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Giovanni Maffei

L'amnesia della storia ne ‘L'Imperio’ di Federico De Roberto

Scheda riassuntiva

Nella simulata autobiografia di Carlo Altoviti delle Confessioni di un Italiano di


Ippolito Nievo, la memoria individuale (del singolo che narra) e la memoria collettiva (la
storia degli eventi che hanno inciso nella vita della nazione) hanno un rapporto di
coessenzialità. Anzi, tra le due memorie esiste un rapporto di medesimezza, poiché questa
autobiografia di un Italiano fornito di valore esemplare può rappresentare la storia
dell'Italia, della patria.

Il senso di questo nesso vivo tra memoria e storia nelle Confessioni, nel «libro» di
memoria di Carlo (che è un libro di storia dell'anima italiana, di affetti, e tempio
foscoliano) si comprende davvero se inserito nel contesto di una stagione precisa: vale a
dire gli anni che precedono di poco l'unificazione, prima che all'euforia iniziale facesse poi
seguito la disforia depressiva legata alla disillusione post-risorgimentale.

Può essere istruttivo andare a vedere che cosa restasse di questo rapporto tra memoria e
storia in un romanzo scritto più di trent'anni dopo Le Confessioni, da un uomo nato
nell'anno della proclamazione del Regno, il 1861, e cioè L'Imperio di Federico De
Roberto; quello tra i suoi romanzi che più si avvicina ai temi nieviani di memoria e storia,
anche se li scambia profondamente. Ebbene è storicamente indicativo rilevare che è
bastata una sola generazione per creare il vuoto di un'amnesia immedicabile. Infatti nelle
Confessioni vive un concetto orizzontale e non letterario della memoria storica. Nievo
vuole che la storia deve passare attraverso il fluire delle generazioni, dai padri ai figli.
Invece Federico Ranaldi, il deuteragonista de L'Imperio, puro spirito risorgimentale come
se lo auguravano Nievo e Carlo Altoviti, il Risorgimento l'ha imparato a scuola, attraverso
la storia libresca dell'Italia. Gli è stato somministrato dall'alto, dall'istituzione e non col
sangue dai genitori. In sostanza, laddove nelle Confessioni «padri e figliuoli sono
un'anima sola, sono la nazione che non perisce mai» ne L'Imperio fra padri e figli si è
aperto un vuoto, e il singolare patriottismo di Ranaldi è quasi una devianza che rompe la
catena generazionale. A tal proposito è significativo ricordare come il piccolo Federico
resti deluso e ferito dallo schernire di sua madre quando questi le declama, con enfasi, una
poesia patriottica intitolata Il Disertore, dove una madre diceva a suo figlio: «Figlio mio
t'ho partorito - per la Patria e non per me!...»; o ancora quanto sia risentito il suo giudizio
nei confronti del padre, il quale era stato un ligio funzionario borbonico che rimpiangeva
l'antico regno. La pagina nella quale De Roberto ne L'Imperio descrive una lezione
sull'unità d'Italia impartita dal vecchio maestro di scuola chiamato Milone, a seguito della
quale si radicò in Federico ancora bambino l'amore per la patria, è l'unica del romanzo che
racconti qualcosa del Risorgimento. Così come ci viene descritta nel romanzo, questa
lezione, tutta carica di drammatizzazione, rimanda ai cantastorie siciliani (e dunque alle
origini siciliane di De Roberto con i quali scatta l'associazione) che raccontavano in piazza
l'epica dei paladini commentando dei cartoni con su dipinte le azioni nobili e gloriose. Il
cartone di Milone era la lavagna, ricoperta dal bianco del gessetto con il quale di volta in
volta egli indicava agli scolari che lo ascoltavano incantati le aree della patria liberata. Il
personaggio di Mauro Mortara, ex garibaldino, ne I vecchi e i giovani di Pirandello,
attraverso i suoi ricordi mantiene viva la memoria del Risorgimento e ne può parlare.
Invece nell'Imperio l'Italia risorgimentale è una vasta amnesia, una fiaba remota narrata ad
un bambino dalla voce commossa di un vecchio maestro di scuola. La storia, tutta la
sostanza morale e sentimentale delle Confessioni è diventata per De Roberto uno sfondo
sottile, un cartone. Questa parola, che non è presente nella lezione di Milone, torna
tuttavia in due momenti del romanzo che hanno un rapporto contrastivo evidente con il
racconto della lezione patriottica. Il primo momento è all'inizio del libro, quando Federico,
varcata per la prima volta la soglia di Montecitorio, inciampò e appoggiandosi a una delle
colonne sorreggenti l'arco solenne sentì con la mano che questa era fatta di legno foderato
di cartone. Montecitorio è dunque un tempio di cartone. A questa prima delusione, se ne
aggiunge un'altra, allorquando Federico ascolta l'intervento di «uno dei più reputati oratori
della Camera», l'onorevole Grigia (sotto il cui nome si cela la figura dello statista Marco
Minghetti, rappresentante della Destra storica) il cui discorso «pareva […] un articolo di
giornale». Dunque, l'anima di questo tempio di cartone e fatta anch'essa di carta, la carta
dei giornali. Saltando dal primo capitolo all'ultimo, troviamo la presenza dell'altro cartone
di cui dobbiamo occuparci. Qui ritroviamo Federico che, quarantenne, da Roma ha fatto
rientro in provincia, nella sua quieta Salerno, in famiglia, a casa dei suoi. Fra i libri e i
quaderni pronti per il macero, sui quali Federico aveva studiato la storia del suo paese,
egli riesamina la perduta fede, alla luce di un pessimismo cupo ed estremo nel quale si
riconosce il pensiero e l'impronta della teoria del suicidio universale di Eduard von
Hartmann, un allievo di Schopenhauer, presente anche nelle pagine che concludono La
coscienza di Zeno di Svevo. Dunque, anche in queste pagine, patria e carta sono associate.
I ragionamenti di Federico intorno a una visione cosmica e nichilistica dell'esistenza nelle
ultime pagine del capitolo nascono un giorno in cui egli guardava da un belvedere il
paesaggio sottostante. Qualche pagina più avanti, questo paesaggio verrà interpretato e
qualificato precisamente come un «panorama di cartone». Per concludere, è fatta di
cartone la storia nel primo capitolo, come di cartone è la geografia nell'ultimo. Federico
non cederà alla tentazione del suicidio, ma sposerà la fanciulla che lo ama, vivrà con lei,
avrà dei figli, ma per sé, non per la patria, al contrario della madre dell'eroica poesia che
apprezzava tanto da bambino. Nell'Imperio la patria è la testata di un giornale politico di
Torino, che Consalvo troverà nella sua posta, poco prima del suo successo, nel quale
leggerà un articolo spudoratamente elogiativo a lui dedicato, scritto da una giornalista
fiancheggiatrice. Un ventaglino vanaglorioso di carta, con il quale Consalvo si fa vento
rumorosamente sperando di attirare l'attenzione e la curiosità degli altri deputati su sé
stesso e sull'articolo; oppure, sempre soffiandosi, per mettere a freno la sua sopita
concupiscenza. In fin dei conti, della patria di Ranaldi, di Nievo e dei suoi eroi, Consalvo
è la contraddizione vivente.

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