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Capitolo 1: Le discipline DEA

1: Cosa significa M-DEA/01?


M-DEA significa “disciplina demoetnoantropologiche”. Questa denominazione combina i nomi di 3
insegnamenti del settore scientifico-disciplinare che in Italia sono:
1) Antropologia culturale
2) Etnologia (lo studio settoriale su specifici popoli e culture di ogni parte del mondo)
3) Demologia (studio della cultura popolare e delle tradizioni popolari)

Si tratta di tre scienze umane il cui oggetto di studio è l’uomo e la cultura umana nelle sue
articolazioni etniche e nelle sue espressioni popolari.
In antropologia per cultura si intende non solo i prodotti del lavoro intellettuale come arte, letteratura
e scienza, ma il complesso degli elementi non biologici attraverso i quali i gruppi umani si adattano
all'ambiente e organizzano la loro vita sociale. Fanno parte della cultura: istituzioni, tecniche di
lavoro, forme di parentela, linguaggio etc…

2: L'origine dell’antropologia culturale


La nascita dell’antropologia culturale risale il 1871, data di pubblicazione del libro di Edward Tylor
intitolato “Primitive Culture”. Esistono altre scuole di pensiero che attribuiscono alla nascita
dell’antropologia culturale una data più lontana nel tempo, altre invece affermano che non si può
parlare di antropologia culturale prima del 1900, ovvero quando si svilupparono metodologia di
ricerca sul campo che diventano tratto distintivo della disciplina.
Tuttavia, sul piano istituzionale l'antropologia culturale nasce negli ultimi decenni del 1800: fu un
periodo di grande fiducia nella scienza e nel progresso e di uno sviluppo capitalistico visto come
inarrestabile.
Parlare di “culture primitive” però crea una tensione intellettuale: significa contrapporsi ad un senso
comune che li considera bestiali e privi di ogni cultura.

3: Vocazione per la diversità


L'attrazione per la diversità (anche nei confronti della propria cultura) sta alla base di una vocazione
critica dell'antropologia. Il confronto con l'altro costringe a una continua revisione delle nostre
categorie di ciò che il nostro senso comune dà per scontato e ci fa vedere le cose familiari sotto una
luce diversa in qualche modo le rende “strane”.
Ernesto De Martino, uno dei fondatori della moderna antropologia italiana, chiama va scandalo
etnografico questo incontro scontro con una diversità che ci costringe a rivedere i nostri sensi sistemi
categoriali e ci costringe a rivederli in un processo di costante ampliamento della nostra
consapevolezza storiografica.
L'analisi delle pratiche primitive e apparentemente bizzarre ha portato a ripensare in modo fortemente
critico alcuni fondamenti propri nella nostra vita sociale.
bisogna chiarire in via preliminare che non è possibile parlare di cultura come entità compatte ben
definite e per di più coincidenti con un popolo e un territorio.
Ciò non significa le differenze culturali non esistono più al contrario la globalizzazione per certi versi
le moltiplica pur mischiando i contesti. In questa situazione l'antropologia continua a definirsi in base
allo studio delle differenze appunto la comprensione troppo logica non può fare a meno di passare
attraverso le diversità culturali.

4: La Ricerca sul Campo


L’antropologia si distingue data la ricerca sul campo dalle altre scienze o arti che si interessano agli
altri popoli e alle loro culture. Questa pratica nasce nel 1900 dalla scuola anglosassone in
contrapposizione all’antropologia da tavolino che vigeva invece in nel 1800.
I padri fondatori di tale metodo sono stati Franz Boas (USA) e Bronislaw Malinowski (UK). Da una
parte Boas fu uno dei primi antropologi a praticare il fieldwork senza però vivere all’interno del
villaggio che intendeva studiare e riceveva gli abitanti del luogo nella propria casa per potersi
informare sulla loro cultura.
Malinowski invece era solito vivere in mezzo alla popolazione da studiare per poter vivere sulla sua
pelle le tradizioni altre.
A differenza di Boas e Malinowski gli antropologi vittoriani non erano ricercatori, egli ritenevano che
la raccolta di dati empirici e il lavoro teorico di analisi e comparazione dovessero restare separati e
affidati a persone con diversi ruoli e competenze. Dunque, non svolgevano il lavoro sul campo ma in
biblioteca utilizzando come fonti resoconti di viaggiatori, naturalisti, missionari e persone che non
avevano una preparazione specifica ma che erano stati in contatto con culture lontane e ne avevano
scritto. C’è da precisare che spesso e volentieri i dati raccolti da questi studiosi erano presi da
dilettanti non professionisti perciò si basavano su basi non solide e prive di valenza scientifica.
La figura dell’antropologo nasce data la fusione del teorico e del ricercatore e viene descritta come
specialista che riesce a mettere in pratica le sue conoscenze attraverso un’esperienza diretta sul campo
da Malinowski nel libro del 1922 “Argonauts of Western Pacific” (testo incentrato sulla descrizione
del kula ring: un complesso sistema di scambio cerimoniale di oggetti preziosi). Malinowski descrive
l'importanza di avere una preparazione teorica e metodologica da portare con se come bagaglio
culturale durante un’esperienza di studio in prima persona. Senza la preparazione teorica infatti
l’osservatore non sarebbe in grado di individuare i tratti rilevanti di un contesto culturale e, di
conseguenza, non saprebbe trasformare i documenti o dati l'esperienza vissuta.
Malinowski conia anche l'espressione osservazione partecipante per indicare quello stile di ricerca
per cui l’antropologo vive all'interno della comunità, condivide la quotidianità ed entra in rapporti
personali con i suoi membri partecipano alle più importanti pratiche sociali per una durata non
inferiore a un anno tagliando i ponti e i rapporti con la società di provenienza.
un'esperienza di questo tipo può provocare però vere e proprie crisi esistenziali: dopo la morte di
Malinowski pubblicato il suo diario di viaggio nella quale si trovarono appunti riguardanti la sua
permanenza nelle isole Trobriand. Dalle sue pagine veniva fuori un uomo frustrato, infastidita dalla
società stessa che stava studiando e che non vedeva l'ora di tornare a casa e da questa pubblicazione
vennero poi fuori dei dibattiti sul ruolo della soggettività nella ricerca sul campo.
La ricerca sul campo deve adottare un approccio olistico ovvero deve andare a studiare tutti gli aspetti
di una cultura: linguaggio, aspetti economici, politici, strutture di parentela, pratiche religiose etc
Altri strumenti metodologici molto importanti oltre all’osservazione partecipante sono: schemi
genealogici, interviste strutturate, schedatura dei manufatti, documentazione fotografica la redazione
delle note del diario di campo.
Nonostante la ricerca sul campo sia ancora in nucleo centrale delle discipline DEA, ciò che va
ridefinito è il concetto di “campo”, che diviene quindi un luogo non più statico, ma dinamico ed in
movimento. Oggi però sono diverse le condizioni e permettono l'immaginazione di un antropologo
come eroe solitario che esplora una cultura, anche se in forme diverse la ricerca sul campo continua a
essere il nucleo centrale delle discipline DEA.

5: Gli specialisti disciplinari


L'antropologia si articola in diverse partizioni specialistiche in quanto è aperta ad una molteplicità di
tematiche. Tali partizioni riguardano innanzitutto le aree geografiche culturali in cui si svolge la
ricerca: Il modello classico di fieldwork dice infatti che uno studioso durante la sua carriera può
diventare esperti di due, o in casi eccezionali tre e culture (antropologi africanisti, oceanisti,
americanisti, europeisti,). C'è da precisare però che nel quadro di grandi aree gli studiosi sviluppano la
loro ricerca in regioni circoscritte o in piccoli villaggi.
Un antropologo durante i suoi studi deve prendere in esame varie tipologie di fonti:
1 Orali (le più comuni);
2 Scritte (considerate a lungo estranee da una disciplina impegnata nello studio di cultura illetterata)
3 Iconica (fotografie e video riprese)
4 Materiali (artigianato tradizionale e manufatti)
È di cruciale importanza citare almeno l'esistenza di altri tipi di antropologia:
1) A. Museale (attualmente uno dei settori più importanti della disciplina);
2) A. Storica e del mondo antico (che rappresenta le civiltà antiche come quella greca o romana);
3) A. Linguistica (che include l’etnografia delle conversazioni o del discorso);
4) A. Psicologica (che studia le variazioni culturali nella definizione del concetto di persona);
5) A. Medica e l’Etnopsichiatria (che studia gli aspetti culturali delle forme di disagio mentale);
6) A. Filosofica (che In Italia non fa parte delle discipline DEA);
7) A. Urbana (che riguarda lo studio delle grandi città);

6: Le partizioni della cultura


L'antropologia novecentesca persegue un approccio olistico che vede la cultura come un tutto, le cui
varie componenti non possono essere separate.
1) Sistemi di parentela, forme di matrimonio e vita familiare;
2) Sistemi economici, con particolare riferimento alle attività produttive e ai sistemi di scambio nelle
società di caccia e raccolta, di pastorizia, di agricoltura, e alle relative pratiche alimentari;
3) Stratificazione sociale, politica e potere;
4) Linguaggio e forme di comunicazione non verbale;
5) Religione e Magia, riti, miti e pratiche simboliche;
6) Etnoscienza, saperi indigeni naturalistici e cosmologici, e i processi cognitivi che li accompagnano;
7) Espressione estetica, con riferimento sia all’artigianato che all’arte, repertori di canti e narrazioni;
Il “Mutamento Culturale” assume però sempre maggiore importanza In quanto tutti questi aspetti
sopra elencati non sono statici ma soggetti a cambiamenti.
Un certo modo di fare antropologia è stato messo da parte, proprio perché non più in grado di rendere
ragione della complessità del mondo moderno, tecnologico, globalizzato e multiculturale. Ecco quindi
che sono nate altre sensibilità e “luoghi” d’indagine che hanno portato alla creazione di altri studi
antropologici, come ad esempio: l’antropologia urbana, del turismo, dello sport, del consumo di
massa, della violenza, di internet e delle comunità virtuali, dei processi migratori e delle relazioni
interculturali, della scuola e dei processi educativi, dell’ambiente, ecc…
Questa scala globale, sulla quale siamo costretti a ragionare, ha per sempre superato la dialettica “loro
– noi”.

7: A cosa serve l’Antropologia


La situazione in Italia non è facile per quanto riguarda ricerca e insegnamento accademico delle
discipline DEA. Per diversi motivi storici il loro potere è inferiore rispetto a discipline analoghe come
la sociologia, inoltre non vi sono facoltà universitarie specifiche.
Tuttavia, ci sono altri ambiti nei quali può essere spesa una conoscenza in antropologica:
1) Insegnamento (didattico o accademico);
2) Mediazione interculturale: gli antropologi possono essere d’aiuto nell’integrazione e nel
rapportarsi non in maniera etnocentrica con l’alterità, specie se proveniente da altri paesi.
C'è bisogno di "esperti delle differenze” in una situazione immigratoria sempre più difficile.
3) Cooperazione internazionale: partecipare alla realizzazione di progetti in grado di integrarsi con le
caratteristiche socioculturali dei diversi territori
4) Conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale etnografico: in particolare nei musei.
Al di là della sua applicazione sul piano lavorativo l’antropologia non smette di essere utile, sia sul
piano della sfera del sapere sia sul piano della sfera pubblica (natura della democrazia, giustizia,
sistemi di valori, modelli di sviluppo).
Di rilevanza capitale il tema dell’identità, oggi così tanto sbandierato e che è proprio campo
d’indagine degli antropologi.

Capitolo 2: Razza, Cultura, Etnia


1: Razza
Il termine razza veniva usato nel 1500 per indicare una discendenza, un linguaggio o un gruppo di
parentela ma nel XIX secolo il termine ha assunto un altro significato: gruppo umano caratterizzato da
specificità somatiche, intellettuali e comportamentali che si suppongono fondate biologicamente e
trasmesse per via ereditaria.
Dopodiché intorno alla metà del 1800 si diffondono dottrine razziste negli USA e in Europa. La più
celebre è quella del conte francese Gobineau che nel 1856 pubblica “Il saggio sull’ineguaglianza
delle razze umane” i cui concetti fondamentali sono:
1) La neutralizzazione di ogni tipo di differenza tra culture o civiltà umane
2) L’affermazione di una rigida gerarchia tra le razze che vede ai vertici la razza bianca
3) L’orrore per la mescolanza tra le razze
Gobineau ritiene la Razza Bianca minacciata dagli incroci con altre razze, che ne contaminano e
impoveriscono il patrimonio genetico.
Egli non crede nel progresso, la sua visione è tendenzialmente degenerativa, nel senso che la storia
(ed in particolare la storia coloniale), prevede la mescolanza tra razze e questo porterà
progressivamente ad un “inquinamento” della razza pura.
La superiorità della razza bianca sarebbe dimostrata non solo dai risultati raggiunti nella storia ma
anche dai fattori estetici come la bellezza, la regolarità del viso etc…
Gobineau affermava che la razza bianca, che aveva creato una civiltà e una morale superiore, fosse
minacciata dagli incroci con le altre razze che ne contaminano e impoveriscono il patrimonio
genetico. Dal razzismo ottocentesco c’è un’altra visione che si distanzia da quella di Gobineau che
affonda le radici nell’illuminismo e nel positivismo e che trova piena espressione nelle teorie
evoluzionistiche di Darwin e Spencer. Darwin e l’evoluzionismo mettono fine alla disputa tra teorie
monogenetiche e teorie poligenetiche delle razze.
Secondo il principio monogenetico tutta l’umanità ha una comune origine e le differenze attualmente
riscontrabili sono frutto di processi di evoluzione influenzati da circostanze storiche, ambientali e altri
fattori esterni. Per i sostenitori della poligenesi invece le differenze attuali rimandano a origini diverse
e dunque a peculiarità interne.
Secondo l’evoluzionismo l’origine è unica e le differenze si formano nel processo evolutivo e di
adattamento all’ambiente dei diversi gruppi umani. Ciò però non abbatte la gerarchia delle razze ma la
rafforza: se tutte le razze umane hanno la medesima origine. I diversi risultati storici che esse
ottengono dipendono da un migliore adattamento da una supremazia sul piano della naturale legge
della sopravvivenza del più forte. La gerarchia razziale è dunque legato al diverso adattamento dei
vari popoli.

