Nasce da un gruppo di scrittori americani e viene alla ribalta nel 1950, così come i fenomeni
culturali da esso ispirati. Gli elementi centrali della cultura "Beat" consistono nel rifiuto di norme
imposte, le innovazioni nello stile, la sperimentazione delle droghe, la sessualità alternativa,
l'interesse per la religione orientale, un rifiuto del materialismo, e rappresentazioni esplicite e
crude della condizione umana.
Della Beat Generation fanno parte inoltre i movimenti culturali del maggio 1968 : l'opposizione alla
guerra del Vietnam, gli Hippy di Berkeley e Woodstock.
Tra gli autori di riferimento abbiamo Jack Kerouac, Lucien Carr, Allen Ginsberg, William
Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassady, Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti, Norman Mailer. La
Beat Generation è uno degli esempi della ribellione giovanile degli anni cinquanta, come la
«gioventù bruciata».
Simbolo del beat è, di certo, Neal Cassady, ispirazione di molte opere di Kerouac, ma anche
di Ginsberg, citato da altri autori statunitensi, quali Charles Bukowski, per l'eccezionale personalità
che "l'ultimo sacro idiota d'America" riusciva a deflagrare, ad esplodere. Il movimento beat è una
"corsa velocissima" che lascia il segno: pochi sono riusciti a fermarsi prima del punto di non
ritorno, una "gioventù bruciata".
Il movimento è sostanzialmente frutto di un'utopia che nasce all'interno di un gruppo di amici,
amanti della letteratura e completamente saturi della società che vivono, delle regole, dei tabù. I
beat desiderano scappare, viaggiare, fare l'autostop fino a dove possono arrivare, ma non per un
senso di fuga dalle responsabilità, ma per trovarsi da soli nuove regole e stili di vita. Da qui viene
l'avvicinamento alla spiritualità Zen, al cattolicesimo, al taoismo, che tanto viene approfondito,
discusso e rimodellato in un'ottica beat; ma da qui viene anche l'abuso di sostanze stupefacenti, di
alcol per trovare un nuovo sistema di regole, per tentare di sedare la sofferenza e per riunire l'io e
il Tutto.
Inizialmente, il movimento beat, anche grazie al successo del libro di Keruak, Sulla strada, raccoglie
un grande consenso e dà vita al movimento dei figli dei fiori e dei beatniks. Entrambi i gruppi
saranno motivo di grave malcontento della società contro gli scrittori beat che, per il loro modo di
vivere, non sembravano differenziarsi da questi personaggi che intendevano tutta la corrente,
come una rivolta contro la borghesia statunitense che infine sfocerà nella protesta contro
la guerra del Vietnam. Ad un certo punto essere beat diventa scomodo sia per gli attacchi
pressanti delle associazioni statunitensi, che per le intrusioni nella sfera personale da parte di fan e
giornalisti che vedevano in questi uomini dei simboli di una rivolta che non avevano il coraggio di
iniziare.
«[...] un fiume inesauribile di telegrammi, telefonate, visite, giornalisti, ficcanaso, o quella volta
che il giornalista si precipitò di sopra in camera mia mentre vi sedevo in pigiama sforzandomi di
trascrivere un sogno... teenagers scavalcano lo steccato alto un metro e ottanta che avevo fatto
costruire intorno al giardino per restare solo...»
(Big Sur)
Inizialmente la compagine dei beat era formata dalla triade composta da Kerouac, Neal Cassady e
Allen Ginsberg che si incontrava con altri ragazzi al Greenwich Village di New York, discutevano, si
divertivano, e condividevano i propri lavori fino a tarda notte. Sarà una fase ricca di viaggi negli
USA, specie verso San Francisco, di fama, ma anche di momenti storici come il Vietnam, la paura
dell'atomica, le rivendicazioni razziali e studentesche.
In seguito si aggiungeranno Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti e Gregory Corso, spesso
considerato il migliore della trinità Beat e che instaurerà proprio con Kerouac, il re dei beatniks, un
rapporto contrastato di odio, amore e amicizia in chiave beat. Quando Ginsberg si trasferì a San
Francisco, sede di tutti i beat e residenza di Henry Miller, idolo assoluto di questo movimento,
iniziò una fase che molti considerano della "Scuola di San Francisco", ma sulla quale non v'è molto
da aggiungere se non il fatto che Ferlinghetti, nella sua libreria City Lights Bookstore nel North
Beach di San Francisco, pubblicò alcune opere beat tra cui il poema Howl, uno dei più famosi
manifesti del movimento. Il movimento, con il tempo, andò via via scemando, come idea di
gruppo, di pari passo con la fine delle contestazioni. Si lasciò dietro le morti premature di Cassady
e Kerouac, una lunga disapprovazione sociale, soprattutto dovuto all'uso delle droghe, e tante
opere che ancora oggi sono custodite presso City Lights, diffuse e stampate in molte lingue e in
molti stati. Nonostante tutto, si porta dietro la leggenda di quei ragazzi che giravano sulla strada,
verso l'ignoto, e che ancora oggi stimolano le fantasie di milioni di persone.
«È stato un fuorilegge il padre della nostra patria? Sì. È stato un fuorilegge Galileo per
aver detto che il mondo è rotondo? Io dico che il mondo è rotondo! Non è square»
(The origins of the beat generation, Kerouac)
Gli autori beat riprendono e amplificano i temi della contestazione giovanile della loro epoca, che,
partendo da una critica radicale alla guerra del Vietnam, si estendono all'intero sistema
statunitense, mettendo in discussione la segregazione razziale dei neri, la condizione subordinata
della donna, le discriminazioni in base all'orientamento sessuale.
I giovani beat studiano il neoplatonismo di Plotino, le teorie cosmogoniche contenute nel
libro Eureka di Edgar Allan Poe, le poesie mistiche, i trattati ascetici di San Giovanni della Croce,
la telepatia e la cabala.
Scrivono di viaggi mentali - anche mediante la sperimentazione psichedelica di droghe quali l'LSD -
e fisici, in lungo e in largo attraverso le strade degli USA, come ad esempio Sulla strada di Kerouac,
scritto viaggiando in autostop da una costa all'altra degli Stati Uniti.
Le opere più note di Alberto Burri sono le serie dei "Crateri", delle "Ferite", delle "Combustioni",
dei "Sacchi", dei "Legni", dei "Ferri" e delle "Plastiche".
Paul Jackson Pollock nasce il 28 gennaio 1912 nel Watkins Ranch a Cody in Woyming, ed è il
quinto figlio di genitori di origine scozzese/irlandese. La madre è Stella Mary Mc Clure (18751958)
e il padre Le Roy Pollock (1876-1933).
Jackson trascorse la sua gioventù tra l'Arizona e la California e studiò alla High School di Reverside
e poi alla Manual Arts High School di Los Angeles, dalle quali venne espulso per indisciplina.
