodo in situ basato sullo standard interno. Nell’analisi
quantitativa di idrocarburi del petrolio essi scelgono l’etilbenzene come standard
per le aggiunte, ma usano un picco vicino incognito come standard interno al
quale rapportare i dati. Questa procedura ha eliminato la dipendenza dalla quantità
di campione, consentendo una quantificazione migliore del metodo di
normalizzazione delle aree usato in precedenza.

64
CAPITOLO 9

PROGRAMMA DI TEMPERATURA

La gas cromatografia in programma di temperatura (PTGC) è un processo nel


quale la temperatura della colonna viene aumentata durante l’analisi. E’ un
metodo molto efficace per ottimizzare un’analisi ed è spesso usata per lo
screening di nuovi campioni. Prima di descriverla in dettaglio è opportuno
considerare gli effetti generali della temperatura sui risultati gas cromatografici.

EFFETTI DELLA TEMPERATURA


La temperatura è una delle due variabili più importanti in GC, insieme alla natura
della fase stazionaria. I tempi di ritenzione e i fattori di ritenzione diminuiscono
all’aumentare della temperatura poiché le costanti di distribuzione sono dipendenti
dalla temperatura in accordo con l’equazione di Clausius-Clapeyron,
∆H
log p 0 = − + costante (1)
2,3RT
dove ∆H è l’entalpia di vaporizzazione alla temperatura assoluta (T); R è la
costante dei gas; p0 è la pressione di vapore del composto alla temperatura
indicata.
L’equazione indica che la pressione di vapore del soluto diminuisce
logaritmicamente al diminuire di T. Una diminuzione della pressione di vapore
risulta in una diminuzione della quantità relativa di soluto nella fase mobile,
quindi in un incremento del fattore di ritenzione, k e del tempo di ritenzione.
Questa relazione è illustrata in Figura 9.1 dal grafico del volume netto di
ritenzione in funzione di 1/T per alcuni soluti tipici. Secondo quanto prevedibile
in base all’equazione 1, all’interno di un intervallo limitato di temperatura si
ottengono delle rette. La pendenza di ciascuna linea è proporzionale all’entalpia di
vaporizzazione di quel soluto e si può considerare costante nell’intervallo di
temperatura mostrato.
In prima approssimazione, le linee in Figura 9.1 sono parallele, indicando che le
entalpie di vaporizzazione di questi composti sono all’incirca uguali. Un esame
più accurato rivela che in realtà molte coppie di linee divergono leggermente a
basse temperature. Quindi generalizzando si può concludere che le separazioni in
GC risultano migliori a temperature più basse. Di seguito sono elencate e discusse
le diverse conseguenze di un aumento di temperatura in analisi GC.

65
Effetto dell’aumento di temperatura
ƒ Il tempo di ritenzione e il volume di ritenzione diminuiscono
ƒ Il fattore di ritenzione diminuisce
ƒ La selettività (α) cambia (generalmente diminuisce)
ƒ L’efficienza (N) aumenta leggermente
L’effetto della temperatura sull’efficienza è piuttosto complesso e non sempre
consiste in un aumento. In genere si tratta di un effetto di minore importanza,
meno importante dell’effetto sui parametri termodinamici della colonna
(selettività). Globalmente, tuttavia, gli effetti della temperatura sono molto
significativi e la PTGC è una tecnica molto potente.

VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA PTGC


Se un campione analizzato in GC contiene dei componenti le cui pressioni di
vapore (punti di ebollizione) si estendono in un intervallo ampio, è spesso
impossibile scegliere una sola temperatura ottimale che sia adatta per un’analisi in
isoterma. Si consideri come esempio la separazione di un ampio intervallo di
omologhi come nel campione di kerosene mostrato in Figura 9.2a. Un’analisi in
isoterma a 150 °C impedisce la completa separazione dei componenti più leggeri
(<C8) ed inoltre sono necessari più di 90 minuti per eluire la paraffina C15, che
sembra essere l’ultimo composto. Tuttavia, questa è probabilmente la temperatura
migliore per questa separazione in isoterma.
La separazione può essere migliorata notevolmente usando un programma di
temperatura. La Figura 9.2b mostra un’analisi di questo tipo nella quale la
temperatura iniziale è 50 °C, inferiore alla temperatura usata nell’analisi isoterma
in Figura 9.2a, ed è programmata a 8 gradi al minuto fino a 250 °C, a temperatura
superiore a quella dell’isoterma. L’aumento di temperatura durante l’analisi
diminuisce i coefficienti di ripartizione degli analiti ancora sulla colonna, cosicché
essi si muovono più velocemente attraverso la colonna, il che risulta in tempi di
ritenzione più bassi.
Alcune importanti differenze tra le due analisi illustrano i vantaggi della PTGC.
Per una serie di omologhi, i tempi di ritenzione sono logaritmici in condizioni
isoterme, ma diventano lineari in programma di temperatura. L’analisi
programmata facilita la separazione delle paraffine bassobollenti, risolvendo con
facilità parecchi picchi prima del picco C8 ed aumentando nel contempo il numero
di paraffine rivelate. Il picco C15 eluisce molto più velocemente (in circa 21
minuti) e si scopre che esso non è l’ultimo picco – in PTGC si osservano infatti
altri sei idrocarburi. Tutte le ampiezze dei picchi sono pressoché uguali in PTGC;
nell’analisi in isoterma si nota invece un certo scodamento frontale nei composti
più altobollenti. Poiché le ampiezze dei picchi non aumentano in PTGC, le altezze
dei picchi che eluiscono più tardi risultano maggiori (le aree dei picchi sono
costanti), portando a una migliore rivelabilità. A seguire sono stati riepilogati
vantaggi e svantaggi della PTGC.

66
Vantaggi
1. Buon mezzo d’indagine (rapido)
2. Tempo di analisi inferiore per campioni complessi
3. Migliore separazione di composti con ampio intervallo di punti di
ebollizione
4. Migliori limite di rivelazione, forma dei picchi e precisione, specialmente
per i picchi eluiti per ultimi
5. Mezzo eccellente di pulizia della colonna
Svantaggi
1. Strumentazione più complessa
2. Segnali più rumorosi alle alte temperature
3. Limitato numero di fasi stazionarie adatte
4. Può essere più lenta, considerati i tempi di raffreddamento
Esiste anche la possibilità che il programma sia impostato in diversi “steps”, per
ottenere la migliore separazione possibile nel minimo tempo di analisi. I
programmi moderni consentono tipicamente fino a cinque rampe di temperatura.
Operare a temperatura programmata è utile per lo screening di nuovi campioni,
poiché si ottiene la massima quantità di informazioni sulla composizione del
campione nel minimo tempo di analisi. In genere si è in grado di stabilire se
l’intero campione è stato eluito, giudizio che è difficile dare quando si opera in
isoterma.

REQUISITI DELLA PTGC


La PTGC richiede una strumentazione più versatile e specifici requisiti rispetto
alla GC in isoterma, come elencato di seguito.

Requisiti strumentali per la PTGC


1. Gas carrier secco
2. Sistema di programmazione della temperatura
3. Tre forni separati (iniettore, colonna, rivelatore)
4. Sistema di controllo del flusso (pneumatico differenziale o elettronico)
5. Doppia colonna o compensazione della colonna per ridurre il drift
6. Fase liquida adatta
La cosa più importante è riuscire a controllare l’aumento di temperatura
programmato nel forno della colonna mantenendo nel contempo il rivelatore e la
porta di iniezione a temperatura costante. E’ necessario un programmatore
elettronico della temperatura unitamente ad un design adatto del forno, che abbia
una massa ridotta, un elevato volume di ventilazione e una ventola per l’uscita
dell’aria, anch’essa controllata dal programmatore.

67
In cromatografia con colonne impaccate, il controllo del flusso del gas carrier si
ottiene in genere per mezzo di una valvola differenziale pneumatica di controllo
che viene posta nella linea del gas superiormente alla porta di iniezione.
In cromatografia su colonne capillari è richiesta una regolazione a pressione
costante per il campionamento split/splitless e non si può usare una valvola per il
controllo del flusso. Di conseguenza, la velocità di flusso del gas carrier durante
l’analisi a temperatura programmata a causa dell’aumento di viscosità del gas.
Poiché la perdita di pressione attraverso una colonna OT è relativamente bassa, la
variazione della velocità di flusso è meno grave rispetto a quanto avviene per le
colonne impaccate. Una soluzione consiste nell’impostare la velocità di flusso
iniziale al di sopra del valore ottimale e più vicina al flusso atteso a circa il 70% di
durata del programma. Ciò assicura un flusso adeguato alle temperature più alte.
D’altra parte, su alcuni strumenti è disponibile un controllo elettronico della
pressione (EPC) ed esso può essere usato per mantenere un flusso costante
aumentando la pressione durante l’analisi.
Altri requisiti riguardano il gas carrier e la fase stazionaria. Come si evince
dall’elenco della strumentazione per PTGC, il gas carrier deve essere secco per
evitare che l’acqua (e altre impurezze volatili) si accumuli all’ingresso della
colonna (prima dell’inizio di un’analisi), poiché questo fenomeno darebbe luogo a
“picchi fantasma” durante l’analisi PTGC. Una comune soluzione a questo
problema consiste nell’inserire un essiccatore a setaccio molecolare di 5Å nella
linea del gas prima dello strumento.
A seguire un elenco di alcuni requisiti della fase liquida.

Requisiti delle fasi liquide per PTGC


1. Ampio intervallo di temperatura (ca. 200°C) con bassa pressione di vapore
nell’intero intervallo
2. Adeguata viscosità a bassa temperatura (per ottenere un valore alto di N)
3. Solubilità selettiva (per ottenere un valore alto di α)
Si ricordi che le colonne OT in silice fusa rivestite con poliammide non possono
essere usate al di sopra di 380 °C, pena la degradazione del rivestimento.

TEORIA DELLA PTGC


La teoria della PTGC è stata trattata estesamente da Harris e Habgood e da
Mikkelsen. La discussione che segue è tratta da una semplice ma esauriente
trattazione di Giddings.
In Figura 9.1 è stata illustrata la dipendenza del volume di ritenzione dalla
temperatura. Vediamo quindi qual è l’incremento di temperatura necessario a
ridurre il volume di ritenzione corretto al 50%, cioè:
(V )'
R 1
=
1
(2)
(V )
'
R 2 2

68
Poiché il rapporto dei volumi di ritenzione corretto è inversamente proporzionale
al logaritmo del rapporto delle pressioni di vapore del soluto, secondo l’equazione
integrata di Clausius-Clapeyron, possiamo concludere che:
P2 ∆H∆T
ln = ln 2 = (3)
P1 RT1 T2
dove ∆T è la differenza tra le due temperature T1 e T2. Calcolando il logaritmo e
riarrangiando otteniamo,
0,693RT 2
∆T = (4)
∆H
Considerando la regola di Trouton secondo la quale ∆T/Teboll. = 23 ed una
temperatura di ebollizione di 227 °C (500 °K) per un campione tipico:

∆T =
(0,693)(2)(500)2 ≈ 30°C (5)
23(500)
In maniera approssimativa, quindi, un aumento di temperatura di 30 °C dimezzerà
il volume di ritenzione. Questa regola generale è utile anche per operazioni in
isoterma.
L’effetto di un programma di temperatura sulla migrazione di un tipico analita
attraverso una colonna è mostrato in Figura 9.4, dove il valore di 30 gradi è usato
per impostare le diverse fasi (steps). La velocità relativa di migrazione
raddoppierà quindi ogni 30 °C. Si assume arbitrariamente che l’eluizione finale
dalla colonna si verifichi a 265 °C, come mostrato nella figura. In realtà, il
movimento dell’analita attraverso la colonna potrebbe procedere secondo la linea
curva (mostrata pure in figura), poiché il programma di temperatura sarà graduale
e non procederà linearmente come assunto nel nostro modello.
Considerando x la distanza lungo la quale l’analita si è mosso attraverso la
colonna negli ultimi 30 gradi di incremento della temperatura, allora metà di x
sarà la distanza percorsa nei 30 gradi precedenti, un quarto di x quella percorsa nei
30 gradi ancora precedenti e così via. La somma di queste frazioni si avvicina a 2,
che deve uguagliare la lunghezza totale L della colonna (2x=L). Quindi l’analita
ha percorso l’ultima metà della colonna negli ultimi 30 °C, i tre quarti della
colonna in 60 °C, ecc. Inizialmente il soluto era “congelato” all’ingresso della
colonna, ma quando ha cominciato a migrare, la sua velocità di migrazione si è
raddoppiata ogni 30 gradi di aumento della temperatura.
I principi operativi in PTGC possono essere riepilogati come segue: il campione
viene iniettato all’estremità fredda della colonna ed i suoi componenti rimangano
lì condensati; man mano che la temperatura aumenta, gli analiti vaporizzano e
percorrono la colonna a velocità crescente man mano che fluiscono. E’ per questo
motivo che la tecnica di iniezione non è critica in PTGC e che tutti i picchi hanno

