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Pubblicazione: http://www.pavonerisorse.it/buonascuola/simulare_cambiamento.

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Scuola: simulare il cambiamento


Giuseppe Torchia

La sconclusionata riforma Renzi-Giannini ha scatenato reazioni altrettanto sconclusionate.


Docenti che declamano molto generosamente le proprie virtù e i propri meriti. Dirigenti preoccupati di
difendere il proprio ruolo e desiderosi di conquistare una posizione di maggior "rilievo decisionistico" nel
contesto dell'istituzione scolastica.
Sono nella scuola da circa 35 anni, ho attraversato tutti gli ordini e gradi, dalla fascia 3-6 a quella attuale 11-
14 e raramente mi è capitato d'incrociare nelle mie relazioni professionali docenti con la vocazione al
cambiamento. Mi sono ritrovato per lo più a vivere in un ambiente asfittico che generava in me uno stato
d'animo prossimo a quello patito quando ero studente. Forse sono stato sfortunato ma le mie conquiste
culturali adolescenziali le ho fatte tutte al di fuori della mia condizione di studente. Le esperienze culturali
extrascolastiche, soprattutto teatrali, mi hanno forgiato regalandomi il senso della cultura come vita pulsante
mentre nella scuola il sapere galleggiava come un cadavere sulle acque di un fiume. A quei tempi la scuola e
i docenti erano politicamente visti come strumenti di riproduzione dell'organizzazione sociale vigente (si
vedano, tra l'altro, le analisi di Ivan Illich [1] e di Pierre Bourdieu [2] ). Ebbene oggi, a distanza di più di 40
anni, a leggere le "autocertificazioni" dei miei colleghi [3], molte delle quali senz'altro in buonafede, sembra
che tutti i docenti siano diventati "agenti del cambiamento" e si siano lasciati alle spalle i tempi in cui erano
“agenti della conservazione”.
Si tratta di una rappresentazione veridica o idealizzata ed autocompiacente della propria identità
professionale ?
Possiamo provare a immaginare il lavoro scolastico dei docenti come un libro-glossario composto da parole-
chiave in grado di descrivere “lo stato dell'arte” della docenza.
Potremmo quindi sfogliarlo e fermarci a leggere qualche sua parola-chiave che ci racconti onestamente
com'essa è praticata nelle routine scolastiche. Ad esempio, la parola 'collegialità'. E' la parola-sentinella della
democrazia, l' antidoto all'individualismo e all'autoritarismo. Il solo nominarla evoca tutto ciò che di positivo
ad essa si può associare: dialogo, partecipazione, condivisione ecc. Accade così che si salti l'onere della
“prova” : la riflessione sul modo in cui è praticata, agita nel contesto reale della scuola. Senza riflessione le
parole o le frasi si tramutano in slogan e il ”parlare per slogan” è proprio ciò che si rimprovera alla
controparte politica quando propaganda le virtù del suo Disegno di Legge.
Riflettere sulla “collegialità” significa porsi delle domande sul suo funzionamento reale. Si deve assumere
uno sguardo dall'esterno pur essendo parte del contesto (l'organo collegiale) allora forse scopriremmo:
- che le formali intese di carattere burocratico (vedi P.O.F. e programmazioni di classe) su cui conveniamo
non corrispondono a intese di carattere pedagogico. Dichiarazioni programmatiche di finalità formative
afferenti, ad esempio, l'identità e l'autonomia, trovano una collocazione soltanto nella loro enunciazione
scritta. Stese in forma generica, prive di indicazioni concrete e non soggette a monitoraggio in corso d'opera,
esse durano il tempo della loro scrittura.
- che la tanto declamata dimensione progettuale si riduce ad un' elencazione di progetti, spesso condotti da
esperti esterni, e/o all'adesione acritica a questa o quella iniziativa che in ogni caso è buona perché ha un
titolo a cui non puoi dir di no;
- che tali progetti e iniziative sono spesso privi di un palese, dichiarato e giustificato collegamento con
l'attività curricolare di ogni docente e che non sono conseguentemente sottoposte ad una verifica delle
ricadute sulle attività didattiche e/o sul clima della classe;
- che nei Consigli di Classe la valutazione come atteggiamento giudicatorio occupa uno spazio talmente
preponderante da annichilire la dimensione propositiva e formativa;
- che il confronto di tipo parlamentare basato sul diritto di parola, del contraddittorio e del voto a
maggioranza non è forse l'approccio più funzionale allo sviluppo di relazioni professionali proficue e che
questo dovrebbe cedere il posto, come c'insegnano le ricerche di Marianella Sclavi [4], all'ascolto attivo [5],
alla moltiplicazione delle opzioni, al co-protagonismo e all'invenzione di nuove soluzioni educativo-
didattiche.
La lista delle fragilità connesse alla pratica della collegialità potrebbe continuare ma mi fermo qui e giro
pagina. Alla 'D' trovo: “difficoltà di apprendimento”, una voce in via di estinzione. Tale definizione nel
