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19.1 DEFINIZIONE
Lo scompenso cardiaco si presenta con un quadro clinico estremamente variabile, per cui ne sono state proposte
numerose definizioni. La più tradizionale, di tipo fisiopatologico, descrive lo scompenso cardiaco come una sindrome in
cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata alle richieste dei tessuti oppure, nel caso vi riesca,
questo è ottenuto attraverso un aumento delle pressioni di riempimento ventricolari. La Società Europea di Cardiologia
ha definito lo scompenso cardiaco come una sindrome caratterizzata dai seguenti aspetti: sintomi e/o segni tipici (dispnea
e/o astenia, a riposo e/o da sforzo, e/o edemi declivi) ed evidenza obiettiva (generalmente mediante ecocardiografia) di
una disfunzione cardiaca sistolica e/o diastolica. L’importanza dell’attivazione neuroumorale e delle controrisposte dei
vari organi nel determinare la progressione dello scompenso cardiaco fa ritenere necessario includere anche questi fattori
nella definizione. Per scompenso cardiaco si deve quindi intendere una sindrome in cui ad un calo, assoluto o relativo,
della portata cardiaca, comunque determinato ma conseguente ad una causa cardiaca, corrisponde una risposta
multiorganica con attivazione cronica neuroumorale in grado di deteriorare ulteriormente la funzione miocardica,
nonostante una controrisposta di fattori tendenti al ripristino dell’omeostasi circolatoria.
19.2 EPIDEMIOLOGIA
A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della maggior parte delle
malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua crescita. La prevalenza di scompenso
sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei paesi europei sono quindi affette da scompenso cardiaco
sintomatico più di 12 milioni di persone. Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe portatore di disfunzione sistolica
ventricolare sinistra asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da scompenso cardiaco con conservata funzione sistolica
ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è spesso sfavorevole: la forma acuta di scompenso è la più importante
causa di ospedalizzazione per i soggetti di età superiore ai 65 anni. Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco
è destinata a morire in un tempo medio di 4 anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un
solo anno per il 50% dei pazienti con scompenso severo. Recenti dati indicano, tuttavia, un miglioramento della prognosi
dovuto all’applicazione di terapie con evidenza di efficacia.
19.3 CAUSE
Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di compromettere la funzione cardiaca.
Può essere causato da una disfunzione miocardica (condizione più frequente) ma anche da valvulopatie, malattie del
pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente l’anemia, la disfunzione tiroidea,
l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi negativi possono peggiorare o qualche volta causare lo
scompenso cardiaco.
Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è spesso caratterizzato da una
compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia ischemica, spesso con concomitante ipertensione arteriosa, ne è
la causa più frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più frequente l’insufficienza cardiaca con
conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti hanno una storia d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica
isolata, ed un’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica.
Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in particolare la cardiomiopatia
dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di scompenso cardiaco.
SISTEMA RENINA ANGIOTENSINA ALDOSTERONE. L’attività reninica plasmatica aumenta soprattutto nei pazienti con più
grave compromissione emodinamica e funzionale. La sua importanza è dimostrata dagli effetti favorevoli degli ACE
inibitori e degli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II sulla prognosi. I meccanismi con cui l’angiotensina II può
influenzare negativamente l’evoluzione dello scompenso sono molteplici. In primo luogo, essa causa vasocostrizione
periferica, aumento del postcarico e calo della gittata sistolica. In secondo luogo, stimola la secrezione di aldosterone
causando ritenzione idro-salina e quindi aumento del precarico, edemi declivi e congestione venosa sistemica. Similmente
alla norepinefrina, anche l’angiotensina II ha un effetto tossico diretto sul miocardio (apoptosi).
L’aldosterone, la cui secrezione è stimolata dall’angiotensina II, oltre a causare ritenzione idro-salina ed ipokaliemia,
provoca anche ipertrofia e fibrosi miocardica, aumento della stimolazione simpatica cardiaca e disfunzione endoteliale.
Tutti questi effetti contribuiscono alla progressione dello scompenso e rendono conto degli effetti favorevoli dei farmaci
antialdosteronici sulla prognosi.