69
all’incirca la stessa ampiezza – essi impiegano all’incirca lo stesso tempo
ripartendosi attivamente lungo la colonna.
Per una serie di motivi, come lavoro di routine si preferisce spesso operare in
isoterma. Se si effettua uno screening iniziale mediante PTGC, si potrebbe essere
interessati a conoscere la temperatura migliore da usare in isoterma. Giddings ha
chiamato questa temperatura isoterma la temperatura significativa, T’.
Ragionando sulla base del valore di 30 °C, egli ha scoperto che:
T’ = Tf – 45 (6)
dove Tf è la temperatura finale, la temperatura alla quale l’analita eluisce
nell’analisi PTGC. Quindi, per esempio, un soluto che eluisce ad una temperatura
di 225 °C in analisi PTGC sarebbe separato al meglio in isoterma a 180 °C.
Altre tre variabili importanti sono la velocità del programma, la velocità di flusso
e la lunghezza della colonna. In generale, la lunghezza non si varia ma si usano
colonne più corte (e temperature più basse) e velocità di flusso relativamente alte.
La velocità del programma si sceglie spesso in modo da essere abbastanza alta da
risparmiare tempo ma nel contempo abbastanza lenta da ottenere separazioni
soddisfacenti, qualcosa tra 4 e 10 °C/min. Tuttavia, per colonne OT, un gruppo di
ricercatori ha concluso che sono da preferire basse velocità di programma (intorno
a 2,5 °C/min) e alte velocità di flusso (circa 1 mL/min). Un altro studio condotto
da Hinshaw su una miscela di pesticidi clorurati ha mostrato che una velocità di 8
°C/min era preferibile rispetto a velocità inferiori (fino a 1,5 °C/min) o superiori
(fino a 30 °C/min).

ALTRI APPROFONDIMENTI
In questa sezione saranno discussi brevemente alcuni argomenti correlati al
programma di temperatura.

Analisi quantitativa
I dati presentati in questo capitolo mostrano chiaramente l’effetto della PTGC
sulle dimensioni e sulla forma dei singoli picchi. Questo potrebbe indurre a
concludere che la PTGC non possa essere usata per analisi quantitativa, ma non è
così.
Si considerino i dati illustrati in Tabella 9.2 per l’analisi di una miscela sintetica di
n-paraffine analizzate in isoterma e in PTGC. Essi mostrano che non ci sono
differenze significative tra PTGC e GC in isoterma quando le calibrazioni sono
effettuate coerentemente con l’una o con l’altra tecnica. Gli strumenti moderni
consentono di mantenere costante la temperatura del rivelatore anche durante
l’utilizzo delle colonna con un programma di temperatura, cosicché la
quantificazione da parte del rivelatore non è influenzata ed è indipendente dalla
temperatura della colonna.

70
Modalità criogenica
Alcuni cromatografi sono dotati di forni in grado di operare a temperature
inferiori a quella ambiente, estendendo così l’intervallo possibile di
programmazione della temperatura.

GC ad alte temperature
C’è sempre stato un ovvio interesse a spingere la GC verso le più alte temperature
possibili. Parecchi strumenti in commercio consentono limiti superiori di
temperatura per i forni della colonna e del rivelatore fino a 400 °C. Tuttavia poche
colonne possono essere utilizzate ad una temperatura così alta; è stato però
pubblicato qualche lavoro in cui le colonne venivano programmate di routine fino
a 400 °C. Da qui ha avuto origine la definizione di GC ad alta temperatura
(HTGC) definita come quella in cui la temperatura di routine della colonna supera
i 325 °C.

71
CAPITOLO 10

ARGOMENTI SPECIALI

Gran parte della ricerca attuale è focalizzata sulle tecniche speciali accoppiate alla
GC. La più importante è la GC-MS, acronimo comune per la tecnica in cui un gas
cromatografo è direttamente accoppiato ad uno spettrometro di massa da banco.
Altri argomenti trattati in breve saranno: la separazione di composti chirali, alcune
tecniche speciali di campionamento (spazio di testa e micro-estrazione in fase
solida) e la derivatizzazione.

GC-MS
Si stima che ci siano oggi in tutto il mondo più di 25000 sistemi GC-MS da banco
e che le vendite annuali superino le 2000 unità. Che cosa rende questa
combinazione così potente e popolare?
Come abbiamo prima notato, la GC è la tecnica analitica più importante per la
separazione di composti volatili. Essa combina velocità di analisi, risoluzione,
facilità di operazione, eccellenti risultati quantitativi e costi moderati.
Sfortunatamente, i sistemi GC non sono in grado di confermare l’identità o la
struttura dei picchi. I tempi di ritenzione sono correlati ai coefficienti di
ripartizione e sebbene siano caratteristici di sistemi ben definiti, non sono unici. I
dati GC non possono quindi essere usati da soli per l’identificazione dei picchi.
La spettroscopia di massa d’altra parte è un sistema di rivelazione capace di
fornire una grande quantità di informazioni. Richiede solo microgrammi di
campione, ma fornisce dati utili sia all’identificazione qualitativa di composti
incogniti (struttura, composizione elementare e peso molecolare) sia per la loro
quantificazione. Inoltre, può essere facilmente accoppiata ad un sistema GC.

Strumentazione
La Figura 10.1 illustra schematicamente un tipico spettrometro di massa a bassa
risoluzione del tipo comunemente usato in GC. A causa delle sue ridotte
dimensioni, è spesso chiamato spettrometro da banco.

Sistemi di introduzione del campione


Il sistema di introduzione consente di introdurre quantità molto piccole di
campione da una varietà di matrici. Nel caso di gas si può usare una grande
ampolla per introdurre campioni gassosi nella sorgente di ionizzazione attraverso
un piccolo connettore. Un sistema a setto consentirà invece di introdurre
facilmente liquidi o solidi in soluzione. Una quantità di altri metodi sono stati
messi a punto per l’uso in GC.

72
La Figura 10.2 mostra schematicamente l’accoppiamento di un sistema GC ad un
sistema MS. Entrambi sono riscaldati (200-300 °C), entrambi usano composti allo
stato di vapore, entrambi richiedono piccole quantità di campione (micro- o
nanogrammi). I sistemi GC e MS sono molto compatibili. L’unico problema è che
la pressione atmosferica in uscita dal GC deve essere ridotta ad un vuoto di 10-5-
10-6 torr per l’introduzione in MS. L’accoppiamento richiede una riduzione della
pressione ed è realizzato mediante un’interfaccia.
In Figura 10.3 è mostrata un’interfaccia oggi comunemente in uso. La maggior
parte dei sistemi GC-MS usano colonne capillari; i tubi in silice fusa consentono il
trasferimento inerte e ad alta efficienza direttamente tra i due sistemi. Per velocità
di flusso capillari di 5 mL/min o inferiori, è possibile l’interfacciamento diretto. I
sistemi GC-MS da banco supportano facilmente queste velocità di flusso e
forniscono una migliore sensibilità (il trasferimento del campione è quantitativo)
preservando al meglio la qualità dei risultati GC.
I vecchi sistemi GC-MS utilizzavano colonne impaccate, in genere con diametro
interno di 2 mm, con velocità di flusso di circa 30 mL/min. Questi sistemi con
colonne impaccate richiedevano un’interfaccia come il separatore di getto
mostrato in Figura 10.3B. Questo separatore consiste di due tubi di vetro allineati
a breve distanza (circa 1 mm). La maggior parte del gas carrier (in genere elio)
proveniente dalla colonna GC viene allontanato da un sistema di vuoto separato.
Le molecole del campione più grandi passano all’interno del secondo capillare e
da qui all’interno della sorgente MS. Si verifica un arricchimento del campione e
la pressione atmosferica iniziale è drasticamente ridotta, consentendo al vuoto
dello spettrometro di massa di supportare la minore velocità di flusso. E’
necessario controllare accuratamente sia la temperatura sia l’attività di superficie
del separatore di vetro, sia per massimizzare il trasferimento del campione sia per
preservarne l’integrità.

Sorgenti di ionizzazione
Le molecole dell’analita devono essere anzitutto ionizzate per essere poi attratte (o
respinte) dai campi magnetici o elettrici del sistema. Tra le numerose tecniche di
ionizzazione, l’impatto elettronico (EI) è la più vecchia, la più semplice e la più
diffusa. La sorgente di ionizzazione è riscaldata e sotto vuoto cosicché la maggior
parte dei campioni sono facilmente vaporizzati e poi ionizzati. La ionizzazione si
ottiene in genere mediante l’impatto di un raggio di elettroni ad alta energia (70
ev).
Una tipica sorgente è mostrata schematicamente in Figura 10.4. L’effluente dalla
colonna GC passa attraverso una sorgente di ionizzazione a vuoto ridotto. Gli
elettroni sono estratti da un filamento di tungsteno da un voltaggio del collettore
di 70 ev. Il voltaggio applicato al filamento determina l’energia degli elettroni.
Questi elettroni ad alta energia collidono con le molecole neutre di analita,
causandone la ionizzazione (generalmente perdita di un elettrone) e la

73
frammentazione. Questa tecnica di ionizzazione produce quasi esclusivamente
ioni postivi:
M + e − → M + + 2e − (1)
Tecniche alternative per ottenere la ionizzazione includono la ionizzazione
chimica (CI), la ionizzazione chimica negativa (NCI) e il bombardamento atomico
veloce (FAB). In CI, un gas reagente come il metano viene introdotto nella camera
dove viene ionizzato, producendo un catione che va incontro ad ulteriori reazioni
per produrre ioni secondari. Per esempio:
CH 4 + e − → CH 4+ + 2e −
(2-3)
CH 4+ + CH 4 → CH 5+ + CH 3

Lo ione secondario ( CH 5+ in questo esempio) serve da reagente per ionizzare in


maniera non troppo energica il campione. In genere questo processo esita in una
minore frammentazione e produce spettri di massa più semplici. I principali picchi
MS risultanti sono normalmente (M + 1), (M – 1) e (M + 29), dove M è la massa
dell’analita in oggetto.
Per ottenere la ionizzazione chimica, il volume di ioni dello spettrometro è in
genere diverso da quello usato in EI, la pressione operativa è maggiore (in parte a
causa del gas reagente addizionale) e la temperatura è inferiore. Certi tipi di
molecole danno anche buoni spettri di ioni negativi in NCI, offrendo un’ulteriore
opzione per l’analisi. Tuttavia, la maggior parte dei sistemi GC-MS da banco non
consente di operare in CI.

Analizzatori e rivelatori
Dopo la ionizzazione, le particelle cariche vengono respinte e attratte da lenti
cariche all’interno dell’analizzatore di massa. Qui le specie ioniche sono separate
in base ai loro valori di rapporto massa-carica (m/z) da campi elettrici o
magnetici. Analizzatori di massa tipici sono i quadrupoli e le trappole ioniche.
Altri analizzatori sono: il settore magnetico a focalizzazione singola (“single-
focusing magnetic sector”), il settore magnetico a doppia focalizzazione (“double-
focusing magnetic sector”, alta risoluzione, più costoso) e il tempo di volo (“time
of flight”, TOF).
L’analizzatore di massa a quadrupolo consiste in quattro sbarre iperboliche poste
ad angolo retto l’una rispetto all’altra (vedi Figura 10.6). A tutte le sbarre è
applicato un voltaggio DC (sbarre adiacenti hanno voltaggi opposti) e i segni del
voltaggio possono essere invertiti rapidamente. Alle quattro sbarre è applicata
anche una radiofrequenza. A seconda della combinazione della radiofrequenza e
del potenziale di corrente, soltanto gli ioni con un certo valore del rapporto massa-
carica riescono a passare attraverso le sbarre e raggiungono il rivelatore. Gli ioni
con altri valori del rapporto m/z collideranno contro le sbarre e verranno annullati.