2: Cultura
Anche il concetto di cultura si sviluppa nella seconda metà dell'Ottocento. gli antropologi per cultura
intendo non solo l'arte, letteratura o la scienza ma l'insieme di tutte quelle consuetudini, usi e
conoscenze quotidiane che una comunità possiede e attraverso le quali si è dato l'ambiente e regola le
proprie relazioni sociali.
Nell'ottocento tutti antropologi sono influenzati dal razzismo tuttavia sono interessati allo studio della
cultura intesa come elemento di differenza tra gruppi ma come si spiega la diversità culturale se tutti
gli esseri umani hanno un’origine comune?
La risposta sta nell’ipotizzare un unico processo di evoluzione culturale che si muove a velocità
diverse in diverse parti del mondo e per diversi gruppi umani. Se fosse così attualmente i popoli
primitivi starebbero vivendo uno stadio evolutivo precedente; dunque anche.se cronologicamente
sono contemporanei le società più evolute, questi popoli letteralmente sono situati in un periodo
passato rispetto ad esse.
In questo modo gli altri sono considerati uguali a noi ma solo nel senso in cui lo sono dei bambini che
vanno educati e aiutati a crescere.
Nel 900 però si ha un mutamento radicale un altro podio si afferma un punto di vista relativista e
pluralista della cultura. In questo secolo la valutazione negativa delle altre culture dipende soprattutto
beh l'incapacità di comprendere il funzionamento di codici linguistici, estetici, morali, semplicemente
diversi da quelli che ci sono più familiari.
Nasce In questo periodo il principe del relativismo culturale: non si possono formulare giudizi etici,
estetici il secondo alcuni neppure cognitivi, al di fuori di un contesto culturale poiché è il contesto
culturale stabilire i criteri di riferimento. Ogni tentativo di stabilire criteri sovra-culturali di
riferimento è etnocentrico. Il sociologo Sumner disse: Il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui
appartiene il centro del mondo e il campione di misura cui si fa riferimento per giudicare gli altri, in
linguaggio tecnico va sotto il nome di etnocentrismo.
L'etnocentrismo si trasforma spesso e volentieri in pratica discriminatoria verso gli altri e l’americano
Herskovits e il francese Lèvi-Strauss riconoscono questo atteggiamento, tuttavia pensano che sia un
segno distintivo di una società avanzata, quello di riuscire a controllare l’etnocentrismo, promuovendo
l’incontro ed il dialogo con le diverse culture.
3: Etnia
Il termine etnia è utilizzato per esprimere differenze tra gruppi umani indipendentemente dalle
suddivisioni politiche degli stati.
L’ origine del Termine è molto antico ed arrivato a noi attraverso la cultura greca prima e cristiana
poi. Nella Bibbia ethne designa i non ebrei e i non cristiani, gli altri. Il derivativo ethnici si afferma
con l’accezione spregiativa di pagani (quando cristianesimo si identificò con tutta la società
occidentale, l’accezione negativa si estenderà a tutti non occidentali).
Oggi, il termine etnico, finisce ancora con l’avere un’accezione negativa. Con etnico si identifica
infatti l’altro, il diverso, mai la cultura dominante (es musica etnica, cibo etnico, ecc… tutte cose
comunque che escono dall’ordinario).
Rischia, anche il termine etnia, di essere un altro modo per tracciare dei confini e porre delle divisioni.
Ma il rischio principale che corrono le nozioni di etnico e di etnia e la reificazione/essenzializzazione:
tra le nazioni fatti tendono ad essere lette secondo la carta geografica ovvero come si può appartenere
ad un solo stato così si appartiene ha una sola cultura o etnia. La partenza culturale ed etnica è intesa
come proprietà immutabile di un gruppo umano e di tutti gli individui che ne fanno parte. di questa
tendenza all essenzialismo/reificazione colpevole anche l'antropologia in quanto essa a lungo tempo
mostrato un'immagine eccessivamente statica e divisionista delle culture.
L'antropologia ha naturalizzato le culture, ci ha abituato a pensarla come cose che esistono prima ed
indipendentemente dai processi storici. pure ammesso che tale modello divisionista forse adeguato
alla realtà primitive classicamente studiate dall’antropologia, E sono le di certo adeguato alla realtà
attuale di un pianeta dominato dei processi di globalizzazione. Tuttavia nel senso comune e nel
linguaggio dei media, l’uso reificato persiste.

Razzismo differenzialista
La tendenza alla reificazione dei termini etnici-culturali rischia di produrre una nuova
assolutizzazione delle differenze. Il rischio è che il discorso etnico-culturale sia usato come supporto
“scientifico” di pratiche discriminatorie che sono definite “razziste”.
L’essenzialismo culturale è teorizzato in alcune forme odierne di ideologie e pertiche neo-razziste, in
particolare in quello che viene chiamato il “razzismo differenzialista”.
Al giorno d'oggi le idee di pulizia etnica non possono più essere mandate avanti nel modo in cui si
faceva in passato, il neo razzismo differenzialista non parla più di differenze naturali esso accetta il
relativismo culturale (secondo il quale tutte le culture hanno pari dignità e importanza e non possono
essere giudicate sulla base di criteri ad esse estranei) ma proprio questa tolleranza porta poi a
riaffermare quell’esigenza xenofoba: i nostri valori, le nostre convinzioni morali, sono radicate in una
ben precisa identità culturale e proprio per questo motivo le identità non devono essere mescolate.
Anche secondo Strauss bisogna evitare contaminazioni in quanto la diversità culturale è il bene
massimo da preservare per l'umanità, poiché il progresso stesso non è consentito dalla prevalenza di
una cultura su tutte le altre ma dalla compresenza di alcune diverse. Quindi è necessario favorire lo
scambio il dialogo ma bisogna anche evitare contaminazioni troppo profonde che facciano perdere
senso della diversità.

Etnocentrismo Essenzialismo culturale


(la mia cultura è la migliore) (ogni cultura ha uguale valore)

↓ ↓

Razzismo Razzismo Differenzialista


(la mia razza è superiore) (ciascuno a casa propria)

5
Pierre-Andrè Taguieff descrive tre atteggiamenti intellettuali e tre tipi di pratiche come
denominatori comuni rispettivamente dell'Ideologia Razzista e del Comportamento razzista
Sono tre i gradi progressivi dell’Ideologia Razzista:
1° - Categorizzazione Essenzialista (Individuazione): è il pregiudizio con il quale viene catalogato
un individuo solo perché appartenente ad una determinata categoria/etnia (es. “albanese”, “negro”,
“ebreo”…). Produce un giudizio a priori e totalizzante su un individuo, a cui sono associati
immediatamente tutti gli attributi e stereotipi della categoria.
Essenzializzare è un processo comune, tuttavia affinché si possa parlare di razzismo bisogna che ci sia
un’asimmetria di potere; il razzista è chi fa opera di essenzializzazione di una categoria più debole o
subalterna perché vedono in essa, una minaccia alla propria posizione.
È l'enfatizzazione generalizzata e definitiva, di differenze, reali o immaginarie, che l'accusatore
compie a proprio vantaggio e a detrimento della sua vittima, al fine di giustificare i propri privilegi o
la propria aggressione.
2° - Stigmatizzazione (Negativizzazione): una volta categorizzarti secondo una presunta immutabile
essenza, gli "altri" possono essere stigmatizzati, cioè subire un processo di esclusione simbolica,
imperniato sulla attribuzione di stereotipi negativi.
Ad essi si attribuiscono difetti congeniti, tare, impurità, qualità pericolose. Il “nemico” viene
demonizzato, disumanizzato, bestializzato.
Questo crea una distanza psicologica e morale, tale da poter giustificare ogni mezzo di
oppressione/soppressione.
La mixofobia è la paura della mescolanza e dell’ibridazione, con l'ossessione di un “contagio”,
metaforico o reale
3° - Barbarizzazione (Disumanizzazione): consiste nella convinzione che certe categorie di esseri
umani non siano civilizzabili, "che non siano perfettibili, non siano educabili, convertibili,
assimilabili".
Questo porta al massimo distacco ed esclusione dell’altro. In quanto "barbaro" esso non è solo
diverso, inferiore, pericoloso, ma rappresenta l'antitesi stessa della civiltà: è colui che non ne
riconosce i valori fondamentali.
Ciò apre la strada politiche di eliminazione, di separazione xenofoba ed anche di genocidio.
Comportamento Razzista: Taguieff distingue tre tipi o livelli di azioni legate alle precedenti
Componenti:
1° - Segregazione, Discriminazione, Espulsione: questo atteggiamento è quello di chi, per vari
motivi che possono essere di carattere strutturale-oggettivo (economico, politico, sociale, …) oppure
personale-soggettivo (esperienziale, passionale, emotivo, …), isolano e iniziano a identificare nell’
“altro”, se non un nemico, quanto meno una persona da allontanare in nome del proprio bene e del
bene comune.
2° - Persecuzione e Violenza Essenzialista: azioni dirette contro una categoria in quanto tale.
Significa passare dalle parole ai fatti. Dalla semplice esclusione, alla persecuzione sia verbale che
fisica vera e propria.
3° - Genocidio: l’atto finale della violenza espressa è il desiderio di annientare l’intera
popolazione/categoria avvertita come nemica, ostile, pericolosa, non recuperabile.
Questo ci porta a pensare come in un’escalation di violenza, pur nella diversità quantitativa, vi sia un
filo rosso che lega esclusione e genocidio e come di fatto l’uno sia conseguenza dell’altro (vedere
esempio leggi razziali – Shoah).

2.6 - Antirazzismo
Anche l’antirazzismo oggi corre il rischio di adoperare gli stessi strumenti del razzismo.
Essenzializzare, Stigmatizzare ed infine Barbarizzare l’altro accusandolo di razzismo, indicandolo
come un nemico da combattere in una visione totalizzante della realtà dove il bene (l’antirazzismo)
deve combattere il male (razzismo).
Il neonazismo diventa un nemico assoluto e astratto, il Razzista è la figura negativa, un grande
seguace del Male Assoluto.
Un modello dicotomico che contrappone un Male Assoluto ad un Bene Assoluto.
Caccia alle Streghe: si corre il rischio di cercare il razzismo in ogni cosa che fa parte della società,
esasperando i termini del discorso e riconoscendo solo ciò che di male viene prodotto dagli altri.
Rischioso perché, così facendo, non si riconoscono i diversi livelli di razzismo, l'incapacità di
distinguere diversi livelli di pregiudizio, essenzializzando solo un nemico da combattere a tutti i costi.
Vi è nella nostra cultura una forte accentuazione dell’opposizione bianco (pulito, candido, buono, …)
– nero (sporco, cattivo, uomo nero, …), tuttavia si tratta di capire quanto questi meccanismi siano
radicati nella nostra cultura, come operino e come cercare di cambiarli.
Viceversa “vedere il razzismo dappertutto” rischia di far si che il vero razzismo non venga poi
realmente riconosciuto.

, DIRITTI UMANI
3.1 - La Ragione e i Costumi
Il tentativo di definire la ragione umana, in una sua forma "pura", doveva prescindere dalla
frammentaria eterogeneità dei costumi, regno dell’imperfezione e dell’apparenza. Il cammino verso
l'essenza della ragione è "una via interna" un "giro breve": una riflessione introspettiva che il pensiero
svolge su se stesso, il cogito ergo sum cartesiano.
Secondo Remotti esistono fondamentalmente due “giri” utili a capire e confrontarsi con la diversità.
Giro Breve: la filosofia ha da sempre (da Platone a Kant) ricercato un’unità ed un fondamento che
possa riconoscersi come universale. Kant lo esprime molto bene analizzando quelle che sono
considerate le tribù primitive o native della sua epoca (ad esempio gli abitanti di Tahiti), arrivando a
considerarle marginali nell’importanza della ricerca della ragione.
Ragionamento Deduttivo: Io sono un Uomo, Io ragiono così, allora tutti gli Uomini ragionano così
Giro Lungo: al precedente modello questo si oppone, ciò descrive la conoscenza come un viaggio.
Questo viaggio è lo strumento per arrivare a definire la ragione. Questa posizione viene enfatizzata
durante il periodo coloniale con la scoperta di nuove terre e nuove popolazioni, che si ponevano in
evidente contrasto con il modo di essere occidentale (esempio del cannibalismo).
Ragionamento Induttivo: attraverso l’incontro con i vari tipi di ragione e razionalità si inferiscono
tratti generali.
Michel de Montagne con il suo saggio “Sui Cannibali” approfondisce questo tema. Il cannibalismo è
una caratteristica che viene spesso attribuita ai selvaggi, è il più classico contrassegno di barbarie, una
prova della loro disumanità.
Egli però coglie la natura rituale dell'atto, atto in qualche modo morale o di pietà, che si può
contrapporre alla ben più grande barbarie dei supplizi e delle torture che gli europei infliggono ai corpi
vivi dei nemici o dei condannati, per cui i veri barbari saremo noi. Il cannibalismo è una pratica
cultuale organica e piena di senso se inquadrata nel giusto contesto.
Il pensiero di Montagne va contro l’etnocentrismo: ritiene ingiusto chiamare barbaro ciò che non si
conosce, quando l’unico strumento che si ha a disposizione per valutare la realtà di fatto non è altro
che l’esempio, le opinioni e gli usi del paese in cui si è nati.
Etnocentrismo è quello che ci fa apparire ovvio e naturale quanto ci è semplicemente familiare.
Quanto ci appare come verità e valore assoluto è invece frutto della convenzione e della consuetudine.
Montagne è sostenitore del “giro lungo”, del relativismo.
Vi è però un problema: il paradosso del Relativismo. Questo modo di pensare infatti incontra un
paradosso, ovvero quello del pensiero debole.
Se la filosofia razionale si fonda su se stessa, la filosofia relativista si fonda invece su niente di
consistente.
Su cosa Montagne può formulare il suo giudizio di irragionevolezza circa il “giro breve”?
Venir meno alla certezza del pensiero razionalista può creare dei problemi dal punto di vista
speculativo, non potendo fare esperienza di tutto quello che esiste al mondo. È interessante il punto di
vista del “giro lungo” che pone la diversità dei costumi quale agente costituente della realtà umana.