VASOPRESSINA. Da molti anni è stata segnalata, in corso di scompenso cardiaco, la presenza di elevate concentrazioni
plasmatiche di vasopressina, la cui secrezione, però, sembra essere stimolata meno frequentemente che quella di renina,
aldosterone o norepinefrina. La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori V1
determina vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica, mentre la stimolazione dei recettori V2
provoca ritenzione di acqua libera per permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale. Differentemente che nel
caso dei precedenti sistemi, in questo caso la somministrazione di antagonisti della vasopressina non ha determinato
variazioni nella sopravvivenza.
FATTORI NATRIURETICI. La famiglia dei fattori natriuretici comprende il peptide natriuretico A o atriale (ANP), il peptide
natriuretico B o cerebrale (BNP), così chiamato perché isolato per la prima volta nelle cellule del sistema nervoso centrale
di maiale, il peptide natriuretico C (CNP), prodotto e secreto prevalentemente dal sistema nervoso centrale e dai vasi
periferici. La sintesi di ANP e di BNP risulta estremamente limitata nel soggetto adulto normale. In corso di scompenso
cardiaco, viceversa, l’aumento dello stress parietale miocardico causa l’espressione di geni attivi nella vita fetale con
conseguente produzione di ANP e BNP. Il BNP viene sintetizzato sotto forma di pro-ormone (proBNP), che viene quindi
clivato a livello citoplasmatico con formazione di BNP attivo e di un frammento N-terminale (NT-proBNP). Entrambi
vengono rapidamente immessi nel torrente circolatorio. L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti sia a livello atriale
che ventricolare: la concentrazione di ANP è maggiore a livello atriale mentre quella di BNP è maggiore a livello
ventricolare. Per questo motivo, oltre che per la più rapida risposta della secrezione del BNP in condizioni di sovraccarico,
si impiega attualmente nella pratica clinica il dosaggio del BNP o del NT-ProBNP per la valutazione diagnostica e
prognostica dei pazienti con scompenso cardiaco.
I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono l’attivazione simpatica e la secrezione di renina e
di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La loro secrezione si verifica precocemente nello scompenso cardiaco. È quindi
probabile che i fattori natriuretici abbiano un ruolo importante nel mantenere un normale equilibrio idro-salino. Nelle fasi
inziali dello scompenso cardiaco, essi riuscirebbero a controbilanciare gli effetti dell’attivazione dei sistemi
simpatoadrenergico e renina-angiotensina-aldosterone.
PROSTAGLANDINE. Le prostaglandine PgE2 e Pgi2 hanno un’azione vasodilatatrice e giocano, a livello dell’arteriola
afferente renale, un ruolo importante, dimostrato indirettamente dall’osservazione che l’inibizione della loro sintesi con
antiinfiammatori non steroidei determina un netto peggioramento della funzione renale, per vasocostrizione dell’arteriola
afferente glomerulare, e talvolta anche del compenso emodinamico, nei pazienti con scompenso cardiaco.
OSSIDO NITRICO. L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una riduzione della
vasodilatazione NO-dipendente è stata dimostrata in numerose condizioni patologiche tra cui lo scompenso cardiaco.
ENDOTELINA. Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice. La loro sorgente
più importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a presentare una potente e prolungata attività vasocostrittrice,
le endoteline stimolano il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia miocardica e la proliferazione
delle cellule muscolari lisce. Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo delle
concentrazioni di ET-1, rispetto ai soggetti normali. Tuttavia, la somministrazione di antagonisti dei recettori
dell’endotelina non ha avuto effetti favorevoli né nei confronti del rimodellamento ventricolare sinistro, né sui sintomi e
la prognosi dei pazienti con scompenso acuto.
STRESS OSSIDATIVO. Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello miocardico che a
livello vascolare sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La produzione di radicali liberi riduce la capacità di
dilatazione vascolare periferica e stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e l’apoptosi.
CITOCHINE. I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono aumentati nei pazienti con
scompenso cardiaco, rispetto ai soggetti normali, e sono correlati con la severità della sintomatologia e con la prognosi.
Gli effetti negativi dei mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e comprendono un’attività
inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei cardiomiociti, la cachessia e l’ipotrofia della
muscolatura scheletrica. Tuttavia, nonostante questi presupposti fisiopatologici, l’impiego di antagonisti specifici delle
citochine non ha modificato l’evoluzione dei pazienti con scompenso, e nessuna terapia antiinfiammatoria ha permesso
di migliorare la prognosi dei pazienti.
20.1 DEFINIZIONE
L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è incapace di pompare sangue in quantità adeguata alle esigenze
metaboliche dell’organismo, oppure può far questo soltanto mediante un aumento delle pressioni di riempimento (vedi
Capitolo 19).