74
L’analizzatore a quadrupolo mostra i vantaggi di semplicità, dimensioni ridotte,
costo moderato e velocità di scansione che lo rendono ideale per i sistemi GC-MS.
E’ però limitato a circa 2000 Daltons e mostra una bassa risoluzione in confronto
agli spettrometri a doppia focalizzazione.
La Figura 10.7 mostra lo schema di un analizzatore a trappola ionica che è stato
specificatamente sviluppato per GC-MS. Consiste in una versione più semplice
del quadrupolo nella quale un elettrodo ad anello, al quale è applicata una singola
radiofrequenza, funge essenzialmente da monopolo per definire una zona stabile
per le specie cariche all’interno dello spazio dell’elettrodo circolare. Ci sono due
cappelli terminali all’estremità superiore e inferiore dell’elettrodo circolare ad
anello. L’effluente dal GC entra nel terminale superiore, alcuni analiti vengono
ionizzati e poi intrappolati in traiettorie stabili all’interno dell’elettrodo ad anello.
La radiofrequenza può essere variata in modo da espellere in sequenza ioni con un
determinato rapporto m/z dalla trappola ionica e farli passare attraverso il
terminale inferiore fino al rivelatore.
Anche le trappole ioniche hanno un design semplice, sono piuttosto economiche e
capaci di scansioni veloci per applicazioni GC-MS. Gli spettri generati sono
spesso diversi dai classici spettri di un quadrupolo e alcuni ioni possono subire
dissociazione e/o collisioni ione/molecola all’interno della trappola ionica.
Una volta effettuata la separazione degli ioni un rivelatore, in genere una versione
a dinodo continuo di un moltiplicatore elettronico, è usato per il conteggio degli
ioni e per generare lo spettro di massa. Gli ioni provenienti dall’analizzatore di
massa collidono contro la superficie del semi-conduttore e generano una cascata
di elettroni. Questi vengono accelerati da una differenza di potenziale verso
un’altra porzione della superficie del semi-conduttore, dove viene prodotta una
cascata di elettroni più ampia. Questo processo viene ripetuto parecchie volte fino
a che il debole segnale originario non viene amplificato di circa 1 milione di volte.
Da notare che l’intero sistema MS è sotto vuoto. Questo è un requisito essenziale
per evitare la perdita di specie cariche per collisione con altri ioni, molecole o
superfici.
Lo spettro di massa riporta semplicemente in grafico l’abbondanza degli ioni in
funzione del rapporto m/z. In condizioni controllate, i rapporti di abbondanza
ionica e le specifiche specie m/z presenti sono unici per ciascun composto. Essi
possono essere quindi usati per determinare il peso molecolare e la struttura
chimica di ciascun composto.

Storia
La spettroscopia MS cominciò il suo lento sviluppo come tecnica analitica da
quando J.J. Thompson usò uno spettrometro di massa per separare degli isotopi di
alcuni atomi, nel 1913. Essa si rivelò subito molto potente per l’identificazione di
composti incogniti, così come per elucidare le strutture di composti organici ed

75
inorganici. E’ stata ampiamente usata per la caratterizzazione dei derivati del
petrolio e probabilmente si sarebbe sviluppata anche in maniera più evidente se,
nel 1952, non fosse stata introdotta la GC.
La spettroscopia MS fu per la prima volta accoppiata alla GC nel 1959, ad opera
di Gohlke. I primi strumenti erano costosi, ingombranti e complessi, in genere
mantenerli operativi richiedeva una notevole perizia e manutenzione. Gli
strumenti a settore magnetico erano i tipi di analizzatori più diffusi; tuttavia essi
non erano in grado di fornire la rapidità di scansione (pochi secondi) necessaria a
generare lo spettro di massa di un picco che fluisce da un GC. Si rendevano perciò
necessari degli analizzatori più veloci.
Verso la fine degli anni ’60 fu chiaro che la GC rappresentava un mercato enorme
nel settore analitico ed in rapida crescita, ma nessun rivelatore GC era in grado di
fornire la stessa quantità di informazioni di uno spettrometro di massa. Nacquero
così i sistemi “GC-MS”, nei quali un nuovo MS era designato come rivelatore per
GC.
Specificando che l’introduzione del campione avveniva attraverso un GC, i
requisiti per l’MS furono semplificati. L’intervallo di massa poteva essere ristretto
fino a circa 600 Daltons; la bassa risoluzione era soddisfacente poiché possedeva
elevate capacità di risoluzione cosicché i picchi eluiti sarebbero stati, nella
maggior parte dei casi, “puri”. La parte difficile consisteva nello sviluppo di
dispositivi di scansione veloci (possibilmente 40-400 Daltons diverse volte al
secondo) e strumenti più semplici e robusti da usarsi in laboratori analitici di
routine. Queste necessità furono soddisfatte dal quadrupolo e, più tardi, dalle
trappole ioniche.

Capacità della GC-MS


La GC-MS riunisce i vantaggi di entrambe le tecniche: l’elevato potere di
risoluzione e la velocità di analisi del GC sono mantenuti, mentre la MS consente
sia identificazioni positive sia analisi quantitative fino ad un livello di ppb. Per i
sistemi a basso costo sono comuni intervalli di massa da 10 a 600 Daltons, che
aumentano fino a 1000 Daltons per i sistemi più costosi.

Limitazioni dei sistemi GC-MS


La strumentazione GC-MS comporta l’investimento di un capitale; gli strumenti
sono più complicati da utilizzare rispetto a un GC e c’è carenza di operatori
esperti in GC-MS. Pochi istituti addestrano gli studenti su sistemi GC-MS a causa
della mancanza di sistemi finalizzati alla didattica di insegnanti con un’esperienza
adeguata.

Analisi dei dati

76
Un cromatogramma tipico (su colonna capillare) di un campione di idrocarburi
ottenuto mediante GC-MS ha lo stesso aspetto di quello ottenuto con un FID; ad
es. con i picchi affilati, tipicamente con ampiezze di circa 1 secondo o meno, a
metà altezza. Ciò significa che il sistema MS deve riuscire a scansire il picco GC
circa 10 volte al secondo per ottenere un buon spettro di massa.
La Figura 10.10 mostra il meccanismo proposto per la frammentazione dell’n-
esano (picco 4 in Figura 10.9) nella sorgente ionica di un sistema GC-MS. Un
elettrone collide con la molecola parent, espellendo un elettrone e generando lo
ione molecolare (m/z = 86). Questa specie però non è stabile e decompone
rapidamente per dare frammenti più stabili; in questo caso m/z di 71, 57, 43 e 29
Daltons. Il frammento più abbondante, m/z = 57, è chiamato picco base ed il
sistema di elaborazione dei dati lo riporta in grafico al 100% della scala dello
spettro. Gli altri picchi sono riportati in rapporto al picco base ed il risultato è lo
spettro di massa tipico dell’n-esano (vedi Figura 10.11).
I dati possono essere elaborati in due modi; o come scansione totale (TIC-Total
Ion Chromatogram) o come un piccolo numero di ioni individuali (SIM-Selected
Ion Monitoring) caratteristici di un particolare composto (vedi Figura 10.12). Il
TIC è usato per monitorare dei composti incogniti; viene esaminato un intervallo
di massa specifico – per esempio 40-400 Daltons. –vengono riportati tutti i picchi
cosicché lo spettro elaborato dal computer può essere usato per identificare
ciascun picco. Il database del computer confronta rapidamente ciascun picco
incognito con più di 150000 spettri di riferimento presenti nei files del suo
archivio-libreria. Con gli ultimi sistemi di elaborazione dati il confronto richiede
solo pochi secondi, per ottenere l’analisi qualitativa desiderata. La velocità di
acquisizione dei dati necessaria per la scansione di tutti gli ioni è bassa; la
sensibilità è limitata ed in genere la quantificazione non è ottimale (troppo pochi
punti).
Nella modalità SIM, invece, viene monitorato solo un numero limitato di ioni
(tipicamente 6). La velocità di acquisizione dei dati è maggiore per la durata di un
picco GC (circa 1 secondo), cosicché i dati quantitativi sono migliori e la
sensibilità risulta nettamente migliore. Il SIM non può essere usato per analisi
qualitative (non tutti i valori di massa vengono analizzati), ma rappresenta uno dei
mezzi migliore per l’analisi in traccia di composti target, spesso fino ad un livello
di ppb.
Una versione più recente della trappola ionica consente che i frammenti originatisi
dal processo di ionizzazione siano di nuovo esposti alle molecole di gas ad alta
energia, causando una frammentazione secondaria dalla dissociazione indotta
dalla collisione (CID). Il risultato è simile a quello ottenuto con uno spettrometro
di massa a doppio stadio (generalmente indicato come MS/MS) e fornisce una
selettività addirittura superiore; questa modalità operativa è chiamata
monitoraggio selettivo di reazione (“Selected Reaction Monitoring, SRM”) ed è
disponibile in alcuni strumenti GC-MS a trappola ionica più recenti.

77
ANALISI CHIRALI MEDIANTE GC

La separazione chirale mediante GC o HPLC rappresenta uno stadio essenziale


nella sintesi, caratterizzazione e utilizzo di composti chirali (farmaci, pesticidi,
aromi, ferormoni, ecc.). Come risultato della maggiore comprensione
dell’importanza che la chiralità riveste nell’attività biologica, la legislazione in
materia di composti chirali diventa sempre più severa e ampia, conseguentemente
aumenta la necessità di tecniche di separazione ad alta risoluzione. La separazione
chirale mediante GC capillare fornisce elevate efficienza, sensibilità e velocità di
analisi, ma è limitata dal requisito di volatilità. La combinazione di fasi chirali in
polisilossani ha avuto come risultato una maggiore stabilità nei confronti della
temperatura.
La separazione di enantiomeri mediante GC può essere effettuata sia direttamente
(uso di fasi stazionarie chirali, CSP), sia indirettamente (conversione al di fuori
della colonna in derivati diastereoisomerici e separazione mediante fasi
stazionarie non chirali). il metodo diretto è preferibile in quanto è più semplice e
minimizza le perdite durante la preparazione del campione. Il punto, ovviamente,
è trovare una fase stazionaria chirale che sia selettiva e termicamente stabile,
come già trattato, ci sono tre tipi principali di fasi stazionarie chirali per GC: (1)
derivati di aminoacidi chirali; (2) composti ci coordinazione di metalli chirali; (3)
derivati delle ciclodestrine. Le fasi a base di ciclodestrine si sono dimostrate le più
versatili in gas cromatografia.

TECNICHE DI CAMPIONAMENTO SPECIALI

Spazio di testa
I campioni che contengono materiali non volatili danno dei problemi in gas
cromatografia. I componenti non volatili non possono essere iniettati in GC
perché occluderebbero rapidamente la porta di iniezione e potrebbero anche
distruggere la colonna GC. Comunemente si impiega una tecnica di separazione
dei componenti volatili della matrice del campione da quelli non volatili, come
l’estrazione liquido-liquido, l’estrazione in fase solida (SPE), la microestrazione
in fase solida (SPME), l’estrazione con fluido supercritico (SFE) e lo spazio di
testa. Il campionamento in spazio di testa è probabilmente la tecnica più semplice:
il campione (liquido o solido) viene posto in un contenitore sigillato (“vial”) e
riscaldato ad una temperatura prefissata per un determinato periodo di tempo. I
componenti volatili del campione si ripartiscono tra la fase gassosa e il campione,
raggiungendo in genere un equilibrio. Alcuni monomeri residui diffondono molto
lentamente da certi polimeri ad elevato grado di “cross-linking”, per cui bisogna
far trascorrere tempo sufficiente per la vaporizzazione di questi campioni.
Un’aliquota dei componenti volatili nella fase gassosa (spazio di testa) viene
rimossa e iniettata nel gas cromatografo. La tecnica di trasferimento più semplice

78
consiste nell’uso di una siringa riscaldata a tenuta di gas per il campionamento
manuale da contenitori adatti.

