Sintesi
In questa prima dispensa del corso Gestione Sistemi Complessi cercheremo di rispondere ad
alcuni quesiti preliminari:
c che cosa s’intende per complessità
d che cosa sono i sistemi complessi
e quali sono i problemi che si debbono affrontare quando si tratta di sistemi complessi.
Che cosa possiamo ragionevolmente aspettarci da questo corso? Fondamentalmente un
modo di vedere il mondo, con la consapevolezza che, qualunque sia il nostro modo di vedere,
esso non può considerarsi necessariamente vero, ma soltanto uno dei modi possibili di
rappresentarlo.
Questo comporta l’adesione al concetto di “livello di realtà”, secondo il quale le nostre
scelte comportamentali, concezionali, filosofiche, linguistiche, culturali, ludiche, e così via,
sono funzione del grado di realtà che, in quel momento o strutturalmente, pensiamo sia il più
adeguato per noi.
Questo possibilismo sembra essere la negazione del perseguimento della verità e del
programma scientifico come processo di accumulazione di conoscenza, che ha dominato la
nostra cultura Occidentale da Galileo in poi. Ci si accorgerà che tale possibilismo riflette la
realtà molto più di quanto si possa pensare e ci aiuterà a compiere delle scelte adatte alle
nostre possibilità e alle nostre preferenze. Non solo, ci eviterà di compiere sforzi inutili
quando il livello di realtà scelto (p.e. quello del mondo degli affari) richiede un consistente
buon senso piuttosto che sofisticate tecnologie di pensiero del tutto estranee alle necessità di
quel mondo.
Discuteremo sull’opportunità di discriminare tra livelli di realtà in rapporto alla loro
adeguatezza pragmatica piuttosto che in rapporto alla loro vicinanza alle aspettative del
paradigma prevalente delle discipline scientifiche.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
1
Sintesi
A proposito di livelli di realtà, il modelli che cercano di descrivere e spiegare la realtà del
mondo sono quelli di più elevato livello e sono in genere impliciti nei contenuti più profondi
di una cultura. Sono riconoscibili perché hanno origine in genere religiosa o scientifica, a
volte in contrasto fra loro, a volte invece sono complementari.
Dai modelli della realtà del mondo derivano via via i modelli che ci aiutano a descrivere e
spiegare fenomeni più vicini alla vita di tutti i giorni della maggior parte degli uomini. Anche
a questo livello, i modelli sono spesso non dichiarati, rientrano nell’a priori delle spiegazioni.
Le spiegazioni che diamo della realtà del mondo sono strettamente intrecciate con le
aspettative di chi osserva il mondo, cioè sono influenzate dai modelli del ricercatore o, più
semplicemente, dell’osservatore, che può non avere obiettivi scientifici, ma semplicemente
obiettivi descrittivi o esplicativi; in altre parole, è “alla ricerca di senso”.
1 Grande dizionario illustrato della Lingua Italiana di Aldo Gabrielli, Mondadori, 1989
2 Irving Fisher, nel 1892 descrive nella sua dissertazione di dottorato un modello “idraulico” dei flussi economici, che venne anche
fisicamente costruito. Cfr. 1892. Mathematical Investigations in the Theory of Value and Prices. New Haven: Connecticut Academy of Arts
and Sciences, Transaction 9, 1892. Reprinted, New York: Augustus M. Kelley, 1961.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
2
3 Oltre che nei manuali di filosofia, questo tema è trattato in modo piuttosto originale in Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, a cura di U.
Eco e T. A. Sebeok, Bompiani, 2004
4 Su questa modellistica si possono consultare profittevolmente: L. Gallino, L’incerta alleanza, Einaudi, 192; C. West Churchman, The
design of inquiring systems, Basic Books, 1971; R. Audi, Practical Reasoning, Routledge, 1991
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
3
è aperto, cioè riceve inputs dall’esterno che elabora al suo interno, trasformandoli in
outputs che scambia alla fine del processo di trasformazione;
ha confini sostanzialmente instabili e comunque dipendenti dalla prospettiva con cui è
osservato.
Se nei confronti di una realtà si usa un modello meccanicistico le aspettative nei confronti
dell’insieme studiato sono quelle che si hanno nei confronti delle macchine, formate da parti
integrate, assemblate in modo artificiale, che si comportano con regolarità prevedibili. Il
mondo come meccanismo è un mondo alla Laplace.
Se nei confronti di una realtà si usa un modello di flusso, le aspettative nei confronti
dell’insieme studiato sono quelle che si hanno nei confronti dei processi, caratterizzati da
movimento, variazione, innovazione.
Se nei confronti di una realtà si usa un modello organicistico, le aspettative nei confronti
dell’insieme studiato sono quelle che si hanno nei confronti degli esseri viventi, in primo
luogo del corpo umano, che suggerisce metafore senza fine da tempo immemorabile.
Per definire invece le origini di una certa realtà, dall’universo ad un’organizzazione,
abbiamo a disposizione modelli che fanno riferimento ad un conflitto originario, ad un
progetto, ad una spinta collaborativa o all’evoluzione secondo leggi vere o presunte.
L’origine del mondo, per talune religioni, nasce dal conflitto tra forze del Bene e forze del
Male, come da un conflitto interiore possono nascere squilibri psichici in individui considerati
del tutto “normali”, fino ad un certo momento della loro esistenza.
Il modello del progetto, da cui ha origine una certa realtà, sia essa uno stato o un’azienda,
è più frequentemente espressivo della volontà degli uomini di creare situazioni nuove e
stabili.
Il modello della cooperazione, da cui ha origine una certa realtà, sia essa un mercato, un
processo produttivo o molte forme di scambio, differisce dal modello del progetto quando la
realtà sia creata in modo non necessariamente volontaristico, ma per quella disposizione ad
auto-organizzarsi di molti sistemi complessi.
Il modello dell’evoluzione tende a spiegare l’origine e il mutamento di una certa realtà
facendo riferimento a qualche tendenza all’adattamento ai cambiamenti del contesto entro il
quale la realtà è venuta a trovarsi. Il modello in questione comprende alcune caratteristiche
che permettono all’evoluzione di manifestarsi, come l’apprendimento e la trasmissione
dell’informazione. Il modello darwiniano è un tipico modello evolutivo che è servito e serve
per spiegare molti fenomeni di cambiamento selettivi e trasformativi.
Passando alle regole che guidano il comportamento della realtà studiata, sono stati
individuati alcuni modelli che fondamentalmente distinguono un ordine che proviene
dall’esterno da un ordine che è interno, parte della realtà stessa.
Nella tradizione delle scienze naturali la realtà si presenta idealmente formata da due
strati, uno superficiale, e in genere ingannevole, ed uno non visibile che nasconde la legge che
la governa. Questa dualità è presente anche nelle scienze sociali che aspirano anch’esse a
scoprire le leggi che governano i comportamenti umani definiti via via come scambi
economici, politici, emozionali, e così via.
Fondamentalmente, comunque, la realtà sociale è guidata sia dall’esterno sia dall’interno.
Il concetto di Stato poggia sul diritto e sull’osservanza delle leggi da parte dei cittadini, anche
se molti importantissimi comportamenti collettivi seguono un ordine autolegale in modo
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
4
5 Un classico su questi temi è costituito dai saggi di Ronald H. Coase, che sono stati pubblicati da il Mulino: Impresa, Mercato e Diritto,
1995
6 Il concetto è stato proposto dai biologi H. Maturana e F. Varela in Autopoiesis and Cognition, Reidel, 1980 (tr. It. Autopoiesi e cognizione,
Marsilio, 1985)
7 Cfr. L. Gallino, L’incerta alleanza, Einaudi 1992, pp. 78-93
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
5
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
6
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
7
11 La scala è piuttosto ovvia, ma è servita per decenni come riferimento alle direzioni del personale delle aziende sempre alla ricerca di
qualche guida di comportamento, almeno dichiarato. I “gradini” della scala sono: bisogni fisiologici, bisogno di sicurezza, bisogni sociali,
soddisfazione dell’ego, autorealizzazione.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
8
12 Per gli approfondimenti: L. von Bertalanffy, General System Theory, Braziller, 1968 (tr. It. Teoria generale dei sistemi, ILI, 1971); C.
West Churchman, Challenge to Reason, McGraw Hill, 1968 (tr. It. Filosofia e scienza dei sistemi, ILI, 1971); P. Senge, The fifth discipline,
Doubleday, 1990 (tr. It. La quinta disciplina, Sperling & Kupfer, 1992)
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
9
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
10
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
11
4. Sistemi come cicli di eventi. Il modello di attività dello scambio ha carattere ciclico. Il
prodotto restituito all'ambiente fornisce il necessario per la ripetizione del ciclo di attività.
Un’impresa industriale utilizza materie prime e mano d'opera per ottenere un prodotto
che viene venduto sul mercato, mentre il ricavo in denaro della vendita viene usato per
ottenere altre materie prime e mano d'opera per riprendere il ciclo di attività.
Un singolo ciclo di eventi richiudentesi su se stesso ci dà una semplice forma di struttura.
Ma tali cicli singoli possono anche combinarsi in modo da dare una più grande struttura
di eventi o un sistema di eventi.
5. Entropia negativa. I sistemi aperti devono, per sopravvivere, contrastare il processo
entropico; devono acquisire entropia negativa. Il processo dell'entropia è una legge
universale della natura (si tratta del secondo principio della termodinamica) in cui tutte le
forme di organizzazione si muovono verso la disorganizzazione o morte. Mentre gli
organismi biologici si degradano e periscono, il sistema aperto, attingendo più energia
dall'ambiente di quanta ne consumi, può immagazzinare energia ed acquistare entropia
negativa.
I sistemi sociali, e quindi le organizzazioni, non sono ancorati alle stesse regolarità fisiche
degli organismi biologici e perciò sono capaci di arrestare per un tempo quasi indefinito il
processo entropico.
6. Informazioni in entrata, feedback negativo e processo di codificazione. Ciò che entra
nei sistemi aperti è costituito non solo da materiale energetico da trasformare nell'attività
del sistema. Le entrate hanno sempre di più anche carattere di informazione, che
forniscono all’organizzazione segnali riguardanti l'intorno e il funzionamento della
struttura stessa in relazione all'intorno.
Il più semplice tipo di informazione, riconoscibile in tutti i sistemi, è il feedback negativo.
Tale informazione di ritorno di tipo negativo mette in grado il sistema di correggere le
deviazioni dalla sua linea di condotta. Il termostato che controlla la temperatura della
stanza costituisce un esempio semplice di un meccanismo di regolazione che agisce sulla
base di un feedback negativo. La ricezione dei dati in entrata in un sistema è selettiva e i
sistemi possono reagire soltanto a quei segnali d'informazione che sono predisposti a
riconoscere. Tale riconoscimento avviene grazie al processo di codificazione, per cui le
informazioni caotiche ed indistinte del mondo esterno vengono semplificate in poche
categorie significative per un dato sistema.
7. Lo stato stazionario e l'omeostasi dinamica. L’obiettivo minimo di ogni sistema sociale
aperto è la sopravvivenza e affinché esso sia raggiunto debbono mantenere una certa
costanza nello scambio energetico, cosicché i sistemi aperti che sopravvivono sono
caratterizzati da uno stato stazionario, grazie anche ad un processo omeostatico che
assomiglia molto all’autopoiesi proposta da Maturana e Varela che tende, appunto, alla
conservazione del carattere del sistema. I sistemi sociali tenderanno allora ad accumulare
più energia di quanta ne consumino, non necessariamente per svilupparsi ma, in primo
luogo, per garantirsi la sopravvivenza senza una particolare tensione, dovuta, in caso
contrario, all’impossibilità di commettere il più piccolo errore o di fronteggiare
un’emergenza.
8. Differenziazione. I sistemi aperti tendono alla differenziazione ed alla elaborazione. Ciò
accresce la loro afficacia e la loro efficienza. Essa giustifica il principio della divisione
del lavoro e della conseguente specializzazione che è un fattore determinante
dell’aumento della produttività.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
12
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 2 – Modelli della realtà e modelli del ricercatore
1
Sintesi
In questa lezione considereremo alcuni dei modi in cui la realtà economico-sociale viene
descritta dalle scienze sociali. Considereremo, innanzi tutto, che cosa si intende per modelli
della realtà economico-sociale; quale sia il loro contenuto descrittivo o almeno definitorio;
quale sia il loro contenuto esplicativo; quali siano i presupposti impliciti che permettono ai
costruttori di tali modelli di attribuire loro un valore, in quanto contributi alla comprensione di
una realtà che non si esprime da sola, ma che deve essere interpretata.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
2
Questa aspirazione a comprendere per agire rimane alla base delle scienze sociali, che si
considererebbero private di una loro caratteristica fondamentale se essa venisse loro negata.
Rimane da vedere se esse siano assimilabili alle scienze naturali, con le loro “generalizzazioni
legali”.
2 Nei paragrafi successivi mi avvalgo di quanto ho scritto nel saggio Etica degli affari e contabilità della natura, pubblicato nel n. 4/1991
della rivista Etica degli Affari e delle Professioni.
3 Cfr. S. Conti & Altri, Geografia dell'economia mondiale, Utet, 1991, p. 47 e segg.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
3
Figura 1
RISORSE PROCESSI
PROCESSI RISORSE
1) l'energia non può essere né creata né distrutta, può essere solo trasformata da una forma
all'altra;
2) ogni volta che l'energia viene trasformata da uno stato all'altro si ha una perdita di energia
disponibile per compiere un altro lavoro.
Il secondo principio non contraddice il primo. Afferma soltanto che, mentre la quantità di
energia non cambia, la sua qualità cambia, da disponibile a indisponibile.
Fino a qualche secolo fa non esistevano veramente i rifiuti, perché in natura non ci sono.
In natura ci sono soltanto risorse. Tutto serve, non si butta via nulla. Tutto è rinnovabile
durante i cicli relativamente brevi delle stagioni e degli anni. Questo vuol rappresentare la
Figura 1, che nella sua ovvietà, è diventato paradossalmente il modello di riferimento di
un’economia ideale, nella quale non ci sono scarti, tutto viene riutilizzato, come appunto fa la
natura.
Si potrebbe asserire che il significato di questo modello è fondamentalmente negativo, in
quanto, se lo si accetta, esso toglie valore a tutti quelli parziali, che attingono la loro
giustificazione dal presupposto implicito che il valore che conta per gli uomini è il valore
come è da essi definito, una creazione di valore autoreferenziale, indifferente ad una
concezione del mondo come sistema, che comprende tra i suoi elementi l’uomo, ma che non è
al servizio dell’uomo, come invece sostiene, per esempio, la Bibbia.4
4 Dio li benedisse e disse loro:“Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del
cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra” Genesi, 28
5 Rimando al mio libro Elementi di macroeconomia per manager, Guerini, 19922 per gli approndimenti.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
4
b) si può intendere come prezzo di scambio, sia espresso in moneta, sia espresso in merce (e
quindi come ragione di scambio). In questo caso si prescinde dal costo di produzione e si
fa riferimento al valore che emerge dall'incontro della domanda e dell'offerta, influenzato
dalla rarità;
c) si può intendere come utilità o, come dicevano i classici, valore d'uso, che può essere
indipendente sia dal costo di produzione, sia dal valore di scambio;
d) si può intendere come valore di stima, cioè rapporto tra una persona ed un oggetto,
indipendentemente da altri oggetti. Questa definizione ha un contenuto economico
minore delle altre, in quanto il senso di relatività connesso con il valore qui è ridotto al
rapporto fra una persona ed un oggetto.