L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e sintomi secondari a disfunzione
cardiaca sistolica o diastolica, può essere associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad anomalie del ritmo o ad un
“mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una minaccia per la vita e necessita di un trattamento
di emergenza. L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di malattia in pazienti senza
disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca cronica. Perciò,
l’insufficienza cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con un’insufficienza cardiaca “de
novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad esempio un esteso infarto del miocardio o un improvviso aumento
della pressione arteriosa in presenza di un ventricolo sinistro deficitario; 2) pazienti con peggioramento di un’insufficienza
cardiaca cronica sistolica o diastolica; 3) pazienti che presentano un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio,
e vanno rapidamente incontro a deterioramento, con disfunzione ventricolare prevalentemente sistolica, scarsa risposta
alla terapia medica e necessità di trattamenti non farmacologici.
20.2 EPIDEMIOLOGIA
L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. La causa più comune
di insufficienza cardiaca acuta è la malattia coronarica (~70%). I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una
prognosi severa: la mortalità è particolarmente elevata (30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad
insufficienza cardiaca grave. Dati simili sono stati riportati per l’edema polmonare acuto. Circa la metà dei pazienti
ospedalizzati per insufficienza cardiaca acuta vengono nuovamente ricoverati almeno una volta (e il 15% almeno due
volte) entro un anno. In questa popolazione, ogni evento acuto determina una riduzione progressiva della capacità
funzionale (Figura 1), per cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad un’azione di cardioprotezione.
La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un ulteriore peggioramento della
funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando la pressione capillare polmonare. La riduzione della portata
cardiaca, inoltre, attiva il sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea, muscolare e splancnica, tende a
mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro canto induce tachicardia, ipertensione, pallore e
contrazione della diuresi. L’aumento delle resistenze vascolari periferiche determina un incremento del carico di lavoro
in un cuore già insufficiente, e peggiora la performance cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si
innesca quindi un circolo vizioso, sino a quando la portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una
normale perfusione cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).
Il paziente affetto da edema polmonare acuto non sta disteso ma seduto sul letto, fortemente agitato, madido di sudore,
dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e gorgogliante; la sua cute è fredda e sudata, e può essere presente cianosi
alle labbra e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari rantoli crepitanti, che con l’aumentare della quantità
di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto l’ambito polmonare, come una “marea montante”, accompagnati da
escreato schiumoso ed eventualmente rosato. Se non si interviene con un trattamento tempestivo, l’edema polmonare
tende a peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e
l’arresto di circolo, con esito fatale.
L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni a carico dell’apparato
cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, dei reni.
La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della vasocostrizione arteriolare.
Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori tensivi sistemici si riducono, sino a raggiungere valori minimi
nello shock cardiogeno. La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si può valutare osservando il grado di turgore
delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a 45°).
La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi cutanei come meccanismo
compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più gravi può comparire cianosi.
I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 ore) unitamente
all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gittata cardiaca è gravemente ridotta, si può arrivare fino
all’anuria (< 100 ml nelle 24 ore).
L’edema periferico può essere presente soprattutto nei casi di peggioramento di una condizione cronica; esso è dovuto
all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche e soprattutto alla ritenzione idrosalina.
L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base dello scompenso. La frequenza
cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso presente un ritmo di
galoppo, dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi Capitolo 2). Altro segno
ascoltatorio cardiaco nello scompenso può essere un soffio olosistolico puntale da insufficienza mitralica acuta. All’esame
del torace, quando l’aumento della pressione nelle vene e nei capillari polmonari provoca trasudazione di liquido nel
tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare rumori umidi (rantoli crepitanti) . Il reperto obiettivo toracico
coinvolge dapprima i campi polmonari basali, diffondendosi progressivamente ai campi superiori in seguito all’aggravarsi
della condizione clinica ed in assenza di adeguato trattamento.