Microestrazione in fase solida (SPME)


La SPME è una tecnica recente di preparazione del campione per l’analisi GC in
tracce. E’ un metodo semplice, senza solvente, che usa una fibra non polare (in
genere dimetilpolisilossano) per estrarre gli analiti da una matrice polare (di solito
acquosa). Una fibra di silice fusa è rivestita con un film sottile (7, 30 o 100 µm) di
fase stazionaria. Le piccole dimensioni e la geometria cilindrica consentono di
incorporare facilmente la fibra rivestita all’interno di una comune siringa per GC.
La fibra ricoperta è esposta alla matrice del campione o allo spazio di testa e gli
analiti vengono adsorbiti (estratti) dalla matrice del campione. Dopo essere stata
rimossa dal campione, la fibra viene trasferita nel sistema d’introduzione
riscaldato di uno strumento GC e gli analiti vengono desorbiti termicamente per
l’analisi. La tecnica funziona bene per l’analisi in tracce di analiti non polari e
semi-polari nell’acqua.
La Figura 10.13 mostra schematicamente le due fasi principali, (a) estrazione
(adsorbimento, fasi A-C) dalla matrice del campione e (b) desorbimento (fasi D-
F) all’interno del GC. Fase A: la siringa con la fibra all’interno perfora il setto di
una vial di campione. Molto spesso il campione è una matrice liquida, o una
soluzione di un campione solido. Fase B: la piccola fibra si protende all’esterno
della siringa ed è immersa nella soluzione per un certo periodo di tempo,
preferibilmente sotto agitazione perché l’analita raggiunga un equilibrio tra la
fibra solida e la matrice liquida del campione. Fase C: la fibra è ritratta all’interno
della siringa meccanicamente stabile e rimossa dalla vial del campione. Queste
fasi possono essere gestite manualmente o in maniera automatizzata con
autocampionatori GC modificati.
Fase D: la siringa perfora ora il setto di un GC e la fibra è esposta alla porta di
iniezione riscaldata dove si verifica il desorbimento termico (Fase E). La fibra
può essere lasciata nella porta di iniezione durante l’analisi GC in modo che si
possa pulire completamente per la prossima analisi. Fase F, la fibra viene ritratta
all’interno della siringa, la siringa è rimossa dalla porta di iniezione e il processo è
pronto per il prossimo campione.
Questa tecnica offre diversi vantaggi: 1) non si usano solventi organici per
l’estrazione; 2) la tecnica è semplice e in modalità manuale i costi sono bassi; 3) la
tecnica offre una precisione soddisfacente con il 10-15% di RSD per analisi in
traccia (fino a 10 ppb).
Sono disponibili rivestimenti sia non polari sia polari. Il dimetilpolisilossano è il
più comune tra quelli non polari; uno spessore di film di 7 µm è il migliore per
analiti ad elevato peso molecolare, il film di 30 µm è preferibile per pesi
molecolari intermedi (pesticidi) e quello di 100 µm per i composti volatili.
L’efficienza dell’estrazione dipende da molti fattori: la natura chimica

79
dell’analita, della matrice del campione e del polimero di rivestimento; il tempo di
estrazione e la temperatura; il grado di agitazione e la concentrazione dell’analita.
La fase di desorbimento dipende primariamente dalla temperatura della porta di
iniezione, dalla volatilità dell’analita e dallo spessore del film.
I campioni volatili possono essere estratti semplicemente esponendo la fibra allo
spazio di testa sopra un campione (matrice liquida o solida). I campioni solidi
possono essere trattati sia con la tecnica dello spazio di testa sia solubilizzandoli
in adatto solvente. In alcuni casi, l’aggiunta di sali (“salting out”) aumenta
l’efficienza di estrazione di composti non polari da soluzioni acquose.
In Figura 10.14 è mostrata una tipica applicazione SPME.

DERIVATIZZAZIONE
Sussistono diverse ragioni per effettuare delle reazioni chimiche sui campioni per
formare dei derivati. Due ragioni che apportano vantaggi all’analisi gas
cromatografica sono: la derivatizzazione rende volatile un campione non volatile,
o ne migliora la rivelabilità. Questa discussione riguarda principalmente
l’aumento della volatilità che può prevenire l’intasamento della colonna, un
problema comune nelle bio-separazioni. Inoltre, la derivatizzazione presenta
spesso un effetto secondario desiderabile, a causa della maggiore termostabilità
dei derivati. La derivatizzazione offre un metodo per l’analisi di campioni
relativamente non volatili mediante GC, ma secondo alcuni sarebbe meglio
effettuare queste analisi con altri mezzi, per cui la scelta è soggettiva.
Sicuramente, la formazione di derivati introduce una o più fasi aggiuntive nella
procedura analitica, sollevando il problema di errori addizionali e richiedendo
un’ulteriore validazione del metodo.
L’uso di uno standard interno può rendere più semplice l’inserimento della
derivatizzazione in un metodo quantitativo di analisi In questo caso, lo standard
interno va aggiunto al campione prima di effettuare la derivatizzazione.

Classificazione delle reazioni


Le reazioni usate per produrre derivati volatili possono essere classificate come
sililazione, acilazione, alchilazione e formazione di complessi di coordinazione.
Alcuni esempi dei primi tre tipi sono riportati nella Tabella 10.1 che è organizzata
per gruppi funzionali tra cui: acidi carbossilici, ossidrili, ammine e carbonili. Le
ammine richiedono un discorso a parte anche se sono volatili. La loro spiccata
tendenza a formare legami idrogeno rende spesso difficile fluirle da una colonna
GC. Di conseguenza le ammine devono spesso essere derivatizzate sia che siano
volatili o meno. Il quarto tipo di reazioni, la formazione di complessi di
coordinazione, è usata con i metalli; reagenti tipici sono il trifluoroacetilacetone e
l’esafluoroacetilacetone. Le reazioni di sililazione sono molto diffuse e richiedono
ulteriore descrizione. Una grande varietà di reagenti sono reperibili in commercio,

80
la maggior parte di essi è designata per l’introduzione di un gruppo trimetilsilil-
nell’analita per renderlo volatile.
In generale, la facilità di reazione segue l’ordine:
alcoli ≥ fenoli ≥ acidi carbossilici ≥ ammine ≥ ammidi
Se viene usato un solvente, esso è generalmente polare; le basi DMF e la piridina
sono usate comunemente per assorbire i sottoprodotti acidi. Qualche volta per
accelerare la reazione è richiesto il riscaldamento o l’uso di un catalizzatore acido
(TMCS).

Metodi di derivatizzazione
I metodi di derivatizzazione possono essere divisi in varie categorie: metodi pre-
colonna e post-colonna, metodi “off-line” (fuori linea) e “on-line” (in linea). Per
esempio, la formazione di derivati volatili per GC si ottiene generalmente off-line
in vials separate prima dell’iniezione nel gas cromatografo (pre-colonna).
Esistono alcune eccezioni, come quando i reagenti sono miscelati e iniettati
insieme; la reazione di derivatizzazione avviene in questo caso all’interno della
porta d’iniezione calda del GC (on-line).
Le reazioni pre-colonna che non vanno a compimento producono delle miscele
ancora più complesse del campione di partenza. Il reagente in eccesso è quindi
usato per spingere la reazione al completamento, lasciando così un eccesso di
reagente nel campione. A meno che non si adotti un sistema di separazione
preliminare, il metodo cromatografico dovrà essere messo a punto per separare
queste impurezze addizionali. Se effettuate off-line, le tecniche pre-colonna
possono essere impiegate effettuando delle reazioni lente e riscaldando per fornire
migliori risultati quantitativi.
Una migliore rivelabilità si ottiene in genere incorporando negli analiti un
cromoforo. Un esempio tipico in GC consiste nell’incorporazione negli analiti di
gruppi funzionali che aumentano la loro rivelabilità da parte di rivelatori selettivi
come l’ECD. Lo scopo della formazione di derivati è di migliorare il limite di
rivelazione o la selettività o entrambi. Un altro esempio è l’uso di reagenti
deuterati per formare derivati facilmente distinguibili per il loro maggiore peso
molecolare nell’analisi GC-MS.

81
CROMATOGRAFIA LIQUIDA
AD ALTA PRESTAZIONE
UNA INTRODUZIONE

Luigi Mondello

Dipartimento Farmaco-chimico
Università degli Studi di Messina
Messina, Italia

1
SOMMARIO

CAPITOLO 1 Introduzione

CAPITOLO 2 Cromatografia liquida

Cromatografia liquida su colonna

Cromatografia liquida ad alta prestazione (HPLC)

Fase mobile

Pompe

Valvola di iniezione

Colonna

Metodi di separazione più diffusi in HPLC

Rivelatori

CAPITOLO 3 Allargamento di banda in HPLC

2
Capitolo 1

INTRODUZIONE
Il mondo reale è caratterizzato da matrici enormemente eterogenee, sia in termini
di complessità sia in termini di composizione chimica. Alcune matrici, come i
grassi e gli oli naturali (per es. burro, olio d’oliva, etc.) sono relativamente
semplici, mentre altre, come l’aroma del caffè tostato o i prodotti petroliferi, sono
altamente complesse. Un indice della complessità del mondo reale è riscontrabile
nel numero totale di proteine presenti nei tessuti e nei liquidi umani, che è stato
stimato essere superiore a 150000.
La cromatografia, che è certamente la tecnica separativa più utilizzata da
scienziati ed analisti, è stata scoperta all’inizio del ventesimo secolo dal botanico
russo Tswett [1]. Questi effettuò la separazione di un estratto vegetale utilizzando
una colonna impaccata con carbonato di calcio e osservò la formazione di una
serie di bande colorate. Il termine “chromatography”, introdotto dallo stesso
Tswett, è connesso a quella separazione visibile, e deriva dalle parole greche
“chroma” (colore) e “grafos” (scrittura). Sfortunatamente, quell’idea brillante e
rivoluzionaria non fu subito accettata dalla comunità scientifica, e la sua
diffusione avvenne soltanto negli anni ’30. Sono molti gli scienziati che in seguito
hanno apportato dei contributi notevoli all’evoluzione della cromatografia
moderna. Uno dei più importanti è certamente A.J.P. Martin, il quale introdusse la
cromatografia di ripartizione liquido-liquido nel 1941 [2] e la cromatografia gas-
liquido nel 1952 [3], quando intuì che i gas potevano essere sfruttati come fase
mobile.
I notevoli progressi nel campo della cromatografia hanno portato allo sviluppo di
numerose tecniche e, di conseguenza, non è semplice darne una definizione
univoca. Oggi la definizione di cromatografia, ufficialmente riconosciuta dalla
IUPAC, è quella di un metodo fisico di separazione nel quale i componenti da
risolvere sono distribuiti tra due fasi, una delle quali è stazionaria (fase
stazionaria) mentre l’altra (fase mobile) si muove in una direzione ben definita.
Un processo cromatografico efficace si osserva quando le interazioni fisiche degli
analiti nelle due fasi sono caratterizzate da forze diverse e quando le proprietà di
trasferimento del sistema attraverso e tra le fasi sono favorevoli. Un processo di
separazione ideale ha luogo quando tutti i componenti di una miscela sono
localizzati in zone diverse, in modo tale da occupare delle bande distinte lungo la
fase stazionaria in direzione della migrazione cromatografica. Il grado di
allargamento di una banda di soluto è strettamente connesso alla capacità
separativa del sistema cromatografico: un eccessivo allargamento della banda ha
un effetto fortemente negativo sulla capacità del sistema. Quest’ultima può essere
definita come il massimo numero di picchi che possono essere separati, con un
valore di risoluzione specifico, in un dato intervallo temporale. Le tecniche
cromatografiche vengono solitamente classificate in base allo stato fisico delle
fasi coinvolte nel processo di separazione. Per esempio, nella cromatografia
liquido-liquido (LLC o semplicemente LC) le due fasi sono liquide. Quando
invece la fase mobile è un gas e la fase stazionaria è un solido o un liquido, le

3
tecniche di separazione vengono definite rispettivamente come cromatografia gas-
solido (GSC) e cromatografia gas-liquido (GLC).