Definiti questi possibili diversi significati del termine valore, rimane da vedere se esista una
unità di misura del valore e da dove ha origine il valore di una cosa.
Il problema dell'unità di misura del valore era soprattutto presente negli economisti
classici che tendevano in genere ad identificarla con il lavoro, in forme più o meno simili, da
Smith a Marx, con un particolare impegno da parte di Ricardo.
Queste teorie possono essere definite con orientamento alla produzione, perché fanno
dipendere il prezzo sul mercato dai costi di produzione e da quelli del lavoro in particolare,
dati che siano una domanda (che evidentemente non mancherebbe mai, in un mondo che essi
avevano davanti agli occhi e che concepivano sempre angustiato dalla penuria di beni) e lo
stato della tecnologia.
Esse sono state superate, possiamo dire pro-tempore, dalle cosiddette teorie soggettive del
valore che, in sostanza, fanno dipendere i prezzi dei beni sul mercato dalle preferenze degli
operatori (produttori e consumatori: in realtà, quindi, si tratterebbe di un valore
intersoggettivo). In questo modo il problema del valore viene aggirato o superato, a seconda
dei punti di vista, come fa implicitamente Oscar Wilde, quando definisce il cinico come "un
uomo che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di niente".
L'aspirazione all'individuazione di una misura oggettiva del valore è ravvisabile nel culto
tradizionalmente tributato all'oro, che manterrebbe - nella visione popolare - il suo valore nel
tempo. Da qui il suo altrettanto tradizionale ruolo di bene rifugio. C'è una notevole analogia
tra valore e potere: entrambi stanno nella testa della gente più che nell'oggettività dei fatti.
6 Si veda l’aureo libretto di Sergio Ricossa, Storia della fatica, Armando, 1974
7 Cfr. N. Georgescu-Roegen, Analisi economica e processo economico, Sansoni, Firenze, 1973, p. 271
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
5
8 Cfr. N. Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Economic Process, Cambridge, Mass., 1971, pp. 211-275. Si veda anche La
delusione tecnologica di O. Giarini e H. Loubergé, Mondadori, 1978 (Originale: Les rendements décroissants de la technologie, 1978)
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
6
innanzi tutto sono indicati i quattro fattori produttivi (capitale, lavoro, risorse naturali e
imprenditorialità) e le loro remunerazioni (interesse, salario, rendita e profitto);
in secondo luogo, viene rilevata la duplice natura del valore aggiunto, come sommatoria
delle remunerazioni dei fattori produttivi e come differenza tra valore della produzione e
valore dei beni e servizi acquistati dal mercato.
Non possiamo negare che il grafico abbia una sua utilità soprattutto definitoria, ma ci
tiene all’oscuro di come si formino i prezzi dei fattori produttivi e dei prodotti; come il valore
aggiunto sia indeterminato a priori perché il valore della produzione si forma sul mercato sia
dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta.
Mentre le remunerazioni dei fattori produttivi capitale, lavoro e risorse naturali sono
negoziabili e danno luogo a contratti che debbono essere osservati dai contraenti, la
remunerazione del fattore imprenditorialità è residuale, non negoziabile sul mercato e di
dimensione a priori non definibile. Da qui il maggior rischio cui è sottoposto il fattore
produttivo imprenditorialità rispetto agli altri fattori.
Figura 2
LAVORO CAPITALE
SALARI INTERESSE
BENI E
+ =
SERVIZI VALORE VALORE DELLA
ACQUISTATI AGGIUNTO PRODUZIONE
RENDITA PROFITTO
RISORSE
NATURALI IMPRENDITORIALITÀ
Un passo avanti nella ricerca di modelli che meglio rappresentano la realtà economico-sociale
si compie con i modelli della microeconomia, che esplorano le forme di mercato e i
comportamenti degli attori economici, che sono i detentori dei fattori produttivi e che
determinano l’andamento dell’economia con i consumi e gli investimenti.
Anche con questi modelli, comunque, siamo di fronte a descrizioni e, nei casi migliori, a
spiegazioni fortemente condizionate dai presupposti da cui si parte. È raro che essi riflettano
l’esperienza che si può acquisire frequentando i mercati, i luoghi, cioè, dove si possono
realizzare le aspettative sul valore di quanto è stato prodotto o le aspettative speculari di chi
intende acquisire prodotti e servizi a un certo prezzo.
Nella Figura 2 è rappresentata la formazione del valore aggiunto a livello
microeconomico. Nella Figura 3 è rappresentata la formazione del valore aggiunto a livello
macroeconomico, cioè la formazione del PIL (prodotto interno lordo).
In questo grafico compaiono gli scarti della produzione industriale, che sono sempre stati
una conseguenza inevitabile della trasformazione di materie prime in prodotti finiti, lungo
tutta la filiera produttiva. Le loro dimensioni oggi sono tali da non poter essere più trascurati,
anche perché la loro evidenziazione rivela che una parte della produzione ha soltanto la
funzione di riportare lo stock di capitale naturale nelle condizioni in cui si trovava prima che
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
7
la produzione avesse inizio. In altre parole, si tratta di una produzione che dovrebbe
rigorosamente non essere considerata reddito, mentre per la contabilità nazionale si tratta di
formazione di reddito a tutti gli effetti. Con conseguenze che sono note: quanto più si inquina
tanto più cresce il reddito, sempre che si operi per cancellarne gli effetti.
Figura 3
ESTRAZIONE SCARTI
Materie (valore aggiunto)
prime
SECONDA Valore
TRASFORMAZIONE SCARTI
aggiunto
PRODOTTO O REDDITO
Scarti
non
riciclati
UTILIZZAZIONE FINALE
SCARTI
SCARTI (Consumi e investimenti
RICICLATI
9 Quest’ultimo è più propriamente un modello del ruolo dei partiti in una democrazia dal punto di vista economico, argomento che raramente
è stato trattato, persino dai keynesiani che attribuiscono ad un astratto governo una funzione assolutamente fondamentale nella gestione della
politica economica. Si veda di A. Downs, An Economic Theory of Democracy, Harper & Row, 1957 (tr. It. Teoria economica della
democrazia, il Mulino, 1988)
10 Cfr. D. H. Meadows & Oth., The limits to growth, The Club of Rome, Geneva, 1972 (tr. It. I limiti dello sviluppo, Mondadori, 1972)
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
8
Il tema centrale del rapporto è nel suo titolo: contrariamente alla filosofia dello sviluppo
senza limiti che ha caratterizzato il mondo industrializzato almeno dal Secondo Dopoguerra in
poi, si dovrebbe prendere coscienza che il nostro mondo è finito, non infinito, e che bisogna
intervenire rapidamente per salvare l’umanità prima che sia troppo tardi.
Vengono prese in considerazione cinque linee di tendenza, strettamente legate fra loro da
vincoli di interdipendenza:
c industrializzazione crescente;
d rapida crescita della popolazione;
e sottoalimentazione diffusa;
f depauperamento delle risorse naturali;
g deterioramento dell’ambiente.
La struttura del modello è quella della Systems Dynamics, con due tipi di variabili
(variabili di stato, cioè livelli; variabili che agiscono sui livelli, cioè indici di variazione) e
anelli di retroazione sia che portino verso l’equilibrio (feedback negativi) sia allo squilibrio
ulteriore (feedback positivi).
L’elaborazione del modello, che è composto di relazioni quantitative, avviene con l’uso di
un computer di grandi dimensioni, con simulazioni che permettono di considerare sia la
persistenza delle tendenze, sia le loro attenuazioni, fino alle ipotesi estreme e alle condizioni
che eviterebbero il collasso del sistema Terra.
Figura 4
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
9
l’umanità raggiunge i limiti naturali di sviluppo entro 100 anni (tenuto conto che il
rapporto è dell’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, ci rimarrebbero meno di 70
anni al tragico traguardo);
è possibile modificare questa linea di tendenza per creare condizioni di stabilità ecologica
se si agisce subito;
la crisi non sopraggiungerà all’improvviso, ma attraverso segni premonitori, come i
prezzi.
Anche il Global 2000 Report, commissionato dal presidente americano Carter, giunge più
o meno alle stesse conclusioni. Entrambi i rapporti sono stati criticati, in quanto avrebbero
trascurato variabili, capacità di reazione, potenzialità tecnologiche, e così via. Comunque da
quel momento in poi, i temi dello sviluppo sostenibile, dell’inquinamento ambientale, della
ricerca di energie alternative, e altri correlati, fanno parte del clima culturale nel quale vivono
i paesi più sviluppati.
Figura 5
La Figura 5 è pressoché illeggibile, eppure si tratta di un modello che, pur con tutte le sue
ambizioni di rappresentatività, è ben lontano dalla complessità del mondo. Non solo, esso dà
per scontato che gli uomini, volendo, possano con successo riequilibrare le tendenze in atto ed
evitare la catastrofe. Nessun accenno alle caratteristiche dei sistemi complessi, che in genere
sono adattivi e auto-organizzati, né si accenna agli effetti perversi delle buone intenzioni di
cui è piena la storia umana.
Queste considerazioni non sono evidentemente sfavorevoli all’azione umana, mentre sono
sfavorevoli alla superficialità con la quale vengono rappresentati i problemi e le presunte
relative soluzioni. Inoltre il rapporto sui limiti dello sviluppo si concentra esclusivamente su
limiti fisici, lontani e incerti, mentre trascura la presenza immediata dei limiti sociali dello
sviluppo.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
10
11 F. Hirsch, Social Limits to Growth, 20th Century Fund, 1976 (tr. It. I limiti sociali dello sviluppo, Bompiani, 1981)
12 Idem, p. 11
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
11
13 Cfr. A. MacIntyre, After Virtue, Univ. Notre Dame, 1984 (tr. It. Dopo la virtù, Feltrinelli, 1988)
14 E. Nagel, The Structure of Science, Harcourt, 1961 (tr. It. La struttura della scienza, Feltrinelli, 1977, p. 471)
15 Idem, p. 481
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 3 – Modelli della realtà economico-sociale
1
Sintesi
Parafrasando l’immortale osservazione di Amleto, si potrebbe dire che “Ci sono più cose in
cielo e in terra, Orazio, che non sognino le scuole di strategia”1. L’approccio complesso
vorrebbe tener conto delle “più cose che ci sono tra il cielo e la terra”. E questo per la
semplice ragione che trascurandole, come succede con l’approccio tradizionale dominato da
aspettative semplificanti, si perdono aspetti essenziali della realtà o, peggio, si vive spesso con
“l’illusione di sapere”.2
In questa lezione prendiamo in esame i presupposti, i modelli e le proposte delle più
importanti scuole di strategia, che godono di un grado di popolarità, sia teorico sia
applicativo, che è certamente molto variato nel tempo, anche se, non sorprendentemente, tutte
hanno avuto ed hanno tuttora qualcosa da dire a chi è interessato a questi problemi.
Fenomeno, questo, che non ha riscontro nelle scienze naturali.
L’obiettivo è di questa rassegna è di capire se e come le scuole di strategia tengono conto
della complessità e del caos. E quindi in che modo e in che misura possiamo utilizzare i loro
insegnamenti ai nostri fini conoscitivi. L’approccio complesso deve saper distinguere quale
sia la convenienza ad utilizzare un modello oppure un altro, ovvero una combinazione di
modelli allo scopo di gestire meglio il grado di complessità che intendiamo riconoscere alla
realtà con la quale ci confrontiamo.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
2
Ricordiamo alcuni caratteri essenziali della complessità per poter poi scoprire in che
misura essi siano riflessi nei modelli delle varie scuole di strategia. È chiaro che non si ha
nessuna intenzione di buttare all’aria un paradigma di conoscenze che hanno comunque un
loro valore. Spesso non occorre scomodare la complessità per comprendere ciò che è
opportuno fare, sia perché la complessità è sì oggettiva, ma è fortemente intrisa di
soggettività, dal momento che deve essere riconosciuta dall’attore o dagli attori che la
affrontano. Non è infrequente che gli attori discutano preliminarmente sulla presenza o
assenza di complessità che hanno deciso di affrontare.
Tra i caratteri della complessità che abbiamo indicato nella prima dispensa, scegliamo
quelli che riteniamo più importanti in un sistema complesso come un’organizzazione
produttiva:
c alto numero degli elementi
d interazioni non lineari tra gli elementi
e effetti ritardati
f presenza di feedback negativi e di feedback positivi
g apertura al mondo esterno, sia in entrata sia in uscita
h imprevedibilità
i auto-organizzazione
j autonomia parziale degli elementi
k presenza di paradossi.
La complessità, intesa in modo tradizionale e “oggettivo”, presenta senza dubbio la
caratteristica c, cioè l’alto numero degli elementi, che genera problemi ai quali si è in genere
risposto negando l’individualità e specificità degli elementi, raggruppandoli, rendendoli
omogenei, introducendo criteri gerarchici per distinguere fra gli elementi, in modo fa ridurre il
carico cognitivo che la loro numerosità comporta. L’approccio complesso è invece molto
prudente, attribuendo ad ogni elemento una rilevanza reale o potenziale che è certamente
impegnativa, e quindi più “costosa”, anche dove i criteri dell’efficacia a breve termine e
dell’efficienza suggerirebbero un approccio tradizionare, riduttivo.
Anche la caratteristica g , cioè apertura al mondo esterno, sia in entrata sia in uscita,
dell’oggetto di indagine, rientra fra quelle che sono tipiche dei sistemi aperti, anche se il
modello relativo sia qualificabile come “descrittivo”, piuttosto che come esplicativo e
previsivo.
Le altre caratteristiche sono raramente menzionate nei modelli economico-aziendali, che
d’altronde non si autolimitano nell’uso del termine complessità, nella sua accezione generica
e sgradevole del tutto assimilata a “complicazione”, da sottoporre quindi ad un processo
riduttivo.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
3
4 È ancora di utile lettura il volume: K. Andrews, C. Christensen, J. Bower, Business Policy, Irwin, 1973
5 H. Mintzberg ha provveduto a demolire, forse troppo severamente, la pianificazione strategica nel suo libro: The Rise and Fall of Strategic
Planning, HBR, 1994
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
4
6 Cfr. M. Porter, Competitive Strategy, Free Press, 1980 (tr it. La strategia competitiva, Edizioni della Tipografia Compositori, 1982)
7 Idem, Competitive Advantage, Free Press, 1985 (tr. It. Il vantaggio competitivo, Edizioni di Comunità, 1987)
8 Idem, The Competitive Advantage of Nations, MacMillan, 1989 (tr. It. Il vantaggio competitivo delle nazioni, Mondadori, 1991)
9 B. D. Henderson, Henderson on Corporate Strategy, Abt Books, 1979
10 J. A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, 1971
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
5
11 Tra gli altri si veda: J. . B. Quinn, Strategies for Change : Logical Incrementalism, Irwin, 1980
12 Cfr. C. Argyris e D. A. Schön, Organizational Learning, Addison-Wesley, 1996 (tr. It. Apprendimento organizzativo, Guerini, 1998)
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
6
13 Cfr. K. Weick, The Social Psychology of Organizing, Addison-Wesley, 1979 (tr. It. Organizzare, Isedi, 1993)
14 Cfr. G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind, Chandler, 1972 (tr. It. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1976)
15 Cfr. H. Maturana e F. Varela, De Maquinas y Seres Vivos, Editorial Universitaria, 1972 (tr. It. Macchine ed esseri viventi, Astrolabio,
1992)
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
7
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
8
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
9
Complessità e caos
Le “stranezze” del mondo hanno le loro buone ragioni per esserci: questa osservazione è una
delle conseguenze della teoria della complessità, mentre nella scienza tradizionale le
“stranezze” vengono via via spiegate e incorporate nel paradigma generale, o lasciate da parte,
come anomalie che confermano la regola, oppure il cui destino è segnato, perché non
potranno sottrarsi, a lungo andare, all’inesorabile avanzamento del metodo scientifico (si
pensi a Freud e a Marx, il cui straordinario successo deriva dalla loro capacità di spiegare
“tutto” ciò di cui si occupano).