Nel 1926 il fratello Charles – che ha già 24 anni – si iscrive all’Art Student League, dove segue i
corsi di Thomas Hard Benton (Neosho 1889 – Kansas City 1975). Nel 1927 Jackson ha 15 anni e
lavora alle rilevazioni al Gran Canyon col fratello Sanford – che è più vecchio di 3 anni – e iniziano i
problemi con l’alcol.
Ebbe modo di entrare in contatto con la cultura dei nativi americani mentre accompagnava il
padre ad effettuare i rilevamenti. Nel 1929, raggiungendo il fratello Charles, si trasferì a New York,
dove entrambi diventarono allievi del pittore Thomas Hart Benton alla Art Students League. La
predilezione di Benton per i soggetti ispirati alla campagna americana non fece una grande presa
su Pollock, ma il suo ritmico uso del colore e il suo fiero senso di indipendenza ebbero invece su di
lui un'influenza duratura.
Nel 1930 Jackson è diciottenne ed elimina il suo primo nome Paul. Si iscrive alla Manual Arts
School con l’aiuto di Schwankovsky e segue corsi di modellazione in argilla e disegno. In autunno si
trasferisce a New York con l’intenzione di seguire i corsi di Thomas Benton. In ottobre Benton e
Orozco iniziano i murales alla New School of Social Research. E’ molto probabile che in quella fase
Pollock abbia conosciuto Orozco.
Nel 1931 Jackson viaggia con il compagno di corso Manuel Tolegian per cogliere il “colore
locale” dei luoghi visitati soprattutto disegnando, un’esperienza che per il giovane artista è
risultata entusiasmante. Al ritorno si iscrive a New York a un corso tenuto da Benton, e si interessa
anche di scultura.
«[…] sto vedendo paesaggi straordinari, gente interessante. Disegno piuttosto poco. Che
bufera fanstastica ho vissuto (attraverso l’Indiana) mi sono sentito sul punto di morire. 1 »
E’ nel 1932 che si va precisando la vocazione per l’arte di Pollock, pur tra incertezze sul proprio
futuro. Nel 1935 abbandona la Arts Students League, mantenendo l’amicizia con Benton che
continua ad aiutarlo economicamente. Entra in agosto nel nuovo Federal Art Project, al quale
lavorerà per anni – pur con delle interruzioni – fino al 1943. Le commissioni di quadri danno a
Jackson una certa stabilità economica, cosa che gli consente di sperimentare e di sviluppare un
proprio stile personale che comincerà ad emergere soprattutto intorno al 1938.
Nel 1937 inizia un trattamento psichiatrico contro l’alcolismo, incoraggiato da Sanford. Espone
Cotton Pickers, una tempera su tavola (1934-35) (fig. 2) in una mostra a febbraio con Sanford,
Philip Guston e Tolegian alla Temporary Galleries of the Municipal Art Commitee. Conosce il
critico-artista John Graham che avrà un notevole ascendente su Jackson e che su di lui scriverà in
più occasioni come di una giovane promessa dell’arte americana.
Nel 1938 in giugno decide spontaneamente di ricoverarsi al New York Hospital per una cura di
disintossicazione dall’alcol. Nel contempo realizza numerose ciotole e targhe in rame battuto. I
Benton incoraggiano l’artista a lavorare, intuendone pienamente il talento e le potenzialità: vi è
una lettera di Rita Benton1 inequivocabile a questo proposito.
Nel 1941 è riformato dal servizio militare ed è in cura presso un altro analista junghiano: la
dottoressa Violet Staub de Lazlo, che pure utilizza i suoi disegni durante le sedute. **** Lee
Krasner scopre di vivere a poca distanza da Pollock: corre nel suo studio e così inizia la loro
relazione che finirà con la morte dell’artista.
Nel 1942 nei primi mesi espone alla McMillen Gallery, su invito di Graham, ove espone Birth, in
una collettiva di artisti americani ed europei tra cui figurano opere di Picasso, Matisse, Braque,
Derain, Stuart Davis, Walt Kubin e Lee Krasner. La relazione con la Krasner fu importantissima per
Pollock, sicuramente equilibratrice, di sprone e di promozione per l’arte.
Nelnovembre del 1943 tiene la sua prima personale alla galleria Art of This Century, presentata da
J. Johnson Sweeney, che è stata un successo. La Guggenheim gli commissiona una grande opera
murale. Si tratta di Mural, che finirà all’Università dello Iowa.
Nel 1945, Tra marzo e aprile tiene la seconda mostra alla galleria Art of This Century con numerosi
dipinti, disegni e gouaches.
Nel 1946 dipinge The Key, e la copertina per il libro di memorie di Peggy Guggenheim, dal titolo:
Out if this Century. Espone per la terza personale nella galleria Art of This Century, con 11 oli e 8
tempere.
Nel 1947 tiene in gennaio la quarta personale alla galleria Art of This Century con 16 opere divise
due serie, introdotta da W.N.M. Davies. Esegue le prime opere con la tecnica del dripping, dipinte
lasciando sgocciolare il colore direttamente dalla pennellessa o dal barattolo, su una tela stesa a
terra.
Nel 1948 tiene la personale alla Betty Parsons Gallery (sempre a New York) dove presenta 17
opere. Le recensioni sono per lo più favorevoli. Continua a sperimentare il dripping, utilissando un
miscuglio di colore, sabbia e altri materiali eterogenei.
Il 22 luglio del 1950 apre la prima personale in Italia, a Venezia all’Ala Napoleonica del Museo
Correr.
1
Cfr. Jackson Pollock, a cura di Laura Maeran, in Jackson Pollock a Venezia, catalogo della mostra (Venezia, Museo
Correr, piazza San Marco, 23 marzo – 30 giugno 2002), con scritti di vari, Skira, Ginevra-Milano, 2002, p. 238, che riporta
una frase fondamentale della lettera di Rita Benton.
Il pittore gli promise che avrebbe iniziato un nuovo dipinto appositamente per il servizio, ma
quando Namuth arrivò al laboratorio Pollock gli andò incontro scusandosi e dicendogli che il
quadro era già finito. Questa la descrizione del fotografo nel momento in cui entrò nel laboratorio:
«Una sgocciolante tela bagnata ricopriva l'intero pavimento... Vi era totale silenzio...
Pollock guardò il dipinto. Poi, inaspettatamente, raccolse barattolo e pennello e iniziò
a muoversi attorno al quadro. Era come se avesse improvvisamente realizzato che il
quadro non era ancora finito. I suoi movimenti, dapprima lenti, diventarono via via
più veloci e più simili ad una danza mentre scagliava pittura colorata di bianco, nero e
ruggine sulla tela. Si dimenticò completamente che Lee ed io eravamo lì; sembrava
non sentire il click dell'otturatore della camera fotografica... Il mio servizio fotografico
continuò per tutto il tempo in cui dipinse, forse una mezz'ora. In tutto quel tempo
Pollock non si fermò. Come può una persona mantenere questo livello di attività? Alla
fine disse: «Ecco fatto».»