4
Capitolo 2

CROMATOGRAFIA LIQUIDA
A differenza di quanto avviene in gascromatografia, in LC qualunque sia il
meccanismo di separazione, i soluti interagiscono sia con la fase mobile che con
la fase stazionaria. Infatti con la fase mobile liquida, il soluto subisce quantomeno
delle interazioni che possono essere ricondotte alla solvatazione. Le tecniche di
cromatografia liquida possono essere suddivise in base alla natura della fase
stazionaria e, quindi, al processo di separazione:
¾ cromatografia liquido-liquido o di ripartizione (denominata anche
cromatografia su fasi legate) nella quale le fasi stazionaria e mobile sono
entrambe liquide. È basata sulla solubilità relativa dei soluti nelle fasi, tra loro
immiscibili; la separazione avviene per via della diversa affinità dei composti
nelle due fasi (coefficiente di ripartizione, K).
¾ cromatografia di adsorbimento nella quale la fase stazionaria è solida
(un adsorbente). È basata sulla interazione tra i siti attivi dell’adsorbente solido
(generalmente silice o allumina) ed i gruppi funzionali presenti nelle molecole dei
soluti da separare. Queste interazioni sono il risultato di un fenomeno di
competizione tra le molecole della fase mobile e del soluto per i siti attivi.
Per quanto concerne questi due casi, si preferisce utilizzare una definizione che
tiene conto della polarità delle due fasi:
nella cromatografia a fase normale, la fase stazionaria è di natura fortemente
polare (per es. silice o silice funzionalizzata con gruppi polari quali ciano-, nitro-,
etc.), mentre la fase mobile è non polare (per es. esano o tetraidrofurano) (Figura
1);
nella cromatografia a fase inversa, la fase stazionaria ha carattere non polare
(silice chimicamente modificata con gruppi apolari quali l’ottil, ottadecil, etc.),
mentre la fase mobile è un liquido polare, come ad esempio acqua o alcool
(Figura 2).
¾ cromatografia di esclusione (denominata anche filtrazione o permeazione
su gel) nella quale la colonna è riempita con un materiale poroso. In questo tipo di
cromatografia non si verifica interazione chimica tra i soluti e la fase stazionaria;
la separazione avviene in quanto il supporto si comporta come un setaccio
molecolare (Figura 3). I soluti a grande dimensione molecolare (maggiore dei
pori) non vengono trattenuti, al contrario di quanto avviene per le molecole di
minori dimensioni.. Le fasi fisse utilizzate si possono dividere in semirigidi e
rigidi: i primi, costituiti da polimeri come polistirene, poli(stirene-divinilbenzene),
ecc., presentano un grado abbastanza elevato di ramificazione onde consentire un
più basso potere di rigonfiamento (da 1,1 a 1,8 volte il loro volume secco); i
secondi, costituiti essenzialmente da vetri porosi o perle di silice microporosa,
presentano una elevata rigidità che conferisce loro una maggiore stabilità e facilità
di impaccamento.
¾ cromatografia a scambio ionico nella quale la fase stazionaria reca una
superficie ionica avente carica opposta a quella del campione. Questo metodo di
separazione, che può essere considerato di adsorbimento, è utilizzato per

5
Fase mobile (Esano)

HO

Fenolo
O OH
Si
O
O O

Si CH3
O OH
Fase
stazionaria
(Silice) HO

CH3
2,6-Dimetilfenolo

Figura 1. Schema del meccanismo di separazione per LC a fase normale (NP).

analizzare composti ionici e ionizzabili. Quanto più forte è la carica del campione,
tanto più esso verrà attratto dalla superficie ionica della fase stazionaria. La fase
mobile è un tampone acquoso, contenente un sale che fornisce un controione la
cui carica è dello stesso segno dei composti da separare ma di segno opposto a
quella della fase stazionaria. La ritenzione e separazione cromatografica
dipendono dalla competizione delle molecole di soluto e del controione per i siti
attivi del materiale di impaccamento. Perciò un campione fortemente ionizzato
entro una fase mobile ionizzata debolmente sarà fortemente ritenuto dalla
colonna, mentre al contrario, le molecole di soluto debolmente cariche non
saranno in grado di spostare gli ioni forti dell’eluente, e pertanto subiranno una
ritenzione blanda, a secondo della loro funzione, i sistemi a scambio ionico sono
scambiatori di anioni (Figura 4) oppure di cationi. Gli scambiatori di cationi
contengono gruppi solfonici (fortemente cationici) o carbossilici (debolmente

6
Fase mobile (CH3CN-H2O)

Fenolo
O O CH2CH2CH2CH2CH2CH
Si
Si
O CH
O O

Si
Si
O O CH2CH2CH2CH2CH2CH
Fase stazionaria
(Silice chimicamente legata, C6)

Toluene

Figura 2. Schema del meccanismo di separazione per LC a fase inversa (RP).

cationici), mentre gli scambiatori di tipo anionico hanno gruppi ammonio


quaternario legati attraverso alcuni gruppi intermedi agli atomi di silicio.
Una descrizione più articolata della cromatografia di adsorbimento e di ripatizione
verrà fatta in seguito.

7
Fase mobile

Molecole di soluto

Fase stazionaria costituita


da un gel poroso

Figura 3. Schema del meccanismo di separazione per cromatografia di


esclusione.

8
Fase mobile (CH3CN-H2O)
X Y

CH3 Y

O O (CH2)3 CH2 N CH3


Si
Si
CH3 Cl
O
O O
CH3 X
Si
Si
O (CH2)3 CH2 N CH3
Fase stazionaria CH3 Cl
(Silice chimicamente legata, C6)

Y Molecole del campione caricate


X negativamente

Cl Controione

Figura 4. Schema del meccanismo di separazione per cromatografia a scambio


anionico.

Cromatografia liquida su colonna


La cromatografia liquida su colonna è la più antica delle tecniche
cromatografiche; le colonne usate sono costituite solitamente da un tubo di vetro
generalmente di 15-20 cm di lunghezza, diametro interno di 1-4 cm e riempita con
un materiale di impaccamento (per esempio silice). La fase mobile viene aggiunta
dalla parte superiore del tubo ed il processo di eluizione avviene per mezzo della
forza di gravità. Bisogna aggiungere che l’applicazione del campione in testa alla
colonna richiede una notevole abilità. Nonostante gli svantaggi evidenti di questo

9
metodo (soprattutto la lentezza, l’abilità manuale richiesta e lo scarso potere di
separazione), non bisogna trascurare il fatto che esso ha consentito lo sviluppo
rivoluzionario che avvenne nella chimica delle sostanze naturali negli anni 30’ e
40’.

Cromatografia liquida ad alta prestazione (HPLC)


Nella cromatografia liquida ad alta prestazione o HPLC (dall’inglese “High
Performance Liquid Chromatography”) vengono utilizzate sistemi interamente
automatizzati, che permettono di ottenere delle separazioni rapide e ad alta
risoluzione. Il flusso (costante e riproducibile) viene generato mediante pompe ad
alta pressione, mentre la presenza di un iniettore dedicato permette l’introduzione
di piccole quantità di campione in maniera altamente riproducibile. Le tipiche
colonne da HPLC sono lunghe 10-30 cm, con diametro interno tra 2 e 5 mm e
vengono impaccate con materiali a granulometria molto fine (3-10 µm). La
disponibilità commerciale di rivelatori sensibili e con un’ampia gamma di
applicazioni permette di ottenere dati quali/quantitativi molto attendibili. Uno
schema di un sistema HPLC è illustrato in Figura 5. Gli svantaggi della tecnica
HPLC consistono nei costi notevoli della strumentazione e dei materiali di
consumo, nella necessità di manodopera specializzata e della necessità di
accoppiamento di idonei sistemi di rivelazione spettroscopici per l’identificazione
dei picchi.

Rivelatore
Colonna

Pompe

Iniettore

Solventi

Figura 5. Schema di uno strumento HPLC interfacciato con un PC.

10
Fase mobile
L’individuazione della fase mobile più opportuna rappresenta una delle fasi più
importanti del processo di ottimizzazione del metodo cromatografico ed è in
relazione alla sua forza di desorbimento o solubilizzazione (forza eluente). In
HPLC si può usare come fase mobile un solvente o una miscela di due o più
solventi. Durante l’analisi LC si può operare mantenendo costante la
composizione della fase mobile (eluizione isocratica), o variando la composizione
percentuale dei solventi (eluizione a gradiente). In Figura 6 viene illustrata una
rappresentazione grafica di un’eluizione isocratica, caratterizzata da una fase

20 Isocratica 20 Gradiente
%B %B
16 16
12 12
8 8
4 4
0 0
0 1 2 3 4 5 6min7 0 1 2 3 4 5 6min7

Figura 6. Rappresentazione grafica di eluizione isocratica (12% solvente B) e di


eluizione a gradiente lineare: la percentuale di solvente B aumenta da 0 a 16
(+4%/min).

mobile contenente il 12% di solvente B (per il solvente B viene considerato


sempre il più “forte”); nel caso dell’eluizione a gradiente si parte da 0% di B (per
1 min) fino a 16% di B ad un tempo di 5 min. Quando bisogna separare composti
che presentano caratteristiche di polarità differenti: per esempio, operando in fase
inversa (fase mobile più polare della fase stazionaria, che è apolare) è solito
diminuire la polarità (cioè aumentare la forza eluente) della miscela dei solventi (i
più comuni sono H2O, CH3CN, CH3OH) durante l’applicazione. In questo modo i
soluti polari (meno ritenuti) vengono facilmente separati dai composti non polari
(più ritenuti). L’eluizione a gradiente in LC si può considerare allo stesso modo
gascromatografia a temperatura programmata. Oltre alla polarità, vanno
considerati anche la viscosità e le caratteristiche che possono influenzare la
funzione del rivelatore (per esempio, l’intervallo, “range”, di assorbimento
nell’UV). La Tabella 1 elenca le fasi mobili più frequentemente usate in HPLC.
Un confronto fra eluizione isocratica e a gradiente nell’analisi RP-HPLC di
bifenili clorurati è riportato in Figura 7a-b. Come si può osservare, l’applicazione
isocratica (Fig. 7a) (fase mobile costituita da metanolo e acqua in parti uguali)
richiede 80 min; i picchi del cromatogramma risultante si presentano alquanto
slargati. Durante l’analisi a gradiente (Fig. 7b) la polarità della fase mobile

11
diminuisce linearmente (la forza eluente aumenta); in questo caso, la separazione
cromatografica avviene in 40 min, e i picchi sono molto meno slargati e più alti.
Poiché tutti solventi presenti in commercio (anche quelli puri per analisi)
contengono particelle in sospensione, la filtrazione dei solventi in HPLC,
mediante filtri aventi pori con dimensioni dell’ordine del µm, è essenziale. Queste
particelle possono infatti depositarsi all’interno delle pompe o in testa alla
colonna, riducendone l’efficienza. Il serbatoio del solvente (o i serbatoi per
operazioni in “gradiente”) è connesso alla pompa solitamente mediante un tubo di
teflon.

Fase normale esano, CH2Cl2, CHCl3, CH3CN, CH3OH


Fase inversa H2O, CH3CN, CH3OH
Scambio ionico tamponi acquosi
Esclusione tetraidrofurano, toluene, CHCl3

Tabella 1. Fasi mobili più frequentemente usate nelle varie tecniche LC.

4 5 50% Metanolo
a
50% Acqua
3

7
2
6

0 20 40 60 80 min

Figura 7a. Analisi RP-HPLC in isocratica di una miscela di bifenili clorurati.

12
5
4 20% MeOH / 80% H2O (0 min)
a
75% MeOH / 25% H2O (60 min)

7
3
6

0 20 40 60 80 min

Figura 7b. Analisi RP-HPLC in gradiente di una miscela di bifenili clorurati.