Sfruttando i segni e i sintomi dei quadri clinici dell’insufficienza cardiaca acuta è stata formulata la classificazione di
Killip, che suddivide i pazienti in quattro classi in base alla presenza di segni di congestione polmonare e periferica, segni
di bassa portata, e segni di aumentato volume telediastolico ventricolare. La classe I è caratterizzata dall’assenza di segni
clinici di insufficienza cardiaca. I criteri diagnostici per la II classe includono il riscontro di rantoli nella metà inferiore
dei campi polmonari, terzo tono e ipertensione venosa polmonare. La classe III include pazienti con insufficienza cardiaca
severa (rantoli estesi a tutti i campi polmonari o edema polmonare franco). La classe IV include i pazienti in shock
cardiogeno, con pressione arteriosa sistolica = 90 mmHg, vasocostrizione periferica, oliguria e cianosi.
Un’altra classificazione, basata sulla temperatura corporea (cute calda o fredda) e sul reperto ascoltatorio toracico (il
paziente viene definito “umido” o “secco” a seconda che presenti rantoli o no), distingue quattro gruppi di crescente
gravità clinica: il gruppo A comprende pazienti “caldi e secchi”, il gruppo B pazienti “caldi e umidi”, il gruppo L pazienti
“freddi e secchi” e il gruppo C pazienti “freddi e umidi” (Figura 3).
Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la fase terminale
di un’insufficienza cardiaca in rapido peggioramento: si manifesta quando la portata cardiaca scende al di sotto dei valori
minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi Capitolo 22).
21.2 SINTOMI
DISPNEA. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di scompenso cardiaco. Nelle fase
iniziali della malattia compare prevalentemente durante sforzi fisici, successivamente si presenta anche a riposo con le
caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema polmonare acuto (vedi Capitolo 1).
La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare. Viene comunemente avvertita
da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico intenso. Nel paziente con scompenso cardiaco vi è una riduzione
del grado di attività associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità dello scompenso cardiaco, tanto minore
è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la classificazione della New York Heart Associaton (Tabella
I). La dispnea del paziente con scompenso cardiaco viene tradizionalmente attribuita all’aumento delle pressioni capillari
polmonari con edema interstiziale ed alveolare. In realtà la correlazione con la compromissione della funzione
ventricolare sinistra, soprattutto a riposo, è scarsa o nulla. Meccanismi che contribuiscono a causare dispnea nei pazienti
con scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo con ipoperfusione dei muscoli
scheletrici, che eseguono lo sforzo, ed ipoperfusione dei muscoli respiratori, decondizionamento della muscolatura
scheletrica, ridotta compliance polmonare, aumento della resistenza delle vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo
sforzo.
ORTOPNEA. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina con sua regressione sollevando
la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente, entro pochi minuti dall’assunzione della posizione supina. E’ dovuta
alla ridistribuzione del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del precarico e congestione polmonare.
DISPNEA PAROSSISTICA NOTTURNA. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante il sonno, causando il risveglio
del paziente con una sensazione di soffocamento e fame d’aria. Questi sintomi spesso si riducono con la posizione seduta,
spesso sul bordo del letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori da broncospasmo per edema della mucosa
bronchiale e compressione dei bronchioli per edema interstiziale.
EDEMA POLMONARE ACUTO (vedi Capitolo 20)
ASTENIA E AFFATICABILITÀ. Astenia e facile affaticabilità sono secondari all’insufficiente incremento della portata
cardiaca sotto sforzo. La ridotta risposta vasodilatatrice periferica, le alterazioni biochimiche ed istologiche e l’ipotrofia
della muscolatura scheletrica sono altri meccanismi patogenetici. L’importanza relativa dei meccanismi muscolari
scheletrici, “periferici”, rispetto al meccanismo “centrale”, la riduzione della portata cardiaca, varia da paziente a paziente.
Così come anche la dispnea, astenia ed affaticabilità sono sintomi non specifici, che possono essere causati da
numerose malattie non cardiovascolari.
NICTURIA ED OLIGURIA. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore notturne), è dovuta all’aumento di
perfusione renale durante la notte, col decubito supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi avanzate dello scompenso
cardiaco, secondario ad ipoperfusione renale.
SINTOMI GASTROENTERICI. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente soprattutto quando vi è disfunzione
ventricolare destra, determina epatomegalia con conseguente distensione della capsula epatica e dolenzia all’ipocondrio
destro, talvolta descritta come tensione addominale e senso di pienezza dopo i pasti. Questi pazienti possono avere anche
anoressia, difficoltà digestive e nausea.
SINTOMI CEREBRALI. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata cardiaca può causare vertigini,
cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali. Questi sono più frequenti nei pazienti anziani con coesistente
aterosclerosi cerebrale.