passato si riferiva quasi esclusivamente al basso rendimento scolastico, oggi tende sempre più ad essere
sostituita con la parola 'disturbo', sancita o no che sia da una diagnosi. E' un fenomeno presente anche
nell'editoria. Si provi a digitare nel motore di ricerca di una libreria online l'espressione “difficoltà di
apprendimento”, si scoprirà, leggendo la presentazione dei singoli testi, che sottesa ad essa c'è sempre una
nozione di “disturbo” e che, talvolta, la strategia pedagogico-didattica che richiederebbe si trasmuta in
“trattamento clinico”.
Se decodifichiamo le difficoltà degli alunni che vanno male a scuola in termini di disturbi, le consideriamo
come qualcosa che appartiene alla loro soggettività. In tal modo non ci sentiamo chiamati in causa, non
riconosciamo che noi siamo parte dei fattori
contestuali che concorrono a determinarle.
Ricordo la mia prima esperienza scolastica come
docente di scuola elementare delle attività
parascolastiche comunali in un paesino della
provincia di Milano. L'ambiente socioculturale ed
economico di provenienza degli alunni era di livello
basso. Allora si ragionava in questi termini: si
decodificavano le difficoltà legandole all'ambiente
di vita dell'alunno e sulla scia delle parole di Don
Milani e altri, si tentava di strutturare una proposta
didattica ed educativa adeguata. Che si riuscisse o
no, questo è un altro paio di maniche. La scuola
italiana non è mai riuscita a compensare le disuguaglianze culturali ed oggi l'OCSE in un suo studio
pubblicato nel dicembre del 2014 in relazione ai compiti a casa [6] rileva ch'essa penalizza anziché aiutare
gli studenti con condizioni socioeconomiche svantaggiate. Le generazioni di docenti più anziani, gran parte
oggi in pensione, nel timore di apparire discriminativi, si trattenevano dal colpevolizzare i loro alunni per le
gravi lacune che manifestavano. Avevano convinto se stessi, aiutati dal clima culturale respirato negli anni
giovanili, che gli alunni più deboli fossero quelli che andavano più aiutati e se non vi riuscivano si auto-
assolvevano valutando gli alunni in modo più bonario e nel rispetto del principio (giusto) “primo : non
nuocere”. Questi pudori appaiono oggi alquanto superati da un atteggiamento più aggressivo nei confronti
degli alunni più deboli dal punto di vista del rendimento. Se non hanno disturbi diagnosticati o “concordati”
all'interno del team o del consiglio di classe [7], sono senz'altro affetti da disimpegno cronico. Sono alunni
che “non fanno niente”, che “credono che la promozione sia gratis”, che “se li promuoviamo che figura ci
facciamo”, e così via. Riduciamo e dissolviamo le nostre potenzialità osservative nel giudizio ma osservare
significa comprendere ed agire liberi da un’ansia classificatoria. In questo clima culturale accade così che
qualcuno evochi l'azione rigeneratrice della bocciatura come strumento di riabilitazione della serietà della
scuola dimenticando che questa “ideologia valutativa” è la stessa che ha animato le misure della contestata
ex- ministra Gelmini. Alludo alla nefasta riforma della valutazione [8] con ciò che ne è conseguito sul piano
dell'introduzione del voto numerico e della valutazione finale nell'esame conclusivo del primo ciclo
d'istruzione. Una misura legislativa a cui i docenti si sono docilmente assuefatti e che li vede talvolta
protagonisti di appassionate dissertazioni sul “dosaggio” quantitativo dei voti finali. Una misura legislativa
che andrebbe semplicemente abrogata perché in contrasto col concetto di valutazione formativa che da
tempo attende, per essere realizzata, comportamenti del corpo docente e scelte del Legislatore con essa
coerenti.
E così dalla lettera 'D' siamo scivolati alla lettera 'V' del nostro libro-glossario (V come Valutazione).
Abbiamo saltato voci che meriterebbero un approfondimento. Ad es. alla lettera 'F' possiamo trovare:
'Flessibilità organizzativa e didattica', un'espressione del vocabolario dell'autonomia rimasta silente ma che
pur ha una sua rilevanza perché potrebbe aprire la strada al superamento dell’ “idea della scuola come un
agglomerato di classi dove si va per ascoltare la lezione” [9]. Alle resistenze manifestate da noi docenti su
questo punto, attaccati come siamo ad un'organizzazione che ci appare più rassicurante e comoda [10], la
“buona scuola” risponde con “ un generico elenco di buone intenzioni, le quali non avrebbero bisogno di
vuote ridondanze, perché le norme già ci sono a partire dalla nostra Costituzione, per finire con il Dpr n. 275
del ’99 sull’autonomia scolastica. Ciò che manca sono le risorse finanziare e umane, una cultura della scuola
all’altezza dei tempi.” [11] Eppure il governo ha spacciato questo punto normativo (art.1 del DdL) come una
novità epocale anziché rimboccarsi le maniche e concedersi il tempo di un'analisi scientifica dei perché dopo
più di 15 anni ci ritroviamo, rispetto all'autonomia, al punto di partenza.

