...
e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L'attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.
MONTALE, da La bufera e altro
I
Sapevo di sognare.
La salita era ripida, il sentiero appena tracciato tra le erbe andava su con
brusche curve, ogni tanto rabbuiandosi tra le acacie che si sporgevano a
grappoli, a ombrello. Tutto pareva felice intorno, in un ordine e silenzio
assoluti.
Sul sentiero, isolate o a mucchi, secche nel fango, erano le forme
biforcute e larghe dei buoi, e altre, appena accennate, minuscole, forse di
cani, di volpi. E ogni tanto, tra i fili d'erba asciutta, apparivano i coni
leggeri, granulosi, dei formicai. La luce era ancora alta, morbida come il
pelo di un coniglio, ben tesa nella sua celeste uniformità di dopo il
tramonto.
Andavo per il sentiero, con pienezza, con la facilità, la consistenza, la
salute di un giovane animale, pronto a godere di tutto, già godendo di me.
Vieni, mi invitava la mano di Francesco dalla curva estrema del sentiero.
II
L'appuntamento era al caffè Greco.
III
Devo sforzarmi a ricordare.
Non so se frugare nella memoria sperando di far ordine possa costituire
un vero aiuto. Ma devo pure provarmi, come un ferito con le ossa
fracassate, a terra e solo, cautamente comincia a tastarsi, a cercare dove
ancora consiste, dove invece è già perduto, morto.
Devo provarmi perché questi ricordi giacciono sepolti, in ispida
confusione, e separati da me, un vecchio cumulo di strame da cui sono
balzato via, e differente ormai.
Aspettavo l'estate.
Ai primi caldi, così afosi e senza una bava di vento in quella città
percorsa da torme cieche di soldati che muovevano alla sera dai boschetti
lungo il Po fino ai chioschi delle bibite sulla circonvallazione, il ricordo
della campagna piemontese, delle vigne color verderame, e Caterina e
Francesco, mi rendeva senza fine le giornate.
Minutamente ripercorrevo ogni luogo, ero già per la collina dei peschi,
allo stagno con la lanterna di notte per attirare rane da friggere in molli
camicie di bianchi d'uovo, già spacciavo un coniglio con un secco pugno
dietro gli orecchi, a nocche all'ingiù, reggendolo per le zampe posteriori.
Caterina l'avrebbe poi sbudellato tra i guaiti del cane alla catena, impazzito
per l'odore. Vedevo la pelle fresca del coniglio, da stendere con due pezzi
di legno e appendere al sole; Francesco ed io l'avremmo venduta per
cinquanta centesimi. Una lira l'avrei guadagnata smuovendo
laboriosamente avanti e indietro il mestolo di legno nel paiolo della
conserva di pomidoro, controvento per evitare il fumo, un'intera giornata
per consumare diecine di chili di pomidoro sul fuoco di legna. Bisognava
continuamente rinnovare i ciocchi, grandi e asciutti sulle braci per
mantenere costante il bollore, e rimuovere col lungo mestolo sul fondo del
paiolo perché l'impasto non s'appiccicasse, non venisse a saper di bruciato.
Così come il nonno era morto nelle angustie per quella guerra che aveva
sperato impossibile, Doro mori un mese prima di vedere Mussolini
scacciato dal re, e dal municipio del paese rotolare in rovina per i ciottoli
Era già dicembre, un inverno gelido con poca neve. Le reti metalliche
apparivano coperte d'una brina ghiacciata, i sentieri risuonavano sordi
nelle rughe di terra indurita e crostosa sotto le scarpe. I conigli in cortile
sporgevano coi musi dal riparo delle fascine aspettando un po' di fieno, un
po' di crusca, qualche ramo secco da sbucciare in un rapido arruffio di
corpi.