3.2: Relativismo Epistemologico o Cognitivo, riguardo alle forme di conoscenza


L’antropologia nasce in ambiente Positivista, in pieno ‘800.
Il Positivismo è incentrato sul concetto di fiducia nella scienza e nel suo metodo come chiave
interpretativa e di comprensione universale. Il “giro lungo” è infatti orientato alla comprensione di
quelle che sono le grandi leggi dello sviluppo culturale e individuare quelli che sono gli aspetti
invarianti.
L'antropologia nasce con un atteggiamento scientifico radicato nel positivismo, che tuttavia si mette
alla prova e si confronta con le istanze del “giro lungo”. Cerca leggi universali attraverso
l'esplorazione e l'incontro con il diverso ed il particolare.
Il ‘900 sembra indirizzata allo scuotimento di vecchie certezze. Es La Teoria della Relatività, la
meccanica quantistica, la psicoanalisi, fanno dubitare della tranquilla e familiare solidità del mondo
fisico.
L'antropologia del 900 indaga il tema del "primitivo dentro di noi”, che affascina l'immaginario
artistico e letterario nello stesso modo dell'inconscio freudiano.
Sono entrambe dimensioni arcaiche dell'esistenza umana sempre ben presenti sotto la crosta sottile
della civiltà.
Per l’empirismo la conoscenza si svilupperebbe su base puramente induttiva.
La verità consiste in una rappresentazione che "corrisponde" alla realtà, e la scienza ne è l'assoluto
paradigma. La filosofia abbandona la ricerca di un modello che garantirebbe una perfetta
corrispondenza con la realtà, e si concentra su una visione pratica della razionalità stessa.
L’antropologia può essere allora intesa come la discrezione empirica di contesti nei quali maturano
forme particolari irriducibili di razionalità, perciò il relativismo epistemologico riguarda il non
pretendere di possedere a priori criteri universali di razionalità prima di approcciarsi alla diversità
delle culture.
Dagli anni 30 la filosofia della scienza abbandona l'idea di una razionalità puramente induttiva.
La conoscenza induttiva non è più riconosciuta come unica realtà conoscitiva possibile e
immaginabile.
Il rapporto tra razionalità scientifica e diversità antropologica si va invertendo. Nel positivismo, la
razionalità scientifica è il solido punto di partenza rispetto al quale "spiegare" le bizzarrie delle altre
culture; nello scenario post empirista del 20º secolo, la razionalità scientifica stessa viene a poggiare
su basi storico-culturali.
Di fondamentale importanza è il dibattito tra razionalità e relativismo, di fatto non ancora risolto,
in cui però un terreno comune sul quale confrontarsi e costruire un sapere è comunque necessario.
Se non ci fossero basi comuni sulle quali confrontare “noi” e “altri”, ciascuno vivrebbe in un mondo a
sé incomprensibile ed inconcepibile agli altri e quindi ogni ricerca antropologica risulterebbe vana e
fine a se stessa.
Possiamo giudicare falsa o illogica un’affermazione/credenza all'interno di un modo di vita specifico
ma non possiamo formulare questo giudizio verso un intero linguaggio o un intero modo di vita.
La comprensione antropologica deve mostrare la stregoneria, la religione e la scienza come diverse
possibilità di dare un senso al mondo ed alla vita, come "diverse concezioni del bene e del male".
Sono peculiari forme di saggezza.
3.3 - Relativismo Etico
Il termine relativismo cognitivo/ epistemologico viene usato in modo critico a sottolineare il
rischio insito nell'abbandono di criteri universali di corrispondenza con la realtà, che porterebbe a
immaginare l'esistenza di tante realtà e verità, tutte ugualmente legittime, quante sono le culture.
Si finirebbe per pensare che ogni credenza ha lo stesso valore (es la terra è piatta anziché sferica). Non
sì condividerebbero gli stessi criteri di realtà, e sarebbe come se vivessimo in mondi diversi.
Questo non vale sul piano etico. Il relativismo etico riguarda la formulazione di giudizi morali e
sistemi di valori.
È divenuto uno strumento di lotta contro il razzismo, i pregiudizi etnici e l'oppressione coloniale.
Boas ha usato il sapere antropologico a sostegno della tolleranza, dell'uguaglianza dei diritti dei popoli
non occidentali.
Secondo il punto di vista di Herskovits il relativismo è fondato sulle solide basi della scienza.
Chiamato a collaborare alla dichiarazione dei diritti umani, sosteneva con forza che fosse necessario
menzionare il fatto che, per essere veramente universale, una dichiarazione doveva tener conto delle
particolarità di tutte le culture ed accettarle per questo.
Ma questo avrebbe creato parecchi problemi. Questo relativizzare non avrebbe finito per
deresponsabilizzare le persone di fonte alle proprie scelte? (esempio, il genocidio è spiegabile
culturalmente e quindi fondato?)
Levi-Strauss negli anni ’50 l’ Unesco chiede all’antropologo di scrivere una critica all’ideologia
razzista. Nasce così il libro “Razza e Storia”.
Come conciliare il riconoscimento della diversità con i principi di unità ed uguaglianza del genere
umano?
La soluzione consiste nell'affermare che la comune umanità si realizza attraverso e non malgrado le
differenze culturali.
Nel suo pensiero si fa spazio l’idea di progresso come di unione tra dialogo, apertura ed accoglienza
e difesa delle differenze identitarie.
Il più grande pericolo che lui vede infatti al mondo è quello dell’omologazione culturale e
dell’eliminazione delle barriere tra culture. Se in una prima fase del suo pensiero pareva più propenso
alle aperture, nella fase finale della sua vita ribalta la cosa concentrandosi soprattutto sulla difesa delle
identità culturali.
Le culture devono avere un certo grado di "sordità" ai valori delle altre culture e ciò non dipende
necessariamente dal pregiudizio e dall’intolleranza.

.4 - Antropologia e Diritti Umani

Visione rigida ed esclusiva delle culture e dell'appartenenza ad esse degli individui (negativa)
Analizzando il pensiero dei due antropologi Herskovits e Levi–Strauss, si distinguono due aspetti:
1) Herskovits ha un pensiero di tipo esclusivo nei confronti delle altre culture, vale a dire che esistono
tante morali, tante libertà, ecc… quanti sono di fatto le società esistenti.
2) Levi–Strauss usa la metafora del treno, i treni sono le culture, i passeggeri gli individui. Noi
possiamo vedere gli altri individui dal finestrino del nostro treno in corsa, attraverso il finestrino di
un altro treno in corsa, avendo così un’ immagine fuggevole e distorta. Il sistema di riferimento che
ci portiamo dietro finisce per falsare tutta la conoscenza che possiamo fare delle altre realtà
esistenti.
Visione “essenzialista”: le culture sono entità stabili nettamente definite che incombono sugli
individui, con il paradossale effetto di deresponsabilizzarli rispetto alle loro scelte.
L’essenzialismo è il pregiudizio con il quale viene catalogato un individuo solo perché fa parte di
un determinato gruppo. Passività: se gli individui non possono far altro che seguire passivamente
le norme proposte dalla loro società, allora vuol dire che non sono responsabili del male compiuto,
in quanto determinati nel farlo dalla società.
Inutile quindi appellarsi ad un’ etica o ad un diritto internazionale.
B) Sorveglianza critica costante (positiva) che l'antropologia può esercitare verso le tendenze
etnocentriche nella definizione dei diritti. Troppo spesso quanto si pretende "universale" è qualcosa
che appartiene alla moderna civiltà occidentale.
Nelle dichiarazioni “universali” Herskovits ci vede la volontà dell’uomo bianco occidentale di
portare al resto del mondo la sua civilizzazione.
Basi Universali: su quali basi allora sostenere l’universalità dei diritti umani? Un modo per ragionare
su questi termini è ragionando sui diritti dei bambini. Possono dei diritti essere validi in alcune
culture e non in altre? Anche qui l’etnocentrismo rischia di trarci in inganno. Nell’occidente ricco e
civilizzato, i bambini sono tenuti in grandissima considerazione, protetti educati, spesso addirittura
tutto viene fatto in funzione loro.
Questo fatto non è sempre stato così, ma è stata una novità piuttosto recente della nostra cultura.
Come confrontarsi con le altre culture? Il sociologo Rosen ha detto che la volontà di dare una norma
universale al riguardo ha fatto si che non si tenesse conto delle specificità e ha portato a
considerare tutte le altre modalità di educazione inumane. Come pensare a un bambino africano
che di fatto diventa, per la sua cultura, responsabile molto tempo prima dei suoi coetanei europei o
nord americani? Es i bambini soldato o le menomazioni genitali femminili.
L’etica dei principi rischia di sostituirsi all’etica delle responsabilità. Bisogna fare attenzione che il
discorso sui diritti universali non diventi una scusa per affermare una propria immagine da imporre
ad un’altra parte di mondo.
Questo ad indicare non il disinteresse dell’antropologia nei confronti dei diritti, ma per affermare
che al centro dei diritti ci devono essere le persone vere, prese nella loro unicità e nelle loro
differenze, non le etnie, non i principi.
CAPITOLO 4 - LA RICERCA SUL CAMPO E L’EVOLUZIONE DEI METODI
ETNOGRAFICI
4.1 - “Antropologia da Tavolino”
I grandi studiosi vittoriani dell’800 non svolgevano in modo diretto la ricerca sul campo.
I loro libri erano trattati di taglio comparativo, che accostavano e discutevano racconti e resoconti di
mercanti, missionari, funzionari coloniali, naturalisti e altri viaggiatori che, trovandosi in paesi esotici,
descrivevano in modo più o meno approfondito gli usi e i costumi delle popolazioni locali
L’antropologia era dunque chiamata “da Tavolino” poiché si occupa più di comparare delle fonti
in maniera bibliografica, senza approfondire di fatto nessun argomento in particolare,
Bisogna dunque fare una distinzione tra l’antropologo comparativista e il ricercatore sul campo
poiché avevano ruoli e compiti completamente diversi:
1) Il Teorico Comparativista aveva bisogno di grandi biblioteche e di molto tempo per consultarle; i
viaggi dovrebbero distratto dal suo compito. Inoltre, l'approfondimento di una cultura specifica
avrebbe compromesso l'equilibrio di uno sguardo che doveva restare generalizzante.
Purtroppo l’antropologo vittoriano che si occupava di comparativismo, ancora risentiva
dell’atteggiamento tipico della scienza positivista, e dell’etnocentrismo nel suo approccio
interculturale. Il famoso Antropologo scozzese James Frazer nella sua opera “Il Ramo d’Oro”, fa un
immenso lavoro di comparazione delle religioni, ma cade inevitabilmente nella tendenza etnocentrica
dell’epoca.
Egli fa risalire tutte le religioni alla magia, ritiene che sia il pensiero magico alla base del pensiero
primitivo dell’umanità, basato sull’associazione delle idee, la similarità ed il contatto.
Questo pensiero porta a divinizzare i caratteri naturali che gli uomini hanno da sempre esperito nel
corso della loro storia, e ad elaborare idee sempre più complesse, come quella del Dio incarnato che
muore e risorge, a simboleggiare il ciclo dell’eterno ritorno, presente in natura nell’alternarsi delle
stagioni.
Frazer nella sua opera arriva ad affermare, come chiara prova del suo pregiudizio etnocentrico in
rapporto alla sua ricerca:
“La magia è tanto un falso sistema di leggi naturali quanto una guida fallace della condotta; tanto una
falsa scienza quanto un'arte abortita”
2) Il ricercatore su campo raccoglieva "fatti" pure attraverso viaggi e lunghe permanenze in luoghi
lontani, nei quali non poteva svolgere alcun lavoro teorico. Anzi la teoria era pericolosa perché
portatrice di "pregiudizi".

Malinowski e la nascita del moderno Fieldwork


All’inizio del 1900 l’antropologia da tavolino viene progressivamente abbandonata per lasciare spazio
al moderno fieldwork.
Osservazione e Interpretazione Scientifica non sono separabili, ma l’una ha bisogno dell’altra.
È necessaria per l'antropologo una specifica preparazione teorica e metodologica.
Bronislaw Malinowski è considerato il padre dell’antropologia moderna.
L’osservazione partecipante prevede il coinvolgimento personale e il decentramento.
Per studiare adeguatamente una cultura occorre immergersi in essa e condividere per un periodo
abbastanza lungo la vita quotidiana, le attività, il modo di pensare dei nativi. Occorre inoltre tagliarsi
fuori dalla compagnia di altri uomini “simili” e restare il più possibile a contatto stretto con gli
indigeni.
Oltre alle informazioni oggettive, bisogna stabilire un rapporto empatico con i nativi, entrare in
sintonia con la loro forma di vita. Ciò è fondamentale per cogliere gli “imponderabili della vita reale”
Lo stampo olistico sta alla base della rappresentazione etnografica, la ricerca non può isolare e
studiarne solo alcune parti di una cultura.
La cultura va considerata come una totalità (un’entità organica). Solo attraverso la considerazione nel
suo insieme dei fenomeni si può giungere ad una conoscenza integrale di essa, in tutti i suoi aspetti:
economici, religiosi, sociali, ecc...
Tuttavia anche questo aspetto porta con sé delle problematicità, infatti il rischio è quello di
rappresentare una cultura come sospesa in un eterno presente, non considerando i processi di
mutamento storico (dimensione sincronica).
4.3 - L’epoca d’oro della “Ricerca sul Campo”
Con Malinowski si assiste ad un cambio di stile, si passa dai testi comparativi alle monografie
etnografiche.
Sono testi incentrati sul rapporto esclusivo tra un ricercatore ed una cultura specifica, si cerca di
rappresentarne tutti gli aspetti, cogliendo lo stile peculiare di un modo di vita.
Nell’opera più famosa di Malinowski, “Argonauti del Pacifico Occidentale”, la cultura trobriandese è
descritta a partire da una sua particolare istituzione, dal rito del dono cerimoniale detto Kula.
Nella monografia etnografica trova spazio quel connubio di esperienza soggettiva e di tecnica
scientifica.
Il modello standard di ricerca prevede immersione intensiva e di lunga durata sul campo;
osservazione partecipante; metodi di rilevazione che privilegiano la dimensione olistica e sincronica;
forma di scrittura monografica.
Questo modello sarà quello più usato per oltre 50 anni, fino alla fine degli anni 70.
Ciascun antropologo era invitato a trovare nuove culture e popolazioni da esplorare.
Questo sforzo antropologico mirava, in un contesto di rapido mutamento che minacciava la
persistenza delle culture tradizionali, a "salvarne" il maggior numero possibile attraverso la
registrazione etnografica.
Il tutto senza compiere “ricerche doppie”, ovvero senza eseguire ricerche laddove erano già state
eseguite, per evitare risultati imbarazzanti, dove studiosi diversi avevano offerto rappresentazioni
molto distanti della medesima cultura.
Ciò avrebbe finito per minare la credibilità dell’intero sistema, come ad esempio la diatriba sulle Isole
Samoa e il cosiddetto dibattito Mead – Freeman.
In questo periodo l’antropologia crede ancora fermamente nell’oggettività della sua ricerca.
La ricerca è tesa ad una mappatura generale della cultura umana, andando a creare un’immensa banca
dati della cultura universale. In questa fase, il lavoro di Boas e Malinowski offre la possibilità al
comparativismo di tornare in voga, questa volta però non più di singole parti estrapolate dal contesto
culturale, ma prese nella loro totalità e organicità.
L’Human Relations Area File (HRAF) è un progetto nato negli Stati uniti che ha come responsabile
George P. Murdock. Questo progetto tenta di mettere insieme molte ricerche etnografiche (al
momento sono oltre 400) per poter poi effettuarne uno studio comparato delle varie culture. Di buono
questo progetto ha che si possono effettuare molte indagini statistiche e analisi comparative in
maniera semplice, di non buono c’è la eccessiva semplificazione nella quale inevitabilmente si incorre
in questo lavoro.
Oggi la tendenza è quella di affrontare i problemi producendo degli studi comparati di realtà differenti
ma che affrontano le stesse questioni, semplicemente mettendo diversi studi gli uni accanto agli altri,
nella speranza che i casi possano illuminarsi a vicenda, come nel caso di “Migrazioni transnazionali
dall’Africa”.