Ma a guardarle bene, queste “stranezze”, l’atto di creazione, il nuovo, la risposta non
ancora data, sembrano avere le loro scaturigini nei luoghi in cui il paradosso è in agguato, non
dove si programma la scoperta come se si trattasse di un viaggio organizzato. Prime
conseguenze della teoria della complessità: bisogna cercare non a casaccio, evidentemente,
ma nei luoghi che prima erano proibiti, perché là abita il paradosso.
Quando ci si avvicina alla teoria della complessità si sperimenta una sensazione non
sempre gradevole e un po’ equivoca: si può sospettare che si tratti di qualcosa di déjà vu: il
caos ci riporta alla storia come luogo del particolare che può avere effetti dirompenti; il
paradosso è pane quotidiano nelle scuole più avanzate di psicologia sperimentale, come quella
di Palo Alto, dove si è scoperta la potenza della congiunzione copulativa “e” rispetto alle
limitazioni della congiunzione disgiuntiva “o”. Si sospetta una rapida rivalutazione dei
proverbi che, col loro possibilismo e con le loro apparenti contraddizioni, riflettono meglio la
realtà del mondo, anche se ci sono difficoltà nella loro utilizzazione: come si fa a sapere
quando è venuto il loro breve e passeggero momento di gloria esplicativa?
La teoria della complessità non rappresenta quindi qualcosa di déjà vu. Per certi versi ci
apre gli occhi su qualcosa che ci è familiare, ma invece di invitarci a non guardare alle
stranezze del mondo, come fa la “teoria” quando è messa in difficoltà dalla “pratica”, cerca di
aiutarci a includere nel mondo della spiegazione il finora inspiegabile, a sopportare di buona
grazia quelle che nel paradigma tradizionale sono le incoerenze. Ma con una gradevole
aggiunta: dove abita il paradosso può esserci l’opportunità di un atto di creazione. In questa
nuova prospettiva, molto del lavoro che è stato compiuto in molte discipline manageriali,
dall’antropologia culturale allo studio dei processi di apprendimento organizzativo,
dall’organizzazione a rete alle nuove forme di orientamento strategico, fa pensare che siamo
sulla buona strada per la costruzione di un nuovo paradigma conoscitivo. Come vedremo
meglio in un successivo paragrafo.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
10
battito d’ali d’una farfalla a Tokyo”) può provocare, in un punto anche lontanissimo da dove
essa si produce, un effetto enorme (“un terremoto nel Perù”). Conseguenza: dobbiamo
dunque dire addio al progresso e all’accumulazione di conoscenza in tutti i campi e non solo
in campo meteorologico?
Con Lorenz il caos è diventato un termine familiare e la teoria della complessità è
diventata un tema popolare di studio. Si potrebbe dire che il battito della farfalla di Lorenz ha
provocato un terremoto nel paradigma tradizionale della scienza con una proliferazione di
centri di studio, la creazione di un linguaggio, la riscoperta degli antesignani (da Poincaré a
Prigogine), la germinazione primaverile di entusiasmi e di sarcasmi, la mobilitazione di premi
Nobel a favore o contro.
Per riavvicinarci alle discipline manageriali, possiamo vedere come Herbert A. Simon
parla della complessità. In un saggio non recente16, egli considera i quattro aspetti della
complessità: la forma gerarchica, la struttura e i processi evolutivi, le proprietà dinamiche dei
sistemi organizzati gerarchicamente e, infine, il rapporto tra sistemi complessi e le loro
descrizioni.
Il punto di partenza di Simon è la teoria generale dei sistemi, ma anche la cibernetica e la
teoria dell’informazione, cioè approcci di pensiero che ci hanno dato molto, ma che oggi ci
sembrano insufficienti, perché non hanno mantenuto (tutte) le loro promesse.
Nel trattare della complessità, Simon usa tutta la potenza del suo apparato analitico e il
suo anelito è evidentemente la semplicità, poter cogliere l’essenza di un fenomeno, al di là del
“rumore”, degli aspetti marginali, di ciò che nella gerarchia occupa un posto di scarso rilievo.
Anche quando ammette i limiti della ragione nelle faccende umane17, si legge una grande
nostalgia per i “meravigliosi gioielli intellettuali dell’analisi”, e nella mente dello scopritore
della razionalità limitata il gioco degli scacchi rimane la migliore delle metafore dello “human
problem solving”18 che col tempo (con i calcolatori), riuscirà a progredire sempre di più.
La teoria della complessità parte invece da presupposti diversi, primo fra tutti che le
nostre conoscenze sono intrise di incertezza (su cui chiunque potrebbe consentire) e la
riduzione dell’incertezza è impossibile (e qui gli analitico-positivisti non consentono). A
questo si aggiungono frange di “costruttivisti”, per i quali la realtà è una costruzione della
nostra mente; e coloro che considerano l’equilibrio non una tendenza della natura, verso cui
tutto convergerebbe grazie al feedback negativo, ma un’ipotesi troppo spesso invalidata dai
feedback positivi, provocati a volte da interventi inconsulti di uomini pieni di micidiali buone
intenzioni, applicate a sistemi complessi adattativi, che invece sembrano trovare dentro di sé
le strade da percorrere...
Ma ciò che forse riempie di sgomento è l’importanza attribuita dalla teoria del caos agli
eventi apparentemente irrilevanti da cui possono aver origine conseguenze rilevantissime.
L’approccio tradizionale non ha mai accettato ciò, che è in sostanza una frattura tra causa ed
effetto (o almeno una frattura nelle aspettative di coerenza), ed ha cercato sempre di rivalutare
gli eventi apparentemente irrilevanti per impedire che l’inspiegabile facesse il suo ingresso
trionfale e demolitore nell’enorme apparato delle conoscenze umane, rese improvvisamente
vulnerabili e per qualcuno illusorie.
16 Il saggio è del 1962 ed è stato stampato nei Proceedings of the American Philosophical Society, 106: 467-482. Fa parte della raccolta “Le
scienze dell’artificiale”, Isedi, 1973
17 Cfr. H. A. Simon, Reason in Human Affairs, Standford University Press, 1983 (tr. It. La ragione nelle vicende umane, il Mulino, 1984)
18 Cfr. H.A. Simon e A. Newell, Human Problem Solving, Englewood Cliffs, 1972
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
11
La teoria della complessità può essere considerata secondo diverse prospettive, a seconda
del ruolo che possiamo attribuirle nell’aiutarci a capire il mondo.
La prospettiva più radicale, considera la teoria della complessità come una vero e proprio
paradigma che sostituirà in prospettiva il paradigma traballante che abbiamo ereditato dal
positivismo. È una Weltanschauung che non conosce pietà e non fa prigionieri: quella che
fino ad oggi abbiamo chiamato scienza adotterà un approccio complesso e non conviverà con
nessuna teoria del vecchio paradigma. Essa aspira inoltre a diventare una “teoria del tutto”,
una teoria unificata dei sistemi complessi.
In un’altra prospettiva, la teoria della complessità è fondamentalmente un insieme di
modelli interpretativi, esplicativi e previsivi di una certa classe di problemi che possono
riguardare certi aspetti della realtà, per esempio quella delle borse valori o dei rubinetti che
gocciolano di notte, e soprattutto quella delle scienze sociali, ma non tutta la realtà.
Costituisce quindi un corpus di strumenti intellettuali per maneggiare problemi finora
considerati non maneggiabili o marginali rispetto al grande mistero (svelato) della caduta
d’una mela sulla testa del giovane Newton.
In una terza prospettiva, più aperta e possibilista, la teoria della complessità va ad
aggiungersi al bagaglio di strumenti che gli uomini hanno inventato per dominare
concettualmente il mondo, da applicare in congiunzione con gli altri strumenti, in funzione
dell’obiettivo conoscitivo che si vuole raggiungere. Esclusa la possibilità di conoscere la
Verità, si delega al metodo dialettico il ruolo di spremere qualche spiegazione soddisfacente
al mondo che ci troviamo di fronte, in parte naturale, in parte costruito e in parte inventato di
sana pianta dall’uomo con la sua irrefrenabile produzione di simboli...
Dietro queste prospettive ci possono essere delle preferenze che hanno poco da spartire
con la scienza, almeno in questo momento, mentre hanno molto da spartire con le preferenze
valoriali di chi compie la scelta, sempre che voglia farlo.
Così alcuni nuovi adepti della teoria della complessità si sono specializzati in
demolizioni, distruggendo il vecchio paradigma e offrendo in alternativa niente di nuovo, se
non qualche pensoso auspicio per un nuovo ordine; altri sono rimasti affascinati dall’apparato
matematico della teoria del caos e lo identificano con la teoria della complessità; altri ancora
hanno semplicemente acquisito rapidamente il linguaggio della complessità e continuano a
ripetere la sostanza di ciò che conoscono, con altre parole; qualche altro, in vena di bricolage,
trasforma gli uomini in variabili booleane governate da motivazioni semplicissime, ma che
possono condurre a stati inattesi e complicatissimi, oltre che a stati di equilibrio permanente
costituiti da attrattori, che possono essere “strani” quando presentano più punti di attrazione
in uno spazio finito. Allora il sistema diventa instabile, ma nell’ambito dei suoi confini.
Questi richiami possono essere interpretati come altri modi, più significativi e stimolanti,
di quelli che vengono da tempo utilizzati nelle discipline manageriali. Ed è quindi opportuno
cominciare ad esplorare che relazioni potrebbero nascere tra teoria della complessità e
discipline economico-aziendali, dopo la rassegna che abbiamo compiuto sulla scuole di
strategia.
Le discipline economico-aziendali sono sempre state applicate a fenomeni complessi, non
nell’accezione della teoria della complessità, ma nell’accezione corrente secondo la quale i
fenomeni economico-sociali sono complicati, per la presenza di un numero esorbitante di
variabili condizionanti le loro manifestazioni. Ma per quanto la complicazione possa essere
elevata, fino a poco tempo fa pochi hanno posto in dubbio l’utilizzazione del paradigma
“scientifico” della ricerca, proprio delle scienze naturali, per scoprire sempre di più e sempre
meglio le “inevitabili” e nascoste leggi del comportamento organizzativo.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
12
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 4 – Modelli delle discipline economico-aziendali
1
Sintesi
Che cos’è l’individualismo metodologico?
Individualismo metodologico e collettivismo metodologico
Individualismo metodologico e complessità
Individualismo metodologico e discipline economico-aziendali
La relazione al centro della complessità
Questioni aperte
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
2
4 Si veda la letteratura sulla PNL, ovvero Programmazione Neuro-Linguistica, molto vasta e non sempre rigorosa, ma interessante.
5 K. R. Popper, Miseria dello storicismo, Feltrinelli, 1975, p. 18
6 Le citazioni sono tratte da: F. A. von Hayek, Conoscenza, mercato, pianificazione, il Mulino, 1988, pp. 97-224
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
3
“...non dobbiamo dimenticare che ai loro inizi le Scienze hanno dovuto farsi strada in un
mondo in cui la maggior parte dei concetti si erano già formati a partire dalle relazioni
dell’uomo con gli altri uomini e nel processo di interpretazione delle azioni umane...La
scienza moderna ha combattuto contro tre ostacoli principali:
z l’abitudine di studiare il lavoro dei grandi uomini del passato;
z la convinzione che le idee delle cose possedessero una qualche realtà
trascendentale, e che analizzando le idee potessimo apprendere qualcosa, o tutto,
sugli attributi delle cose reali;
z l’uomo aveva iniziato dappertutto ad interpretare gli eventi del mondo esterno a
propria immagine e somiglianza, come se fossere animati da una mente simile alla
propria...le teorie antropomorfiche andavano alla ricerca di un disegno intenzionale
e si dichiaravano soddisfatte quando potevano trovare in questo disegno la prova
dell’attiva presenza di una mente ordinatrice”;
“Contro tutti questi ostacoli, lo sforzo persistente della scienza moderna è stato quello di
attenersi ai «fatti oggettivi»;...la scienza moderna si presenta come un processo di
progressiva emancipazione dalla nostra classificazione innata degli stimoli esterni...la
scienza fisica ha ora raggiunto uno stadio di sviluppo che rende impossibile esprimere
gli eventi osservabili in un linguaggio appropriato a ciò che viene percepito dai nostri
sensi. Il solo linguaggio appropriato è quello della matematica, e cioè della disciplina
sviluppatasi per descrivere insiemi di relazioni fra elementi che non hanno altri attributi
all’infuori di queste relazioni”;
l’utilizzazione della matematica nella scienza viene attribuita alla ricerca di una maggiore
precisione espressiva. In realtà “...non si tratta semplicemente di aumentare la precisione
di un procedimento, che sarebbe comunque possibile senza ricorrere alla forma
matematica di espressione; si tratta piuttosto dell’essenza stessa del processo mediante il
quale scomponiamo i dati immediati che i sensi ci trasmettono, e sostituiamo ad una
descrizione formulata in termini di qualità sensibili un’altra descrizione, fondata su
elementi che non posseggono nessun altro attributo all’infuori delle relazioni che li
connettono reciprocamente”;
le scienze sociali “non si occupano dei rapporti fra cose, ma si occupano invece dei
rapporti fra uomini e cose o fra uomo e uomo; si interessano delle azioni degli uomini e
il loro scopo è quello di spiegare i risultati non voluti o non prestabiliti delle azioni di
molti uomini”;
quando le scienze sociali si occupano della vita fisica degli uomini in gruppi debbono in
effetti utilizzare gli stessi metodi della scienze naturali; si pensi alla diffusione di malattie
contagiose, allo studio dell’ereditarietà e dell’alimentazione, della composizione per età
delle popolazioni umane “non differiscono in maniera rilevante da simili indagini
condotte sugli animali”;
“Strettamente connesso con l’oggettivismo dell’approccio scientistico è il suo
collettivismo metodologico, la sua tendenza trattare certe «totalità» - quali la «società» o
il «capitalismo» o una particolare «industria» o «classe» o «nazione» - come oggetti dati
e ben definiti, governati da leggi che possiamo scoprire osservando come questi enti si
comportano in quanto totalità...gli scienziati naturali sono abituati a cercare innanzitutto
regolarità empiriche nei fenomeni relativamente complessi che si presentano
all’osservatore come dati immediati...anche in campo sociale gli scienziati naturali
tendono a cercare innanzitutto regolarità empiriche nel comportamenti dei fenomeni
complessi...Questa tendenza è ulteriormente rafforzata dalla constatazione empirica che,
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
4
nel comportamento degli individui, ci sono ben poche regolarità che si prestino ad essere
stabilite in modo strettamente oggettivo; pertanto essi rivolgono la propria attenzione
alle totalità, nella speranza che almeno queste mostrino la presenza di regolarità del tipo
desiderato”
“bisogna tener conto anche dell’influenza esercitata dall’idea, in verità piuttosto vaga,
secondo cui, dal momento che i «fenomeni sociali» rappresentano l’oggetto di studio, il
modo di procedere più ovvio è di partire dall’osservazione diretta di questi «fenomeni
sociali»; questa idea sembra essere associata all’ingenua convinzione che l’esistenza,
nell’uso corrente, di termini quali «società» o «economia» costituisca una prova
dell’effettiva esistenza di «oggetti» ben definiti che corrispondono a questi termini. Il
fatto che tutti parlino di «nazione» o di «capitalismo» induce a credere che il primo
passo nello studio di questi fenomeni debba essere quello di andare a vedere che aspetto
abbiano, proprio come faremmo se sentissimo parlare di una certa pietra o di un certo
animale”.