A volte, in una piena ora del giorno, mai verso sera, mi precipitavo di
corsa fino al viale, al cunicolo, dove il groviglio delle ortiche, benché
nudo, pareva massiccio come una barricata di filo spinato, e mi fermavo un
attimo a guardare, parendomi incredibile che li sotto giacesse sepolto un
uomo. Nella memoria restava esatto il quadro del tedesco ansimante e
avanzante, di me con la pistola, poi col badile..., e non sapevo per quali
forze e virtù m'era successo di trovargli così remota e immobile
collocazione al fondo di me. Un'unica cosa mi stupiva : il silenzio che
senza fatica ero riuscito a mantenere nei confronti di Francesco, come se
nessuna gloria o piacere avesse potuto venirmi da una così grande
confidenza.
Tutto pareva nuovamente preso in un lento giro, vita e lontani
accadimenti risultavano senza eco, e nei discorsi persino Caterina
rimandava certezze e dolori alla nuova stagione. Caoticamente studiavo un
po' di latino, pungolato da mia madre che ritrovava un'ombra di quiete
quando mi vedeva piegato sul tavolo con un quaderno e un libro davanti.
"Dovrai dare l'esame di due anni in una volta!" mi sollecitava seguitando
a cucire: "Mettiti sotto, sennò arrivi a giugno senza saper più leggere..."
Era un uomo altissimo, magro, dalla faccia scavata, già vecchio dentro il
cappotto consunto.
"Forza..." mi ripeteva senza guardarmi: "Ci salti sopra e via... Se
qualcuno ti corre dietro, mi ci metto di mezzo io..., su, muoviti che ci
facciamo un po' di lire..."
Eravamo in una piazzetta sghemba, quasi vuota, a ridosso del Duomo, e
quell'individuo, dopo avermi offerto un caffè, per la terza volta cercava di
persuadermi a scappare con la bicicletta abbandonata da qualcuno contro
lo spigolo d'un portone. Avrei dovuto aspettarlo, dopo la fuga, in un altro
slargo, che m'aveva descritto a non più di cinquecento metri di distanza.
L'uomo arricciava le labbra nervose sui denti, fisso alla bicicletta,
respirando in un sibilo.
"Non staremo qui tutta la mattina..." riprese come lamentandosi: "Dai
che è uno scherzo... Adesso il caffè l'hai preso, il freddo t'è passato... E
allora?"
Sentivo i rumori alle spalle, al banco del bar, e non sapevo come fare. In
un angolo quasi buio, due vecchi posavano con ritmata lentezza le carte sul
tavolo, senza una parola.
"Sarà l'unica in tutta Milano senza lucchetto... Tu sei lesto, vero che sei
lesto? Salti su ed è prima finito che detto..."
L'avevo incontrato a un comando della guardia repubblicana fascista,
dove un graduato ci aveva indirizzati a un'altra caserma. Là avrebbero
potuto arruolarci tutti e due più facilmente. Usciti dal comando, l'uomo
aveva insistito per quel caffè, dal bar aveva scoperto la bicicletta contro il
portone.
Mi spinse sulla spalla costringendomi a uscire.
Mi avviai per la piazza, adagio, ma quando fui davanti alla bicicletta,
voltandomi e ridendo gli indirizzai un gestaccio, lui là che mi guardava dai
vetri scuri del bar, e subito corsi, a perdifiato per una stradina. Dopo pochi
minuti entrai sotto un lungo portico e finii in piazza del Duomo. Seguitavo
a voltarmi temendo che m'arrivasse d'improvviso alle spalle, poi decisi di
raggiungere subito la caserma, dove forse anche lui si sarebbe diretto.
"Macché esame della vista!" urlò un medico in divisa dal fondo dello
IV
«... Tu sei come un nuotatore in piscina, che non esce anche se gli
levano l'acqua» sta dicendo Lu: «Mettessero acido solforico al posto
dell'acqua, vorrebbe nuotare lo stesso, dato che perdio!, lui è un
nuotatore... Mi spiego?»
«Brava, Lu» rispondo: «E quand'è che vai in convento?»