Pompe
La pompa viene comunemente considerata il componente più importante di un
sistema HPLC. La funzione della pompa è quella di inviare nella colonna la fase
mobile ad una pressione tale da creare il flusso desiderato. Le pompe utilizzate
negli strumenti HPLC devono possedere una serie di requisiti:
1) inerzia chimica
2) capacità di generare pressioni elevate (5000 psi) e flussi da 0,5 a 10
mL/min
3) assenza di pulsazioni o pulsazioni smorzate
4) flussi riproducibili
5) possibilità di cambiare rapidamente il solvente (eluizione a gradiente)
I tipi di pompe più utilizzate in HPLC sono a pistoni reciprocanti (molto
comuni), a doppia testa a pistoni reciprocanti e a siringa (usati soprattutto per
microHPLC). Le pompe reciprocanti sono costituite da una camma eccentrica
rotante collegata ad un motore che forza il pistone ad espellere la fase mobile
attraverso una valvola monovia (valvola di non-ritorno) (Figura 8). Quest’ultima
assicura che il liquido scorra in una direzione sola, per cui quando il pistone torna

13
serbatoio

motore
valvola
monovia
camma

pistone

camera idraulica
valvola monovia

Figura 8. Schema di una pompa reciprocante a pistone singolo.

alla colonna

valvola a sfera
di uscita

movimento
pistone

valvola a sfera
di ingresso

dal serbatoio

Figura 9. Schema di una valvola ad una via.

indietro la valvola di mandata si chiude, mentre si apre quella di aspirazione e si


riempie la camera della pompa; quando il pistone è spinto in avanti si chiude la
valvola sull’aspirazione e si apre quella sulla mandata e il solvente viene spinto

14
nella colonna (Figura 9). È chiaro che sistemi del genere generano un flusso
pulsato. Per questo motivo, si è cercato di ridurre al minimo questo aspetto
negativo con l’introduzione delle pompe reciprocanti a doppia testa. Lo schema di
un sistema di questo tipo è mostrato in Figura 10. Come si può vedere, entrambi i
pistoni vengono azionati dallo stesso motore mediante una camma unica,
permettendo uno di pompare mentre l’altro è in fase di aspirazione. Queste pompe
forniscono un flusso costante, quasi ma non totalmente esente da pulsazioni. Le
pompe a siringa consistono di un cilindro che contiene la fase mobile compressa
da un pistone, che viene fatto avanzare da un motore che aziona una vite senza
fine, generando un flusso esente da pulsazioni (Figura 11). Tra le limitazioni
vanno considerate la limitata capacità del serbatoio ed una lieve variazione di
portata all’avviamento. Bisogna aggiungere che a valle della pompa, è necessario
usare connessioni in acciaio perché il sistema è sotto pressione.

SERBATOIO

VALVOLE DI CAMERA
CONTROLLO IDRAULICA MOTORE

CAMMA
CAMERA
IDRAULICA
PISTONE

PISTONE

COLONNA VALVOLE DI CONTROLLO

Figura 10. Schema di una pompa reciprocante a doppia testa.

15
pistone

motore

solvente

guarnizione

Figura 11. Schema di una pompa a siringa.

Valvola di iniezione
L’iniettore è un dispositivo importante e delicato, perché deve consentire di
portare il campione liquido dalla pressione ambiente alla pressione presente in
testa alla colonna, possibilmente senza alterare il flusso del solvente. I sistemi di
iniezione mediante valvola, che sono gli iniettori maggiormente utilizzati in
HPLC, consentono l’introduzione del campione con notevole riproducibilità e
senza variazioni significative del flusso. Lo schema di un tipico iniettore a valvola
è illustrato nella Figura 12 (le frecce indicano la direzione di flusso del
campione): si tratta di tubi capillari d’acciaio montati su un disco metallico che
viene ruotato su un perno. Il campione viene introdotto, mediante una siringa,
entro un capillare di di acciaio (“sample loop”) caratterizzato da un volume
specifico (per esempio, 20 µL). Il riempimento del “loop” avviene quando esso
non è inserito nel circuito della fase mobile (la valvola è in posizione di carico)
(Figura 12a). Al termine del processo di “filling” (quando il campione comincia a
spurgare dal “loop”), la valvola viene fatta ruotare, cambiando così i collegamenti
fra i circuiti idraulici (Figura 12b). In questo modo il “sample loop” viene portato
in serie al circuito della fase mobile e il “loop” si inserisce nel cammino della fase
mobile (processo di iniezione). Le connessioni tra i circuiti sono rese possibili
dalla presenza di scanalature di piccole dimensioni sul rotore della valvola. Le
scanalature e tutti gli altri volumi del sistema di iniezione sono di dimensioni
minime, per evitare fenomeni di allargamento di banda al di fuori della colonna.

16
uscita campione
a) carico
ingresso capillare (loop)
campione

rotore

ingresso
eluente
b) iniezione

colonna

ingresso
eluente
ingresso
campione in
colonna

Figura 12. Iniettore a valvola in a) posizione di carico (“filling”): inserimento


della siringa; b) posizione di iniezione (“injection”).

Colonna
La separazione dei componenti in una miscela avviene all’interno della colonna,
che può essere considerato il cuore di ogni sistema cromatografico. La maggior
parte delle colonne disponibili in commercio hanno una lunghezza tra 3 e 25 cm,
diametri interni di 2,6–3 mm, ovvero di 4,6–5 mm, e sono costruite in acciaio
inossidabile. Solitamente le colonne vengono commercializzate già impaccate,
con particelle con un diametro di 3, 5 o 10 µm. Le due estremità della colonna
sono racchiuse da filtri di acciaio sinterizzato (frit), evitando così la fuoruscita
della fase stazionaria. È stato menzionato che la colonna può essere danneggiata
dalla presenza di particelle in sospensione nella fase mobile. Per evitare questo
inconveniente, è utile far precedere la colonna analitica da una precolonna
(assente nello schema di un sistema HPLC illustrato in Figura 5), che funge da
filtro. La precolonna (definita anche “guard column”), che è lunga pochi mm,
viene impaccata con lo stesso tipo di materiale usato per il riempimento della
colonna (con particelle più grosse).
I sistemi HPLC possono essere operati a temperatura ambiente o a
temperature superiori. In qualunque caso, la temperatura è un parametro che deve
essere controllato se si desidera ottenere una buona riproducibilità analitica

17
(soprattutto nei tempi di ritenzione). Infatti, variazioni minime della temperatura
possono avere un effetto notevole sugli equilibri termodinamici che si instaurano
all’interno della colonna durante il processo cromatografico. In particolare, un
incremento di questo parametro si traduce: a) nella riduzione della viscosità della
fase mobile (e, quindi, delle pressioni di esercizio), favorendo i trasferimenti di
massa; b) nella diversa solubilità degli analiti nella fase mobile e stazionaria; c)
nell’aumento della velocità di migrazione ionica nei sistemi a scambio ionico; d)
in picchi più simmetrici ed una selettività minore; e) nella riduzione della durata
della colonna; f) in una riduzione dei tempi di analisi. Gli effetti di un incremento
della temperatura di 25°C su un’analisi HPLC, in termini di velocità di analisi,
forma dei picchi e risoluzione (che diminuisce), sono evidenti nella Figura 13.

40°C

65°C

0 5 10 min
Figura 13. Due analisi HPLC sullo stesso campione, effettuate a 40 e 65°C.

Metodi di separazione più diffusi in HPLC


Come già menzionato, nella cromatografia di adsorbimento [liquid-solid
chromatography (LSC)], che è una forma di cromatografia in fase normale, il
meccanismo di separazione si basa sull’adsorbimento dei soluti sui siti attivi di
una fase solida (gel di silice nel 94% dei casi, allumina 3%, carbone 1%, florisil
2%). Nella Figura 1 è stata illustrata una separazione NP-HPLC di fenolo e 2,6-
dimetilfenolo, utilizzando esano come solvente e gel di silice come fase
stazionaria. Come si può osservare, i due componenti vengono separati abbastanza

18
agevolmente, in quanto il fenolo, che è più polare, viene ritenuto più fortemente
rispetto al 2,6-dimetilfenolo, che è meno polare.
Considerando che il gel di silice è di gran lunga la fase stazionaria più comune, la
successiva discussione sarà limitata ad esso. Il gel di silice, che è una sostanza
amorfa, polare e acida, è generalmente disponibile sotto forma di perle di vetro
rivestite con uno strato di silice porosa (particelle pellicolari sferiche) o sotto
forma di particelle totalmente porose (microparticelle porose). La superficie del
gel di silice, in entrambi i tipi di particelle, non è mai omogenea ma sono presenti
diversi tipi di gruppi funzionali, come illustrato in Figura 14.
Le interazioni responsabili dell’adsorbimento sono principalmente i legami a
idrogeno e le interazioni dipolo-dipolo, che si instaurano tra gli analiti e i gruppi
silanolici. I “centri reattivi” presentano energie di legame elevate e possono
generare dei legami irreversibili con composti molto polari. Per questo motivo è
opportuno disattivare i centri reattivi, introducendo in colonna dell’acqua o un
alcool, nell’analisi di composti polari, quali per esempio alcoli, ammine e acidi. In
questo modo si bloccano i siti più attivi, il cui adsorbimento è quasi irreversibile.

a b c
δ+ H
H H

δ
O O O O
Si Si O Si Si O Si

Figura 14. Gruppi funzionali presenti sulla superficie del gel di silice: a) gruppi
silanolici, b) gruppi silossanici, c) centri reattivi.

La dimensione delle particelle di gel di silice è un parametro che va tenuto in


grande considerazione, per diverse ragioni. Se vengono utilizzate delle particelle
con un diametro ridotto (per esempio, 3 µm), le interazioni soluto-fase stazionaria
sono più numerose in quanto l’area superficiale è maggiore. Inoltre, diminuendo
la grandezza delle particelle e a parità di lunghezza della colonna, si ottiene un
incremento dell’efficienza della colonna ma anche una maggiore resistenza al
flusso. In Figura 15, vengono illustrate tre analisi NP-HPLC effettuate con
colonne dalla stessa lunghezza ma impaccate con particelle di grandezza
differente. Dalle informazioni riportate nella stessa figura si evince che, mediante
l’utilizzo di particelle più piccole, si ottengono delle separazioni migliori, ma sono
richieste delle pressioni di esercizio maggiori.
Per poter essere separati mediante LSC, gli analiti devono essere caratterizzati da
una certa polarità, visto che la fase stazionaria è di natura polare. La fase mobile
dovrà avere caratteristiche tali da poter solubilizzare i soluti e competere con essi
per l’adsorbimento sui siti attivi. Un composto di polarità elevata [per esempio, un
acido carbossilico (-COOH)] si lega fortemente con la fase stazionaria, e, quindi,
sarà necessario usare una fase mobile polare affinché avvengono processi efficaci

19
part.: 5 µm
6000 N
P: 3000 psi
part.: 10 µm
4800 N
P: 900 psi part.: 20 µm
3000 N
P: 500 psi

1 min 1 min 1 min

Figura 15. Tre analisi NP-HPLC effettuate con particelle con un diametro di 5, 10
e 20 µm.

affinché avvengono processi efficaci di competizione e solubilizzazione (fase


mobile ad alta forza eluente). Se si devono analizzare soluti di polarità ridotta [per
esempio, un etere (ROR)] si ricorrerà ad una fase mobile con polarità bassa (fase
mobile a bassa forza eluente). Se venisse usata, in questo caso, una fase mobile ad
alta forza eluente, i soluti non sarebbero in grado di competere con essa
nell’occupazione dei siti attivi e non sarebbero affatto ritenuti (come si dice,
uscirebbero con il fronte del solvente).
Per caratterizzare le diverse polarità dei solventi si è costruita la cosiddetta scala
eluotropica dei solventi, ottenuta misurando la quantità di energia che si libera
(sotto forma di calore) quando un solvente puro interagisce con una tipologia di
fase stazionaria (ogni serie si riferisce ad una fase stazionaria specifica). Questo
parametro, che viene indicato con ε, ci fornisce un’indicazione della forza eluente.
In LSC, i solventi apolari presentano valori di ε molto bassi (~ 0); i solventi di
polarità intermedia, come i chetoni, sono caratterizzati da valori di ε intermedi (~
0.50), mentre i solventi di polarità elevata, come gli alcoli, presentano valori di ε
alti (~ 0.90).
La cromatografia LSC è molto efficace per la risoluzione di isomeri, in quanto le
interazioni con i siti attivi dipendono dalla disposizione spaziale dei gruppi
funzionali. Per esempio, gli isomeri -para sono generalmente più ritenuti degli
isomeri -orto (Figura 16). La cromatografia liquido-liquido comporta la
ripartizione degli analiti tra una fase mobile e una fase stazionaria, entrambe
liquide. Esistono essenzialmente due tipi di cromatografia liquido-liquido: a)
quando la fase stazionaria liquida impregna un supporto solido; b) quando la fase
stazionaria liquida è chimicamente legata ad un supporto solido [denominata
anche cromatografia su fasi legate (“bonded phase chromatography” – BPC)]. Nel
primo caso, i liquidi utilizzati rispettivamente come fase stazionaria e mobile,
debbono essere quasi del tutto immiscibili, e ciascuno deve essere saturo rispetto
all’altro. Questo, per impedire la solubilizzazione graduale della fase stazionaria

20
Cl

Cl Cl Cl

OH OH OH OH

Si Si Si Si

O O O O

Figura 16. Interazioni di isomeri -para -orto con i gruppi silanolici del gel di
silice.