“Ci si può chiedere: i fenomeni sociali non sono per definizione fenomeni di massa, e non
è quindi ovvio che possiamo sperare di scoprire regolarità in essi solo se li investighiamo
utilizzando il metodo messo a punto per lo studio dei fenomeni di massa, e cioè per mezzo
della statistica? Ora, questo è certamente vero per lo studio di certi fenomeni, come
quelli che costituiscono l’oggetto della demografia e della biometria”. Ma cè differenza
tra queste totalità statistiche e la natura delle totalità nelle scienze sociali teoriche.
“L’indagine statistica riguarda gli attributi degli individui; essa non si occupa, però,
degli attributi di particolari individui, ma piuttosto di quegli attributi di cui si sa soltanto
che sono presenti in una percentuale, quantitativamente determinata, del totale degli
individui che formano una certa «entità collettiva» o «popolazione».
L’individualismo metodologico non dev’essere confuso con una posizione ideologica che
mette al centro di ogni interesse l’individuo a scapito della collettività. La metodologia ha lo
scopo di comprendere i fenomeni collettivi, ma attraverso l’analisi dei comportamenti
individuali degli attori e delle loro motivazioni. La società non è che l’esito dei
comportamenti degli individui, i quali godono di una maggiore o minore autonomia e sono
più o meno imprevedibili, nonostante le norme di ogni genere che li condizionano.
In altre parole, non possono esistere delle leggi esogene e generali nelle scienze sociali,
nonostante la presenza di regolarità nei fenomeni osservati.
Ci sono casi in cui l’individualismo metodologico non è applicabile? Certamente. Per
esempio, per spiegare l’evoluzione del tasso di natalità di una popolazione è chiaro che si
deve far riferimento al cambiamento dei comportamenti individuali, ma è pressoché
impossibile individuare le ragioni di quel cambiamento. Valgono in questo caso le
correlazioni statistiche. A questo proposito, la scuola di Chicago dell’economia della
famiglia7 ha determinato come al crescere del reddito la propensione delle famiglie ad aver
figli in genere diminuisce e i figli, nel linguaggio economicistico della scuola, non sono più
considerati, come un tempo, beni di investimento ma beni di consumo. In altre parole, non si
hanno più figli per disporre di mano d’opera preziosa in una società agricola, ma li si ha per il
soddisfacimento della pulsione a diventare genitori, con tutti i condizionamenti dell’uso del
tempo che domina la fruizione dei beni di consumo.
Si tratta di una spiegazione discutibile, ma gli studiosi di Chicago ritengono che sia
piuttosto solida e sfidano chiunque a trovarne un’altra. In ogni caso questo è un esempio di
7 Cfr. Gary S. Becker, The Economic Approach to Human Behavior, The University of Chicago Press, 1976
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
5
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
6
quando essa permette di essere sfruttata, può essere sfruttata da tutti: basta conoscerla,
nonostante che ovviamente possa imporre comportamenti di realizzazione che forse non tutti
si possono permettere. Ma nessuno discute sulla validità della legge.
In economia aziendale, dai tempi della Design School dell’università di Harvard, la prassi
di utilizzare storie di casi da discutere in aula è stata, fin dall’origine, considerata un efficace
strumento didattico, un’occasione per rappresentare un’esperienza a chi l’esperienza non ha
ancora vissuto. Non c’è caso, comunque, che non avverta i lettori che quanto viene narrato
non deve essere considerato un esempio da imitare. È un’occasione di discussione. Che
significato può avere questa l’avvertenza, che è innanzi tutto un’espressione di correttezza?:
z nelle discipline economico-aziendali non esistono in genere delle regole generali, al di là
di qualche modello descrittivo, di grande valore didattico, ma pericoloso se considerato
come un modello prescrittivo;
z ciò che viene insegnato è costituito fondamentalmente da opinioni, con un contenuto
elevato di verosimiglianza, ma che non possono essere scambiate come delle verità
scientifiche;
z il rimandare al caso per caso, o alla teoria della contingenza, non equivale a riconoscere
che gran parte delle discipline economico-aziendali non posseggono teorie assimilabili a
quelle che sono qualificate come scientifiche? Non siamo forse nel pieno di una
disciplina storica?
z ciò che viene considerato vero è autoreferenziale, riguarda sistemi e procedure che
aiutano a svolgere l’attività economica in una cornice di “razionalità” (efficacia,
efficienza, valore aggiunto, equilibrio, e così via).
Una prova “pratica” del contributo delle discipline economico-aziendali sarebbe poter
trovare un legame stretto tra curriculum scolastico e successo negli affari, che diventa
purtroppo sempre più difficile da dimostrare dato l’alto numero di laureati che l’università
sforna ogni anno in tutti paesi avanzati. In realtà ci si accontenta di molto meno, all’insegna
dell’evidenza: trovano lavoro più facilmente e più rapidamente i laureati che rispondono alle
richieste di chi offre occupazione. La domanda conosce o non conosce quelli che considera i
suoi interessi?
Probabilmente è opportuno tener conto delle argomentazioni di Raymond Boudon, a
proposito della vulnerabilità di molte argomentazioni utilizzate nelle innumerevoli ricerche
sociali che vengono svolte nel mondo, con risultati che non sono proporzionali agli sforzi
umani e finanziari che vengono compiuti.
Afferma infatti Boudon8 che il processo di costruzione delle teorie è inevitabilmente
inficiato dalla presenza di a priori di cui il ricercatore non è in genere consapevole. “In
genere” significa che qualunque ricercatore serio non si sorprenderebbe di questa
osservazione. Potrebbe ribattere che ha trascurato certe variabili perché le ha considerate di
poca importanza, per quanto possano rientrare tra le cause possibili del fenomeno che si sta
indagando. Mentre di quelle di cui non è consapevole non può ribattere nulla. Ciononostante
le conseguenze della presenza di a priori non evidenziati può essere l’origine della povertà
descrittiva, esplicativa e soprattutto previsiva di un modello.
Supponiamo che un ricercatore creda di aver costruito una teoria T e che {P} sia l’insieme
delle proposizioni esplicite riferite a T. Può accadere che egli abbia in realtà costruito una
teoria T’ includente, oltre all’insieme {P}, anche un insieme di proposizioni implicite {P’}.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
7
Per cui, in realtà T’ = {P} + {P’}. Nell’ipotesi che T→C e T’→C’, se il ricercatore ritiene di
aver rese esplicite tutte le ipotesi rilevanti, riterrà senza accorgersene che T = T’ e, concluderà
che T = C’. Ovvero, se l’insieme {P’} fosse reso esplicito, la struttura della teoria T’ avrebbe
una struttura diversa da quella T e quindi potrebbe condurre a conclusioni diverse.
Da qui deriva l’osservazione di Boudon che spiega “perché il mondo ci sembra più
ordinato di quanto non sia veramente”. Infatti sociologi, economisti e storici possono spesso
scoprire uniformità in quanto abbiano trascurato premesse implicite, nonostante il credito
verbale attribuito al beneficio del dubbio. D’altronde questa trascuratezza è normale e da essa
è difficile difendersi, sempre che se ne abbia l’intenzione, visto che la ricerca delle
proposizioni implicite comporta spesso un grande sforzo suppletivo.
Siccome siamo già piuttosto confusamente consapevoli che il mondo non sia affatto
ordinato, l’osservazione di Boudon ci impensierisce: possibile che siamo sistematicamente
vittime del nostro ottimismo sul relativo ordine del mondo? E saremmo tutti vittime,
ricercatori e non, dell’aspirazione di trovare nel mondo quella semplicità che ci permetterebbe
di dominarlo, almeno nella nostra mente?
Di norma, come sappiamo, i ricercatori si difendono dal sospetto di aver trascurato
qualcosa, tra le premesse delle loro ricerche, affermando che si sono considerate ed esplicitate
le ipotesi principali. Ma, purtroppo, che cosa significa “principali”?
Raymond Boudon porta alcuni interessanti esempi, tra gli innumerevoli disponibili, di
risultati di ricerca bacati dalla mancata esplicitazione di ipotesi implicite. Frequenti sono i casi
relativi alle spiegazioni sul mancato sviluppo dei paesi del Terzo Mondo. Le ragioni
monocausali del fenomeno non si contano: mancanza di innovazioni tecnologiche, mancanza
di capitali, modesta ampiezza del mercato, e così via.
Un saggio, che a suo tempo godette di molta credibilità e che contribuì ad instaurare un
modus operandi che è semplice, costoso, difficilmente confutabile e senza conseguenze, è
quello di Ragnar Nurkse9, nel quale si tratta del circolo vizioso della povertà, che viene
spiegato con questa sequenza di proposizioni:
z una caratteristica della povertà è la scarsa propensione al risparmio;
z se non c’è risparmio non c’è possibilità di investire;
z gli investimenti sono la causa principale degli aumenti di produttività di un paese;
z se non si investe è velleitario sperare che la produttività possa crescere;
z la crescita del reddito e quindi del livello di vita della popolazione dipendono
dall’aumento della produttività;
z se non aumenta la produttività non aumenteranno né il reddito né il conseguente
livello di vita;
z visto che lo sviluppo non può prodursi in modo endogeno, è opportuno mobilitare
aiuti e investimenti di capitali stranieri.
Ognuna delle asserzioni precedenti erano considerate ovvie all’inizio degli anni
Cinquanta quando Nurkse scrisse il suo saggio. L’ovvietà è accecante, ha tutta l’apparenza
dell’analisi, in quanto la rende superflua, non può essere ribattuta.
9 R. Nurkse, Problems of capital formation in underdeveloped countries, Blackwell, 1953 (tr. It. La formazione del capitale nei paesi
sottosviluppati, Einaudi, 1974)
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
8
In realtà, del problema non si tenne conto – ma la situazione non è cambiata - di almeno
due argomentazioni rilevanti : la prima, riguarda l’estrema varietà dei paesi considerati in via
di sviluppo, mentre la seconda riguarda lo spettacolare sviluppo della Gran Bretagna nel
XVIII secolo e del Giappone e della Prussia nel XIX secolo, nonostante che questi paesi non
avessero ricevuto nessun aiuto dall’estero. Ma altre argomentazioni forti e diffuse erano a
favore delle tesi di Nurkse, prima fra tutte che i paesi sviluppati dovessero aiutare quelli in via
di sviluppo.
Un argomento sul quale è opportuno, a questo punto, prestare una certa attenzione, è che
relazione esiste tra il sapere e il saper fare, se la relazione ha carattere lineare (più si sa
meglio è; chi più sa meglio farà; e così via) e se c’è speranza per coloro che non conoscono le
cose che sarebbe opportuno conoscere sulla complessità.
La risposta (banale) è nota fin dalle origini delle discipline economico-aziendali: le
conoscenze sono certamente un fattore che facilita il compito di coloro che intendono entrare
nel mondo degli affari, in ruoli esecutivi o anche manageriali, ma esse sono curiosamente
neutre rispetto a ruoli imprenditoriali, creativi, innovativi, cioè a ruoli che richiedono
supplementi di conoscenze, o meglio creazione di conoscenza.
Una conclusione provvisoria potrebbe essere la seguente: avendo la complessità una forte
componente soggettiva, il suo livello è a discrezione di chi deve gestirla. “Il mondo è la mia
rappresentazione”, di Schopenhauer, potrebbe essere parafrasato come “il mio mondo è la
mia rappresentazione”, che è anche una lodevole ammissione di modestia, ma anche una
definizione soggettiva del mondo nel quale viviamo.
o meglio
ancora
INDIVIDUO SOCIETÀ
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
9
Che le reti siano all’origine della complessità e che contribuiscano a tenerla sotto
controllo è ormai un dato acquisito, frutto dell’evidenziazione di un fenomeno che ha trovato
anche nello sviluppo tecnologico un impulso senza precedenti.
Dal punto di vista tecnico-organizzativo le reti sono state e sono oggetto di investimenti
intellettuali considerevoli10, sia di carattere teorico, sia di carattere applicativo. In campo
organizzativo, l’individuazione delle rete formali e di quelle informali all’interno di
un’impresa, per esempio, ha permesso di conoscere in modo analitico ciò che avviene
veramente e in modo spesso inatteso tra i nodi costituenti una rete. Questo è argomento è
difficilmente generalizzabile, salvo per gli aspetti connessi al carico cognitivo, cui può essere
sottoposto ogni nodo di una rete organizzativa.
Questioni aperte
Non si può “sparare al paesaggio per cercare di prendere una lepre” e la teoria della
complessità può assimilarsi ad un paesaggio che offre enormi attrattive intellettuali dalle quali
è sapiente sapersi difendere. Alcuni approcci hanno proprio questa caratteristica, cioè di
privilegiare il cambiamento nel paradigma metodologico, piuttosto che applicarsi a specifici
problemi. Ma la teoria della complessità deve ancora fare i conti con molti quesiti:
z in che modo e in che misura la rete concettuale della teoria della complessità può essere
trasferita dalle scienze naturali a quelle sociali? In senso proprio o in senso metaforico?