4.4 - Tradizioni Minoritarie


Marcel Mauss è il riferimento per quel che riguarda l’antropologia in Francia. In questo ambiente
l’antropologia diventa molto più “fluida”, infatti l’etnologia occupa uno spazio conteso tra scienza,
arte e letteratura.
Le avanguardie artistiche sono profondamente affascinate dalle civiltà “primitive” in quanto
riconoscono loro la peculiarità di un più stretto e autentico rapporto con gli universali dell’esistenza
umana, con le dimensioni del sacro e dell’inconscio che riescono a rappresentare nelle loro forme
d’arte.
Questo modo così empatico di percepire l’altrui cultura trasforma l’etnografia in un processo
iniziatico: lo studioso può imparare veramente un sistema di pensiero complesso solo come un allievo
apprende dal maestro. Siamo lontani dalla monografia etnografica di carattere Malinowskiano.
Allo stesso tempo in Europa, nei paesi che non avevano intrapreso un’iniziativa coloniale così estesa
(Italia e Germania), si sviluppa un tipo di ricerca che ha a che vedere con le culture e le tradizioni
locali, specie di carattere contadino (folkloristiche appunto).
In principio l’antropologia e il folklore sembrava avessero molti punti in comune, ma ben presto si
distaccano l’una dall’altra.
1) Una grande differenza è quella del concetto di “Field”, di “campo”. Non c’è bisogno di una
separazione tra il ricercatore folkloristico e il proprio mondo per la sua indagine, egli può andare e
venire (es dalla città alla campagna).
2) La sua attenzione sarà soprattutto orientata alla storiografia e alla raccolta di testimonianze, e non
all’aspetto olistico della realtà che si indaga.
Ernesto de Martino propone un modello innovativo che combina antropologia e studio folkloristico,
lo fa attraverso uno studio che fonde fieldworking e indagine folkloristica, indagando le regioni più
povere ed arretrate del Mezzogiorno. In seguito il suo metodo, per così dire, misto verrà ripreso anche
da altre parti da altri studiosi.

4.5 - La Decolonizzazione e la Svolta Riflessiva


A partire dagli anni ’60 vi è un progressivo ripensamento della realtà antropologica in merito ai fini e
ai metodi.
1) Il Processo di Decolonizzazione: è il fattore cruciale di questo cambiamento. Molte aree classiche
della ricerca etnografica, in particolare l’Africa, lottano per raggiungere l'indipendenza politica.
Non si può più pensare a quei popoli come "primitivi" immersi in una statica dimensione di
arretratezza.
L’Antropologia, che pretendeva di parlare di loro e per loro, è vista con sospetto: è portatrice del
punto di vista e degli interessi del dominio coloniale. Tutti gli intellettuali da qui in avanti si
formano all’interno di una forte connotazione anticoloniale.
Frantz Fanon è un autore di origine antillano. Pubblica nel 1961 un libro intitolato “I Dannati della
Terra”; in questo libro è espressa in maniera chiara l’idea che ci debba essere una rottura violenta
della realtà coloniale, quindi dei saperi che l'Occidente ha prodotto sugli “altri”; cercano di far
passare per "culture tradizionali", "pensiero primitivo" e così via dei modi di essere/pensare che
sono di fatto prodotti dal dominio coloniale stesso
L’antropologia inizia così ad avere una connotazione politica. Non si ha più una così forte pretesa
scientifica, viene invece enfatizzato il punto di vista dell’antropologo. Si cambia completamente
stile di scrittura.
Molti antropologi si trovano al centro di battaglie politiche di liberazione e per i diritti civili non
esimendosi dal perorare la causa nella quale credono.
2) Svolta Riflessiva: Vi è in questi anni un totale ripensamento epistemologico circa la capacità di
conoscere e di riconoscere come attendibili le ricerche etnografiche fino allora svolte.
Il dibattito principalmente nasce dal “Diario di Malinowski”. A seguito della pubblicazione di
quest’ultimo infatti si viene a conoscenza di una evidente incongruenza tra “Argonauti del pacifico
occidentale” e il suo “Diario” da campo, nel quale denuncia tutto il disagio della ricerca lontano da
casa, il senso di spaesamento culturale, era ossessionato dalla solitudine, l’ipocondria, e arriva
persino ad offendere i nativi che cercava di studiare.
L'apparizione del “Diario” rese pubblica l’implausibilità del modo di lavorare degli antropologi. Il
mito dello studioso sul campo simile ad un camaleonte, perfettamente in sintonia con l'ambiente
esotico che lo circonda, viene demolito.
Questo tuttavia non falsifica tutta la ricerca etnografica fino ad allora svolta, ma semplicemente fa
riflettere gli addetti ai lavori sulla “finzione” dei testi etnografici.
Questi lavori non sono “inganni” o “falsità”, ma sono “costruzioni letterarie”, non devono avere la
pretesa di essere una rappresentazione trasparente della realtà oggettiva.
L’antropologo si riscopre quindi più vicino di quanto pensava al romanziere.
Nasce così un’antropologia interpretativa. Il movimento Writing Culture propone una nuova fase
dell’etnografia, con la sperimentazione di diversi stili di scrittura, con il fine di restituire a tutto
tondo l’esperienza di ricerca. Prima c’era il Testo Comparativo, poi la Monografia Etnografica, ora
non c’è più un Unico Standard.
L’antropologo ha a disposizione un’ampia gamma di possibilità nella Rappresentazione Etnografica.

4.6 - Prospettive attuali della ricerca antropologica


La Decolonizzazione e la Svolta Riflessiva hanno cambiato il modo di intendere e praticare la ricerca,
di scrivere etnografie.
Il movimento “Writing Culture” non ha prodotto un nuovo canone di scrittura etnografica, semmai ha
ampliato la gamma delle possibilità, legittimando diversi stili ed atteggiamenti.
Oggi esistono molti modi di pensare e rappresentare l’antropologia.
I tratti comuni, che mettono in relazione tutti i tipi di studi sui quali impostare il discorso
antropologico sono:
1) Se la decolonizzazione ha rappresentato una “rivolta dell'oggetto etnografico”, tale oggetto con la
globalizzazione è definitivamente scomparso. I "primitivi" non ci sono più: non esistono più quelle
condizioni di separatezza fra porzioni di umanità, tra quelli che studiano e quelli che sono studiati.
2) L’osservazione partecipante resta una peculiarità della etnografia, così come lo resta il dialogo,
cioè il rapporto diretto e continuativo con i protagonisti dei contesti che si vogliono studiare.
3) Etnografie Multisituate: per indicare la necessità di una pluralità di prospettive. Occorre ricostruire
ampi percorsi di circolazione, seguire i movimenti su scala transnazionale.
4) Non ci sono più culture rimaste vergini da indagare e studiare. Ma anzi sono nate sempre di più
antropologie locali che interpretano, senza mediazioni di esterni, le proprie peculiarità.
5) Oggi lo studio antropologico si concentra sulla relazione tra locale e globale. Il mondo globalizzato
ha aumentato in maniera esponenziale la sua complessità e questo fa sì che oggi l’antropologia non
basti più ad interpretare la realtà, ma è spesso affiancata da altre scienze (economia, sociologia,
storia, psicologia, ….) e ha dato vita ad altre forme di studio per affrontare le nuove sfide
(antropologia urbana, nethnography, …).
6) Oggi l’antropologia conosce una sua caratteristica applicata, ovvero si presta al servizio di quelli
che sono i progetti internazionali. La materia si inaridisce così dovendo dar ragione ai committenti
dei suddetti progetti, avendo più a che fare con la burocrazia che con l’etnografia, ma allo stesso
tempo trova un’applicazione concreta al proprio lavoro cercando di analizzare le nuove sfide,
spesso transnazionali che offre il contesto contemporaneo (violenza, immigrazione, commercio,
…), trovando una rinnovata attenzione alle problematiche che investono il nostro tempo.

CAPITOLO 5 - PARADIGMI TEORICI


5.1 - La Scuola Evoluzionista
L'antropologia culturale nasce e a lungo prospera nel clima scientifico della teoria dell’evoluzione.
Molti dei primi antropologi avevano una formazione naturalista e pongono l’antropologia in
continuità con la biologia.
L’evoluzionismo antropologico così come l’evoluzionismo darwiniano ha come obiettivo quello di
risalire indietro nel tempo alla scoperta di quella che è l’origine e l’ordine della cultura.
Il problema è quello di ritrovare gli anelli mancanti di questa catena che risale fino alle origini della
cultura.
Si riesce a porre un rimedio a queste mancanze attraverso il metodo comparativo: dati incompleti di
diverse popolazioni vengono messe a paragone per far sì che l’uno possa completare l’altro.
Questa comparazione può avvenire solo in funzione del fatto che la storia è vista sotto un principio
uniformista.
Consiste nel fatto che l’evoluzione seguirebbe delle fasi evolutive che seguono sempre la stessa
sequenza.
Se l'evoluzione è uniforme, non procede però dappertutto la stessa velocità. I "primitivi di oggi" sono
popolazioni nostre contemporanee che però vivrebbero in stadi culturali precedenti.
Ovviamente questa teoria risente ancora dell’etnocentrismo che considera l’occidente europeo al
vertice della piramide, mentre le altre culture sono ancora in fase di sviluppo precedente.
Il termine “sopravvivenze” indica degli atteggiamenti che sopravvivono nella nostra cultura ma che
non hanno un senso proprio, il loro riferimento infatti è fondato in una cultura arcaica che è ormai
scomparsa. Scomparsa e dimenticata col tempo la credenza, resterebbe la pura forma, come una sorta
di fossile culturale.
Attraverso l’osservazione di questi aspetti si può risalire a ritroso ad usi e costumi che hanno fatto
parte di questa determinata cultura. Questo processo permette di ritrovare antichi significati al
presente, che ormai sono invece stati dimenticati, ci mostra le nostre vere origini ed il pensiero
magico-misterico che soggiace sotto la nostra cultura recente.
Riguardo alla Religione, Tylor affianca tutte le religioni conosciute, secondo un ordine che va dalle
più semplici alle più complesse, e si chiede se vi sono delle forme elementari che tutte hanno in
comune.
Tylor individua in tutte l’esistenza dell’anima. All'origine di ogni religione c'è stata una fase
"animistica", dalla quale si sono sviluppate successivamente forme più complesse.
Come si è arrivati però alla concezione dell’anima? Tylor prova a dare una spiegazione sulla base del
pensiero individuale, ipotizzando un filosofo selvaggio che riflette sul mondo, in particolare sulle
esperienze della morte e del sogno, che sembrano suggerire l'esistenza di un'essenza vitale degli
individui distinta e separabile dal corpo.
I tratti caratteristici della teoria antropologica evoluzionista sono ricerca delle origini dei fatti
culturali, comparativismo ad amplissimo raggio, ricostruzione ipotetica di stadi di sviluppo, centralità
esplicativa della psicologia individuale.
L’atteggiamento etnocentrico di questi studiosi vittoriani è preponderante. Essi mirano alla
costruzione di una storia universale del genere umano in cui tutto procede dal semplice al complesso.
“Complesso”, ovviamente, coincide con le istituzioni della società borghese. È come se l’evoluzione
dovesse portare necessariamente verso la proprietà privata, il matrimonio monogamico e la famiglia
nucleare, le religioni monoteistiche, il potere maschile ecc…