(Hans Namuth)
Nel 1951 partecipa alla mostra del MoMA “Abstract Painting and Sculture in America” con
Number 1, del ’48. A Parigi espone alla collettiva “Véhémences Confrontées” organizzata da
Michel Tapié alla Galleria Nina Dausset, con Number 8 del ’50. Stretta corrispondenza con Ossorio.
Tende ad abolire i colori concentrandosi sul bianco e nero. Il 14 giugno viene proiettato per la
prima volta al MoMA il film di Hans Namuth, co-prodotto con Paul Falkenberg, con la colonna
sonora di Morton Feldman (importante musicista americano del secolo scorso) e la voce narrante
di Pollock.
Gli ultimi anni, 1954 e 55 vedono Pollock inattivo. Nel 1956 non dipinge praticamente più e
confessa alla dottoressa Hubbard che non lavora perché non è sicuro di avere qualcosa da
esprimere. Andrei Richtie in maggio scrive all’artista che il MoMA sta organizzando un ciclo di
mostre dedicate ad artisti nel pieno della loro carriera, intitolato “Work in Progress”, e che lui
sarebbe l’artista proposto per aprire il ciclo di esposizioni.
L’11 agosto, mentre accompagna Ruth con l’amica Edith Metzger a un concerto, guida in stato di
ubriachezza e si schianta con la macchina contro un albero a Fireplace Road alle 22,15 circa e
muore d’un colpo, come pure la Metzger; mentre la Kligman sopravvive all’incidente.
La mostra del MoMA concepita come “Work in Progress” si trasforma in una retrospettiva in
memoria dell’artista scomparso, celebrato con una mostra di 35 dipinti, 9 acquerelli e disegni tra il
1938 e il 1956.
Nel 1923, a 11 anni, a Phoenix Jackson ha modo di esplorare precocemente antichi siti degli indiani
d’America, che poi saranno oggetto di ulteriore studio per certe modalità rituali ed espressive che
in parte interferiranno la sua pittura nella sua maturità artistica, una fonte d’immagini in qualche
modo archetipiche, a cui guarderà nei primi anni Quaranta anche un artista come Adolph Gottlieb.
«Non credo di aver talento, e ciò che diventerò lo diventerò solo con lo studio continuo e il
lavoro. [...] Che cosa vorrei diventare è difficile dirlo. Un artista in qualche modo. Se non
altro continuerò a studiare arte.1 »
Gli stretti rapporti col fratello più anziano Charles lo aiutano a introdursi nelle scuole artistiche più
rinomate, mantenendo un ottimo livello di informazione circa l’arte contemporanea europea ed
americana.
Nel 1930 Charles lo introduce negli ambienti artistici newyorkesi. L’impatto con la grande
metropoli è stato per Jackson culturalmente fondamentale, anche se gli ingenerava un senso di
caos e di disorientamento.
In questi anni assieme al fratello acquista i fascicoli della rivista “American Ethnology”, che attesta
l’interesse per i pellerossa e la loro arte. E’ stato detto, infatti, da vari studiosi che Pollock ha avuto
modo di frequentare una riserva indiana nei dintorni di Chico in California e fu testimone di riti
tribali. In una intervista di parecchi anni dopo Pollock ha dichiarato:
«Sono sempre rimasto molto colpito dalle qualità plastiche dell’arte degli Indiani
d’America. Gli Indiani sono dei veri pittori, perché hanno la capacità di scegliere le immagini
appropriate, e di capire che cos’è un soggetto pittorico. Il loro colore è sostanzialmente
quello dell’Ovest, la loro visione ha quella universalità che ha la vera arte. Alcuni hanno
trovato dei riferimenti all’arte e alla calligrafia degli Indiani americani in certe parti dei miei
quadri. Non era una cosa voluta, ma probabilmente la conseguenza di ricordi e di
entusiasmi lontani.2 »
1 Dalla lettera di Jackson Pollock dell’ottobre del 1929 ai fratelli Charles e Frank. Da; Jackson Pollock, Lettere,
riflessioni, testimonianze, cit., pp. 14-15.
2
L’intervista è del 1944 di Howard Putzel, in Jackson Pollock, Lettere, riflessioni, testimonianze, cit., p. 62.
[Jack] soffre di una nevrosi evidente. Il suo ritorno alla normalità e all’autonomia dipende
da molti fattori nascosti e da altri più evidenti. Dato che una parte dei suoi problemi
(forse3una gran parte) risale ai suoi rapporti nell’infanzia, con la madre in particolare e la
famiglia in generale, per lui sarebbe estremamente angosciante e forse disastroso vederla
in questo momento. Nessuno può prevedere con certezza la sua reazione, ma ci sono buone
ragioni per pensare che sarebbe negativa. Non voglio entrare in particolari, né tentare di
fare l’analisi del suo caso: è infinitamente complesso e, pur comprendendolo, non sono in
grado di scriverne chiaramente. L’elenco di alcuni sintomi ti darà l’idea della natura del
problema: irresponsabilità, depressione (papà), sovreccitazione ed alcoolismo sono i segni
più evidenti. E anche autodistruzione. Di positivo c’è la sua arte che diventerà molto
importante, ne sono sicuro, se le lascia la possibilità di svilupparsi. Come ti dicevo in altre
lettere, si è completamente scrollato di dosso il giogo di Benton e sta facendo qualcosa di
autenticamente creativo. E anche qui, benché ne “senta” il significato e le implicazioni, non
mi ritengo abbastanza qualificato per parlarne. Il suo pensiero si rifà, credo, a quello di
uomini come Beckmann, Orozco e Picasso. Siamo persuasi che, se tiene duro, il suo lavoro
avrà un peso reale. La sua è una pittura astratta, intensa, molto evocatrice. […] 3
Il ’39 però è anche l’anno nel quale Pollock vedrà esposta Guernica di Pablo Picasso al Museum of
Modern Art di New York, che studierà attentamente e lascerà una traccia profonda nel suo lavoro.
L’ascendenza di Guernica e di Picasso, è piuttosto chiara in Pollock ed arriva fino ai primi ‘dripping’
veri e propri del 1947 e tutto sommato ha avuto un’azione positiva sull’immaginario e le
formulazioni pittoriche dell’artista, come in alcuni altri artisti europei (intendo naturalmente, non
tanto il fenomeno del picassismo dell’immediato dopoguerra, quanto le ‘appropriazioni’ originali e
trasformatrici che vengono dal linguaggio del grande maestro andaluso).
Di Picasso interessava Pollock la capacità di accostarsi alle dimensioni del sacro e del mito ma
soprattutto l’attitudine a evocare aspetti essenziali dell’esistenza come la nascita e la morte. Due
dipinti del Nostro come Nascita, del 1938 ca, e Immagine mascherata, dello stesso anno,
dimostrano chiaramente questo tipo di interesse. In un’intervista rilasciata da Pollock a un
gallerista ai primi del 1944, ebbe a dire tra l’altro:
«[…] Riconosco che la pittura importante di questi ultimi cento anni è stata fatta in Francia.