Si potrebbe continuare evidenziando altre voci del libro-glossario. Ad esempio, alla lettera 'L', troviamo
l'abusata voce 'libertà d'insegnamento', il nostro tesoretto che custodiamo gelosamente, perché è nostro e
nessuno ce lo può togliere. Una sorta di zona franca che confina con il libero arbitrio se non è al servizio
dell'efficacia dell'insegnamento. E se ancora scorriamo velocemente le pagine e scivoliamo alla lettera 'V'
troviamo una voce poco trattata: 'visione gerarchica delle discipline', strutturalmente prescritta dall'alto cioé
come il portato della dimensione organizzativa della scuola e coltivata e sostenuta dal basso dai docenti in
sfregio all'ipercitata teoria delle intelligenze multiple.
Insomma ci sono scarse ragioni per adottare nel contesto storico attuale della scuola italiana la visione
manichea del Noi-buoni (i docenti),
Loro-cattivi (i decisori politici). In queste righe non ho cercato in modo autolesionistico di far ricadere la
colpa dello stato delle cose su noi docenti quanto di suscitare dubbi rispetto ad una autorappresentazione
benevola della nostra 'identità professionale' alla quale mancherebbero soltanto le risorse finanziarie ed
umane per essere pienamente ciò che già riteniamo di essere (agenti del cambiamento).
Ad un governo che ostenta le virtù taumaturgiche e progressiste di un minestrone legislativo privo di
qualsiasi premessa pedagogica forse dovremmo controbbattere non con l'orgoglio di ciò che siamo ma con la
promessa di ciò che vogliamo diventare

[1] Illich I., (2010), Descolarizzare la società, Milano, Mimesis


[2] Bourdieu P., (2006), La riproduzione, Rimini, Guaraldi.
[3] Mi riferisco a quella mole consistente di critiche, opinioni, dichiarazioni, petizioni, parole d'ordine,
slogan ecc. che si è sviluppata a partire dalla pubblicazione del documento “La buona scuola” e che ha usato
soprattutto Internet (siti e social network) come strumento di comunicazione.
[4] cfr. Sclavi M., (2003), Arte di ascoltare e mondi possibili, Milano, Mondadori Bruno
[5] Espressione con cui ci si riferisce ad un ascolto non giudicante, attento ad indagare le ragioni sottese
all'altrui punto di vista e aperto all'aspetto emozionale della comunicazione.
[6] Report OCSE, (2014), Does Homework Perpetuate Inequities in Education?
http://www.oecd-ilibrary.org/education/does-homework-perpetuate-inequities-in-education_5jxrhqhtx2xt-en
[7] Mi riferisco a quanto previsto dai provvedimenti amministrativi sui BES che consente ai Team docenti
(nelle scuole primarie) e ai Consigli di classe (nelle scuole secondarie) di individuare “sulla base di
considerazioni psicopedagogiche e didattiche” alunni con Bisogni Educativi Speciali. (Direttiva del
27.12.2012 e successive circolari)
[8] L.169/2008 e Dpr 122/2009.
[9] Fioravanti G., (19 maggio 2015), La vecchia scuola dietro il polverone, http://www.ferraraitalia.it/la-
citta-della-conoscenza-la-vecchia-scuola-
dietro-il-polverone-47380.html
[10] Penso anche alle resistenze a concepire una distribuzione del monte orario annuale complessivo del
curricolo in forma diversificata nelle diverse settimane dell’anno scolastico.
[11] Fioravanti G., Ibid.

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