nella fase mobile. Attualmente, la cromatografia liquido-liquido è utilizzata


raramente.
La cromatografia BPC, applicata sia in fase normale che in fase inversa, è la
metodica LC più diffusa. Il supporto generalmente usato è la silice, in quanto
permette di ottenere facilmente particelle di forma sferica, con dimensioni e pori
controllati (anche in questo caso si possono utilizzare particelle pellicolari o
porose). La formazione di una fase legata su una base di silice necessita, per
quanto possibile, che gli atomi di ossigeno superficiali siano in forma silanolica.
La silice viene attivata mediante l’utilizzo di HCl e riscaldamento a riflusso; in
questo modo, vengono idrolizzati i gruppi silossanici. Un metodo che produce fasi
legate molto stabili (fasi silossaniche), implica la reazione della silice con un
reagente silanizzante:

CH3 CH3

Si OH + Cl Si C18H37 Si O Si C18H37
-HCl
CH3 CH3

21
Partendo dalla silice attivata, posta in sospensione in un solvente aprotico (per
esempio, esano), si aggiungerà cloruro di dimetilottadecilsilano mantenendo la
miscela in ebollizione (si libera acido cloridrico). In questo modo, viene prodotta
una fase legata con due gruppi metilici ed una catena C18H37.
Le catene hanno mobilità elevata e si comportano come una fase liquida
superficiale. Le interazioni delle catene legate con i soluti e le fasi mobili, sono
prevalentemente dovute a forze di dispersione (forze di Van der Waals), attrazioni
dipolo-dipolo, legami -H o di tipo dielettrico. Nel caso della BPC in fase
normale, la fase legata consiste in uno scheletro di natura apolare (etile, propile)
recante un gruppo terminale polare, tipicamente un gruppo –CN o –NH2. Nelle
applicazioni NP-HPLC, vengono utilizzati solventi non polari come l’esano, il
cloruro di metilene ed il cloroformio.
La cromatografia liquida di ripartizione in fase inversa, con fase legata
ottadecilsilicica, è la metodica LC oggigiorno più diffusa. Tuttavia, vengono
spesso usate fasi legate che possiedono una catena idrocarburica più corta, come
ad esempio un gruppo octilsililicico. Si è generalmente osservato che le catena più
corte mostrano una selettività più spiccata verso i componenti moderatamente
polari, mentre quelle più lunghe sono più adatte per la separazione dei composti
più liofili. La fase mobile è spesso costituita da acqua (anche se non sempre) e da
un solvente miscibile meno polare, come il metanolo, l’acetonitrile, ecc. L’acqua
è il solvente più debole in quanto interagisce in modo limitato con i soluti
trattenuti nella fase legata apolare, generando tempi di ritenzione prolungati.
Aumentando la concentrazione del solvente più forte (meno polare) nell’acqua, i
soluti vengono eluiti più rapidamente. Ciò viene illustrato nella Figura 17, in cui
si possono osservare i profili cromatografici di tre composti sottoposti ad analisi
RP-HPLC, usando diverse miscele di acqua-metanolo. La scelta della fase mobile
dipende da numerosi fattori come la solubilità del campione, la miscibilità dei
solventi, la natura del campione, le caratteristiche del rivelatore e la viscosità. Per
esempio, se si impiega un rivelatore UV a lunghezza d’onda variabile è molto

25%H20/75% MeOH
40%H20/60% MeOH
50%H20/50% MeOH

10 min 7 min 5 min

Figura 17. Tre analisi RP-HPLC dello stesso campione effettuate usando come
fase mobile miscele diverse di acqua e metanolo.

importante considerare l’assorbanza UV della fase mobile nel “range” di lavoro


previsto. Se si considera la viscosità, l’acetonitrile è caratterizzato da un valore

22
molto basso (0,37 cP a 20°C) e pertanto verrà scelto quando è necessario
mantenere la pressione di esercizio a valori bassi. Inoltre, l’acetonitrile darà per lo
stesso motivo l’efficienza maggiore, in quanto i processi di trasferimento di massa
sono agevolati.
Per l’analisi RP-HPLC di miscele eterogenee, risulta sicuramente utile l’impiego
di un “gradiente”. La scelta della miscela dei solventi segue gli stessi criteri usati
nelle analisi isocratiche, con l’eccezione che debbono essere considerate le
risposte del sistema di rivelazione ai singoli componenti, come per esempio nel
caso dell’assorbanza UV. Infatti, se sussistono grosse differenze nei loro valori di
assorbanza alla lunghezza d’onda prescelta, si potrebbe osservare uno
spostamento della linea di base. Spesso, l’eluizione a gradiente risulta
assolutamente necessaria per eluire tutti i composti presenti nel campione. In
generale si desidera una variazione lineare della forza eluente se non esistono
problemi di risoluzione in una parte del cromatogramma.

Rivelatori
Il sistema di rivelazione (“detector”) ha il compito di misure un parametro
caratteristico del soluto (assorbanza UV, indice di rifrazione, peso molecolare,
ecc.) e di trasformarlo in un segnale elettrico, che viene inviato ad un sistema di
elaborazione dati. I rilevatori si distinguono in “bulk property”, sensibili cioè a
proprietà specifiche dell’insieme analita-fase mobile (per es. l’indice di
rifrazione), e in “solute property”, sensibili cioè a caratteristiche specifiche del
soluto (per es. l’assorbanza UV).
Le caratteristiche fondamentali di un sistema di rivelazione sono:
9 il segnale di fondo
9 la costante di tempo
9 la sensibilità
9 la quantità minima rivelabile (MDQ)
9 la linearità
9 l’universalità o la selettività
Il segnale generato dal rivelatore in assenza di analita (quindi, senza la presenza di
un picco) produce un segnale di fondo (linea di base), che è spesso instabile. Le
cause di ciò si esprimono in due parametri del segnale di fondo: il rumore o
disturbo (il cosiddetto “noise”) e la deriva. Il primo è caratterizzato da oscillazioni
in entrambi i sensi, che possono essere ad alta o a bassa frequenza; il secondo si
può considerare essenzialmente come un’innalzamento graduale della linea di
base (Figura 18); la deriva viene normalmente misurata per un tempo determinato.
È importante limitare l’entità del rumore in quanto è un fattore che diminuisce la
sensibilità analitica.
La minima quantità rilevabile, un parametro strettamente connesso alla sensibilità
del rilevatore, è definita come la quantità di un soluto che genera un picco che
abbia un segnale di ampiezza pari ad almeno due volte l’ampiezza del rumore
(rapporto segnale/rumore di 2). Rilevatori poco sensibili presentono valori elevati
di MDQ.
La costante di tempo (τ) è una misura del tempo di risposta caratteristico del
rilevatore. In pratica é il tempo richiesto (in secondi o millisecondi) per rispondere

23
Deriva

Rumore

Figura 18. Rappresentazione di rumore e deriva.

Risp.
100

∆E

0,632 ∆E

Flusso = 56 mL/min

0 20 40 60
Tempo (sec)
.
Figure 19. Costante di tempo.

24
al 63,2% di una improvvisa variazione del segnale, come mostrato in Figura 19.
La costante di tempo è un parametro che va selezionato con attenzione in quanto
un valore troppo basso genera un rumore eccessivo (la sensibilità diminuisce) ed
un valore troppo alto ha effetti negativi sulla separazione cromatografica. Gli
effetti negativi connessi alla riduzione della costante di tempo sull’ampiezza del
picco cromatografico sono evidenziati in Figura 20. Una raccomandazione tipica è
che la costante di tempo sia inferiore al 10% dell’ampiezza del picco a metà
altezza, wh.

0,1 sec
0,2 sec
1sec

2 sec

Figure 20. Effetti di diversi valori di τ sul picco cromatografico.

Idealmente, vi deve essere una relazione lineare tra la concentrazione dei soluti
nel campione e la risposta del rivelatore. Il “range” dinamico lineare viene
misurato considerando la minima (MDQ) e massima quantità di uno specifico
soluto che genera un segnale di entità proporzionale. In Figura 21 sono illustrati i
“range” di due rivelatori, caratterizzati da sensibilità diverse (a parità di
concentrazione forniscono una risposta diversa).
I rilevatori selettivi vengono usati per la rivelazione solo di alcuni composti (per
esempio, UV/Vis) mentre quelli universali sono adatti alla rivelazione di tutti i
soluti.
Nei sistemi HPLC vengono ampiamente impiegati come rivelatori
spettrofotometri che lavorano nel campo dell’UV e del visibile (solitamente fino a
600 nm). L’assorbimento in questa regione dello spettro è specifico di ogni
composto chimico, che sarà caratterizzato da uno spettro di assorbimento ben
definito. La semplicità di funzionamento ed il costo accessibile fanno del
rivelatore UV quello più usato. Un altro vantaggio notevole è costituito dal fatto
che questi sistemi possono operare con i solventi più comuni, in quanto non
interferiscono con assorbimenti di fondo elevati. I composti che assorbono le
radiazioni UV sono caratterizzati dalla presenza di uno o più insaturazioni (le

25
A
Risp.

MDQ Conc.

Figure 21. Risposta in funzione della concentrazione di due rivelatori con lo


stesso “range” dinamico lineare, ma con una sensibilità diversa.

molecole con doppi legami coniugati presentano assorbimenti notevoli), oppure


dalla presenza di doppietti elettronici non condivisi.
I rilevatori più semplici sono a lunghezza d’onda fissa e utilizzano come sorgente
una lampada a vapori di mercurio. Attraverso dei filtri viene isolata una riga di
emissione (solitamente a 254 nm). Ovviamente, non si può utilizzare questo
rivelatore per tutti quei composti che non assorbano alla lunghezza d’onda della
radiazione (per es. a 254 nm non si possono analizzare gli zuccheri, trigliceridi,
steroidi, barbiturici, ecc.). Per questo motivo, l’introduzione del rivelatore UV/Vis
a lunghezza d’onda variabile può essere considerata una tappa fondamentale nello
sviluppo della cromatografia liquida. Infatti, attualmente sono disponibili sistemi
UV/Vis in grado di registrare simultaneamente lo spettro completo di una
molecola, senza interrompere il flusso di solvente. Ciò viene permesso dalla
presenza di una matrice di fotodiodi lunga una striscia (“strip”) sulla quale
vengono disperse le radiazioni elettromagnetiche da parte del prisma o reticolo
dello spettrofotometro. Ogni diodo misura l’intensità del segnale a una specifica
lunghezza d’onda (Figura 22). Questo tipo di sistema richiede (da parte di un PC)
l’elaborazione, istante per istante, di tutti i segnali provenienti dai diodi. Il
rivelatore UV/Vis a lunghezza d’onda variabile è caratterizzato da una buona
sensibilità (10-6 – 10-10 g) e selettività ed offre la possibilità di operare in
gradiente.

26
Specchio

Lampada Hg

Filtro Camera sorgente

Lampada W
Lampada deuterio

Filtro
Fenditura

Reticolo

Camera
spettroscopica

Specchio

Cella Serie di diodi


Specchio

Figura 22. Schema di spettrofotometro UV/vis a serie di diodi.

Il rivelatore ad indice di rifrazione (RI) è un rivelatore universale, usato


ampiamente per separazioni preparative. Presenta una sensibilità piuttosto bassa
(~10-6 g) per cui non viene sfruttato per l’analisi di componenti in tracce. Un ben
definito valore di RI è una caratteristica fisica di ogni molecola. Spesso nascono
delle difficoltà nell’individuazione di una fase mobile che abbia un’indice di
rifrazione notevolmente diverso da quello dei soluti da analizzare, condizione
fondamentale per poter avere una buona sensibilità. Un ulteriore svantaggio è
rappresentato dalla impossibilità pratica di operare in gradiente, perché alla
variazione della composizione della fase mobile, corrisponde una deriva della
linea di base. I rivelatori RI oggi usati sono di due tipi: a deflessione e a
riflessione. Entrambi sono realizzati con una cella di misura ed una cella di
riferimento. Uno schema del rivelatore a deflessione è illustrato in Figura 23; in
questo caso viene sfruttato il principio della deflessione: si misura la deflessione
di un raggio di luce al variare dell’indice di rifrazione del liquido nella cella di
misura in confronto alla cella di riferimento. La presenza di un soluto provoca una
modificazione dell’angolo di rifrazione, generando una variazione del segnale che
raggiunge il rivelatore. L’entità del segnale è correlata alla concentrazione del
soluto.