I pittori americani sono stati quasi sempre al di fuori della pittura moderna. (Ryder è il solo
pittore americano che mi interessi.) Il fatto che molti buoni pittori moderni europei siano
qui4 è molto importante, perché permettono una certa comprensione dei problemi della
pittura moderna. Io sono particolarmente impressionato del loro concetto di inconscio come
sorgente dell’arte. Questa idea mi interessa più degli stessi dipinti, perché i due artisti che
ammiro di più, Picasso e Miró, vivono ancora in Europa. »
3
La lettera di Sanford Pollock è del luglio del 1941, della quale è pubblicato un ampio stralcio in: Jackson Pollock,
Lettere, riflessioni, testimonianze, cit., pp. 49-50.
Dello stesso periodo è un dipinto come Head, 1939-41, un’immagine visionaria di grande
intensità nella quale da una sorta di fondo nero spiccano tre occhi, due narici e una strana bocca
che apparenta l’immagine stessa a fattezze mostruose piuttosto impressionanti, che ci
trasmettono un senso inquietante di ossessività. Head fa parte di una serie di immagini
metamorfiche che sono tipiche di questa fase, come ad esempio The Moon Woman, del 1942 nella
quale gli spunti di Picasso e Miró e certe scritture di origine automatica, che vengono da Masson,
hanno dato luogo ad un’immagine affatto inedita di donna-luna nera. Una figura ambivalente di
un essere notturno dalle fattezze, più che probabili, di una donna divoratrice.
Un disegno a penna come Untitled, del 1943, potrebbe essere apparentabile ad una figura
abbigliata da sciamano. A questo periodo proporrei di datare il disegno a china di un paesaggio
onirico dello Sketchbook di Pollock conservato alla Morgan Library di New York, nel quale il ricordo
di Masson è evidente.
Nel 1942 la relazione con la Krasner è per Pollock un importante elemento di sostegno, di sprone
e di promozione del suo lavoro allargando la cerchia delle conoscenze. Sarà il critico d’arte James
Johnson Sweeney a consigliare Peggy Guggenheim di visitare lo studio dell’artista. Attraverso il
pittore William Baziotes Pollock conosce Robert Motherwell che assieme alle loro mogli
sperimenteranno la scrittura automatica. Il ’42 è per Pollock un anno di grande lavoro poiché, oltre
a partecipazioni a esposizioni con una o più opere, preparerà la prima personale che terrà nella
galleria di Peggy Guggenheim: Art of This Century in novembre del 1943. Tra le opere esposte vi
sono Guardian of the Secret, The Mad Moon Woman, Male and Female, The Moon Woman, Cuts
the Circle, The She-Wolf, Stenographic Figure, The Magic Mirror, Conflict e altre ancora.
“I dipinti, con i loro suggestivi titoli mitici e i segni arcani scritti sulla superficie, furono tra le
prime opere espressioniste astratte ad essere esposte pubblicamente, in cui fosse
chiaramente indicato l’interesse per gli antichi miti drammatici. Ci sono figure di centurioni,
tavole profetiche, miti metamorfici (per lo più di origine greca) dipinti a colori torbidi,
abbozzati alla rinfusa in un primo piano molto ravvicinato. E’ già chiara la tendenza di
Pollock a segnare la superficie con una continuità lineare, un tipo di écriture che gli è
peculiare.”
La mostra in questione, sulla quale ho lasciato parlare una critica d’arte che è stata un’attendibile
testimone, ha avuto un grande successo ed è stata decisiva nella carriera dell’artista.
Di maggiore interesse per gli sviluppi della pittura di Pollock è il Portrait of H.M., del 1945, di
straordinario vigore espressionistico: il gesto dell’artista si traduce in veloci pennellate e ‘fissa’ una
sorta di simultaneismo, quasi memore di certe impostazioni futuriste poiché, in effetti, si tratta di
una sovrapposizione di piani, accresciuta dai diversi tipi di segni che li attraversano mediante forti
contrasti cromatici.
5
Cfr. D. Ashton, Gli inizi dell’Espressionismo astratto in America, in: L’arte moderna, vol. XIII, cit., p. 10.
Il 1946 è sicuramente una data liminare per la pittura di Pollock: il dipinto Untitled di quell’anno è
una gouache su carta di dimensioni contenute (cm 56,5x82,6), ma di una certa ampiezza di sviluppi
per la ricchezza messa in essere dalle virtuali suggestioni figurali, che paradossalmente sussistono
per il fatto che l’artista le ha in parte distrutte, attuando delle campiture che evocano una
spazialità ampia, costellata di segni e di primi ‘gesti’ con i bianchi liquidi della tempera, lanciati
direttamente sul foglio, imprimendo loro un ritmo parossistico affine al jazz di quegli anni. Si tratta
in effetti di inedite strategie pittoriche che costituiscono anche un modo nuovo di comporre e
raccordare forme diverse.
Molto vicino a quest’opera è il dipinto Circumcision, che può suggerire un rituale d’iniziazione e di
ingresso vero e proprio entro una particolare comunità sociale. L’uso dei colori timbrici tende a
dare lo stesso risalto a tutte le parti del dipinto.
Circumcision è un dipinto che dimostra non solo la perfetta assimilazione di Pollock del linguaggio
picassiano, ma anche il modo assolutamente originale di utilizzarlo per nuove creazioni inedite e,
quindi, come una delle fonti del dipinto non risulti evidente di primo acchito poiché, quanto viene
rielaborato dall’artista, implica una trasformazione linguistica completa.
Il 1946 abbiamo detto che è stato un anno liminare per Pollock, in quanto si è aperta una nuova
fase della sua pittura più matura che pochi mesi dopo, nel 1947 troviamo già in Enchanted Forest.
Quanto scrive l’artista del suo lavoro in quell’anno è particolarmente illuminante:
«La mia pittura non nasce sul cavalletto. Non tendo praticamente mai la tela prima di
dipingerla. Preferisco fissarla non tesa sul muro o per terra. Ho bisogno della resistenza di
una superficie dura. Sul pavimento mi sento più a mio agio. Mi sento più vicino, più parte
del quadro, poiché in questo modo posso camminarci sopra, lavorare sui quattro lati, ed
essere letteralmente nel quadro. E’ un metodo simile a quello degli Indiani dell’Ovest che
lavorano sulla sabbia.
Mi allontano sempre più dagli strumenti tradizionali del pittore come il cavalletto, la
tavolozza, i pennelli, ecc. Preferisco la stecca, la spatola, il coltello e la pittura fluida che
faccio sgocciolare, o un impasto grasso di sabbia, di vetro polverizzato o di altri materiali
extra pittorici. Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quello che faccio. Solo
dopo una specie di ‘presa di coscienza’ vedo ciò che ho fatto.