5.2 - Teoria Sociale della Cultura


Tra ‘800 e ‘900, alla scuola evoluzionista, si affiancano anche altre tendenze.
Le scuole evoluzioniste sulla base del principio uniformista, ritenevano possibile la poligenesi: la
nascita parallela di fatti culturali simili in aree diverse.
Le scuole diffusioniste fanno invece capo alla scuola inglese di Smith e Perry.
Il diffusionisti partono invece dall'assunto della monogenesi: di fronte a un fatto culturale presente in
aree diverse anche molto lontane occorre risalire all'unico punto di irradiazione in cui si è originato,
ricostruendo complessi processi di circolazione e scambio tra popoli. Cercano di individuare i grandi
centri di irradiazione culturale e di ricostruire questi processi di circolazione dei tratti attraverso le
prove documentarie (Es: l’Antico Egitto).
A questa scuola, di cui fa parte l’americano Boas verrà attribuito il “particolarismo storico”.
Egli critica gli evoluzionisti per il loro approccio nomotetico (ricerca delle leggi), preferendo un
approccio idiografico, cioè individuante, concentrato su casi specifici, e storico, volto a ricostruire i
processi di formazione di determinati costumi o tratti culturali.
La “teoria sociale” è ciò che manca alla visione novecentesca. A questi autori manca tuttavia la
prospettiva sociale, essa riguarda le capacità e abitudini acquisite dall'uomo "in quanto membro della
società”. Emile Durkheim è uno dei massimi esponenti di questa teoria.
L'assunto centrale è che la società è qualcosa di più della somma degli individui che la compongono:
essa funziona secondo meccanismi "oggettivi" di cui gli attori sociali non sono necessariamente
consapevoli. La società sarebbe, non soltanto la somma di più individui, ma come un complesso
organismo che finisce per determinare la vita e il pensiero delle persone che ne fanno parte.
A mediare tra individui e società, c’è quella che Durkheim chiama coscienza collettiva o
rappresentazioni collettive. Si tratta di credenze o modi di sentire comuni ai membri di una società o
cultura, che non derivano dall’esperienza.
Queste Rappresentazioni Sociali fondano la stessa esperienza, il modo di percepire gli eventi,
influenzano nei suoi livelli più profondi il pensiero individuale. Sono alla base della religione, o della
magia, e regolano la società. (Es "Le forme elementari della vita la religiosa” scritto da Durkheim nel
1912). In esso analizza la religione a partire dalla basilare contrapposizione tra il sacro ed il profano.
Il sacro si distingue per il fatto di riferirsi ad esperienze collettive o sociali.
La "potenza" che si percepisce nel sacro è la stessa che la esercita società nei confronti dell'individuo.
La divinità o le forze magico-religiose (proprio come la società) sono onnipotenti, onnipresenti,
immortali.
Gli evoluzionisti (Tylor e Frazer) parlano dell’importanza del rito e cercavano nelle "credenze" il
radicamento dell'esperienza religiosa.
Durkheim pone la forza del “rito” prima della “credenza”. L'interfaccia tra individuo e società si trova
nella performance rituale, ovvero il momento centrale in cui la collettività si impone alla coscienza
individuale e la plasma.
Secolarizzazione: anche quando il rito si libera dal linguaggio religioso, esso continua a produrre e a
rafforzare periodicamente il potere della società e la sua presa sulle esistenze individuali. Es Baumann
con lo Stato-Religione.
5.3 - Funzionalismo
L’Antropologia Sociale studia una cultura come un tutto sincronico e ciò conduce a sottolineare i
nessi funzionali tra i suoi diversi elementi, mettendo in risalto la centralità delle forme di
organizzazione sociale. L’antropologia britannica, nei primi decenni del 900, si ridefinisce in questi
termini.
La società è studiata come un sistema complesso in cui ogni parte svolge una precisa funzione
(funzionalismo) nei confronti del tutto. Non si cerca più di indagare le origini, ma si tenta di capire i
nessi e le relazioni che legano i vari aspetti delle società, come in un puzzle. Da Malinowski in poi,
questo approccio diviene il più usato.
Di fronte a qualsiasi tratto culturale inoltre, occorre stabilire a quali bisogni risponda.
Bisogni materiali, morali, psicologici, ecc…
Per esempio, la magia e la religione sono interpretate come risposte a un bisogno di rassicurazione e
di controllo dell'ansia che caratterizza le società con un basso grado di presa tecnologica sull'ambiente.
L’antropologia si occupa di persone concrete all’interno del loro contesto. La società è vista come una
totalità organica, in cui ciascuno fa la sua parte per concorrere al tutto.
Funzione di ogni pratica culturale è "il ruolo che essa svolge nella vita sociale intesa come totalità e
perciò il contributo che dà al mantenimento della continuità strutturale”
Importanza dei riti non è da trascurare. “Una società dipende, per la sua esistenza, dalla presenza nel
pensiero dei suoi membri di un certo numero di sentimenti che regolano la condotta dell'individuo in
conformità ai bisogni sociali”.
I riti sono meccanismi di trasmissione e perpetuazione di questi sentimenti, sentimenti intesi come
valori morali e sociali.
Le istituzioni sociali permettono la coesione sociale senza lo Stato, senza istituzioni politiche
centralizzate che regolano i conflitti interni e garantiscono la continuità delle forme organizzative.
Es 1: Evans-Prichard e gli Azande. Questi attribuiscono ogni disgrazia all'influsso della stregoneria. Il
responsabile dell'attacco stregante viene individuato attraverso pratiche divinatorie, gli accusati,
così individuati, accettano di compiere azioni riparatorie.
Evans-Prichard dimostra due punti:
a) in questo sistema non c'è nulla di irrazionale, è un modo di spiegare l'esperienza del male
legandola alle relazioni sociali;
b) è un modo di interpretare la conflittualità sociale. La reciproca aggressività viene incanalata
istituzionalmente e trova valvole di sfogo legittime e riconosciute da tutti.
Es 2: Evans-Prichard ed i Nuer. Questi sono organizzati in un "anarchia ordinata". I Nuer sono
suddivisi in lignaggi, o gruppi di parentela che si riconoscono in un antenato comune, non legati da
alcuna autorità centrale né amministrativa.
Nonostante questo, la società non si disgrega e i rapporti tra gruppi mantengono un loro stabile
equilibrio.
Ciò avviene in virtù di un sistema segmentario: al livello 1 (più particolare), la tribù Nuer A si
contrappone alla tribù B, ma al livello 2 (più ampio) le tribù A e B si coalizzano nel gruppo Alpha
per contrapporsi al gruppo Beta, formato dalle tribù X e Y. Queste coalizzazioni sono determinate
dagli antenati comuni. Più ampia è l'unità sociale, più l'antenato di riferimento è lontano nel tempo.
C’è un principio soggiacente, che regola in modo molto preciso, seppur inespresso, i comportamenti
politici.
Punto di Forza del Funzionalismo è l’analisi olistica della società catturate in una sorta di
immobilità sincronica.
Debolezza Cruciale del Funzionalismo è invece la difficoltà di tener conto dei processi storici e dei
mutamenti culturali.
Le società e le culture sono viste come sistemi omeostatici: organismi volti a proteggere se stessi dal
conflitto e dal cambiamento, cioè dalla storia. Tale staticità è però imposta dal dominio coloniale
occidentale.
Negli anni 50 con l'avvio dei processi di decolonizzazione, e la ripresa dei processi di mutamento,
sorge il problema del restituire una dimensione storica allo studio antropologico. L’antropologia si
occupa di valutare i cambiamenti che avvengono nelle culture.
5.4 - Strutturalismo
A partire dalla fine degli anni ’50 il funzionalismo lascia spazio allo strutturalismo. Il suo massimo
esponente è Levi-Strauss.
Il principio generatore avviene quando Levi-Strauss di fronte alla grande varietà delle forme di
parentela dei racconti mitologici, non si accontenta di classificarli, di disporli secondo un ordine
semplice-complesso arretrato-evoluto (evoluzionismo), ne di chiedersi quale funzione sociale
svolgano (funzionalismo). Cerca di scoprire il soggiacente principio che le genera, di risalire alle
strutture sociali che sono alle loro origini.
Egli parte dal linguaggio e lo analizza. Il meccanismo generativo non è semplicemente appreso
dall'esperienza, è dato a priori; è una sorta di matrice di tutti i linguaggi possibili, già presente nella
mente umana, anche se inconsciamente.
Le strutture sono precedenti all’esperienza, sono un filtro attraverso il quale viene codificato un
sapere, un linguaggio. È questo meccanismo che ci permette di imparare nuove lingue.
Ciascun campo dell'esperienza esistenziale e sociale viene ordinato da una cultura in ben precise
configurazioni: queste configurazioni cambiano da società a società, ma quando analizzate, si
mostrano basate sulle stesse matrici o modelli generatori.
Le strutture: sono queste matrici profonde ed inconsce. Non sono le “strutture sociali” del
funzionalismo, ma "categorie dello spirito umano”. Non possono essere osservate o descritte
direttamente, ma possono essere delineate attraverso l'analisi della materia empirica a cui danno
forma.
Per esempio, le forme di parentela, seppur diversissime, possono essere considerate varianti di un
unico principio: separare i matrimoni consentiti da quelli proibiti.
Strutture Elementari: sistemi che prescrivono con rigidità i coniugi possibili.
Strutture Complesse: nella scelta del coniuge intervengono altri criteri esterni alla classificazione di
parentela come la condizione economica o l’amore.
La “sintassi” che le strutture usano è universalmente la stessa: un codice binario, basato sulla
contrapposizione di opposti.
Levi-Strauss sostiene che ogni sistema culturale si sviluppa all’interno di una contrapposizione. Più
specificatamente la contrapposizione più importante è quella tra natura e cultura.
La separazione dell'umanità dallo stato naturale è il fondamento di tutte le costruzioni simboliche di
cui la cultura è fatta.
Grande importanza assume lo studio dei Miti, come racconti che attingono da una realtà arcaica e
inconscia e possono essere analizzati per scoprire le radici di una civiltà.
Utilizza questa logica “concreta” e gli elementi più immediati dell'esperienza comune: animali e
piante, aspetti del mondo naturale e di quello sociale. Li usa come operatori simbolici all'interno di un
codice binario.
Principio cruciale dell'analisi strutturale è che un singolo elemento non simboleggia mai qualcosa in
sé e per sé, ma solo in opposizione a qualcos’altro (Es la fiaba della Formica e della Cicala).
Lo strutturalismo è considerato l’ultimo -ismo grande e compatto paradigma teorico. Ciò che viene
dopo viene definito come “poststrutturalismo": non una teoria alternativa, ma una frammentazione di
approcci.

5.5 - Antropologia Interpretativa


Secondo lo strutturalismo, il significato delle opere prodotte dall’uomo non è comprensibile
dall’uomo stesso. I modelli soggiacenti possono essere colti solo dall'esterno, da uno sguardo più
comprensivo in grado di cogliere il codice nascosto.
L’approccio interpretativo inizia ultimi decenni del 900, con Clifford Geertz, che scrive
“Interpretazione di culture”, 1973 si contrappone agli assunti che strutturalismo e marxismo
condividevano, l'idea che l'antropologia abbia come compiti:
1) la scoperta di strutture nascoste e profonde che determinano il comportamento umano.
2) la loro descrizione per mezzo di un linguaggio oggettivo, indipendente rispetto agli attori sociali.
Geertz riprende la tradizione di Boas del “particolarismo storico”:
1) che guarda con sospetto ogni pretesa di stabilire leggi generali e universalmente valide.
2) di "vedere il mondo dal punto di vista dei nativi”, obiettivo conoscitivo su cui insisteva
Malinowski.
La questione del significato è cruciale per l’antropologia interpretativa.
Geertz definisce l'uomo come “un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha
tessuto”.
Come per Levi-Strauss, la cultura è anche per lui un complesso sistema di segni, un linguaggio.
La grande differenza però tra le perfette costruzioni logiche e matematiche dello strutturalismo, e
questa idea delle ragnatele, imperfette geometricamente e soprattutto fragili e volubili.
Levi-Strauss punta sulla forza dei modelli matematici, immagina un linguaggio antropologico
interamente espresso con algoritmi, con formule precise ed oggettive.
Geertz individua nella leggerezza e nella sensibilità le cruciali qualità etnografiche.
Capire il significato non significa decodificare un codice criptato o risolvere un'equivalenza logica,
semmai si tratta di un lento processo di avvicinamento per tentativi, sempre parziale e provvisorio.
Una gradualità, una comprensione sempre possibile, ma al tempo stesso sempre imperfetta.
L’Oggetto dell’antropologia secondo Levi-Strauss pesava siano i modelli.
Geertz sostiene che l’oggetto siano invece le forme di vita; l'antropologo deve comprendere queste
forme vivendole, ma deve anche in-scriverle in un testo.
Quando l'etnografo scrive, il suo lavoro è simile a quello del romanziere, anche se quest'ultimo
inventa i fatti di cui parla, laddove l'antropologo li desume dalla sua ricerca.
Geertz riconduce l’antropologia ad una scienza umanista sottraendola al determinismo scientifico,
facendo dell’aspetto descrittivo, interpretativo e “romanzesco”, una delle sue caratteristiche principali.
Il Dato Etnografico negli approcci precedenti, incluso lo strutturalismo, i dati e la loro descrizione
non sono un problema, e la teoria antropologica si gioca sul loro trattamento.
Per Geertz i problemi interpretativi sono già presenti nella descrizione, cioè nella costruzione dei
“dati", nel rapporto tra esperienza di ricerca e scrittura.

Capitolo 7: folklore cultura popolare e cultura di massa


la lettera “D” nella sigla disciplinare DEA sta per demologia, denominazione che indica lo studio
della cultura dei ceti popolari all’interno della società occidentali moderne. Laddove l'antropologia ed
etnologia si occupano dell'alterità esterna, quella di culture lontane più o meno esotiche, la demologia
e il folkclore si occupano dell'alterità interna o dei “dislivelli interni di cultura”.

1 Romanticismo e positivismo
L’interno e l’esterno, l’alterità prossima e quella lontana, fanno parte del sapere antropologico.
Tale progetto è possibile quando i ceti colti e dominanti dell’Europa moderna diventano consapevoli
della propria modernità: di essere l'avanguardia di un processo di sviluppo che procede in modo NON
UNIFORME. da questa consapevolezza si apre il campo all’alterità non moderno come oggetto di
conoscenza. il non moderno assume due sembianze
1 da un lato l’arcaico, il primitivo, il selvaggio, i luoghi non coltivati e distanti, nello spazio nel tempo
dalla civiltà
2 dall'altro il tradizionale, ciò che esiste nel cuore stesso della civiltà, più precisamente negli strati
sociali più bassi virgola in virtù di una forza di inerzia ultimo insufficiente capacità di penetrazione
del processo di civilizzazione stesso.
Come accade per il selvaggio, l'assunzione del “popolo”, si compagna di ambivalente giudizio etico
1 da una parte, la condanna dell'arretratezza, dell'ignoranza, della superstizione che caratterizza il
popolo
2 dall'altra l'esaltazione una nostalgia tutta moderna per la sua autenticità, la sua “naturalità”, le sue
primordiali virtù.
È Soprattutto il folclore contadino a rappresentare oggetto di “scandalo” per il suo ostinato attardarsi
fuori dalla modernità e nello stesso tempo oggetto di osservazione morale, in quanto il dispositivo di
lavoro e virtù genuina che andrebbero invece perduta con il processo di modernizzazione. Ancor più
dei selvaggi i ceti popolari incolti suscitano indignazione per la loro scandalosa arretratezza; Ma sono
anche oggetto di osservazione morale poiché quella stessa arretratezza li renderebbe “puri” e lontani
dagli inautentici artifici del progresso.
questa bivalenza invade i moderni studi sulla cultura popolare che si inseriscono i due grandi basi
1 romanticismo: Alla fine del XVIII secolo, la cultura dei ceti popolari e in particolare contadino
acquista un posto centrale nelle preoccupazioni degli intellettuali europei. Ad esempio, il filosofo
tedesco J.G. Herder chiamava Volksgeist lo spirito del popolo, un’anima collettiva della nazione che
trova negli usi e nei costumi, nel patrimonio lirico e narrativo orale, la sua massima espressione.
La raccolta di canti e fiabe segna in profondità la cultura romantica. Per l'Italia, la raccolta di canti
popolari toscani di Tommaso Nicolò e molto legato allo spirito risorgimentale. in questi scritti esaltato
la spontaneità e la autenticità dell'estetica popolare, concepita come frutto di una creazione collettiva,
di una originaria e quasi divina mitopoiesi (tendenza caratteristica dello spirito umano di creare miti o
considerare in modo mitico i fatti). Se ne privilegia inoltre il carattere nazionale cioe la particolarità
linguistica e culturale. Ciò non implica un uso del folclore come strumento ideologico del chiuso e
aggressivo nazionalismo ottocentesco. lo diventerà in qualche caso, ma l'iniziale ispirazione di Herder
costruisce il concetto di Volksgeist con un'apertura cosmopolita. il romanticismo nascente il
riconoscimento del radicamento locale è fattori di fratellanza e Unione tra i popoli/ concezione che
tramonterà ben presto con le tensioni del periodo napoleonico. In ogni caso romanticismo si concentra
per lo più sulla letteratura orale, sui prodotti folkloristici cui è possibile assegnare valore artistico.
2 positivismo: il positivismo che domina gli studi della seconda metà dell'Ottocento, tenta invece di
documentare tutti gli aspetti della cultura del popolo, dal punto di vista di un concetto antropologico
esteso di “cultura”. Quindi non solo fiabe canti, ma anche usi e costumi, credenze magiche
superstizione , pratica del lavoro contadino e artigianale, riti e cerimonie, tradizioni legate al ciclo
della vita. Ri positivismo non c'è un vero e proprio limite disciplinare tra folklore e antropologia;
entrambe le discipline sono interessate a documentare stavi arcaici dell evoluzione culturale
dell'umanità virgola di cui fenomeni folkloristici sarebbero le sopravvivenze (resti pietrificati, fossili
di epoche precedenti). I “selvaggi” o “primitivi di oggi”, al pari dei contadini europei vivono in un
epoca precedente, tendenza all’allontanamento dell'altro tempo o allocronia. Per la scuola di fine 800
il folclore rappresenta uno dei grandi campi per uno studio comparativo delle origini della cultura
umana . il suo metodo consiste nel ricondurre usi e costumi contemporanei a presunti antecedenti
storici, a forme originarie che nei contribuirebbero la spiegazione. Wittgenstein insisteva sulla
inutilità delle ricerche di ipotetiche origini di simili pratiche. Eppure il metodo genealogico ha
risentito lungo il declino del positivismo evoluzionistico. esso ha rappresentato un potente dispositivo
teorico in grado di stimolare e organizzare la ricerca documentaria in tutti i campi della cultura
popolare. l'ipotesi su antiche origini, per quanto non dimostrabili hanno dato una grande spinta agli
studiosi su fenomeni che altrimenti sarebbero stati inosservati. È dunque grazie anche alla geologia
che la ricerca sulla cultura popolare conosce un grande impulso nell epoca positivista. ogni cultura
nazionale produce una propria tradizione di studi: Per l'Italia Giuseppe Pitrè, medico fondatore della
“demopsicologia” (primo insegnamento universitario dedicato al folklore). ma ogni regione italiana ai
suoi appassionati raccoglitori di curiosità popolari: gli ambiti più frequentati restano quelli dei canti e
delle fiabe; importanti anche i proverbi, le filastrocche, le ninna nanne, la medicina popolare, le
credenze etc…
Agli inizi del 900 Lamberto Loria, viaggiatore, studioso e collezionista, fonda a Firenze il primo
museo di etnografia italiana, una raccolta di cultura materiale proveniente dalle diverse regioni
(diventerà poi mostra di etnografia italiana a Roma. Da ciò emerge la vitalità di un ambito di studi
che fa della grande varietà di culture regionali italiane il suo punto di forza.