Vale qui la regola aurea del vecchio Herbert A. Simon? Cioè: “la metafora e l’analogia
possono essere utili ma anche ingannevoli. Tutto dipende da un fatto: se le somiglianze
che la metafora rileva sono importanti o superficiali” 11; la letteratura sull’argomento,
rapidamente crescente, non è univoca e non è facile distinguere le questioni reali dalle
questioni artificiosamente gonfiate;
z quali sono le implicazioni della dinamica non-lineare, tipicamente complessa, per lo
studio delle imprese e delle economie?
z in che modo e in che misura cambiano le funzioni aziendali alla luce della teoria della
complessità? Cambiano quegli insiemi di schemi, di teoremi, di algoritmi, di apoftegmi
che costituiscono il marketing, la logistica, la produzione, la finanza, la strategia e le altre
discipline? Non sarebbe opportuno riesaminare i presupposti su cui si basano le varie
discipline? In che misura esse sono i punti di raccolta di verità o, in qualche caso, solo di
opinioni ben argomentate?
z in che modo e in che misura cambiano le funzioni manageriali, codificate
tradizionalmente come pianificare, organizzare, controllare, guidare? Pianificare significa
anche prevedere; organizzare significa anche disegnare strutture; controllare significa
anche applicare il concetto di feedback negativo; guidare significa anche orientare in
modo visionario: tutte attività che la teoria della complessità, che si applica a sistemi
complessi adattativi, non-lineari, dal futuro imprevedibile, potrebbe rendere più
pertinenti, anche se probabilmente meno codificate;
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
10
z sono ancora concepibili gli sforzi compiuti per prevedere quando la teoria della
complessità esclude che si possa farlo a lungo termine? Possiamo prevedere soltanto il
breve termine? Con gli strumenti tradizionali o con nuovi strumenti?
z se gli uomini sono sistemi complessi adattativi, ciò significa che qualsiasi tipo di
organizzazione presenterà sempre un divario tra “formale” ed “informale”?; e tra le due,
quale organizzazione dovrà essere considerata migliore?; l’eventuale preferenza
accordata alla organizzazione “informale”, in quanto espressione più vera delle possibilità
e dei limiti del sistema complesso adattativo, può significare la fine di ogni disegno
organizzativo, di ogni pro-attività rispetto alla più frequente reattività?
Queste questioni richiamano alla mente, in modo indiretto, la “filosofia del come se” che
godette di una certa popolarità all’inizio del secolo scorso.
Il filosofo tedesco Hans Vaihinger, nel suo libro Fisolofia del come se sostenne che “tutti
i concetti e le categorie, i principi e le ipotesi di cui si avvalgono le scienze e la filosofia sono
finzioni, prive di validità teoretica, spesso intimamente contraddittorie , che sono accettate e
mantenute solo in quanto utili”12. È la definizione, se vogliamo, dei termini usati dal
collettivismo metodologico (società, cultura, nazione, partito, azienda, elettorato, e così via).
Tali termini, come sappiamo, godono di una loro autonomia esistenziale, svincolata dai loro
componenti, e sono pertanto da considerarsi finzioni.
Una finzione, scoperta che sia, dovrebbe avere vita breve, come un errore che si può
commettere ma del quale è opportuno liberarsi. Nella realtà ciò non avviene, in ragione della
sua utilità.
Si pone un problema che ha molte facce:
una faccia filosofica: non possiamo convivere con delle finzioni, soprattutto quando
siamo consapevoli del loro status; dobbiamo quindi rifiutare il collettivismo
metodologico a favore dell’individualismo metodologico;
una faccia pragmatica: possiamo convivere con le finzioni in quanto utili; esse ci rendono
la vita più sopportabile, più facile e non si vede perché non si possa continuare a coltivare
un mondo mitico, del tutto inesistente, ma familiare;
una faccia realistica: possiamo convivere con le finzioni, distinguendo attentamente la
ricerca della verità dalla ricerca della convivenza quotidiana, dominata dalle convenzioni
tacite che distinguono una comunità da un’altra, un gruppo sociale da un altro, una
persona da un’altra;
una faccia opportunistica: alimentiamo la propensione alla finzione della maggioranza
delle persone, svolgendo un’attività nella quale la finzione domina, come nella politica e
nell’arte.
Si tratta di quesiti che cercheremo di riesaminare negli incontri successivi di questo corso.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 5 – L’individualismo metodologico: pregi e limiti
1
Sintesi
Questa dispensa costituisce un’analisi critica del pensiero di Ralph D. Stacey e, in particolare,
del suo libro Management e Caos1, utilizzandone e ampliandone la prefazione.
Nel libro di Stacey vengono innanzi tutto evidenziate le carenze del pensiero manageriale,
sostanzialmente ancorato ad un razionalismo lineare, in difficoltà di fronte ai cambiamenti
della realtà e fiducioso nei processi di adattamento ad essa, quando risulta sempre più
evidente la necessità che tale pensiero manageriale debba mutare il suo paradigma di
riferimento. E vengono quindi proposte modalità di pensiero alternative, come il management
dinamico e il controllo strategico fondato sull’apprendimento organizzativo.
Ad integrazione del pensiero di Stacey, contenuto in Management e Caos, si considera quanto
l’Autore ha scritto in Complexity and Management e in altri saggi.
1 R.D. Stacey, The Caos Frontier. Creative Strategic Control for Business, Butterworth-Heinemann, 1991 (tr it. A cura di Giuseppe Scifo,
Management e Caos, Guerini, 1996)
2
ma consapevoli della sua inevitabilità e delle opportunità che può offrire, oltre che fattore di
disturbo e, a volte, di turbamenti irreversibili.
La nuova concezione del tempo, non lineare, “nuova” almeno per le nostre discipline,
contraddistingue il management dinamico ed ha conseguenze rilevanti sulla concezione della
previsione, della pianificazione strategica e del controllo strategico, temi che verranno
approfonditi nei capitoli successivi.
Questa è un’epoca attraversata dal sospetto che il nostro modo di pensare occidentale,
così come si è andato formando dal XVII secolo in poi, ci metta in grave difficoltà nel
comprendere ciò che sta avvenendo.
Da allora, come sappiamo, il modo di procedere, definibile per intenderci “newtoniano”,
ha condizionato, per il bene e per il male, gran parte dei nostri modi di conoscere, soprattutto
in campo scientifico, tecnico e pratico. La gente ha imparato a credere senza capire. La
speranza di accumulare conoscenze è stata troppo forte. Nessuno ha saputo sottrarsi al fascino
di applicare i principi del progresso e della democrazia alla conoscenza, da cui sarebbe
derivato un sapere sempre maggiore per un numero sempre maggiore di persone. Laplace
realizzava il suo sogno diventando un luogo comune facilmente compreso da tutti:
“Noi possiamo considerare lo stato attuale dell’universo come l’effetto del suo
passato e la causa del suo futuro. Una mente che ad ogni istante conoscesse tutte
le forze che animano la natura e le posizioni relative di tutti gli oggetti che la
compongono, e che fosse sufficientemente grande da riuscire ad analizzarne i
dati, potrebbe condensare in una sola formula il vasto movimento dei corpi più
grandi dell’universo e degli atomi più leggeri: per questa mente niente sarebbe
incerto e il futuro, così come il passato, sarebbe sempre chiaro davanti agli
occhi”2.
Ma nella realtà, soprattutto recente, l’aspirazione ad una democrazia della conoscenza non
ha fatto molti progressi. Tutto è diventato più difficile e questa difficoltà è ben spiegata da
Robert Nozick in un suo libro non recente:
“in questo secolo la riflessione ha elaborato proposte e risultati interessanti, ma
inaccessibili anche a porzioni consistenti della popolazione colta...queste idee,
da un lato, riguardano temi che desideriamo comprendere e dobbiamo
comprendere - e, dall’altro, non possono essere compresi e discussi con
intelligenza se non da chi abbia una certa familiarità con certi tecnicismi. I
termini stessi di valutazione sono diventati tecnici”3.
Così si va formando una linea d’ombra che divide coloro che sono consapevoli del caos
(cioè dell’incertezza, della creatività, della rilevanza dell’apprendimento, e così via) e coloro
che vedono nella nuova situazione una grande confusione, crisi di ogni certezza, segnali
angosciosi di decadenza o di catastrofe, una insanabile spaccatura tra teoria e pratica, come se
non si sapesse che non c’è nulla di più pratico di una buona teoria. Situazione che Alvin
Toffler aveva certamente capito quando, venti anni fa, pur non citando specificamente il caos,
si riferiva a questo concetto scrivendo:
“Una linea invisibile divide oggi i managers. Essa taglia trasversalmente i gradi
e le funzioni, separando coloro i quali vedono i cambiamenti economici e
tecnologici di oggi come incrementali, graduali estensioni della Rivoluzione
Industriale, da quelli che considerano gli imponenti cambiamenti di oggi come
realmente radicali. Vi sono dirigenti incrementalisti e dirigenti radicali. Il primo
gruppo presuppone la continuità; l’altro riconosce la crescente importanza della
discontinuità. Il primo tende a formulare strategie lineari; il secondo pensa in
termini non lineari”4.
Sia le parole di Robert Nozick, sia quelle di Alvin Toffler, fanno intravedere una
molteplicità di livelli di realtà e di livelli di rappresentazione, che un tempo si sarebbero
collocati in una scala gerarchica, anche valoriale, mentre oggi possono essere assimilati al
relativismo culturale che domina molti campi della conoscenza. Questo tema verrà
approfondito in una prossima dispensa, perché molto importante per il concetto di
complessità.
Il caos in azione
Se ci venisse posta la domanda5: “qual è stato l’evento più importante dell’anno 1492 della
nostra era?”, pochi di noi non risponderebbero “la scoperta dell’America”. Eppure, questa
risposta, che consideriamo quasi scolastica, è quella che ci viene imposta dalle conoscenze
che abbiamo dei 500 anni che sono seguiti a quell’evento. Ma il 1492, per gli uomini
occidentali che vissero in quell’anno e nei decenni successivi, fu contrassegnato soprattutto
dalla cacciata dei Mori dalla penisola iberica, ad opera dei Cattolicissimi sovrani di Spagna,
patrocinatori del viaggio di Colombo.
Andiamo avanti. È il 18 giugno 1815. Napoleone è sconfitto a Waterloo a causa del
mediocre, zelante e permaloso Grouchy, che non va in aiuto al suo imperatore perché ha
l’ordine di cercare e tenere a bada quei prussiani che l’ultrasettantenne Blücher ha già
condotto a dar man forte a Wellington. Scrive Stefan Zweig:“la pusillanimità d’un individuo
piccino e insignificante ha infranto quel che il più audace e lungimirante degli uomini aveva
edificato in venti anni di epopea”6.
Ma c’è qualcuno che, nello stesso momento, corre a Bruxelles e poi verso il mare, dove lo
attende un battello. Si chiama Rothschild, arriva a Londra prima delle staffette militari,
approfitta della segretezza della notizia per far saltare la Borsa e per fondare una dinastia.
Altro piccolo evento (caotico, diciamo oggi) dalle conseguenze imperscrutabili.
Non occorre comunque scomodare la storia, quella che si trova nei libri. Basta pensare
alla nostra vita. Per quanti sforzi si compiano per attribuirle una coerenza, essa è piena di
coerenze parziali, ma soprattutto di micro eventi dai quali la nostra esistenza ha preso via via
un corso oppure un altro. Qualcuno potrebbe dire che la vecchiaia comincia dove il caos si
ritira da noi per lasciare lavorare con tranquillità il tempo, prevedibile e demolitore.
Quindi il caos ha sempre operato con impegno, ma la teoria del caos è arrivata a noi
soltanto da poco tempo. E che sia una teoria valida ce lo dice la sua capacità di offrirci lumi
sia sul presente e il futuro, sia sul passato.
Non ci troviamo di fronte ad una situazione del tutto nuova. Qualcuno potrebbe
considerare il periodo che stiamo attraversando, di turbolenza, di cambiamento ininterrotto, di
crisi di valori (secondo un consolidato piagnisteo che rivela una preferenza per la stabilità o lo
status di vittima), come qualcosa di déjà vu, perché è ciò che provarono gli uomini colti
all’inizio del secolo XX, caratterizzato da un’altra crisi della certezza, a causa della
demolizione del determinismo laplaciano, di cui gli uomini meno colti hanno avuto sentore
soltanto di recente. Poe ci ha insegnato che per trovare una cosa nascosta bisogna cercarla con
molta cura e perseveranza, ma che occorre un supplemento di intelligenza per trovare
qualcosa che è sotto gli occhi di tutti.
5Sono debitore verso Giulio Giorello di questo esperimento mentale, che egli ha proposto durante la presentazione di un libro nel 1994.
6Stefan Zweig, Opere Scelte, Mondadori/Sperling&Kupfer, 1961, p. 386.
5
Pn = b Yn-1
Le due relazioni possono essere ridotte ad una sola con le opportune sostituzioni, cioè
Yn = ab Yn-1
Se poniamo ab = c possiamo scrivere
Yn = c Yn-1
che è evidentemente un’equazione nella quale la variabile dipendente (Y) è funzione del suo
valore nell’anno precedente e del fattore di proporzionalità c.
È anche evidente che, in questa semplicissima relazione, in funzione del valore di c
avremo profitti
crescenti per c>1
costanti per c=1
decrescenti per c < 1.
Se vogliamo aggiungere un po’ di realismo al nostro modello, dovremo tener conto che le
spese di pubblicità hanno conseguenze non lineari sul mercato e, quindi nel tempo, possono
determinare una riduzione di profitti invece che un aumento o la costanza del loro livello.
Possiamo cioè ritenere che la pubblicità Pn sia funzione inversa dei profitti dell’anno
precedente, cioè possiamo scrivere questa relazione che non è più lineare come la precedente:
Yn = cYn-1(1- Yn-1),
7Trovo queste notizie nel volume Caos, a cura di Nina Hall, Muzzio, 1992
6
che è la cosiddetta “mappa logistica”, utilizzata negli studi sulle popolazioni e che ci
riconferma come esse siano soggette alla legge del caos.
In questa situazione, quindi, nonostante la tranquillizzante presenza di un’equazione, si
possono raggiungere stati del sistema molto diversi in funzione del valore di c, secondo il
seguente quadro8:
8Da un’appendice dell’originale del libro di Stacey, non tradotta per non appesantire l’edizione italiana
7
9 Cfr. D. Parker & R. Stacey, Chaos, Management and Economics, Institute of Economic Affairs, 1995
10 Cfr. B. B. Mandelbrot, Les objets fractals, 1975 (tr. It. Gli oggetti frattali, Einaudi, 1987)
11P. Valéry, Quaderni, Vol. 2, Adelphi, p. 171
8
12Come farà il re delle fiabe a salvarsi dall’unanime consenso dei suoi cortigiani, premessa ad un’inevitabile usurpazione? Soltanto il
buffone può salvarlo, l’unico che abbia l’obbligo di dire la verità e di contrapporsi senza limiti al re (salvandolo dal consenso unanime e dal
consociativismo...)
9
• il concetto di breve termine e di lungo termine non è sempre così chiaro dappertutto.
Per una società finanziaria il breve termine è costituito dalle prossime 24 ore e il
lungo termine dai prossimi tre o sei mesi; per un cantiere navale il breve termine non
è inferiore ai tre anni e il lungo termine raggiunge tranquillamente i dieci anni. A
questo punto basterebbe chiedersi: in quale settore stiamo operando? per classificare
un’impresa, in un modo o nell’altro. Ma sappiamo che questo modalità di procedere
è superficiale, perché in tutte le imprese, e in ogni singola impresa, ci sono più
orologi che misurano un tempo molto differenziato, nelle varie attività che vi si
svolgono. In una compagnia aerea il capo delle operazioni deve far partire un aereo
da Francoforte alla 10.45 per Los Angeles e, nella stessa compagnia, il capo degli
approvvigionamenti di aeromobili gioca con i tempi di ordini e di consegne che
variano da 3 a 4 anni: questo è il suo breve termine!
g Interessanti sono le distinzioni di Stacey tra modelli espliciti e modelli impliciti che
dominano le menti dei managers, dove quelli che contano sono i modelli impliciti, così
come gli aspetti informali delle organizzazioni possono essere più importanti di quelli
formali. Questo è un argomento disperante che ricorda la domanda di quel signore che si
chiedeva: “Perché qualcuno non ci dà un elenco delle cose che tutti pensano e nessuno
dice, e un altro elenco delle cose che tutti dicono e nessuno pensa?” Facendo emergere i
modelli impliciti si scoprirà che la teoria del caos applicata al management delle imprese
restituisce il mal tolto. Lo stesso Autore nel capitolo 9 dichiara semplicemente:“Ma come
è possibile che questo processo risulti applicabile alle organizzazioni d'impresa, se non si
considera il fatto che sembra misteriosamente familiare?”