Non ho paura di fare dei cambiamenti, di distruggere l’immagine ecc. perché un quadro ha
una vita propria, Tento di lasciarla emergere. Solo quando perdo il contatto col quadro il
risultato è caotico. Altrimenti c’è armonia totale.6»
Un dipinto come Enchanted Forest rappresenta una delle prime opere di svolta verso l’Action
Painting che Pollock in qualche modo precorre nella Scuola di New York, diventandone l’indiscusso
punto di riferimento. L’opera presenta un quoziente di aleatorietà forse più alto rispetto ai dipinti
successivi dell’artista, o per lo meno dove il gusto della scoperta, della novità e dell’azzardo sono
6
Lo scritto è comparso, nella rivista “Possibilities”, edita da R. Motherwell e da H. Rosenberg a New York nel 1947.
E’ stato ripreso in traduzione italiana in Jackson Pollock a Venezia, catalogo cit., p. 239. 25
Ripubblicate in J. Pollock, Lettere, riflessioni, testimonianze, cit., pp. 131-39.
più evidenti. Qui si vede che Pollock si muove sopra la tela con tutto il corpo. Benché compaia
rispetto ad altre opere dell’artista una certa qual ‘imperizia’, l’idea di un fitto intreccio boschivo
inestricabile ci ‘restituisce’ persino la percezione dei colpi di luce tra le frasche, mantenendo tutto
il fascino di un complesso dipinto che finisce per evocare una “foresta incantata”. Con lieve
forzatura ermeneutica, potremmo dire, con un certo margine di certezza, che così l’artista aveva
visto l’opera, dopo averla dipinta.
Guardando sei notissime fotografie di Pollock nello studio, mentre lavorava negli anni 1949, 1950
e ’51 possiamo notare come il corpo dell’artista in qualche modo ‘entrava’ fisicamente e
mentalmente nell’opera pittorica, movendosi sopra e intorno a grandi tele stese per terra. Le
posizioni del corpo dell’artista sono piegate o appoggiate sulla tela col ginocchio destro, mentre
con la mano sinistra tiene un barattolo di colore, con la destra muove la pennellessa che lascia
sgocciolare una pittura fluida sulla tela, delineando con ampi gesti circolari o angolari del braccio le
tracce del gesto che delinea segni, itinerari lineari e possibili percorsi perfino labirintici.
In effetti l’artista, con il gesto che coinvolge tutto il corpo, potenzialmente può trasmettere
l’esperienza che lo costituisce come corporeità nel suo rapportarsi al mondo, nel suo protendersi
verso le cose e gli altri, essendo egli stesso come corpo e come persona, nella sua singolarità, parte
del mondo, dando espressione anche alle dimensioni inconsce di questo rapportarsi e protendersi
- come lo stesso Pollock aveva intuito benissimo nel suo interesse verso l’inconscio –.
L’artista attua e concepisce spesse volte il suo gesto come un rito vero e proprio, che per il Nostro
è ancora il rito della pittura, ma di lì a pochi anni si protenderà verso gli happenings (eventi
piuttosto che oggetti), la teatralizzazione, le ‘performance’, la Body Art, come vedremo nelle
prossime lezioni. Ma la corporeità, che interviene nell’atto stesso del dipingere, è anche un modo
per definire, espandere e dare espressione ad una propria spazialità, che è strettamente connessa
al vissuto dell’artista, e ne è l’effettivo prolungamento vitale e creativo.
Sappiamo che chi ha introdotto sperimentalmente il gesto nel disegno, nella grafica e nella pittura
è il grande artista francese André Masson (Balagny, Oise 1896 – Paris 1987), che fin dalle primizie
del movimento Surrealista ha avuto un’importante esperienza pittorica in quel contesto culturale
– poi si è staccato da Breton –; successivamente è vissuto negli Stati Uniti tra il 1941 e il 1945,
soprattutto a New York. Come abbiamo visto, Masson era uno dei tre artisti europei che Pollock
studiava e che lo interessavano di più, prendendo spunti dal suo lavoro, come abbiamo già notato
più volte.
In Pollock la gestualità legata alla sua pittura è tendenzialmente espansiva, connessa al suo
‘dionisismo’, con un moto centrifugo rispetto al nucleo dell’opera, egli procede per stratificazioni
infittendo la trama dell’immagine, creando spesso una sorta di palinsesto, prediligendo tele di
grandi dimensioni. André Masson invece delinea dei veri e propri calligrammi di ascendenza
orientale e anche quando elabora delle immagini gestuali, tende a un grafismo elegantemente
strutturato, con spunti naturalistici (come nidi d’insetti, polluzioni o altro) e poetico-letterari,
evitando di sovrapporre fitte reti di gesti o di segni – con un innegabile senso della misura - nei
fogli, nelle lastre o nelle tele, che sono sempre di dimensioni più contenute rispetto a quelle di
Pollock.
Più volte si è insistito da parte della critica d’arte sull’alea e sul fenomeno della casualità nell’opera
d’arte di matrice gestuale in maniere molto parziali, se non equivoche, forse perché soltanto
praticando questo tipo esperienza pittorica è possibile afferrarne problemi e modalità.
Anche l’alea ha dei limiti, nel senso che il gesto dell’artista non è mai del tutto casuale e, direi
fondamentalmente, secondo due modalità:
1. l’esercizio e la pratica gestuale tende a configurare il prodotto grafico o pittorico che ne deriva
in maniera sempre più connessa a una certa struttura, che deriva dal fatto che il gesto di ciascun
artista ha una determinata direzione e si attua e sviluppa secondo delle ‘dominanti’ particolari che
si configurano, in un certo senso, come una Gestalt che differenzia un artista dall’altro (o chiunque
si avventuri in esperienze del genere), per cui può diventare una specie di ‘ripetizione differente’,
in qualche modo controllabile – entro certi limiti - ‘a monte’ dell’opera che ne deriva;
2. Quando l’artista gestuale avverte un certo ‘stato di grazia’, che è una vera e propria urgenza
espressiva, come nel furor di Pollock, agisce una sorta di controllo dall’’interno’, ma non in termini
coscienti, per cui l’apparente caos che ne deriva durante ‘l’azione’ poi si compone nell’opera,
come diceva Pollock nel testo che abbiamo citato, cercando di non perdere il contatto col quadro
per generare quell’ “armonia totale” che ne deriva.
Nelle opere successive del Nostro artista possiamo anche distinguere i due modi diversi. Un primo
modo è esemplificabile in Reflection of the Big Dipper, del 1947: un segno nero conclude il dipinto
ed è nitidamente distinguibile nelle sue curve ellissoidali, sopra un ‘fondo’ cromaticamente ricco di
timbri contrastanti come il giallo-blu, violacei e azzurrini argentei, ecc. Alcune “taches” piuttosto
scure, verso il nero, rendono più ambiguo il ‘percorso lineare’ e invitano il riguardante a
sprofondare nella ricca trama del dipinto. Ancora più evidente è Sentieri ondulati, dello stesso
anno ove il “disegno” spiraliforme più che sovrapporsi interagisce con la ricca trama di segni tra
l’argento e l’alluminio che copre un fondo verdognolo, con qualche emergenza giallo-arancio. La
composizione sembra galleggiare su una superficie liquida che potrebbe estendersi
indefinitamente.