2 Il Folklore come scienza e come politica


tornando Al contesto europeo, osserviamo come il folclore diventa un autonoma disciplina di studio e
non più in ambito marginale è un po' bizzarro dell'attività dei filologi. la denominazione folclore è
stata coniata nel 1846 da W.J.Thoms con l’esplicito Obiettivo di sostituire un termine anglosassone
alle denominazioni latine fino ad allora usate. Thoms definisce la sua disciplina come “manners,
customs, observances, superstition, ballads, proverb of olden time”: Una definizione che influenzerà a
lungo la disciplina, con quel riferimento ai tempi antichi che le conferisce un orientamento quasi
nostalgico al passato, ovvero una missione di salvataggio nei confronti di un patrimonio che sembra
destinato prima o poi a scomparire.
Questo nuovo termine con questa ampia diffusione nel linguaggio sia scientifico che ordinario. In
Francia Ethnologie francaise legata al patrimonio nazionale, In Germania “Volkskunde” e in “Italia
storia delle tradizioni popolari”.
Il folklore e l'antropologia si separano dopo la grande guerra come conseguenza della rivoluzione
metodologica che investe l'antropologia culturale. Gli studi di folklore non seguiranno l'antropologia,
restando legati ad un approccio di tipo filologico, ad una ricerca concentrata sui singoli tratti culturali
più che sulla vista complessiva di un intera comunità e a interesse per l'origine e la diffusione più che
per il funzionamento del sistema sociale. Nel corso del 900 demologia e antropologia si sono distinte
non solo per l'oggetto ma per un'impostazione metodologica per interessi teorici assai diversi e anche
per un diverso assetto accademico e istituzionale. mentre la tecnologia si è sviluppata in pratiche di
ricerca “pure” condotte all'interno del mondo universitario birra gli studi sulla cultura popolare, pur
non assenti dall’Accademia, hanno trovato massima espressione nei musei, nelle politiche territoriali
di valorizzazione del patrimonio.
Se da una parte l'antropologia ha prodotto una letteratura e una discussione internazionale compatte, Il
folclore sì è frammentato in scuole nazionali non sempre comunicanti.
Per questo e oggi possibile ricostruire in qualche modo una storia unitaria degli studi antropologici ed
etnologici. Per quelli folkloristici questo obiettivo è assai difficile da perseguire. Occorre tenere in
conto anche un altro aspetto degli studi del folclore: interesse per un loro uso pubblico che si
trasforma in vere e proprie forme di strumentalizzazione politica. nel XIX secolo la valorizzazione
della poesia popolare si accompagna alla costruzione di una cultura e di sentimenti nazionalisti,
divenendo un importante strumento di plasma azione della coscienza collettiva nel il moderno stato
nazionale.
I folcloristi non si limitano raccogliere tra il popolo, canti, fiabe etc ma in realtà seleziona modificano
e a volte creano loro stessi forme “popolaresche” di cultura. il loro lavoro contribuisce alla
trasmissione e alla diffusione di certi contenuti. i fratelli Grimm ad esempio, girano per le campagne
tedesche facendosi raccontare fiabe dalle anziane contadine: Puoi riscrivere i racconti in lingua
letteraria e li cambia in modo sostanziale.
I folkloristi Inoltre non restano esterni all'oggetto che studiano ma contribuiscono a costruirlo. per
quanto riguarda l'Italia molte delle forme che oggi riconosciamo come folkloristiche non hanno
affatto origini antichissime: Sono al contrario rielaborazioni o creazioni recenti promosse da soggetti
colti. Questa tendenza proseguirà nei regimi totalitari del 900. il nazismo si è appropriata del folclore
come supporto alla costruzione del mito della razza; anche nel fascismo le politiche del ministero
della cultura hanno fatto ampio uso del folclore nella creazione di mitologia italiche,
nell'organizzazione di manifestazioni di massa e altre strategie di costruzione di un compenso
popolare. questa è una politica presente anche in molti regimi di socialismo reale: in nome di una
“cultura del popolo” e contro l’elitismo borghese, Si è promosso in folk Di Stato ripulito e controllato.
Si guarda in più casi al folclore come un deposito di simboli di appartenenza identità utile a forgiare
una nuova ritualità a sostegno del potere.

3 egemonia e subalternità
gli studi di cultura popolare si sviluppano in correnti nazionali autonome e sono difficili da ricondurre
a unità.
Per quanto riguarda l’italia si verifica un brusco arresto degli studi antropologici, non solo a causa
della grande guerra Che anzi susciterà un interessante dibattito sulla diffusione di uno specifico
folclore militare. dopo la guerra sono due fattori principali a determinare l’immobilità della ricerca in
campo folkloristico e antropologico. Il primo fattore è il fascismo virgola che con le sue politiche
autarchiche toglie i contatti vitali tra gli studiosi italiani le correnti internazionali (anglosassoni e
francesi) dove più forti sono le scienze succede e l’etnografia. Questa situazione ne ha compromesso
l'autonomia e lo spessore, Portando verso un approccio ideologico a sostegno delle aggressioni
coloniali e al manifesto della razza.
il secondo fattore è stato l'idealismo storicistico di Benedetto croce ossia un indirizzo culturale che
non vede di buon occhio lo sviluppo delle scienze umane e sociali.
Neanche croce è interessato alla cultura “primitiva” o a quella dei ceti popolari che considera come
rami secchi nello sviluppo della civiltà umana. Il periodo fra le due guerre gli studi antropologici non
godono dunque in Italia di particolare vigore. Ma le cose sembrano cambiare nel secondo dopo
guerra. da un lato L'Italia si apre alla cultura internazionale dove arrivano per la prima volta
introduzione delle grandi opere della psicanalisi, della storia delle religioni e dell'antropologia;
dall'altro lato si sviluppa un indirizzo di studio autonomo che sia accentra proprio suo interesse
specifico della cultura popolare, Le cui radici sono da ricercare nel pensiero di Antonio Gramsci Il
quale elaborò nei suoi “quaderni del carcere” una versione originale della teoria marxista incentrata
sui rapporti tra struttura economica e forze sociali/ culturali. Gramsci scrisse in una lettera sulla
cultura definendolo un campo in cui le classi esercita un'azione egemonica nei confronti di quelle
subalterne. nei suoi quaderni e gli dedica alcune pagine importanti proprio al folklore , infatti ritiene
che ciò che definisci un tratto culturale come folclorico è proprio la collocazione nelle dinamiche dei
rapporti sociali. Le classi popolari non potendo accedere alla cultura dei ceti dominanti si
accontentano di frammenti quando questi cadono verso il basso; il folklore è appunto la raccolta di
questi frammenti: eppure è anche capace di organizzarsi in forme progressive o oppositive che
denunciano la subalternità e la pressione esprimendo un'aspirazione emancipativa. il Gramsci si
distacca dalle concezioni positivistiche e romantiche del folclore Hello ripensa come un rapporto fra
classi e come conseguenza diretta dei processi egemonici tramite i quali i ceti dominanti esercitano
il potere.
Il folclore si trova posto al centro della teoria e della pratica politica. Gramsci individua gli
intellettuali come principali mediatori dei progressi di egemonia culturale e virgola ipotizza la
formazione di nuovi intellettuali, “organici” non più alle classi dominanti ma quelle subalterne.
Gianni Bosio seguendo questa direzione propone una figura di intellettuale rovesciato che non insegna
ai ceti popolari ma impara da loro. Lo strumento attraverso il quale può avvenire ciò è il
“magnetofono” ossia un registratore vocale portatile che consentiva di produrre la storia dal basso
basata sulla voce diretta dei subalterni e dei lavoratori.
Cirese ricompatta l'unità di una tradizione di studi il cui nome è demologia. i vecchi studi di folklore e
come spirito della nazione o come sopravvivenza non sono da scartare, possono essere reintegrati in
una moderna scienza della cultura popolare a patto di rileggerli sullo sfondo della contrapposizione
egemonia-subalternità.
“Cultura egemonica e cultura subalterna” è la più nota delle opere di Cirese nella quale troviamo una
definizione relazionale di folkore.
Un tratto culturale non è mai di per sé alto o basso, egemonico o subalterno: la sua natura dipenderà
dal concreto e determinato contesto storico-sociale in cui si colloca. La tematica gramsciana si radica
nell’antropologia italiana e ne rappresenta l’elemento unificante e propulsivo. Ne nasce un filone di
ricerche su aspetti della cultura popolare che si avvicinano a forme di inchiesta e denuncia sociale.

4 folk revival
Con quel vasto movimento di democratizzazione della cultura esplode nella società italiana ed
europea negli anni 60 ci troviamo di fronte ad una nuova valorizzazione politica del folclore anche se
è completamente inversa rispetto a quello del fascismo.
Tra gli anni 50 70 questo apprezzamento per il valore progressivo alternativo del folclore si salda ad
un Folk revival di tipo più estetico e commerciale che riguarda fasce sempre più ampie di
popolazione.
il “folk” da oggetto di interesse specialistici gli viene un genere di consumo di massa. Tuttavia, nel
secondo dopoguerra, In Europa e in Italia si verifica una fase di grande trasformazione che in pochi
anni spazio il via al centro del folklore (il mondo contadino).
L'industrializzazione porto allo spopolamento delle campagne. l'universo culturale contadino si
disgrega: nelle regioni del 12:00 questi processi di modernizzazione hanno luogo in modo forse più
limitato. Nel ventenni o 50 70 vengono meno proprio quelle condizioni che nella visione di Gramsci e
cirese garantivano la separazione della cultura subalterna da quella egemonica: Isolamento territoriale,
la perifericità, l'impossibilità di accedere all'istruzione ecc. la modernizzazione non cancella certo le
differenze di classe ma c'è una più lineare corrispondenza fra differenze di classe differenze culturali.
se le generazioni dell inurbamento hanno cercato di disfarsi della memoria contadina , vista quasi
come un retaggio di arretratezza, le nuove generazioni hanno fatto oggetto di nostalgia, di revival, di
patrimonializzazione.
Il disgusto per la cultura di massa attraversa in quegli anni il campo intellettuale a tutti i livelli. la
sociologia critica della scuola di Francoforte considera l'industria culturale come agente di un nuovo
totalitarismo che distrugge l'autonomia individuale. In Italia, Pier Paolo Pasolini, denunciò i suoi
effetti omologanti e alienanti. Negli scritti corsari, Pasolini vede nel consumismo di massa la
principale causa di una “rivoluzione antropologica” che ha cambiato gli italiani.
“La scomparsa delle lucciole” è l'immagine poetica con cui si rappresenta l’allontanamento
dell’autenticità Della vita e della cultura contadina.
le masse popolari sì “Imborghesiscono” cadendo così in una forma tanto più totalizzante di
oppressione e falsa coscienza. C'è questa diffusa coscienza che spinge a salvare il passato contadino.
Gli enti locali Sviluppano progetti focalizzati sulla memoria , le tradizioni e le radici del passato.
Prendono vita archivi di memoria basati sulle fonti orali e musei del lavoro agricolo e della vita
contadina. tutto ciò accade sulla base dell alleanza e della convergenza i tre agenti culturali
1 gli studiosi
2 portatori delle tradizioni
3 amministrazioni locali

5 il paradigma patrimoniale
dagli anni 90 si afferma una nuova cornice o paradigma incentrata attorno alla nozione di memoria e
soprattutto a quella di patrimonio.
È proprio un istituzione internazionale, l’UNESCO che ne diventa interprete e detta il nuovo
linguaggio ai nuovi obiettivi della valorizzazione delle culture locali e tradizionali. l’UNESCO e il
promotore del pensiero anti razzista ed è contro la discussione di Levi Strauss sull etnocentrismo e
relativismo. L'attività principale di questa istituzione ha riguardato la costruzione di un quadro di
riferimenti normativi per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale dell'umanità.
Una convenzione del 1972 ha creato la lista dei beni culturali e naturali riconosciuti appunto come
“patrimonio dell'umanità” Di carattere storico artistico e monumentale.
A questalista se ne sono aggiunte altre come quella delle memoria del mondo, ossia gli archivi i
documenti e quella del “patrimonio immateriale” relativa alla cultura nel senso etnico del termine.
1 1989 raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore
2 1993 tesori umani viventi: programma volto a favorire la trasmissione si saperi tradizionali
3 1999 capolavori del patrimonio orale e intangibile dell'umanità
In questi documenti si associa l'idea di patrimonio a quella di “tesori” e “capolavori” ,
nell'individuazione di eccellenza che emergono rispetto ad uno sfondo che non merita di essere
salvaguardato. La cultura e per certi aspetti l'opposto dei monumenti e dei capolavori. tale difficoltà
caratterizza anche atti successivi all Unesco come la “dichiarazione sulla diversità culturale”
e la “convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile”. quest'ultimo documento
contribuisce alla definitiva affermazione della nozione di “intangibile” o “immateriale” per definire
quanto un tempo si chiamava folclore o cultura popolare.
In questa nozione di “patrimonio intangibile” sono ricompresi i seguenti ambiti culturali:
1) Tradizioni ed espressioni orali, incluso linguaggio.
2) arti dello spettacolo
3) pratiche sociali, riti e feste
4) conoscenze pratiche riguardanti la natura e l'universo
5) artigianato tradizionale
Questo documento rappresenta oggi lo standard di riferimento per il ministero dei beni culturali, per le
politiche delle regioni, degli enti locali e delle associazioni culturali. I documenti UNESCO parlano di
differenze in Riferimento ha proprietà visibili e spettacolari di una comunità indifferenziata e le
procedure di riconoscimento richiedono l'assenza di conflitto, un totale consenso Comunitario verso i
tratti culturali da salvare.