Un’impresa che non prevede né pianifica a lungo termine è un’impresa che vive alla
giornata? Niente affatto. A parte quanto è stato detto al punto precedente (che vuole porre
un freno ad un certo furore iconoclasta di Stacey) la soluzione consisterebbe nell’agenda
delle opportunità strategiche o delle questioni strategiche (opportunità fa pensare un po’
troppo al mercato, mentre questione ha un significato più vasto, coerente con le
aspettative semantiche di issue); l’agenda delle questioni strategiche è qualcosa di più di
un pro-memoria:
• è l’insieme delle scoperte compiute dal management durante il processo continuo di
ricognizione delle più piccole alterazioni ambientali e di funzionamento dell’impresa
e che sono passate attraverso processi di sostegno politico in modo da attirare
l’attenzione dell’organizzazione; se ciò è avvenuto ne sarà seguita anche la
sperimentazione, dal successo della quale segue il finanziamento;
• l’agenda delle questioni strategiche si rinnova di continuo, in una dinamica che è
governata dal caos, che può dar luogo ad un benefico stato apparentemente
confusionale e con la continua insorgenza di conflittualità.
Quella della creazione e gestione dell’agenda delle questioni strategiche è una delle più
discutibili (oggetto di discussione, non di perplessità preconcetta) tra le parti di cui si
compone questo libro. Il successo di un modo di gestire del genere è il frutto di una
situazione che si raggiunge quando il cambiamento culturale ha avuto luogo. Ci sono
certamente imprese che preferiranno continuare a comportarsi secondo consolidate
modalità apparentemente ragionevoli e che le hanno fatte crescere e forse potranno anche
sopravvivere, se sapranno costituire adeguate barriere soprattutto istituzionali contro i
concorrenti più vispi e senza paura.
10
L’agenda delle questioni strategiche ci introduce ad un tema che riprenderemo più avanti,
cioè quello del “narrare l’organizzazione”, come modalità per la costruzione dell’identità
istituzionale13.
h Sul potere e la politica nell’impresa Stacey si sofferma con uno spirito nuovo. Dopo aver
constatato come le organizzazioni, in quanto costruzioni degli uomini, contengono tutto
ciò che caratterizza gli aggregati umani e quindi anche la distribuzione del potere e i
conflitti che ne derivano, suggerisce di sviluppare in una prospettiva positiva il
fenomeno. L’attività politica è qui intesa come ricerca del consenso su progetti e
opportunità strategiche, ma anche come utilizzazione del dissenso quale fonte di
innovazione interna all’organizzazione.14
La teoria della complessità e del caos, da una parte indica che, anche volendo, i sistemi
sociali sono difficilmente governabili; dall’altra auspica che, nel dubbio, ci si ricordi delle
capacità di auto-regolamentazione che i sistemi complessi posseggono.
Anche in un’economia pianificata esiste un certo grado di libertà per gli attori che
operano nel mercato fortemente regolamentato; anche in una dittatura si sosterrà che non
c’è libertà senza ordine; anche in un’economia liberista lo Stato fissa comunque un
minimo di regole senza le quali un mercato libero non funziona. Quindi, su questo tema
non bisogna mai dimenticare che stiamo trattando una questione che è di intensità e di
priorità, piuttosto che di esclusiva predominanza.
i Dopo Arrow non si dovrebbe più parlare di democrazia come un tempo; dopo Gödel non
si dovrebbe più parlare di matematica come un tempo; dopo Stacey, e degli autori che
hanno e stanno investendo sulla teoria della complessità e del caos, non si dovrebbe più
parlare di strategia come un tempo.
Si può essere più o meno lontani da una nuova visione della realtà. Pascal non si riferiva
al caos citando il naso di Cleopatra, ma evidentemente dominava pienamente il concetto.
Lo stesso non può dirsi di certi autori di strategia, ancora alle prese con le innumerevoli
matrici a due dimensioni nelle quali vengono disegnati percorsi virtuosi e percorsi da
evitare, semplificando se non banalizzando l’enorme complessità della realtà. Altri autori
sono invece prossimi a Stacey, come Peters, Quinn, Senge, Mintzberg, March, Hamel e
Prahalad...Una nuova cultura si sta formando.
Il caos ci impone di attribuire importanza a tutto ciò che riguarda la nostra vita, perché tutto
ciò che facciamo nella nostra vita può dar luogo a conseguenze non immaginabili, per il bene
o per il male. Abbiamo l’obbligo di mantenere, per dovere verso noi stessi e gli altri, la
fiducia che comportamenti eccellenti, anche nelle piccole cose, determinino conseguenze
eccellenti, anche molto più grandi di quelle auspicabili. Dobbiamo credere, d’altronde, che
sciocche trascuratezze possano dar luogo a disastri: in altre parole, dobbiamo vivere la nostra
vita con grande impegno, senza rilassatezze.
Certamente il compito è grave, il nostro cervello baratterebbe volentieri il libero arbitrio
per qualche codice semplice del tollerabile e del proibito. Ricordiamoci allora di questa
versione della Preghiera della Serenità:“Mio Dio, concedici la serenità per poter accettare le
cose che non possiamo cambiare, il coraggio per cambiare le cose che possiamo cambiare, e
la saggezza per riconoscere la differenza”.
13 Cfr. B. Czarniawska, Narrating the Organization, University of Chicago, 1997 (tr. It. Narrare l’organizzazione, Comunità, 2000)
14Per una prospettiva diversa del problema, proiettata soprattutto verso l’esterno, si veda il pregevole lavoro di S. W. Signorelli, Le imprese
come attori politici, Guerini e Associati, 1990.
1
Sintesi
Distinzione tra organizzazioni oggettivamente complesse e organizzazioni soggettivamente
complesse (grandi gruppi produttivi, eserciti, coppia ...)
Il modello di Brunsson: aspettative, motivazione e impegno nelle loro reciproche relazioni.
1 Quanto segue è ispirato da due volumi di Nils Brunsson, The Irrational Organization, Wiley, 1985 e The Organization of Hypocrisy,
Wiley, 1991
2 Cfr. H. Mintzberg, Management, Mito e Realtà, Garzanti, 1991. Il saggio originale è comparso sulla Harvard Business Review, Luglio-
Agosto 1975
3 Su questi problemi, si veda: Erving Goffman, Interaction Ritual, Doubleday, 1967 (tr it. Modelli di interazione, il Mulino, 1971)
descrivere in termini canonici il processo che va dalla decisione all’azione, anche se, nella
realtà, la presa di decisione è soltanto uno dei modi per dare inizio ad un’azione.
Le tre condizioni che abbiamo descritto in precedenza (aspettative, motivazioni e
impegno) dovrebbero essere sempre tenute presenti quando si intenda dar seguito ad una
decisione trasformandola in azione.
I processi reali di decisione sono piuttosto diversi da quelli preconizzati dalla teoria della
decisione razionale, e anche diversi dai processi che portano a decisioni soddisfacenti
piuttosto che ottimali, secondo la lezione di Herbert Simon4. Infatti vengono di solito prese in
considerazione poche alternative, soltanto le conseguenze positive delle azioni, mentre gli
obiettivi non sono fissati in anticipo.
Nella ricerca delle alternative, mentre in teoria dovrebbero essere prese in considerazione
tutte o almeno quante più sia possibile, nella realtà ne vengono considerate due, qualche volta
tre. Da che cosa dipende questa riluttanza ad esplorare il mondo delle possibilità? C’è la
consapevolezza che una dovizia di alternative accresca l’incertezza e l’incertezza riduce sia la
motivazione sia l’impegno. Curiosamente, di solito, accanto all’alternativa che si è già deciso
di scegliere si colloca un’alternativa poco realistica, chiaramente inaccettabile, che viene
scartata ma che serve per rafforzare le ragioni per cui la prima è preferita.
Nell’esaminare in via preventiva le conseguenze delle azioni, ancora una volta i dettami
della teoria delle decisioni razionali (e cioè: tener conto di tutte le conseguenze possibili,
positive e negative) vengono accantonati, in quando generatori di incertezza. Scegliendo
soltanto le conseguenze positive si crea entusiasmo e impegno, rendendo possibile l’azione.
Dal punto di vista dell’azione è opportuno partire dalle conseguenze, per definire
successivamente gli obiettivi che si intendono raggiungere.
La scelta dell’alternativa, che nella teoria della decisione razionale, dovrebbe scaturire
alla fine da un procedimento molto elaborato, in mezzo a incertezze a volte paralizzanti, nella
pratica ha un significato ben più rilevante, dal punto di vista comportamentale. Se siamo
interessati all’azione, potremmo giungere alla paradossale conclusione che le decisioni
cosiddette irrazionali, in quanto non rispettose delle regole della teoria della decisione
razionale, possono essere spiegate dalle azioni razionali a cui hanno dato origine. In altre
parole si tratta di fare un uso razionale dell’irrazionalità.
Un esempio del divario tra le due razionalità, quella decisionale e quella
comportamentale, ci viene dalla pratica: spesso per gli investimenti di importanza marginale
viene utilizzato l’apparato procedurale delle decisioni razionali, ma per gli investimenti
strategici questo apparato non viene neppure preso in considerazione. In questi casi domina
l’ideologia, cioè il complesso di valori, di credenze, di paure e di speranze che dominano
coloro che debbono prendere decisioni importanti.
Ideologie che portano all’azione
Avendo definito l’ideologia come un insieme di idee, che costituiscono la struttura cognitiva
di una persona, Brunsson afferma che ci sono tre tipi di ideologie:
z le ideologie soggettive dei membri dell’organizzazione;
z le ideologie percepite, cioè quelle che ogni membro dell’organizzazione attribuisce agli
altri, avendo individuato (o creduto di individuare) quello che gli altri pensano;
4 Cfr. H. A. Simon, Administrative Behaviour, Macmillan, 1947 (tr. It. Il comportamento amministrativo, il Mulino, 1967)
z le ideologie oggettive (o sarebbe meglio dire intersoggettive), che sono comuni a tutti i
membri dell’organizzazione.
In queste definizioni e classificazioni delle ideologie ritroviamo l’eco dell’insegnamento
di Vilfredo Pareto, di Georg Simmel e, più vicino a noi, di Raymond Boudon, che sono tra gli
autori di riferimento dell’individualismo metodologico e, più in generale, della complessità.
Il vantaggio delle ideologie è che rappresentano delle risposte preconfezionate a problemi
che non possono essere risolti con i processi di soluzione razionali. E ciò vale non solo per le
organizzazioni, evidentemente. Tra l’altro rendono i processi decisionali molto celeri o
impossibili quando si contrappongono tra loro ideologie soggettive. Da qui l’importanza che
ogni organizzazione si munisca di ideologie oggettive (o, per meglio dire, intersoggettive).
Ma perché le ideologie sono così importanti? Perché per le persone e per le
organizzazioni ciò che conta non sono le scelte, ma le azioni organizzate.
Incertezza e azioni
Siccome l’incertezza può influenzare negativamente le condizioni che rendono possibile
l’azione, cioè le aspettative, le motivazioni e l’impegno, è opportuno definirla prima di
procedere.
Come il concetto di complessità può essere considerato secondo due prospettive, una
oggettiva ed una soggettiva, ed essendo l’incertezza uno dei fattori costitutivi della
complessità, possiamo partire dall’ipotesi che essa possa avere una dimensione oggettiva,
come d’altronde è prevalentemente stata considerata negli studi sulla probabilità, anche se la
sua dimensione soggettiva è innegabile, come stato psicologico.
Senza sottilizzare troppo, l’incertezza può essere definita come mancanza di
informazione, anche se il concetto di informazione non è facilmente definibile, soprattutto
quando ne consideriamo le sue forme (rappresentazione di una realtà, un cenno, un’allusione,
un’ipotesi, una congettura...). Nella realtà le decisioni vengono prese sulla base di stime e di
supposizioni, anche se le informazioni non mancano, mentre manca la fiducia nelle
informazioni disponibili: questa è la fonte primaria di incertezza.
L’incertezza può riguardare le aspettative, ovvero la struttura cognitiva di un soggetto alle
prese, quindi, col problema della loro adeguatezza rispetto alla realtà: le informazioni in suo
possesso sono sufficienti per comprenderla e per congetturarne l’evoluzione? A volte
l’incertezza è al livello massimo, quando un evento non abbia precedenti né possa essere
assimilabile ad un evento passato.
L’incertezza può riguardare gli aspetti normativi della struttura cognitiva. L’azione che si
deve intraprendere è giusta o sbagliata, quand’anche se ne conoscano le conseguenze.
L’azione, infatti, può considerarsi un mezzo per raggiungere un fine. Se il fine è buono,
qualunque azione (mezzo) può essere considerato buono?
L’incertezza può riguardare, infine, le stime sul fenomeno che giustificherebbe l’azione.
Se il fenomeno è la dimensione e l’evoluzione di un certo mercato, di una certa domanda,
possiamo fidarci delle stime che sono state formulate sul suo comportamento?
L’incertezza influenza la motivazione, perché aspettative sottoposte a molti dubbi sulle
conseguenze di un’azione non gratificano chi deve compierle e possono indurre all’inazione.
Brunsson introduce il concetto di rischio come prodotto dell’incertezza per la posta in
palio (o le possibili perdite) come conseguenza di un’azione.
Quali sono le fonti dell’incertezza? Di norma si considerano come provenienti
dall’ambiente esterno, variabili esogene nei confronti delle quali non è possibile nessuna
Responsibility Motivation
Uncertainty Expectations
Responsibility Motivation
Rationalistic
Commitment Inaction
Uncertainty Expectations
.
Sintesi
Sei gradi di separazione e “piccoli mondi”
Le reti sono dappertutto, ma bisogna scoprirle
Le reti in campo economico
La rete delle reti e il sistema delle imprese
Per meditare sulle reti...
1 Cfr. M. Buchanan, Ubiquity, 2000 (tr. It. Ubiquità, Mondadori, 2001, p. 164)
2 D.J. Watts e S. H. Strogatz, Collective Dynamics of “Small World” Networks, in «Nature», 393 (1998)
3 Ibidem, p. 165
2
Secondo il matematico ungherese Paul Erdős, collegando a caso 50 città fra di loro (per cui
occorrerebbero 1.225 strade per collegarle tutte) sono sufficienti 98 strade per collegarne la
grande maggioranza, pari all’8% di 1.225. Questo risultato può essere generalizzato dicendo
che, qualunque sia il numero dei punti da collegare fra di loro, basta un minimo di
connessioni casuali per legare la rete in un insieme quasi completamente interconnesso. Non
solo, ma a mano a mano che cresce il numero di punti da collegare fra loro diminuisce la
percentuale delle connessioni.