Il secondo modo lo troviamo in Sea Change, del ’47, con una trama fitta ed elaboratissima, un
palinsesto illeggibile e in buona parte in-visibile, poiché stratificato entro una trama talmente ricca
che tende a sfaldare l’immagine, ed è una sfida persino per le attitudini mnemoniche
dell’osservatore. Le ‘taches’ nere che si sono dilatate sulla superficie del dipinto coprono l’orditura
costruita dalla gestualità dell’artista, probabilmente nello strato intermedio del palinsesto,
imprimendo una forte ambiguità all’immagine. Infatti, se ci sembra di vedere virtuali immagini, per
esempio un uovo inclinato di 50° ca., rispetto alla linea orizzontale della base del dipinto, uovo che
appare ‘collocato’ nella fascia centrale orizzontale, spostato verso il margine destro del quadro, in
realtà ad una ispezione più accurata tale configurazione tende a sfaldarsi, rendendo l’immagine
cangiante a seconda del riferimento dato dall’esplorazione percettiva e dalle relative scelte fatte
volta per volta dal riguardante.
Tra le due modalità che ho tentato di descrivere Number 23, del 1948, si colloca in una posizione
intermedia, la cui trama di segni sottili appare leggibile, almeno virtualmente. La struttura nera
che galvanizza l’immagine diventa meno definita per gli ampi segni gestuali rossi, gialli, argentei e
bianchi che la attraversano in punti anche cruciali rendendo la percezione del dipinto più instabile.
Se tagliamo un particolare, l’intensità dell’immagine si costituisce quasi come un mondo a sé,
come se per reggersi pittoricamente non avesse bisogno di tutto il dipinto, del quale pure è parte.
3. La tradizione rituale indiani d’America e l’esplorazione antropologica di
Pollock: la danza intorno alla terra
Jackson Pollock appartiene a uno dei due dei principali orientamenti artistici del secondo
Novecento americano: l’action painting – la pittura-azione – inserita nell’ambito della definizione
di “espressionismo astratto”. Il secondo filone preponderante – e contrario per diversi aspetti
all’action painting -sarà lo sviluppo, successivo, della Pop art. Con espressionismo astratto si
intende una violenza deformante nella rappresentazione che, nel caso di Pollock, non è figurativa,
come negli espressionisti del primo Novecento – e citiamo, prima di tutti, Munch, come esempio,
ricordando l’assetto deformato dell’Urlo – ma produce quadri nei quali non è riconoscibile alcuna
forma di figurazione, ma una sorta di primitivo trasferimento di violenta energia psichica, che
combatte, con il riempimento di tutta la tela un’altrettanta primitiva “paura del vuoto” (horror
vacui). Ogni dipinto dell’artista si presenta come un “tutto pieno”. Fondamentale, nelle stesure, è
l’azione svolta dall’intero corpo al cospetto della tela, che recupera un’azione attiva, completa,
totalmente coinvolgente, rituale e sciamanica, differenziandosi dal pittore che, davanti al
cavalletto, trasferisce, delicatamente minime quantità di colore e di realtà. Il successo dell’arte di
Pollock precede e si collega sotto l’aspetto antropologico alla nascita e allo sviluppo dell’arte
alternativa della Beat generation. Con questi termini lo scrittore Jack Kerouac definiva, nel 1948,
una fascia alternativa del mondo giovanile, anticonformista, underground che spesso cercava
un’identità nel verso l’America più discosta, culturalmente. L’aggettivo beat significava stanchi o
abbattuti e si riferiva spesso alla comunità afro americana; si trattava di trasformare in rabbia,
azione e nuove modalità di rappresentazione culturale un’energia latente molto intensa.
Pollock contribuì a creare, pur in un percorso autonomo, percorsi iconografici che crearono
l’immagine di un’epoca connotata dalla protesta, dall’azione, dal rifiuto del consumismo, dal
recupero di valori pre-borghesi.
Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 – Long Island, 11 agosto 1956) aveva partecipato a un
seminario tenuto dall’artista americano David Alfaro Siqueiros, specializzato nella produzione dei
murale. In quel caso aveva notato quanto il muralismo si differenziasse dalla pittura sfumata e
tonale della tradizione occidentale per puntare su una gamma limitata e violentissima di colori con
l’uso preponderante dei primari. In quell’epoca, l’osservazione della violenza espressiva del colore,
in grado di trasformarsi in un urlo cromatico, si unì ad un imprinting fondamentale per l’artista: il
ricordo della pittura di sabbia, praticata, a livello di rappresentazione magica, da parte dei nativi
americani che egli aveva visto, per la prima volta, accompagnando il padre, agrimensore, durante
un sopralluogo nella regione. Nel 1941 egli visitò più volte la mostra Indian Art and the United
States, partecipando, come osservatore, alle diverse dimostrazioni pratiche compiute da da
stregoni, che lavoravano con un distacco dalla realtà simile a un’esperienza di trance. I nativi
americani, come avremo modo di vedere in due documentari, uno dei quali nel 1949 – e pertanto
negli anni in cui Pollock già produce i propri lavori di action painting – si basa sull’uso di polveri e
sabbie dai colori diversi. I pittori-sciamani creavano, come base effimera, una base di sabbia
appiattita e resa liscia, trascinando su di essa un’asse. A questo punto attingevano a diverse
polveri, sabbie e pigmenti, racchiudendo ogni polvere in un pugno e lasciando poi scivolare, per
caduta simile a quella della sabbia in una clessidra, sul preparato di sabbia chiara. Ma se il gesto
può apparire simile, gli indiani d’America, componevano, per cadute opere molto ordinate, nelle
quali figure antropomorfe erano collegate ad elementi geometrici.
La produzione di una pittura di sabbia, da parte di stregoni navajo, nel 1949. Il disegno, a differenza della
pittura di Pollock, è molto ordinato poichè riporta ad ordine le forze del caos che ostacolano l’umanità in un
percorso di serenità esistenziale
Essi andavano cioè a comporre le forze del caos, costringendole all’ordine della divinità e degli
spiriti, come avviene nei mandali, nei tappeti orientali o nei mosaici della tradizione occidentale. In
Pollock, al contrario, il gesto diviene espressione dell’Es, ribellione, azione espressiva che infrange
le regole dell’arte occidentale, in una geometria del caos che, si è detto, ha anticipato gli studi dei
frattali e la non linearità delle tradizionali scienze di misurazione del mondo.
Il linguaggio iconoclasta – che rappresentava un momento di rottura delle esperienze europee –
ebbe successo anche perché fu ritenuto espressione autentica della nuova frontiera americana. A
differenza dei nativi, che lasciavano sfilare, in modo controllato la polvere dalle dita o dal pugno,
Pollock imprime forza al colore che fa sgocciolare su una tela – collocata in molto casi a terra per
evitare la caduta e il trascinamento dei pigmenti nel caso di una collocazione verticale – lascia
cadere o dirige spruzzi con pennelli o bastoncini, con movimento ondulatorio, con un’azione di
accerchiamento rituale del supporto, attraverso il quale egli tende a coprire l’intera superficie,
annullando gli spazi bianchi e un’unica direzionalità del dipinto. La pittura d’azione era tale poiché
egli, come uno sciamano primitivo, utilizzava l’intero corpo per indirizzare il colore, restando in
piedi e girando progressivamente intorno alla tela. Questa tecnica fu definita dripping, cioè
sgocciolatura, anche se il dripping costituisce una sola parte del complesso incedere creativo del
maestro.