27
LENTE LAMPADA W
FENDITURA

CAMPIONE RIFERIMENTO

FOTODIODO
CELLA

Figura 23. Schema di un rivelatore ad indice di rifrazione del tipo a deflessione.

I rivelatori a fluorescenza sono lo strumento più sensibile per quei composti che
sono fluorescenti (o che lo possono diventare attraverso la formazioni di composti
derivatizzati). Sono sistemi altamente selettivi, caratterizzati da una sensibilità che
può essere fino a mille volte più elevata rispetto ai sistemi UV. Il loro principio di
funzionamento è basato sulla misurazione dell’intensità della radiazione di
fluorescenza emessa quando un soluto è eccitato con una radiazione UV di
opportuna lunghezza d’onda (o frequenza). L’attività di fluorescenza più intensa
si ritrova in quelle molecole che hanno gruppi funzionali aromatici con transizioni
di bassa energia (π→π*). Anche i composti alifatici lineari con gruppi carbonilici
e i composti con doppi legami coniugati danno luogo ad una emissione di
fluorescenza, seppure ad un’intensità minore. Uno schema di un fluorimetro è
illustrato in Figura 24. In questo caso la sorgente è una lampada a Xe, con un
monocromatore per selezionare la lunghezza d’onda di eccitazione; a 90° gradi
rispetto alla direzione del raggio di eccitazione sono localizzati la cella ed il
monocromatore di emissione. Un tubo fotomoltiplicatore (PMT) è usato per la
rivelazione del raggio di emissione. Un esempio della sensibilità elevata di
quest’approccio è illustrato in Figura 25, che riporta un cromatogramma HPLC
relativo all’analisi di 5 pg di benzo(a)pirene.

28
Compartimento
Monocromatore Cella del campione
di eccitazione

Compartimento
di riferimento
Lampada Xe

Compartimento
Monocromatore
sorgente
di eccitazione

Figura 24. Schema di un fluorimetro per HPLC.

Il meccanismo di funzionamento del rivelatore elettrochimico si basa invece sulla


ossidazione o sulla riduzione di un soluto su un elettrodo e sulla misura della
corrente risultante. Poiché l’entità della corrente è correlata direttamente alla
concentrazione, il processo è quantitativo. Questi rivelatori si distinguono in due
classi: amperometrici e polarografici. I primi sono i più diffusi mentre i secondi
sono utilizzati per applicazioni particolari. La fase mobile deve essere resa
elettricamente conduttiva, di solito mediante addizione di un sale. Ciò ne esclude
l’utilizzo per tecniche cromatografiche caratterizzate da solventi apolari (per es.
esano) e lo permette, invece, in metodiche HPLC a scambio ionico ed in fase
inversa.
Il campo di applicazione di questi sistemi, sebbene meno ampio rispetto ai
rilevatori UV o a fluorescenza, comprende matrici di alto interesse biochimico
(per esempio, plasma ed urina). In questi casi la possibilità di ottenere una elevata
selettività e sensibilità (10-11 – 10-12 g/mL) è di estrema utilità.

29
5 pg di benzo(a)pirene

Iniezione

Tempo
Figura 25. Cromatogramma HPLC ottenuto con un rivelatore fluorimetrico.

In HPLC si può utilizzare uno spettrometro di massa (MS) come sistema di


rivelazione. La combinazione di queste due metodiche fornisce uno degli
strumenti più potenti di indagine per l’analisi di miscele complesse, in quanto
accoppia la capacità di separazione della cromatografia liquida e la capacità di
identificazione di strutture molecolari della MS. Uno schema di sistema HPLC-
MS è illustrato in Figura 26. È importante sottolineare che i sistemi MS vengono
operati sotto alto vuoto; in HPLC, la fase mobile presenta un flusso di circa 1
mL/min, che vaporizzata sviluppa un volume incompatibile con i flussi di uno
spettrometro di massa. Questo inconveniente viene superato mediante
un’interfaccia, che elimina selettivamente gran parte del solvente prima del
ingresso del campione nel sistema MS.
Attraverso l’interfaccia HPLC-MS le molecole entrano nella camera di
ionizzazione, in cui avviene la frammentazione ionica dei soluti, precedentemente
separati dal sistema cromatografico.
Gli ioni (lo ione molecolare e gli ioni frammento) prodotti vengono dapprima
separati in base al loro rapporto massa/carica, e poi rivelati da un opportuno

30
Effluente LC Spettrometro di massa

Solvente

Campione

Acquisizione dati
Al vuoto

Spettro di massa
Campione concentrato

Figura 26. Schema a blocchi di un sistema HPLC-MS.

“detector” che genera lo spettro di massa. Un esempio di spettro di massa relativo


ad un trigliceride, caratterizzato dalla presenza di frammenti ionici di mono- e
digliceridi (lo ione molecolare è assente) con i loro pesi molecolari indicati, è
illustrato in Figura 27.

Int.
577
[PO]+
500e3
POP
400e3

300e3

[PP]+
200e3
551
+
[P]
100e3
313 [O]+
339
370
310 355 389409 430 465 489506 533549 580 606 640657 685 712 743 777 803 826 856874894
0e3
300 350 400 450 500 550 600 650 700 750 800 850 m/z

Figura 27. Spettro di massa del trigliceride 1-palmitil-2-oleil-3-palmitilglicerolo.

31
Attraverso il sistema MS viene prodotto un tracciato cromatografico misurando la
corrente ionica totale (somma delle correnti ioniche dovute a tutte le masse) in
funzione del tempo. Un cromatogramma RP-HPLC-MS della frazione lipidica di
un campione di siero umano è illustrato in Figura 28.

Int. TIC(1.00)

esteri colesterolo
5000e3 trigliceridi

4500e3

4000e3

3500e3

3000e3

2500e3

2000e3

colesterolo libero
1500e3

1000e3

500e3

10 20 30 40 50 60 70 80 90 min

Figura 28. Cromatogramma RP-HPLC-MS dei lipidi del siero umano.

32
Capitolo 3

ALLARGAMENTO DI BANDA IN HPLC

La capacità separativa di una colonna impaccata viene definita come “efficienza


della colonna” (o soltanto efficienza). Tale fattore è direttamente connesso al
grado di allargamento di banda nello spazio e nel tempo. Questo processo
cromatografico è dipendente sia dalle caratteristiche intrinseche della colonna
(parametro non modificabile) sia dalle condizioni operative sperimentali
(parametri modificabili). Depositando il campione in testa alla colonna, esso
occupa un certo spessore dello strato del materiale con cui la colonna è impaccata
ossia avrà una determinata larghezza (Figura 29: t0). Durante il processo
cromatografico, oltre ad una migrazione differenziale dei composti, si ha un
allargamento della banda iniziale del soluto. Quest’allargamento è funzione del
tempo che il composto trascorre in colonna (Figura 29: t1 e t2). Questo fenomeno,
comune a tutti i processi cromatografici, è dovuto al fatto che le molecole di uno
stesso componente sono caratterizzate da velocità diverse.

t0 t1 t2

Figura 29. Processo di allargamento di banda in colonna a tempo t0, t1 e t2.

33
Ovviamente, si cerca di effettuare una scelta ottimale dei parametri analitici per
operare nelle condizioni di massima efficienza della colonna (o di minimo
allargamento di banda). Il numero dei piatti teorici (N) è un termine
adimensionale utilizzato per determinare l’efficienza:

tR
N = ( )2
wb

dove wb è l’ampiezza del picco alla base. Un parametro più utile, che non dipende
dalla lunghezza della colonna, è l’altezza equivalente di un piatto teorico (HETP)
o semplicemente altezza di un piatto (H):

L
HETP =
N

Generalmente si ricercano condizioni cromatografiche che permettano valori


minimi di HETP (e quindi massimi di N).
In un sistema HPLC, le molecole di analita in testa alla colonna sono disperse
omogeneamente in una stretta banda di forma cilindrica. Quest’ultima, durante il
processo di trasferimento lungo la colonna, subirà un graduale allargamento,
mentre l’iniziale dispersione omogenea delle molecole di soluto si trasformerà in
una distribuzione di tipo Gaussiano. Questo fenomeno, che dipende da una seriedi
fattori non eliminabili, si può calcolare con buona approssimazione mediante
l’equazione classica di Van Deemter:

HETP = H = A + B /µ- + Cµ-

L’allargamento di una banda di soluto è funzione di tre fattori, contenuti


nell’equazione: A, B, e C. Il primo, definito come “eddy diffusion” (diffusione
turbolenta), dipende solamente dal tipo di impaccamento della colonna (è
indipendente dalla velocità di flusso); più uniforme è l’impaccamento
(l’uniformità aumenta al diluire della distribuzione del diametro delle particelle)
minori sono le differenze fra i vari canalicoli e, quindi, ridotto sarà il contributo di
A. Il secondo parametro, definito come diffusione longitudinale di un’analita in un
liquido, è una misura della tendenza delle molecole di soluto a migrare da zone
più concentrate a zone meno concentrate della colonna. Questo fattore è

34
direttamente proporzionale al coefficiente di diffusione di un soluto nella fase
mobile (DM) ed inversamente proporzionale alla velocità di flusso (µ). - È chiaro
che ad un valore di flusso ridotto, il soluto ha a disposizione più tempo per
diffondere. Il fattore B è molto più importante nella GC dove i coefficienti DM
sono molto più elevati. Il fattore C corrisponde alla somma della resistenza al
trasferimento di massa in fase mobile e in fase mobile stagnante (CM) e la
resistenza al trasferimento di massa in fase stazionaria (CS). La resistenza al
trasferimento di massa in fase mobile è dovuto al fatto che le molecole più vicine
alle zone di contatto tra le fasi, avranno un più facile accesso nella fase stazionaria
rispetto ad altre molecole situate ad una distanza maggiore. Per questo motivo i
soluti situati nella zone più lontane dalla fase fissa viaggeranno ad una velocità
maggiore. Il contributo all’allargamento del picco dovuto a questo effetto è
direttamente proporzionale alla velocità di flusso. La resistenza al trasferimento di
massa in fase mobile stagnante è dovuto al fatto che la fase mobile contenuta
entro i pori delle particelle tende a ristagnare. Le molecole di soluto quindi
entrano ed escono da questi pori solo per diffusione. L’effetto è proporzionale alla
velocità di flusso della fase mobile, poiché con l’aumentare della velocità di
flusso aumenta la distanza percorsa lungo la colonna dalle molecole che
subiscono una diffusione limitata all’interno dei pori rispetto a quelle che vi
diffondono più profondamente. Il fattore CS misura le limitazioni in termini di
diffusione dell’analita nella fase stazionaria. Le molecole più vicine alle zone di
contatto tra le fasi, avranno un più facile accesso nella fase mobile rispetto ad altre
molecole situate ad una distanza maggiore all’interno della fase fissa. Anche in
questo caso, l’allargamento di banda dovuto a quest’effetto è proporzionale alla
velocità di flusso.
Riportando l’equazione di Van Deemter in grafico si ottiene un’iperbole (curva di
Van Deemter) che ha un minimo nel punto in cui si ottiene il valore più basso di
HETP (ovvero l’efficienza più elevata). La velocità (o flusso) corrispondente a
questo optimum è la velocità (o flusso) ottimale della fase mobile. In Figura 30
sono riportate 3 curve di Van Deemter relative ad analisi HPLC di terz-butil
benzene, utilizzando particelle da 3, 5 e 10 µm. Come si può osservare,
l’efficienza della colonna aumenta con una riduzione del diametro dello particelle;
inoltre, utilizzando particelle di impaccamento più piccole si ottengono flussi
ottimali più elevati (il punto minimo della curva si sposta a destra) e la parte
ascendente della curva si innalza più gradualmente (diventa possibile applicare
flussi elevati senza ridurre eccessivamente l’efficienza della colonna).

35
22 °C ; terz-butil benzene
10 µm

60

H
E 40
T
P
5 µm

20

3 µm

0
0 2 4 6 8

FLUSSO [ml/min]

Figura 30. Curve di Van Deemter relative ad analisi HPLC di terz-butil benzene
(22°C), utilizzando particelle di impaccamento da 3, 5 e 10 µm.

Riferimenti bibliografici
[1] M. Tswett, Ber. Dtsch. Botan. Ges. 24 (1906) 316.
[2] A.J.P. Martin, R.L.M. Synge, Biochem. J. 35 (1941) 1358.
[3] A.T. James, A.J.P. Martin, Biochem. J. 50 (1952) 679.

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