Siccome le relazioni fra individui non sono casuali né rigidamente ordinate, occorre
procedere nel modo seguente: distinguiamo tra legami “forti” - tra familiari, amici intimi e
colleghi che passano molto tempo insieme - e legami “deboli” - quelli di generica conoscenza
-. Mentre i legami “forti” sono essenziali per tenere insieme la rete, sono i legami “deboli” ad
essere importanti quando si tratti di “gradi di separazione”. Tra questi occorre distinguere
quelli che possono considerarsi dei “ponti sociali”, cioè quelli che permettono un rapporto
diretto con gli altri dagli altri. Il paradosso è che sono i legami “deboli” che tengono insieme
la rete sociale, e non quelli “forti”.4
È frequente che tra le persone, con le quali abbiamo un legame forte, alcune abbiano a
loro volta, tra loro, un legame forte. Ma i veri legami col mondo esterno derivano dai legami
deboli, contrassegnati dalle linee punteggiate.
4 Cfr. M. Granovetter, The strenght of weak ties, American Journal of Sociology, 78, 1973
3
Tenuto conto anche dello straordinario sviluppo delle tecnologie, il mondo può oggi
essere concepito come una immensa rete di relazioni, reali o potenziali, immediate o mediate.
Questo è un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità. Si è sempre vissuti tra eventi e
successiva narrazione degli eventi, in tempi diversi. La notizia della battaglia di Lepanto
giunse a Venezia non meno di 15 giorni dopo il 7 Ottobre 1571, data del suo svolgimento,
mentre oggi le notizie ci pervengono in tempo pressoché reale, a volte in contemporanea
assoluta con l’evento. Mentre è evidente il cambiamento tra questi due modi radicalmente
diversi di vivere il mondo, non è chiaro che cosa ciò significhi per noi, ai quali è stato
insegnata la differenza dei tempi passato, presente e futuro.
al concetto di centralità, che ha dominato le organizzazioni del sapere del passato, occorre
sostituire il concetto di acentralità;
alla gerarchia dei saperi occorre sostituire l’eliminazione di ogni rapporto gerarchico tra
un campo disciplinare e l’altro;
alla stabilità del sapere si sostituisca il sapere come imprevedibile, imprevisto, persino
ambiguo nel suo farsi continuo.
La vera base dell’organizzazione del sapere è che costituisca una rete, nella quale il
ricercatore possa individuare cammini, itinerari, percorsi che gli permettano di circolare
liberamente, senza tutele, e di “costruire” relazioni tra saperi diversi, fino ad ottenere delle
“novelties by combination”.
Un esempio di questa concezione di rete del sapere è dato dall’Enciclopedia Einaudi, il
cui grafo appare nella pagina seguente.
Tale grafo dev’essere concepito come una mappa che descrive la rete delle conoscenze
contenute nelle 556 voci dell’Enciclopedia, che sono a disposizione del lettore perché riordini
di volta in volta e a seconda delle sue necessità, le singole voci, raggruppandole in pacchetti, a
volte addirittura casualmente, fino a scoprire analogie, metafore, contrasti, attorno ad un
saggio portante.
8 Cfr. l’eccellente contributo di Gianfranco Dioguardi, curatore di una raccolta di testi sull’argomento (Sistemi di Imprese, Etaslibri, 1994)
7
informativi e di controllo come l’autonomia decisionale delle unità terminali. Sempre che
l’autonomia sia considerata, oltre che un valore in sé, anche fonte supplementare di efficienza.
Quando, come avviene e avverrà sempre più frequentemente, un cliente è autorizzato ad
entrare nella rete del fornitore per collocare il proprio ordine, per intervenire a modificarlo e a
controllarne l’attuazione, diventa difficile definire i confini dell’impresa. E il concetto di
riservatezza deve essere riveduto e aggiornato.
Oggi con quante persone, nostre contemporanee, potremmo venire in contatto?
Innumerevoli. Basta, per esempio, contare il numero degli apparecchi telefonici nel mondo.
Quella telefonica è un’immensa rete che, come sappiamo, è anche quella con la quale
possiamo inviare e ricevere suoni, immagini, testi. E si stanno moltiplicando i casi di
utilizzazione di reti che sono nate per soddisfare bisogni specifici e che diventano il tramite
per raggiungere un numero straordinariamente grande di persone, di imprese, di enti, per il
soddisfacimento di innumerevoli bisogni, diversi da quelli originari.
Dobbiamo chiederci se le reti attuali e quelle che via via si stanno formando, o che
possono essere immaginate come una conseguenza di Internet, possano essere
sostanzialmente descritte in modo non molto diverso da quelle del passato (la rete di strade
dei Romani o la rete elettrica), o se richiedano una definizione diversa e, conseguentemente,
con implicazioni non sempre immaginabili senza un investimento intellettuale adeguato.
Il vivace interesse per le reti è oggi spinto da due forze divergenti:
z la prima è quella tecnologica, perché Internet permette potenzialmente di collegare fra
loro tutti gli uomini del pianeta, con delle modalità e con una ricchezza di contenuti
relazionali che non sono comparabili con le precedenti tecnologie (poste, telegrafo, radio,
telefono…);
z la seconda riguarda i contenuti e l’inquietudine generata dalla consapevolezza che si
possa di fatto realizzare ciò che era un generico auspicio; ciò significa approfondire il
significato di informazione.
Da qui l’invito a non trascurare il problema argutamente sollevato da Umberto Eco in una
delle sue “Bustine di Minerva”9:
“una volta un tale che doveva fare una ricerca andava in biblioteca, trovava
dieci titoli sull’argomento e li leggeva; oggi schiaccia il bottone del suo
computer, riceve una bibliografia di diecimila titoli, e rinuncia…
È bello avere tanto informazione a disposizione, ma poi occorre imparare a
selezionarla, a non lasciarsene travolgere. Bisogna prima imparare a usare
l’informazione e poi a usarla con moderazione. Si tratta certamente di uno
dei problemi educativi per il secolo a venire. L’arte della decimazione
diventerà una delle branche della filosofia teoretica e morale”.
la contrazione dei tempi di realizzazione della produzione, c’è da chiedersi quali ne possano
essere le conseguenze.
Il fenomeno, se non fosse generalizzato, darebbe dei vantaggi particolari a chi potesse
ridurre i tempi di produzione rispetto a chi non potesse o non volesse farlo. Ma se fosse
generalizzato, ci troveremmo di fronte ad un nuovo tipo di società, più efficiente rispetto a
quelle precedenti, così come avviene già adesso nel mondo, dove esistono sistemi economici
“più veloci” e sistemi economici “meno veloci” o “lenti”.
L’importanza della velocità nei processi produttivi in senso lato, cioè dalla concezione
alla realizzazione, è uno dei riferimenti per la valutazione della performance aziendale. Si
pensi all’imperativo della riduzione del “time to market”.
Tutte le discipline manageriali sono dominate dalla concezione secondo la quale la
produzione avviene nel tempo. La produzione istantanea non viene presa in considerazione,
anche se nei servizi, si dice, la produzione è in genere contemporanea al suo consumo.
Se nelle attività soprattutto terziarie si ha contemporaneamente sia la produzione del
servizio sia il suo consumo, questa produzione e questo consumo presuppongono in genere
degli investimenti (e quindi tempi) per creare i presupposti della produzione e del consumo
sincroni. Anche se questo tema non è stato adeguatamente esplorato, il consumatore di certi
servizi è tale solo ed in quando nel tempo abbia acquisito la capacità di consumare quel
servizio.
Da questo punto di vista possiamo dire che il consumo di servizi di Internet, che può
essere istantaneo, presuppone investimenti per la formazione del consumatore che non sempre
sono presi in considerazione. Si potrebbe aggiungere che questo costituisce il costo maggiore
per la fruizione del servizio, nonostante che nessuno possa negare che la velocità di
trasmissione di una e-mail sia enormemente inferiore di norma alla velocità di trasmissione,
per esempio, di una lettera spedita ingenuamente per Posta.
Anche in questo caso possiamo trovarci di fronte ad un fenomeno che è stato oggetto
della riflessione di Fred Hirsch nel suo classico e, in fondo, poco noto “Social limits to
growth”10, nel quale sono poste in luce le conseguenze del differenziato cambiamento a cui
sono soggette nel tempo le componenti di un sistema. Esempi innumerevoli e spesso
drammatici sono a nostra disposizione per dimostrare le intuizioni di Hirsch: si pensi ad un
fenomeno che condiziona enormemente la nostra vita, il fenomeno del traffico nelle grandi
città (e non solo), che deriva dalla banale asimmetria tra la crescita enorme del numero di
veicoli in circolazione, senza una correlativa crescita dello spazio che dovrebbe accoglierli,
nonostante la costruzione di milioni di chilometri di strade, di box e di parcheggi in tutto il
mondo, che hanno cambiato radicalmente il paesaggio dei paesi più ricchi. All’origine di tutto
c’è comunque l’aumento della popolazione, ma soprattutto l’aumento del reddito, che ha reso
popolare un oggetto considerato di lusso non più di cinquant’anni fa.11
Ma questo approccio per sistemi vale a fortiori per l’informazione. Nel momento in cui su
Internet si può trovare potenzialmente “tutto”, il problema diventa quello delle nostre capacità
di immagazzinare informazioni nella nostra mente, o meglio, quello di saturare l’attenzione
della nostra mente, una questione di capacità ricettive (cultura, intelligenza, interesse) e di
tempo. Da qui l’imperativo dagli esiti incerti che consiste nel richiamare l’attenzione: questa
10 Traduzione italia: I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, 1981. L’edizione americana è del 1976
11 Che lo scopo delle scienze sociali sia proprio quello di cercare di spiegare gli effetti non voluti delle azioni umane intese a risolvere
problemi, come sostiene Dario Antiseri nel suo “Trattato di metodologia delle scienze sociali”, Utet, 1996?
9
espressione significa che la competizione per catturare l’attenzione è alla base dell’attuale
modo di concepire la funzione del marketing.
Qual è il significato strategico di Internet per imprese? Abbiamo cinque casi che sono
stati illustrati da The Economist nel 2001. Si tratta di:
- General Electric (While Welch waited, 17 Maggio 2001)
- Seven-Eleven (Over the counter e-commerce, 24 Maggio 2001)
- Siemens (Electronic glue, 31 Maggio 2001)
- Merrill Lynch (A reluctant success, 7 Giugno 2001)
- Cemex (The Cemex way, 14 Giugno 2001).
Essi sono interessanti perché, pur così diversi fra loro, hanno al loro centro il rapporto
dell’azienda con la rete delle reti, che si rivela essere un modus vivendi più che una
tecnologia, o peggio, uno strumento. D’altronde è curioso constatare come, di fatto, Internet
possa essere considerata, non infrequentemente, come uno strumento che può accrescere, ma
non necessariamente, l’efficienza del lavoro d’ufficio, ma non molto di più, e per giunta senza
garanzie…Non sarebbe la prima volta che, in presenza di uno stesso fenomeno, si formino
livelli diversi di attenzione, in funzione delle capacità, sensibilità, comprensione di chi lo
osserva
La General Electric, uno dei giganti dell’economia mondiale, è giunta a considerare
Internet come strategica in ritardo rispetto all’esplosione del fenomeno, inizialmente
considerato una moda senza prospettive serie.
La divisione informatica della GE, la GEIS, nel 1997 era la sola azienda che praticasse il
B2B con una tecnologia pre-internet. Infatti il B2B di allora si fondava sull’EDI (Electronic
Data Interchange), una tecnologia non interattiva, asincrona che non innova radicalmente il
modo di operare tra aziende fornitrici e aziende clienti.
La GEIS era dominata da una cultura del mainframe, difficile da scalfire, oltre che dal più
concreto timore di cannibalizzare il proprio core business dell’EDI. E questa posizione rimase
tale fino alla fine del 1999, quando Welsh, CEO della GE, assistette accidentalmente allo
shopping-on-line dei suoi familiari durante il periodo natalizio!
E nonostante che l’e-business fosse diventato, da quel momento, la priorità n° 1, 2, 3 e 4
di tutte le divisioni della GE, il cambiamento si è diffuso in modo difforme. Per cui nel
gruppo ci sono aziende per le quali il B2B è partito prima ancora che diventasse un
imperativo per tutti, altre si stanno faticosamente avvicinando a questo modo di operare, anzi,
di essere.
La GEIS è stata opportunamente divisa in due parti: una, la GE Systems Services per
gestire il business tradizionale (decisione tranquillizzante per la maggior parte dei suoi
addetti) come EDI network provider; la seconda, la GXS (GE Global eXchange Services), che
è diventata rapidamente la prima azienda mondiale nel B2B.
Il caso della Seven-Eleven riguarda specificamente un’azienda commerciale di grande
distribuzione, la prima in Giappone, in quanto di recente ha strappato il primato del settore
alla Daiei. Si tratta di un’azienda nata nel 1973 e che ha spesso precorso i tempi rispetto agli
altri concorrenti, per la sua notevole propensione ad avvalersi della tecnologia, utilizzata
comunque in maniera possibilmente esclusiva.
Questa cultura dell’esclusività si è espressa in maniera particolarmente forte nel 1995,
quando l’azienda decise di dotarsi di un sistema informativo con le seguenti caratteristiche:
10
c multimediale e facile da usare (il personale lavora spesso con un rapporto part-time, ed ha
scarse competenze informatiche);
d facile da riparare, in modo che la tecnologia non sia la causa di interruzioni nel fluire
delle attività;
e utilizzabile per trasformare la catena delle forniture in una rete vera e propria, con un
unico software esclusivo;
f capace di durare 15 anni.
Per quanto quest’ultima condizione possa apparire bizzarra anche nel 1995, è
l’espressione di un conservatorismo illuminato, che ha fatto la fortuna della Seven-Eleven, ma
che oggi è evidentemente in discussione.
La diffusione di Internet mette a dura prova il concetto di “proprietary network”, ma nel
caso giapponese i legami tra clienti e fornitori sono già tradizionalmente talmente forti,
rispetto alle analoghe prassi degli altri paesi sviluppati, che le nuove tecnologie non
rivoluzionano questi legami.
D’altronde Internet è una realtà che non si può ignorare e la Seven-Eleven segue con
attenzione l’uso che ne fa, per esempio, la Wal-Mart per le sue strategie globali di
procurement.
Venendo al caso Siemens, pare che l’azienda abbia fama di “non sapere quanto sa”, a
causa delle sue dimensioni enormi e della sua cultura piuttosto riluttante a mettere in comune
le conoscenze. Ma con Internet tutto sta cambiando. Il Gruppo sta spendendo 1 miliardo di
euro per trasformarsi in una e-company, cioè in un’azienda che “sa che cosa sa”, attraverso un
“knowledge management” che cancelli le ormai note inefficienze delle conglomerate, che
hanno perso per strada le sinergie che sembravano giustificare la loro esistenza negli anni ’60
del secolo scorso.
I problemi che un Gruppo come Siemens, che ha quasi 500 mila dipendenti sparsi in 190
paesi del mondo e che si articola in almeno una dozzina di business units, stanno diventando
comuni a molte grandi imprese nell’era di Internet:
z come far lavorare le persone in piccoli gruppi;
z come sfruttare le opportunità della rete per far salire “dal basso” un flusso di idee di cui si
è sempre ignorata l’esistenza;
z come cambiare radicalmente la struttura retributiva dei responsabili dei centri di costo e
di profitto, variabilizzando gran parte del loro stipendio;
z come far capire che l’ICT è un modo nuovo di lavorare, non solo come uno strumento per
migliorare l’efficienza senza ristrutturare profondamente l’approccio al lavoro.