“Il mio dipinto – raccontava Pollock – non scaturisce dal cavalletto. Preferisco fissare la tela non
allungata sul muro duro o sul pavimento. Ho bisogno della resistenza di una superficie dura. Sul
pavimento sono più a mio agio. Mi sento più vicino, più parte del dipinto, perché in questo modo
posso camminarci attorno, lavorare dai quattro lati ed essere letteralmente “nel” dipinto. È simile
ai metodi dei pittori di sabbia indiani del west. (…) Quando sono “nel” mio dipinto, non sono
cosciente di ciò che sto facendo. È solo dopo una sorta di fase del “familiarizzare” che vedo ciò a
cui mi dedicavo. Non ho alcuna paura di fare cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc., perché
il dipinto ha una vita propria. Io provo a farla trapelare. È solo quando perdo il contatto con il
dipinto che il risultato è un disastro. Altrimenti c’è pura armonia, un semplice dare e prendere, ed
il dipinto viene fuori bene. »
Tra i più controversi esponenti dell’arte moderna, Jackson Pollock ha portato un importante
contributo nel panorama artistico mondiale, entrando nei libri di storia dell’arte come il più famoso
ed emblematico rappresentante dell’action painting americana.
Quello che forse non tutti conoscono è il legame esistente tra Pollock e i maestri dell’astrattismo e
cubismo Mirò e Picasso; nelle opere giovanili infatti, si notano molto chiaramente gli influssi dei
due pittori – un esempio lampante è il dipinto “The Moon Woman del 1942 – sia nell’uso
dei colori che nelle forme astratte e rielaborate della figura femminile richiamanti direttamente
Picasso.
Il Movimento nucleare italiano ebbe anche una ben marcata impronta internazionale, grazie anche
alle frequentazioni di artisti come Arman, Yves Klein, Antonio Saura, e Asger Jorn.
Vari furono i manifesti redatti, tra cui si ricorda quello "Contro lo stile", firmato da Baj nel 1957, in
cui si vuole contrastare e distruggere lo stile manieristico in pittura,[1] e affermare l'irripetibilità
dell'opera d'arte, invitando a scegliere tra l'essere tappezzieri o pittori.
Il linguaggio espressivo usato dagli aderenti al gruppo dei nucleari si basa sull'adozione
delle tecniche utilizzate dall'automatismo surrealista in linea con l'esperienza europea dovuta alla
pittura informale dell'espressionismo astratto.
Le opere che nascono in questo periodo risentono fortemente dei tragici eventi della seconda
guerra mondiale e soprattutto degli effetti devastanti della bomba
atomica su Hiroshima e Nagasaki.
I Nucleari furono preceduti dagli Eaisti, un gruppo di pittori e poeti livornesi, guidati dal
pittore Voltolino Fontani, che dell'Eaismo fu l'ideatore. Tra gli altri asserti, si legge infatti nel
Manifesto dell'Eaismo, che gli Eaisti non: "concepiscono l'arte come un rifugio da iniziati e come
un'oasi in cui rinchiudersi lungi dal travaglio complesso dell'umanità" e che l'Eaismo "non avrà
punti di contatto con i movimenti artistici odierni".[2]
L'opera di Fontani "Dinamica di assestamento e mancata stasi", 1948, in cui si raffigurano
radiazioni atomiche appena dopo una esplosione nucleare, testimonia l'affinità delle tematiche
eaiste con quelle del movimento milanese, che non nascondono però le notevoli divergenze di
pensiero.
L'Eaismo, in particolare, faceva esplicito riferimento all'Era atomica, espressione importata
dagli Stati Uniti, dove era stata coniata dal giornalista William L. Laurence, ed impiegata poi
dall'economista Virgil Jordan,[3], nonché dallo scrittore Wilbur M. Smith nel suo libro "This atomic
age and the word of God" (1948)
Parallelamente al lavoro del Movimento nucleare e degli Eaisti si sviluppò quello isolato
di Salvador Dalí, che nel 1951 diede alla luce il "Manifesto mistico". Il pittore spagnolo peraltro già
nel 1945 aveva realizzato un quadro nucleare cui aveva dato il titolo di "Idillio atomico".
La contesa tra i tre gruppi per la primogenitura dei propri movimenti si fece tesa, tanto che Enrico
Baj e Sergio Dangelo denunciarono per plagio Salvador Dalí, e la stessa cosa fece Voltolino
Fontani nei confronti del Movimento nucleare italiano.
Anche in Europa l'incubo di una possibile guerra nucleare fu percepito con particolare
apprensione. Vari furono i poster e i manifesti che illustrarono questa epoca e tutte le sue
contraddizioni. L'artista svizzero Hans Erni realizzò nel 1954, per conto del Movimento svizzero per
la Pace, il Manifesto contro la guerra atomica, pubblicato poi in diverse lingue.[19] In Italia sorse un
movimento artistico, l'Eaismo (1948-1959) che intendeva mettere in guardia l'umanità dal rischio
di un conflitto di quella portata[20]. Fu un movimento di avanguardia pittorico-poetica che redasse
nel settembre del 1948 un manifesto in cui si affermava che la scoperta dell'energia atomica aveva
alterato l'equilibrio sentimentale-morale dell'uomo all'interno del mondo, denunciando altresì
l'inadeguatezza delle principali avanguardie storico-artistiche nel comprendere lo spirito dei nuovi
tempi che si stavano vivendo. [
Nel 1951 sorse poi il Movimento nucleare, ad opera di Enrico Baj e Sergio Dangelo e con la
partecipazione di artisti come Joe Colombo, Piero Manzoni, Asger Jorn, Yves Klein, Ettore
Sordini, Angelo Verga, Gianni Dova, Remo Bianco. Il gruppo milanese si saldò poi a quello
napoletano di Guido Biasi, Mario Colucci e Mario Persico.
Nello stesso anno Salvador Dalí portò a termine il Manifesto mistico, che costituiva la base teorica
della sua esperienza nucleare. [
Dal punto di vista individuale e dei singoli, nel 1942 il pittore italiano Alberto Martini elaborò un
dipinto a cui diede il nome di l'era atomica, che intendeva così celebrare la costruzione della
prima pila atomica da parte dell'equipe dello scienziato Enrico Fermi.
Sebbene Salvador Dalí avesse dipinto già nel 1945 l'opera Idillio atomico, il primo quadro che
raffigurò la distruzione dell'atomo in un'esplosione nucleare fu realizzato dall'ideatore
dell'Eaismo, Voltolino Fontani, Dinamica di assestamento del 1948[23]. L'anno dopo, Salvador Dalí
dipinse Leda atomica, mentre il pittore francese Bernard Lorjou iniziò la realizzazione del
monumentale dipinto era atomica che concluse nel 1950.