6 cultura popolare e cultura di massa


Cambia anche il ruolo degli antropologi: devono rapportarsi anch essi alle emergenze patrimoniali. Lo
fanno da un lato proponendosi come tecnici del patrimonio etnografico materiale o il materiale:
cercano di portare un minimo di rigore filologico. Dall'altro lato si dedicano piuttosto ad analizzare i
processi di patrimonializzazione stessi, facendo emergere le connotazioni politiche ideologiche.
Quindi si distingue uno sguardo interno alle pratiche del patrimonio che cerca di guardarle in dialogo
con altri soggetti sociali e uno sguardo che lo studio invece criticamente dall'esterno. e stato
recentemente ripensato il concetto di tradizione che deve essere inteso come un processo di attiva
costruzione di un passato significativo in relazione a esigenze del presente. Sono le dinamiche e gli
interessi del presente a decidere quali aspetti del passato occorre ricordare e quali si possono invece
dimenticare. Ancora però, persiste il problema di Gramsci e cirese, ovvero l'esistenza di dislivelli
interni nella cultura contemporanea e la correlazione delle differenze culturali differenze sociali. Il
paradigma patrimoniale proietta nel passato le differenze da proteggere.
“Non c'è uno spazio per la cultura popolare nella contemporaneità?” È possibile rispondere a questa
domanda in due modi
1cercare la cultura popolare o il moderno folklore al di fuori della sfera di influenza della cultura di
massa , negli spazi che essa lascia vuoti: anche all'interno della più avanzata modernità vi sono
condizioni. Gli aneddoti, le piccole storie, i pettegolezzi sarebbero forme di folclore contemporaneo
che si cristallizzano in veri e propri generi , come le leggende metropolitane e le barzellette.
2 Utilizzare una strategia che consiste nel cercare il “popolare” nella modalità stessa del consumo
della cultura di massa
le consuma non è una pratica passiva, implica anzi modalità molto diversa di usare e attribuire
significati dei prodotti consumati. Questo vale sia per le merci materiali, sia per la musica, film e altri
beni intangibili che vengono scelti, letti, interpretati E differenziati dai soggetti sociali.
Questo punto è stato espresso da Stuart Hall parlando di una decodifica dei prodotti di massa che non
coincide con il modo in cui la produzione industriale li ha codificati.
lo studio del consumo come pratica Culturale ha bisogno di un approccio etnografico: occorre vedere
e sentire cosa fa la gente mentre ne fruisce. E questa la direzione intrapresa da alcuni recenti sviluppi
nella ricerca socio antropologica su i dislivelli interni che insistono su un un' etnografia del quotidiano
del consumo di massa, degli aspetti non ufficiali della vita culturale. Al centro dell attenzione si
collocano gli oggetti e le pratiche ordinarie e di routine.
CAPITOLO 14 - GUERRA, VIOLENZA, GENOCIDIO
14.1 - Violenza e Cultura
La violenza di massa è la caratteristica più spettacolare e inquietante della storia del 900.
Lo ricordiamo come il “secolo delle tenebre” per via del massacro dei popoli indigeni, le guerre
mondiali, la Shoah, i genocidi del Ruanda e della ex Yugoslavia, la violenza si è scatenata su livelli
quantitativi fino ad allora impensabili.
Questa violenza di massa ripropone l'interrogativo radicale formulato da Primo Levi: "se questo è un
uomo”
Da tale problema l'antropologia culturale si è tenuta a lungo a distanza. Difficilmente nei libri degli
antropologi si trovano riferimenti alle guerre e ai conflitti. Ciò che più stupisce è che mancano i
riferimenti della violenza che colpisce il loro principale "oggetto" di studio: le popolazioni indigene
extra occidentali.
Oggi siamo consapevoli della qualità genocida dell'attacco portato alle popolazioni indigene: un
genocidio talvolta cercato e consapevole, al fine di "liberare" territori, inevitabile conseguenza dello
spossessamento di risorse.
John Bodley scrisse: “gli antropologi erano coscienti del destino che attendeva i gruppi tribali. Per un
secolo, dal 1870 al 1960, hanno visto un gruppo dopo l'altro sterminato dalle politiche dei governi, ma
non hanno fatto alcun tentativo di fermare la violenza, perché le teorie evoluzioniste dominanti
rappresentavano la scomparsa degli indigeni come naturale e inevitabile”
Gli antropologi ottocenteschi sembravano preoccupati più per la perdita del loro "dati" che non per
quella degli esseri umani. Il loro atteggiamento variava da uno rassegnato umanitarismo religioso a
uno spietato razzismo. Solo con lo sguardo di oggi questa appare una colpevole complicità. Le
denunce del potere coloniale come portatore di violenza piuttosto che di "civiltà" si sarebbero
sviluppate solo molto più tardi.
La produzione antropologica, comunque sia, sfugge sistematicamente al problema della violenza.
È come se la guerra, in quanto evento storico e contingente, fosse un elemento estraneo alla struttura
sociale che si vuole descrivere nella sua "astorica" integrità: un anomalo fattore di disturbo.
Pierre Clastres nel 1977 attribuisce alla guerra un ruolo strutturale, la vede come un elemento
permanente della società senza Stato, necessaria al mantenimento del loro equilibrio politico.
In questa fase classica della disciplina, la violenza è vista su un piano più teorico e speculativo.
Due punti di vista, simmetrici e opposti:
1° Punto “Hobbesiano”: la natura umana è tendenzialmente aggressiva e violenta
La società, per funzionare, ha bisogno di istituzioni che tengano sotto controllo e neutralizzino le
pulsioni aggressive.
A) Visione Diffusa: tale punto di vista è largamente presente in tutta la storia del pensiero occidentale,
da Aristotele a Sant'Agostino, da Machiavelli a Hobbes, e in buona parte del moderno pensiero
politico.
In antropologia è stata adottata in particolare dall'ampio filone funzionalista. Vede una quantità di
istituzioni rituali come forma di controllo del conflitto o valvole di sfogo dell'aggressività.
Per esempio la stregoneria, i riti di iniziazione, lo sport nelle società moderne.
In tutti questi casi è come se la cultura creasse degli spazi appositi in cui la violenza può
manifestarsi senza compromettere la coesione delle relazioni sociali.
B) Processo di Civilizzazione (Norbert Elias): tendenza ad eliminare sempre di più dalla sfera
pubblica le forme dirette di aggressività, violenza, contatto fisico ed espressione diretta di desideri
ed emozione. Ciò sarebbe legato all'affermazione, dopo il medioevo, di poteri centrali di tipo
statale che assumono il monopolio della violenza e impediscono ai singoli individui di esercitarla,
oppure in modalità ritualizzate e sublimate, di cui lo sport è il più vistoso esempio.
C) Naturalità dell'Aggressività: Elias presuppone questa naturalità delle disposizioni aggressive con le
quali la civiltà deve venire a patti, lasciandole sfogare in modo innocuo. È l'idea di una violenza
"naturale" che caratterizza gli individui: radicata nelle modalità di adattamento evolutivo della
nostra specie, alla base delle teorie psicoanalitiche sulla violenza e sulla guerra (Freud).
La costituzione fisica e intellettuale dell'homo sapiens, formata nel paleolitico, sarebbe compressa e
inibita nelle condizioni della modernità, e le istituzioni culturali devono sforzarsi di domarla.
2° Punto: individua la Società ed il Potere come fonti della Violenza:
L'idea che la civiltà sia fondata da un atto originario di violenza che rappresenta il significato nascosto
del potere.
È un'idea radicata in mitologie speculative come quella del Ramo d'Oro di Fraser, o di Totem e Tabù
di Freud, che radicano le istituzioni cruciali della civiltà in forme di sacrificio o uccisione cruenta. La
“messa a morte del re divino” è per Fraser il fondamento del potere statale; il “parricidio primordiale”
dà origine per Freud ai sistemi di parentela e alla religione.
Renè Girard, in La Violenza ed il Sacro, afferma l'esistenza di un nesso essenziale fra Potere Sovrano,
Sacralità e Violenza Sacrificale. La messa a morte di un capro espiatorio da parte di un'intera
comunità è il modo in cui la comunità evita la propagazione al proprio interno di una altrimenti
inestinguibile "Violenza Essenziale”.
Giorgio Agamben, stabilisce un nesso fra Sovranità, Violenza e Sacro. Il fondamento del Potere
Statale risiede in una incondizionata violenza nei confronti della “nuda vita”.
Per il filosofo ciò è il non detto di una di tutta la tradizione della filosofia politica: spiegherebbe
l'inesorabile incedere della storia occidentale verso lo svuotamento dell'ideale democratico e un
totalitarismo “biopolitico”.

14.2 - Le Nuove Guerre e la Rappresentazione Etnografica della violenza


Il silenzio della fase classica dell'antropologia sulla violenza coloniale comincia ad incrinarsi con gli
anni 60. I movimenti anticoloniali sollevano il problema in modo esplicito.
I dannati della Terra del 1961 di Franz Fanon, è incentrato proprio attorno al tema della violenza.
Solo negli ultimi decenni del Novecento si terrà un'ampia produzione basata su esperienze di ricerca
in contesti di conflitto e violenza. Lo slogan diventa “Fieldwork Under Fire”, tratto dal titolo di un
celebre libro del 1996.
Nasce così una “nuova attenzione” causata dai mutamenti della sensibilità antropologica e dalle
caratteristiche che i conflitti assumono alla fine del 20º secolo. I nuovi antropologi, formatisi negli
anni 60 e 70, sono in aperto contrasto con gli ideali di distacco e neutralità scientifica precedenti.
Una svolta riflessiva degli studi antropologici arriva con, il ripensamento delle "poetica" e delle
"politiche" della ricerca, il superamento dei modelli classici, il porre al centro dell'attenzione le
esperienze, proprie e dei propri interlocutori, di conflitto, di violenza, di memoria traumatica.
Vi fu anche un cambiamento del "campo" poiché i luoghi della ricerca antropologica classica sono
sempre più spesso Under Fire: immersi in contesti di guerra.
Per esempio, le “Nuove Guerre” sono conflitti "a bassa intensità “, di solito combattute tra forze
governative e ribelli all'interno dello stesso Stato, talvolta su base etnica.
La caratteristica principale e quella di coinvolgere capillarmente la popolazione civile. Nel 900 la
guerra ha cambiato natura. La Prima guerra mondiale è stata combattuta fra soldati, il 90% dei morti
sono stati militari. Nella Seconda guerra mondiale la metà dei morti è stata civile, le vittime dei
bombardamenti, della Shoah e dei campi di concentramento, degli eccidi consapevolmente usati come
strategia del terrore. Nei conflitti di fine secolo oltre il 90% dei morti sono civili.
Colpire e terrorizzare le popolazioni non è più un effetto collaterale, ma l'obiettivo stesso delle
strategie belliche e dei nuovi metodi di combattimento. La guerra si rivolge contro intere popolazioni
più che contro un esercito avversario, in una prospettiva di “pulizia etnica”. (Per esempio il Ruanda e
la ex Jugoslavia).
I confini tra zone di guerra e di pace si fanno indistinti: la logica della guerra irrompe nella vita
quotidiana.
In Africa si incontrano situazioni di violenza e recenti memorie traumatiche, in America latina il
confronto con la memoria delle "guerre sporche”, le pratiche repressive adottate dalle dittature militari
contro l'opposizione e nei Balcani negli anni 90 si moltiplicano i lavori sui conflitti che portano il
genocidio e la pulizia etnica nel cuore della "civilizzata" Europa: sulle violenze quotidiane nei territori
palestinesi e sui gruppi terroristici.
Come si rappresenta e si descrive la violenza? I modelli etnografici classici cercavano di scoprire e
restituire un ordine culturale, l’Ethos di una società. Ma nelle situazioni di violenza radicale è proprio
quest'ordine che viene disintegrato.
Le nuove guerre mirano consapevolmente a colpire la popolazione civile non solo attraverso eccidi,
ma anche attraverso la distruzione delle basilari strutture antropologiche. Le operazioni di pulizia
etnica mirano a rendere un territorio inabitabile, non solo colpendone l'organizzazione produttiva, ma
anche "instillando ricordi insopportabili sulla patria di un tempo e profanando tutto ciò che ha un
significato sociale”.
L’obiettivo della scrittura antropologica è farci cogliere il punto di vista dei nativi, ma di fronte alla
violenza radicale, si tratta piuttosto di restituire il senso della dissoluzione di un mondo culturale. È
come se l'etnografo, abituato a cercare di seguire faticosamente la via che porta al significato, dovesse
adesso ripercorrerla a ritroso.
Nordstrom mette in discussione l'adeguatezza del normale linguaggio delle scienze sociali, con i suoi
effetti distanzianti generalizzanti, con la sua ricerca di un coerente insieme di motivi, ragioni, cause.
Mostrare in Primo Piano: i dettagli delle atrocità e i tormenti della memoria di chi è sopravvissuto,
l'orrore della tortura, l'umiliazione e la disperazione delle vittime, colpisce con forza il lettore. Lo
shock emotivo può diventare strumento di testimonianza e di denuncia, scuotendo e indignando il
lettore, combattendo l’indifferenza.
Effetti Pornografici: ma lo spettacolo ravvicinato della violenza può suscitare effetti pornografici,
voyeuristici, una messa in scena dei corpi e anime afflitti sono oscenamente esposti nella loro più
profonda intimità.
Ci si chiede se la trasparenza etnografica sia un atteggiamento moralmente legittimo di fronte alla
sofferenza.

I mass-media ci hanno abituati allo sfruttamento delle immagini di violenza a fini di audience e di
successo commerciale. Tacere non serve però a portare testimonianza, a rendere o almeno a chiedere
pubblicamente giustizia per le vittime.