La nuova impostazione della strategia di Siemens, che cambierà il gruppo negli anni a
venire, si articola in quattro punti:
1. knowledge management, cioè l’integrazione del saper fare aziendale perché sia
disponibile per tutti;
2. approvvigionamenti on-line, che dovevano essere tali per il 50% entro il 2003, per lo
sfruttamento delle economie di scala;
3. rapporti con i clienti, in gran parte altre aziende piuttosto che consumatori finali; le
vendite saranno tutte on-line entro il 2005;
11
4. cambiamento radicale della “catena del valore”, con una riduzione drastica dei costi
amministrativi e l’integrazione dei sistemi informativi, oggi numerosi e autonomi per un
malinteso decentramento informatico, consolidato negli anni.
Il caso di Merrill Lynch è quello di una grande organizzazione finanziaria che vede
Internet come un pericolo mortale e che trasforma tale pericolo in un’opportunità.
Fino alla prima metà degli anni ’90, Merrill Lynch era il maggior broker finanziario del
mondo e, soprattutto negli Stati Uniti, il suo predominio era fuori discussione. Con l’avvento
di Internet, l’esplosiva diffusione dell’intermediazione finanziaria on-line, veloce e poco
costosa per gli investitori, aveva determinato una grave crisi quasi mortale per i brokers
tradizionali e per Merrill Lynch in particolare, tanto che alla fine del 1998 la sua
capitalizzazione di borsa veniva raggiunta e superata da quella di una nuova venuta,
l’intermediaria finanziaria di Charles Schwab.
La palla al piede di Merrill Lynch era costituita, apparentemente, dal suo precedente
punto di forza, cioè dal suo esercito degli oltre 17 mila consulenti finanziari, destinati a
sparire in un mondo senza intermediari.
Ciò in realtà non è avvenuto, perché Merrill Lynch si è rapidamente convertita ad
Internet, ma ha mantenuto i suoi legami con i clienti attraverso il rapporto personalizzato che i
consulenti finanziari possono garantire. Le due reti, quella umana e quella virtuale, invece di
essere considerate alternative, si sono rivelate integrate e sinergiche.
Con l’avvento del trading-on-line, si è scoperto che la fidelizzazione del cliente è labile se
non viene cementata dal rapporto personale. Nessuna sorpresa: Internet distrugge certi tipi di
intermediazione e ne valorizza altri. Non opera a senso unico.
Il caso della Cemex è particolarmente interessante perché riguarda un’azienda che
presenta le caratteristiche apparentemente meno compatibili con l’idea di Internet. Si tratta
infatti di un’azienda messicana che opera nel settore del cemento ed è più profittevole dei suoi
due concorrenti mondiali, la francese Lafarge e la svizzera Holcim.
Da dove nasce l’anomalia di Cemex? Fondamentalmente dalla volontà di Lorenzo
Zambrano, nipote del fondatore di Cemex, asceso al vertice nel 1985 e grande fautore di
un’informatizzazione spinta di tutte le attività aziendali. In Cemex si è sempre stati i primi ad
utilizzare gli applicativi che favoriscono l’integrazione fra le funzioni aziendali, come Lotus
Notes e la posta elettronica, presenti in azienda fin dall’inizio degli anni ’90. Tanto che
l’azienda non ha dovuto rivedere la propria cultura con l’avvento di Internet.
Ogni dipendente di Cemex ha in dotazione un computer che può usare in famiglia,
collegato ad Internet, un indice della visione di Zambrano, che può suscitare qualche critica se
si distingue lavoro e vita privata in due ambiti astrattamente separati.
La cultura informatica di Cemex è tale che le sue acquisizioni di aziende all’estero si sono
risolte, da questo punto di vista, in una rapida integrazione di esse nella rete ormai globale. È
stata inoltre costituita un’azienda di software, la Cemtec, nella quale sono state concentrate
tutte le attività di ICT dell’azienda, che pertanto svolge servizi per il gruppo e offre
consulenza per il mercato.
Questi esempi suggeriscono un riesame dei modelli di riferimento delle discipline
manageriali, dalla produzione al marketing, dalla logistica alla strategia, che sono nate e si
sono consolidate in epoche precedenti quella di Internet.
I modelli di Harvard degli anni ’50 si sono evoluti nel tempo, fino alla prima metà degli anni
’80, incorporando via via le modificazioni provenienti dall’ambiente esterno rilevante per le
12
imprese. Per quanto, troppo spesso, si sia parlato di “rivoluzioni”, quelle modificazioni hanno
rappresentato dei miglioramenti, in qualche caso degli approfondimenti, in altri dei tardivi
riconoscimenti di realtà che erano sotto gli occhi di tutti.
Possiamo legittimamente chiederci se Internet rappresenti una realtà importante, ma che non
crea una discontinuità, oppure se rappresenti un fenomeno radicalmente diverso rispetto al
passato, tale da giustificare un ripensamento profondo del modo di intendere la gestione
aziendale, sia delle imprese della “new economy” come di quelle della “old economy”. La
seconda ipotesi sembra la più realistica.
12 Si veda K. Kelly, New Rules for the New Economy, 1998 (tr. It. Nuove regole per un nuovo mondo, Ponte delle Grazie, 1999
2
1 J. D. Barrow, The World within the World, Oxford University Press, 1988 [trad. It. Il mondo dentro il mondo, Adelphi, 1992, p. 91]
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
3
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
4
dove gli aspetti della discontinuità, della non-linearità, della contraddizione, della
molteplicità, dell’incertezza sono certamente più frequenti del loro contrario.
Nel frattempo sono cambiati i criteri per mezzo dei quali definiamo “vero” un certo
enunciato che si appoggi sulla ricerca scientifica.
Nonostante gli straordinari risultati conseguiti dalla scienza e che nessuno mette in
discussione, si è oggi molto meno convinti di ieri del ruolo della scienza come “fabbrica della
verità”. Secondo Karl Popper il criterio tradizionale di convalida di una teoria – cioè la sua
verificabilità - non garantisce la validità della teoria o, più semplicemente, il suo contenuto di
verità. Anzi, si può ritenere che Popper non ambisca neppure più al raggiungimento della
verità, come la vetta di una montagna che bisogna scalare e che, raggiunta, ci garantisce sul
valore eterno di quanto abbiamo scoperto. La scienza ci offre delle verità provvisorie, non
delle verità eterne.
Il criterio di demarcazione proposto da Popper è il principio di falsificabilità, secondo il
quale una teoria veramente empirica e quindi scientifica, è quella che può essere smentita in
via di principio.3
Come vedremo, e come già dovremmo sapere, il criterio di verità non sembra così
rilevante nelle discipline manageriali, come in generale in quelle comportamentali, perché
esse aspirano ad avere contenuti prescrittivi che portano al successo di coloro che li seguono,
piuttosto che essere leggi scientifiche inconfutabili in quanto vere.
3 Si veda K. Popper, The Logic of Scientific Discovery, 1934 (tr. It., Logica della scoperta scientifica, Einaudi, 1970)
4 Si veda la traduzione italiana di General System Theory, pubblicata da ILI nel 1971 col titolo Teoria generale dei sistemi.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
5
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
6
7 Una rassegna divulgativa su questi problemi si trova in: M. Piattelli Palmarini, L’illusione di sapere, Mondadori, 1993. Testi più
impegnativi sono quelli di A. Tversky e D. Kahneman, quest’ultimo premio Nobel dell’economia.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
7
L’approccio metodologico
Tra le due alternative di ricerca nel campo delle scienze sociali, e cioè il collettivismo
metodologico e l’individualismo metodologico, la complessità privilegia il secondo.
Il collettivismo metodologico, nella sua forma più radicale, considera l’autonoma
esistenza e comprensibilità degli insiemi sociali rispetto agli individui che li compongono.
Questo approccio è implicito anche nella vita di tutti i giorni, quando si generalizza senza
fondamento e si ipostatizzano i concetti, cioè si dà sostanza a parole, termini in genere
collettivi o del tutto astratti. L’aspirazione della scienza tradizionale e, curiosamente, delle
persone comuni, è di descrivere e spiegare in termini generali i comportamenti umani: la
scienza attraverso il metodo scientifico, le persone comuni attraverso i valori e gli “a priori”
che compongono il loro sistema di preferenze e le loro conoscenze, vere o presunte che siano.
L’individualismo metodologico sostiene la prevalenza esplicativa degli individui rispetto
agli insiemi di cui fanno parte. Questo approccio è sostenuto dalla scuola marginalista
austriace e da altri eminenti filosofi e scienziati sociali, come Karl Popper, von Hayek, Max
Weber, Georg Simmel, Raymond Boudon.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
8
Le buone ragioni sono assimilabili alla razionalità, che si rivela per l’efficacia dei mezzi
prescelti in vista di un fine. Questa è una delle definizioni possibili di razionalità.
C’è una razionalità oggettiva, quella degli economisti neo-classici, secondo i quali l’attore
razionale utilizza i mezzi migliori in funzione delle conoscenze del momento e della
situazione. In questa prospettiva ci si può spingere anche oltre, perché tale visione della
razionalità porta all’ottimizzazione.
Questa visione della razionalità domina di fatto le discipline manageriali, nonostante i
contributi di Herbert A. Simon sulla razionalità limitata, e quindi possiamo affermare che esse
sono in gran parte rimaste a Frederick W. Taylor per il quale, col suo scientific management,
esiste sempre un modo ottimale di fare le cose, senza sprechi e perdite di tempo. In fondo,
“Alla ricerca dell’eccellenza”, di Tom Peters e Robert H. Waterman, aspira a mostrare esempi
di comportamenti aziendali che dovrebbero permettere a “tutte le aziende” di ottenere gli
stessi risultati. E anche il “benchmarking” e la ricerca delle “best practices” possono
considerarsi espressioni tardive di quella aspirazione ad una razionalità oggettiva.
Ma per non escludere una gran parte dei comportamenti umani dalla categoria della
razionalità, bisogna introdurne almeno altri due tipi, come la razionalità assiologica, fondata
sui valori e quella psicologica o situazionale.
La razionalità assiologica, già proposta da Max Weber, trova la sua ragion d’essere
nell’applicazione, da parte dell’attore, di una teoria normativa ovvero di uno o più valori
morali.
La razionalità psicologica o situazionale è invece frutto di emozioni o passioni, anche
momentanee, che giustificano comportamenti che altrimenti potrebbero rientrare nella vasta
categoria dei comportamenti irrazionali.
11 Fred Hirsch, Social limits to growth, TCF, 1976 (tr. It. I limiti sociali dello sviluppo, Bompiani, 1981) p. 9
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
9
12 Attingo da un mio Liuc Paper, n. 136, Novembre 2003 (L’approccio complesso all’economia digitale)
13 Lo spunto per questo elenco, ma non i commenti, viene dal libro di Alberto Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli, Bollati Boringhieri, 1999
14 Il libro, da me curato, è uscito nel 2000 per l’editore Guerini & Associati.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
10
concettualmente a Laplace. E tutto ciò che è fuori da quegli schemi è considerato confuso,
caotico e bisognoso di essere messo in ordine. E per limitare confusione e caos ci si è
equipaggiati con strumenti di controllo che non guardano troppo per il sottile e possono,
quindi, confondere spesso disordine e creatività.
Presenza di feedback negativi e feedbacks positivi. Le relazioni fra gli elementi formano
spesso dei cicli di feedback, in cui il risultato di un processo ritorna a influenzare il processo
stesso. I feedback negativi stabilizzano le relazioni, i feedback positivi le destabilizzano. Da
qui il paradosso secondo cui, in certe circostanze, sono le soluzioni che costituiscono il
problema. Nel feedback positivo lo accentuano. E non è questione di buone o cattive
intenzioni, ma di conoscenza del contenuto di complessità presente nel sistema.
Ha una struttura a rete. I processi formano una rete interconnessa di relazioni (non lineari).
Questa è una delle proprietà fondamentali e di maggiore importanza dei sistemi complessi.
Anche questa caratteristica non è affatto congenita con il sistema complesso. La rete può
essere certamente visibile, per esempio per la presenza di un’intranet o di un’extranet, ma può
essere visibile a chi la sa vedere o la vuole vedere per costituirla o rafforzarla.
È un sistema aperto. Il sistema complesso scambia cioè informazioni, materiali o energia con
l’ambiente circostante. Questa descrizione è valida sempre, ma nella sua stringatezza non
coglie l’inquietante constatazione che i sistemi possano essere concepiti come momentanei
consolidamenti di flussi, piuttosto che come entità con un’identità ben definita e
un’autonomia esistenziale che sembra voler negare l’evidenza del “tutto scorre”…
È universale. Il fenomeno della complessità non è legato a una scala di grandezza. Troviamo
sistemi complessi sia a livello molecolare sia a livello planetario. Ancora una volta la nostra
mente, che è pigra e tende a semplificare, riesce ad avvicinarsi alla realtà solo e in quanto
intraveda sistemi complessi che si trasformerebbero in cose spiegabili se si lasciasse fare alla
pigrizia e a sua figlia, la banalizzazione.
È dinamico. Un sistema complesso è tutto fuorché statico e immobile; reagisce agli stimoli
ambientali e può evolvere, spesso adattandosi all’ambiente. L’equilibrio statico è veramente la
negazione d’una visione realistica del mondo. C’è da chiedersi se coloro che esaltano
l’equilibrio non siano i generatori di complicazioni piuttosto che di complessità. Ma questa
potrebbe sembrare una cattiveria all’indirizzo di persone (spesso) benintenzionate.
È robusto. Sopporta cioè con estrema flessibilità disturbi esterni, senza crollare. Questa
proprietà deriva spesso da una marcata ridondanza dei suoi elementi. Questa caratteristica
richiede un supplemento di spiegazione, perché è un po’ equivoca. Qualcuno potrebbe
pensare che sia tipica dei sistemi complessi, mentre invece è una caratteristica della realtà
entro la quale operano i sistemi complessi. La ridondanza, che mette in ombra
l’ottimizzazione con le sue espressioni matematiche, apparenti crismi di scientificità, è la
condizione di sopravvivenza di un sistema che, inevitabilmente, commetterà errori e che potrà
trarre vantaggio da essi solo se le riserve (la ridondanza) gli permetteranno di trarre vantaggio
dall’errore. Questo è uno dei sensi in cui si può parlare, per esempio, di learning
organization.
È creativo e innovativo. Un sistema complesso produce continuamente novità, strutture e
funzioni non esistenti in precedenza. Sappiamo che non è con sforzi razionalmente diretti che
si diventa creativi, mentre si può diventare innovativi in campo tecnico e scientifico. Non si
tratta di smentire la consolidata e interessata ipotesi lineare che le innovazioni sono funzione
degli investimenti di R&S. Nessuno è d’altronde così ingenuo da pensare al contrario. I
ragazzi di via Palisperna, guidati da Fermi, non godevano di finanziamenti cospicui. Avevano
risorse che non si comprano sul mercato.
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
11
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità
12
©G. Scifo - Corso Gestione Sistemi Complessi – Dispensa n. 1 – Introduzione alla complessità