Negli Stati Uniti l'era atomica in pittura fu ben interpretata da Jackson Pollock nel periodo che
intercorse tra il 1947 e il 1950, in cui ideò e perfezionò la tecnica del dripping. La sua idea di fondo
era che non fosse più possibile, dopo l'olocausto nucleare giapponese, fare pittura usando le
stesse regole e le medesime tecniche del passato. [
Il pittore Eugene Von Bruenchenhein dipinse il quadro Atomic age nel 1955 e negli anni seguenti,
fino a circa il 1965, diede alla luce un numero elevato di paesaggi post-nucleari e apocalittici.
Negli anni sessanta si interessano dell'olocausto nucleare gli artisti della pop art Andy Warhol che
nel 1965 dipinse Atomic Bomb e James Rosenquist che realizzò nello stesso anno l'opera F-111.
4.3.1 Opere
Attesa
Il cielo di Venezia a mare
Colonna (1957), opera di maestosa grandezza sita nella hall
dell’Hotel Alpi di Bolzano
Concetto spaziale (1957), pavimento musivo sito
a Cantù presso l'ex palazzo delle esposizioni mobili
Concetto spaziale, Attese (1963)
Concetto spaziale, Teatrino (1964)
Concetto spaziale, Venezia d'argento (1961)
Mezzogiorno a Piazza San Marco
L'uomo nero (1930)
Via Crucis bianca (1955), Museo diocesano di Milano
Dopo la Seconda guerra mondiale una profonda crisi distrugge la fiducia nell'arte e nei suoi
linguaggi. Non solo la bellezza della forma sembra lontana e inutile, ma anche le esperienze delle
avanguardie (cubismo, dadaismo) sembrano ormai superate. Inizia così una profonda ricerca da
parte degli artisti di nuove strade per esprimersi, diverse da quelle precedenti. Un percorso che
riparte dall'individuo, dal rapporto unico, speciale, del pittore con la sua opera, condiviso dagli
scrittori e dagli intellettuali della corrente dell'esistenzialismo europeo
Si ricomincia dall'abc
Quando in Europa salgono al potere, dopo il 1920, le dittature che impongono leggi razziali e
un'arte a servizio dello Stato, molti artisti e intellettuali fuggono negli Stati Uniti. Nel Nuovo
Mondo trovano un terreno culturale fertile dove sviluppare le idee delle avanguardie di cui
avevano fatto parte, grazie alle numerose gallerie, ai musei di arte moderna e agli aiuti economici
stanziati dal governo.
Gli artisti emigrati (tra i primi l'armeno Arshile Gorky e il tedesco Hans Hoffmann) riescono a
comunicare ai giovani americani la grande libertà di espressione conquistata dal cubismo,
dall'espressionismo, dal dadaismo, dal surrealismo: la libertà di non rappresentare figure, di usare i
colori in modo arbitrario, di allontanarsi dalla realtà, come se si azzerassero le regole della pittura
fino ad allora date per acquisite. Si prepara così il terreno per la nascita dell'arte informale, uno tra
i maggiori movimenti americani di avanguardia, esploso dopo la guerra.
Ma cosa vuol dire informale? Dipingere senza forma, cioè senza avere già l'opera in mente, ma
improvvisando sull'onda delle emozioni con una spontaneità mai vista, senza figure riconoscibili,
senza prospettiva né geometria; e soprattutto lasciare che colori e materiali diventino i veri
protagonisti sulla tela. È un momento importante nella storia dell'arte, perché l'artista segue solo il
suo istinto, completamente autonomo dai giudizi della critica e del pubblico. L'informale è un
vasto movimento, che si divide in tre gruppi: gestuale, materico e segnico.
In Francia un'esperienza simile è vissuta dagli artisti Jean Fautrier e Jean Dubuffet. Il primo dipinge
le serie degli Ostaggi, un drammatico ricordo della guerra, stendendo tanti strati di colore sulla
tela in modo da formare una pasta alta che faceva assomigliare i dipinti alle sculture; il secondo è
attratto invece dall'art brut, ovvero l'arte spontanea, immediata, come quella che avrebbero
potuto fare nella loro innocenza i bambini o i malati mentali.
L'opera di capo orchestra di Davis è importante almeno quanto la musica che produsse in prima
persona. I musicisti che lavorarono nelle sue formazioni, quando non toccarono l'apice della
carriera al fianco di Miles, quasi invariabilmente raggiunsero sotto la sua guida la piena maturità e
trovarono l'ispirazione per slanciarsi verso traguardi di valore assoluto.
Dotato di una personalità notoriamente laconica e difficile, spesso scontrosa, Davis era anche per
questo chiamato il principe delle tenebre, soprannome che alludeva fra l'altro alla
qualità notturna di molta della sua musica. Questa immagine oscura era accentuata anche dalla
sua voce roca e raschiante (Davis disse di essersi danneggiato la voce strillando contro un
procuratore discografico pochi giorni dopo aver subito un'operazione alla laringe). Chi lo conobbe
da vicino descrive una persona timida, gentile e spesso insicura, che utilizzava l'aggressività come
difesa.
Il Davis strumentista non fu un virtuoso nel senso in cui lo furono, ad esempio, Dizzy
Gillespie e Clifford Brown. Egli è tuttavia considerato da molti uno dei più grandi trombettisti jazz,
non solo per la forza innovatrice della composizione, ma anche per il suo suono - che divenne
praticamente un marchio di fabbrica - e l'emotività controllata caratteristica della sua personalità
solistica, che in dischi come Kind of Blue trova forse la sua massima espressione. La sua influenza
sugli altri trombettisti fa di Miles Davis un personaggio chiave nella storia della tromba jazz, al pari
di Buddy Bolden, Joe King Oliver, Bix Beiderbecke, Louis Armstrong, Roy Eldridge, Dizzy
Gillespie, Clifford Brown, Don Cherry e altri ancora.
Davis fu un vero laboratorio vivente che consentì non solo lo sviluppo di generazioni di musicisti e
di nuove tendenze musicali, ma lasciò traccia anche nel costume. Lasciandosi a volte guidare dal
pubblico, e a volte precedendolo, egli non esitò mai a reinventare il suono e la musica per cui era
conosciuto, nemmeno dopo il successo del rock, quando passò ad una sonorità totalmente
elettrica, sfidando l'opposizione e talvolta l'ostilità della critica. Il grande carisma dell'uomo, oltre
che da una enorme produzione artistica di indiscusso valore, scaturì anche da una attenta
costruzione dell'immagine, opportunamente e sapientemente aggiornata nel corso degli anni, sino
ad arrivare all'ultimo periodo in cui il vestiario pieno di colore (in gran parte firmato Versace)
conferiva una certa sacralità e ritualità alle peculiari esibizioni dell'unico musicista del XX secolo
che seppe essere allo stesso tempo artista rivoluzionario e icona della cultura pop, dell'industria
dello spettacolo e dei megaconcerti.