C'è un cielo di smalto dietro il duomo, la torre pisana avvampa candida e
venata davanti a noi sdraiati sull'erba. Figurine di gente si muovono al
fondo del prato verde, sostano ai banchi delle cianfrusaglie in rame,
portacenere e ventagli allineati lungo il muro della strada in una sottile
lista d'ombra. È un'ora intensa di luce, prima del tramonto, i colori brillano
asciutti, tirati, carrozzelle riposano immobili sotto i loro teli bianchi,
lontane rondini saettano altissime.
«Nessuno mi vuol bene» afferma Lu.
«Si, cara, sì...» ribatto.
Abbiamo riso durante il viaggio dopo Bolsena, siamo stanchi ma con
una lievissima patina di buonumore che lievita senza sforzo. L'erba è
fresca e pungente sotto la nuca, stridi lieti di bambini s'affilano nell'aria. E
m'accorgo che ci parliamo come attraverso un'ombra che rende fioche le
voci, lenti e insistiti i propositi di compagnia. Dovremmo poter riuscire a
V
Ho perso il senso del tempo.
Sui vetri sta spalmata una luce di polvere e sole, si allarga in una
macchia opaca fino alla coperta del letto. Non capisco se è pomeriggio
inoltrato o mattina, l'orologio segna un'ora indecifrabile, le sette...
Una voce in bagno. Canta, e solo adesso la riconosco come la voce di
Lu. Un attimo di silenzio, poi ancora una parola lentamente cantata, e un
improvviso schianto d'oggetto che si rompe. Ma non è certo uno specchio,
perché sento Lu che ride, e allegra piglia a calci la boccetta o portacipria o
bicchiere, che più volte scivola, rimbalza dal muro alla porta in nuovi
frantumi.
Dovrei alzarmi e dare un'occhiata dalla finestra in piazza per riacquistare
esatta nozione del tempo. E invece rimango per un lunghissimo minuto a
godermi il vantaggio di questa luce malata di là delle tendine, la coperta è
di vecchio raso appena fastidioso sotto le unghie, rumori si perdono oltre i
muri, nel corridoio dell'albergo. Su un tavolo, valigie aperte, anche quella
di Lu, e vestiti in abbandono per sedie e poltrone... Finalmente avverto il
disordine delle lenzuola attorcigliate sotto e attorno al corpo.
«Buonasera... Va bene così? Qualcosa da ridire?» ruota Lu sulle punte
dei piedi, orgogliosa e fresca nel suo abito nuovo, i braccialetti ai polsi.
Si muove lieta per la stanza, fingendo di tentare un po' d'ordine ma con
rapide occhiate a me, allo specchio, improvvisamente arrossita, trepida.
«Dunque... Meglio che t'aspetti giù... Ma fa pure con comodo» decide
poi afferrando qualcosa dal tavolo. E sulla porta sosta ancora in un
accenno di sorriso.
«Forse ti manderò un telegramma, da basso, per spiegarti come sto
bene» mormora in fretta, le palpebre socchiuse: «Proprio non mi vergogno
a dirlo...»
Sento i suoi tacchi allontanarsi lungo il corridoio.
Dalla finestra ora rivedo piazza Cavalli, ingombra di baracchette in
legno e mattoni, i due Farnese equestri ai lati del rettangolo già paiono
oscurarsi nel colore della nebbia serale, muro e diseguali finestre del
Capisci, Lu?
Adesso scendo, e usciremo dall'albergo nell'ombra quieta, saremo
dolcissimi l'uno per l'altro, avendo alle spalle questa stanza ingombra di
valigie, saponi, portacenere, i cuscini ancora incavati, il tuo ombrello nel
fodero, giornali e un libro di fantascienza ripiegato in due... Forse non
avremo neppur bisogno di parlare, forse la spinta d'una frenesia bizzarra ci
deciderà a ripartire subito, verso Milano, in accordo e convinti, e intanto io
ho nuovamente bisogno di tutto...