14.3 - Le Testimonianze e la Memoria Traumatica


L'equilibrio tra uno sguardo troppo distanziante e uno troppo ravvicinato, tra i rischi di una
neutralizzazione della violenza e quelli del morboso voyeurismo, è difficile da conseguire.
Una possibile soluzione può consistere in una etnografia centrata attorno alle voci dirette dei
testimoni.
Vedere l'antropologo come uno scriba, che documenta fedelmente le storie narrate dalla gente.
Nuove difficoltà:
1) Carnefici: quando i testimoni sono i perpetratori della violenza, la posizione morale del ricercatore
è difficile.
Es: I lavori sul terrorismo, sui gruppi di guerriglia, sulla violenza di Stato. Cosa fare quando, per
studiare la memoria della "guerra sporca" in Argentina, si deve cordialmente parlare con gli ex
torturatori?
2) La Voce dei Testimoni: eticamente è più facile sostenere un progetto di etnografia che si metta al
servizio delle vittime. Ma sul piano della conoscenza della comprensione, la voce delle vittime non
rappresenta in sé la verità.
Critica delle fonti soggettive: per la sua posizione di protagonista degli eventi, il testimone non può
parlare in modo oggettivo, equilibrato come invece farebbe la storia, che attraverso la critica delle
fonti valuta razionalmente l'attendibilità di ricostruzioni diverse e bilancia i diversi punti di vista.
Il discorso della storia è rivolto alla ragione alla ricerca della verità; la testimonianza fa appello al
cuore, e dovrebbe essere sempre accompagnata e temperata dalla narrazione storica.
Il problema dell'antropologia della violenza coincide con la memoria traumatica.
Yolanda Gampel ha usato il termine “Radioattività” per esprimere il modo in cui le esperienze
traumatiche ci insediano nella costituzione psichica degli individui, continuando a dire molto tempo
dopo che gli eventi si sono conclusi, e penetrando anche nelle generazioni successive.
La memoria della violenza radicale sembra agire in un'area psichica in cui le parole non esistono,
figurandosi come un indicibile che si rivela attraverso immagini, emozioni, espressioni corporee.
Lo studio della memoria traumatica si configura come un tentativo di comunicare con le soggettività
ferite:
1) Obiettivo Terapeutico: va perseguito assieme al classico obiettivo etnografico dell'estrarre
informazioni
2) Forme Pubbliche di Elaborazione del Lutto, delle rappresentazioni simboliche e delle pratiche
rituali che sono mobilitate a tal fine. Es: le commemorazioni, la costruzione di monumenti, musei.
3) Il Perseguimento della Giustizia si intreccia spesso con l'elaborazione del lutto. Attività
istituzionali, sostenuto sul piano nazionale ed internazionale, volte ad accertare giuridicamente le
responsabilità e a punire i colpevoli.
Questo riconoscimento istituzionale delle responsabilità è una delle condizioni essenziali per il
superamento del trauma.
Vi sono dunque spaccature sociali poiché la società che esce dalla violenza è sempre profondamente
divisa e conflittuale.
In America Latina si sono osservate profonde spaccature sociali fra "quanti non vogliono ricordare e
coloro che non possono dimenticare”. La memoria stessa è destinata a rimanere divisa.
Dalla Commissione d'Inchiesta Argentina sui Desaparecidos, alla Commissione per la Verità e la
Riconciliazione del Sudafrica, mostrano il complesso rapporto che si instaura tra le istanze giudiziarie,
quelle di obiettiva ricostruzione storica e quelle di "riconciliazione nazionale”.
La Memoria Divisa riguarda, secondo il filone di studi italiani riguardante le comunità colpite da
eccidi di civili da parte delle truppe di occupazione tedesche verso la fine della 2WW, il trauma delle
stragi non è stato superato dai sopravvissuti.

14.4 - Mito e Realtà del Conflitto Etnico


Il tratto specifico delle nuove guerre è la loro connessione con politiche dell'identità.
Nel linguaggio giornalistico e nell'opinione pubblica occidentale si è parlato prevalentemente di
conflitti etnici, intendendo che i gruppi in conflitto sono definiti sulla base di vincoli pre-politici, sulla
condivisione di certi tratti razziali e culturali. Le cause dei conflitti sono da individuare nell'odio
ancestrale tra gruppi etnici, che cova costantemente sotto la cenere.
Per esempio, quando sono venuti meno i "coperchi" della Jugoslavia socialista e del “colonialismo” in
Ruanda, gli ancestrali risentimenti avrebbero immediatamente spinto verso i massacri.
Decisa Critica dell'antropologia verso l'uso essenzialista delle nozioni di appartenenza e identità
etnica.
“Il Mito del Conflitto Etnico Globale” viene smontato dagli antropologi. Questo mito viene usato
dalle parti in lotta come strumento ideologico volto a conquistare contesto e a coprire più
fondamentali interessi politico-economici.
Non c'è nulla di ancestrale delle identità serba e croata, Hutu e Tutsi. Sono state particolari forze di
potere (i movimenti nazionalisti) a soffiare sul fuoco etnico e a trasformarlo in carburante per il
genocidio.
“Quando gli uomini entrano in conflitto non è perché hanno costumi o culture diverse, ma per
conquistare il potere”. L'identità non è causa dei conflitti: ne è semmai la conseguenza.
Le Istituzioni di Mediazione Internazionale hanno commesso questo grave errore, assumendo come
"naturale" il punto di vista etnico hanno finito per accreditare proprio i soggetti che alimentavano la
violenza.
Caratteristiche della Violenza di Massa:
1) si indirizzano verso nemici percepiti come etnici
2) penetrano capillarmente nella società civile scatenandosi all'interno di comunità, villaggi e quartieri
3) assumono forme particolarmente atroci con il palese ricorso a una sintassi simbolica di
disumanizzazione degli “altri”, con stupro etnico, mutilazione, stragi.
Tutto questo non è spiegabile in termini di pura razionalità economico-politica della guerra, né di soli
effetti della propaganda svolta dalle forze nazionaliste.
Arjun Appadurais i interroga sull'apparente sproporzione fra la "razionalità" politica che spinge le
autorità Hutu a massacrare i Tutsi e l'incredibile furia e atrocità con cui questo è compiuto. Uno zelo
inspiegabile da parte non solo dei militari ma della stessa gente comune, che letteralmente fa a pezzi i
"nemici" a colpi di machete.
La spiegazione di Appadurai sta nel tentativo di legare la furia della violenza etnica non a certezze
identitarie ataviche, bensì dalle incertezze che il mondo contemporaneo porta costantemente ad
esprimere a proposito delle identità nostre e altrui.
Le cornici identitarie nazionali si indeboliscono e diventano confuse di fronte a processi di
circolazione globale di persone, merci, idee. È sempre meno chiaro chi siamo "noi" e chi sono gli
"altri".
Vi è un’incertezza che diviene cruciale in situazioni di aperto conflitto, in cui il "nemico" può
nascondersi fra noi: “la sindrome dell’infiltrato”. L’esperienza quotidiana è dominata dalla sindrome
dell'infiltrato, dell'agente segreto, della falsa identità.
La violenza può anche essere considerata allora come un modo per estrarre "certezza" da una
situazione di angosciosa incertezza.
I riti atroci dei massacri si presentano come "forme brutali di disvelamento del corpo, tecniche per
esplorare, marcare, classificare i corpi di quelli che possono essere i nemici “etnici".
Il merito di questa interpretazione è di radicare la violenza in modelli culturali e categoriali profondi,
che plasmano i livelli più basilari della percezione, contro la tesi che ne riconduce le cause al puro
indottrinamento ideologico.
La sopraffazione, la crudeltà e la violenza non sono viste come pura esplosione di “furore bestiale" e
pre-culturale, ma sono governate da codici che solo un ampio approccio antropologico è in grado di
cogliere.
La violenza riscontrata presenta spesso un surplus rispetto alle finalità politiche che persegue, mostra s
piccate caratteristiche simboliche e rituali.

14.5 - Un Continuum Genocida


L'etnografia si trova con il problema della comprensione della violenza storica: in particolare della
Shoah, delle due guerre mondiali e dei crimini dei regimi totalitari che hanno caratterizzato il 20º
secolo.
Come sono state possibili simili violenze in un secolo che ha prodotto fenomeni democratizzazione
senza precedenti, l'emancipazione delle donne, la decolonizzazione, nonché una cultura della pace e
della tolleranza?
Domande Fondamentali:
1) Quali condizioni sociali politiche, economiche hanno reso possibile ciò?
2) Come è stato possibile per gli esecutori compiere atti di violenza così forti e atroci?
3) Com'è stato possibile per grandi masse di persone assistere a tutto questo senza reagire
attivamente?
4) Non dovrebbero essere atti che ripugnano a una elementare e universale coscienza morale?
5) Quale tipo di soggettività può compiere questo tipo di violenza?
6) In quale situazione potremmo noi stessi essere indotti a compierla?
Qui è in gioco la capacità di compiere fisicamente atrocità, la distruzione dei corpi di donne, bambini,
altri esseri umani inermi e non solo astratti “nemici".
Stanley Milgram e i suoi studi di psicologia sociale hanno mostrato come, in determinati contesti,
un'ampia maggioranza di individui "normali" possono essere indotti a compiere violenze e torture.
Esperimento di Yale: un soggetto “normale" veniva legittimato da un Autorità Scientifica, uno
scienziato, ad infliggere l'elettroshock ad uno sconosciuto che, fortunatamente, era solo un attore che
fingeva di soffrire.
La stragrande maggioranza dei soggetti si piegava alla volontà dell’autorità e “torturava” la vittima.
Secondo Milgram, in simili situazioni di individui vengono a trovarsi in uno stato di eteronomia:
obbedendo a un'autorità, delegano ad altri la responsabilità dei loro comportamenti e dunque la loro
stessa coscienza morale.
Il risultato è inquietante, suggerisce che chiunque di noi, nel contesto della Shoah o dei Lager, avrebbe
potuto benissimo agire da carnefice.
Hannah Arendt conia il termine “la Banalità del Male” nel 1962.
Adolf Heichmann, criminale di guerra nazista responsabile della deportazione degli ebrei, fu catturato
nel 1960 e, sottoposto a processo, si difese presentando sé stesso come un semplice burocrate, che non
aveva mai fatto direttamente del male a nessuno. Egli si limitava a un lavoro organizzativo, svolgendo
nel miglior modo possibile, indipendentemente dalla natura e dalle conseguenze di questo lavoro.
Il “Grigio Burocrate”, Arendt lo considera l'emblema della natura del male nella modernità.
Un male anonimo, astratto, che non ha bisogno di “mostri", ma si esercita attraverso gli ordinari canali
dell'amministrazione, delle procedure d'ufficio, da parte di individui "normali" la cui coscienza morale
funziona a compartimenti stagni.
Possiamo leggere le affermazioni di Heichmann come una continuità tra la normalità e il genocidio.
Il Continuum Genocida è la contiguità dello sterminio di massa con le violenze quotidiane, nascoste e
autorizzate che si praticano: negli spazi sociali normativi: nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei
pronto soccorso, nelle case di cura, nelle prigioni. Questo Continuum rinvia alla capacità umana di
ridurre gli altri allo status di non persone, di mostri o di cose, per mezzo di varie forme di esclusione
sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione e reificazione che normalizzano il comportamento
brutale e la violenza verso gli altri”
La logica Culturale del Genocidio sarebbe la stessa dei poteri e dei saperi disciplinari che informano
la modernità.
Un Solo Passo, tra i Crimini di Pace e Crimini di Guerra, occorre esercitare una costante sorveglianza
perché questo, quasi inavvertitamente, non si compia.
Lo storico Enzo Traverso si chiede in quali condizioni questo passo si compie? Quali contesti sociali
e culturali trasformano la potenzialità genocida in atto, e quali non lo fanno?
La Genealogia della Violenza Nazista trova le radici in una serie di fenomeni dell'esperienza storica
moderna.
Sono radici ottocentesche che ancorano il Nazismo alla storia dell’Occidente: l'Europa del capitalismo
industriale, il colonialismo, l'imperialismo, la rivoluzione scientifica e tecnologica, l'Europa del
darwinismo sociale e dell’eugenetica.
Il nesso tra questi diversi elementi e la violenza di Auschwitz, la pianificata esecuzione dello
sterminio su scala industriale, a che fare con i rapporti tra potere, corpo e tecnologia.
1) Traverso parte dall'introduzione della ghigliottina, che apre un'epoca di "morte seriale" in cui la
mediazione dell'apparato tecnico attenua la responsabilità morale dell’uccisore;
2) continua con lo sviluppo ottocentesco di istituzioni "chiuse" come le caserme, le prigioni le
fabbriche, tutti luoghi dominati dal Principio di Chiusura, di disciplina del tempo e del corpo, di
meccanizzazione del lavoro, di gerarchia sociale, di sottomissione del corpo alle macchine.
3) attribuisce un'importanza cruciale all'esperienza della conquista della dominazione coloniale,
specialmente l’Africa.
In essa trovano per la prima volta una sintesi storica al razzismo, che declassa certi gruppi umani il
nome delle obiettive verità della scienza e il massacro razionalmente pianificato.
4) infine decisivi appaiono gli sviluppi della pratica militare, che troveranno il loro culmine nella
1WW, con la formazione di eserciti di massa, composti da soldati-macchina sul modello del lavoro
fordista, nel quale il valore della vita umana perde di significato e l’epica della gloriosa morte in
battaglia viene sostituita dalla banalità della "morte anonima di massa”.
Traverso attribuisce la genealogia della violenza nazista alla storia dell'Occidente contemporaneo:
“la ghigliottina, il mattatoio, la fabbrica fordista, l'amministrazione razionale, il razzismo, l'eugenetica,
i massacri coloniali e quelli della Prima guerra mondiale hanno modellato l'universo sociale e il
paesaggio mentale entro i quali è stata concepita e messa in atto la "Soluzione Finale ": ne hanno
creato le premesse tecniche, ideologiche e culturali”
Il contesto antropologico che ha creato le condizioni per la nascita della violenza di massa, pone al
contempo le basi per pratiche sociali di pace, di rispetto e di riconoscimento dell'altro.
Le stesse istituzioni di cui si denuncia la complicità nel trasmettere i sentimenti sociali che preparano
gli stermini (esercito, la famiglia, la scuola, le chiese, gli ospedali) contengono anche le potenzialità di
pace e di giustizia sociale.
In quale direzione esse vengano spinte è un problema che riguarda la nostra responsabilità delle nostre
scelte etico-politiche.
L’avvertimento della Scheper-Huges è di saper riconoscere una potenzialità genocida anche in noi
stessi, e di esercitare una costante “iper-vigilanza difensiva" anche e soprattutto verso le sue forme
meno visibili e meno direttamente riconoscibili.

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