Dico "io", ma intendo anche un "altro", e v'è compreso anche il tuo "tu",
come se mi riuscisse di parlarti in quarta persona, come se tu muovessi
nella luce che corre dai miei occhi al cristallo che li specchia, ora, qui,
mentre annodo la cravatta... E ti vedo sul tavolo, nella fotografia che ti
coglie a un anno, alta e rovesciata nell'aria tra le mani di tua madre, un lino
lunghissimo ti avvolge lasciando libere solo le braccia, la testa che
insuperbisce... E tutte le tue immagini di un tempo, dopo questa prima, mi
hanno portato incontro la carne del tuo sorriso che attende doni celesti, che
non ha bisogno di sapere troppo, e l'onda asciutta di un tuo corpo
misterioso nelle liete vesti quindicenni tra le aiuole di un giardino, chissà
dove..., chissà quanto ignara d'ogni possibile maturità...
La prima donna nuda ch'io vidi, Lu, stava appesa, braccia e gambe
divaricate, a un balcone di Torino, in via Nizza, in un aprile di troppi anni
fa... Uscendo di corsa da una chiesa, rattrappito dietro la pistola, me la
trovai negli occhi, alla ringhiera di un secondo piano. Il sole le dava
addosso, e lei pareva quasi implume, il mento sul petto, il volto invisibile
sotto i capelli spiovuti. La carne così bianca, gessosa, non mostrava segni
di pallottole, forse le avevano sparato alla nuca, o alla schiena... Avevo
quindici anni, e non provai un filo di spavento, solo feroce curiosità, forse
un attimo di disgusto per quei piedi scuriti in tanto bianco... E rimasi lì
incantato a guardare nella luce le zone carnose che fino allora, in qualche
ingarbugliato momento, avevo potuto tentare e stringere solo nel buio di
altre vesti, lottando alla cieca...
"Vieni via... Via..." sentii infine l'urlo di Millesimo.
Lo raggiunsi nel portone, e lui era sudato, un ginocchio a terra, la cintura
E poi?
Ebbene, Lu, vennero giorni in cui ogni volto del "poi" ci parve di viverlo
come attimo del futuro raggiunto. Qualche settimana soltanto, o forse
Una mosca nel latte. Ecco la prima immagine, il primo giudizio che
rapido affiora se penso al cumulo di tempo che segui, una nebbia che è
quasi impossibile penetrare a ritroso, una mucillagine inerte in cui riesco
appena a sostenermi, gli arti che sbattono disordinatamente. E intorno,
come batteri presi da febbre convulsa sotto la lente del microscopio,
Vieni avanti, Lu, ti vedo dall'angolo del caffè, il tuo corpo muove sul
marciapiedi con gesti riposati dalle spalle ai ginocchi. Il mattino ti si
ritaglia intorno, pulito e corposo, tu placidamente sorridi, e sul tavolo, qui,
t'aspetta la tua tazza di caffè nero, un'arancia spremuta. E poi ci sono i
giornali, da leggere rispettando il silenzio del primo, cauto risveglio.
Tutto il tempo che vuoi, per risalire in macchina. In tre ore saremo a
Torino. Ma adesso il lago, là di fronte, è un inchiostro azzurro tra la vasta
apertura delle colline, la piazza è vuota, due commesse lucidano in ampi
circoli delle braccia le vetrine d'una bottega... Vieni avanti, Lu, proprio
così, dolce, senza fretta, con un sorriso che sa e cambia, non fermarti ma
moltiplica la durata di questo minuto, fallo durare, rallenta, ti dico che
puoi...
Finché cammini, mi sembra di poter muovere lo sguardo e trovarmi in
esatto equilibrio con ogni cosa, il gesto delle ragazze sui vetri, l'odore
tiepido del caffè, la vernice posata sulla chiesa e sugli alberi lontani, sulle
insegne spente delle sigarette...
La casualità del luogo pare voglia nascondere tra quinte assurde e
leziose un interrogativo favorevole, il segreto d'una pace concreta... Com'è
profondo e totale il respiro, nell'attimo in cui ti senti padrone, e vivo, in
salvo!
Adesso me la rido, Lu, ancora pochi passi e sarai qui seduta, ma io me la
rido, non hai idea quanto!, perché in un'improvvisa, fulminea raffica
d'immagini precipitate a raddoppiarsi, annullarsi, ho rivisto i miei diversi
aspetti negli anni, ho risentito, intorno e lungo ogni volto, ogni gesto che
VI
«Là...» sussurra Francesco.
Il cane è già scattato, le zampe rigide e caute. Soffia, trema nell'erba
profonda. Si volta un attimo a guardarci, di nuovo schizza via annusando,
inverte la breve corsa affannata e ristà immobile, un brivido lungo la spina
dorsale. Francesco seguita a eccitarlo con sommessi schiocchi della lingua
tra i denti. Ed ecco, improvviso ingarbugliato nel volo, un piccolo fagiano
s'alza tra le gracili triangolazioni dei fagioli appena piantati, al limite del
campo.
«Lo sapevo... Ce ne deve essere un'intera famiglia in pastura li sotto...»
sorride Francesco.
Poi: «... E stagli dietro, o imbambolato...» incita il cane che si dibatte
confuso.
Il fagianotto ha già picchiato verso il basso in frullante parabola.
Sparisce nel folto di ortiche e gaggie che scoscendono al fiume.
Riprendiamo a camminare, le mani in tasca, il cane guizza e sosta
davanti a noi, sternutendo felice, dimentico. Pollini di pioppi vagano
innumerevoli cullandosi in lunghe spirali per l'aria di seta. Il cielo è
altissimo, d'un azzurro immacolato.
«Hai visto? Non ci dà dentro... Sono le prime volte che lo provo, ma
anche a te non sembra quel granché di cane, vero?» commenta Francesco.
«... Mangia solo più insalata, mattina e sera, e un uovo ogni due giorni...
Certe battaglie, lo strepito!, se oso presentare qualcos'altro in tavola... Il
perché, però, l'ho capito... Secondo me, vuole dimagrire, alla sua età!,
vuole poter rientrare in una delle sue divise, da morto... Che testa dura!, e
che disperazione mette addosso agli altri!» mi ha spifferato rapida Caterina
nell'unico momento in cui siamo rimasti soli.
«E tu?»
«Io?» ha sbattuto le palpebre, sorpresa, prima di voltarsi e scappar via,
una mano svelta a nascondere la treccia mal fatta sulla nuca: «Io come?
Adesso vada, vada, è meglio... Non la lasci sola, quella povera signora o
signorina... Se gli gira, chissà cosa sarebbe capace di dirle, lui...»
Seguo Lu e il colonnello in visita alla casa, li sento discorrere, mi
precedono d'una stanza. Quando attraverso il corridoio che separa le due
file di camere al primo piano, quando mi richiudo una porta alle spalle, già
i loro passi si sono allontanati, le voci sono andate oscurandosi oltre un
muro. L'ultima luce entra a radere tagliente per le finestre che il colonnello
ha via via spalancato. Nelle chiazze aperte dai lumi accesi, le pareti
risultano smorte, gli spigoli dei mobili schizzano avanti, grevi, le
tappezzerie paiono tumefatte dall'umida pressione degli anni.
Il verde primaverile in giardino s'addensa caotico, e anche il viale appare
invaso dall'erba, ridotto a un esangue sentiero tra i cespugli selvatici che
s'affoscano a ridosso d'un ultimo filare di peri. Dal terrazzo scruto la gobba
della collina, laggiù, nera per le ortiche allargatesi come un enorme polipo
in letargo. Nella chioma del pino che dà inizio al viale, i passeri vanno
«... E voi due, cosa fate li, per conto vostro...» ci affronta l'avvocato con
voce vinosa.
È alto, grosso, e appare sconvolto dall'abbandono con cui s'è concesso al
pranzo. La camicia gli esce dalla cintola, e i suoi gesti, nell'oscurità del
giardino, si muovono inutilmente minacciosi.
FINE