N. 7
COMITATO SCIENTIFICO
Alessandro Fontana (Ecole Normale en Lettres et Sciences
Humaines, Lyon, France), Yves Hersant (Ecole des Hautes
Etudes en Sciences Sociales, Paris, France), Francisco Ortega
(Università statale di Rio de Janeiro, Brasile), Marcel Rufo
(Université de Marseille, France)
FOLLIA
E CREAZIONE
Il caso clinico come esperienza letteraria
MIMESIS
Il corpo e l’anima
© 2012 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine)
Collana: Il corpo e l'anima n. 7
Isbn: 9788857513096
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INDICE
INTRODUZIONE p. 7
I. LA FIGLIA DI JOYCE p. 13
1. La danzatrice, immagini p. 13
2. La vita di Lucia p. 15
3. Lucia nell’Opera di Joyce p. 21
4. Lucia e la psicoanalisi p. 25
II. IL CASO TRA FICTION E CLINICA p. 31
Prima parte. Conversazionalismo e derivati p. 32
1. Telling e reporting p. 32
2. La lingua dell’altro p. 34
3. Un monte di Grazia p. 36
4. Il caso della pelle p. 39
Seconda parte: Le avventure dell’ekphrasis p. 40
1. Ekphrasis p. 40
2. Schismogenesi p. 43
3. Playing, l’aion p. 44
4. Costruttivismo radicale p. 45
5. L’ideologia inconscia della terapia p. 46
III. PASOLINI. PSICOTERAPIA E LETTERATURA p. 49
1. Il genere del discorso: contro l’accademia,
contro la sociologia p. 49
2. Lo stile in psicoterapia p. 50
3. Codice dei codici. p. 52
4. Introspezione vicariante, imbroglio e tradimento p. 54
5. Edipo nel discorso libero indiretto p. 56
IV. DIALOGO SULLA SCHIZOFRENIA
di Pietro Barbetta e Nadine Tabacchi p. 59
V. IL NOME p. 79
1. Nome comune p. 79
2. Nome proprio p. 81
3. La verità nel nome p. 83
4. Le sovradeterminazioni in Freud p. 83
5. Moosbrugger e famiglia, esercizio d’intertestualità p. 88
6. Mauvaise foi, l’errore diagnostico p. 90
BIBLIOGRAFIA p. 95
7
INTRODUZIONE
I.
LA FIGLIA DI JOYCE
1. La danzatrice, immagini
Una fotografia in bianco e nero. Veste un costume con pantaloni larghi ripie-
gati sul fondo, fino a metà polpaccio, piedi nudi, una blusa chiara girocollo con
una figura geometrica disegnata sul davanti: un triangolo isoscele. Il vertice
parte dal collo, arriva fino a metà blusa. In centro, alla base del triangolo, si for-
ma un secondo triangolo contiguo capovolto, che scende. La base di questo se-
condo triangolo coincide con la metà della base del triangolo maggiore. Il
triangolo capovolto è non-euclideo. Due linee curve scendono e s’incontrano
al vertice, a tre quarti di blusa. Linea di fuga: due rette parallele s’incontrano.
Sul capo un leggero cappello triangolare - con copri-orecchie, triango-
lari - dal quale spuntano capelli tagliati a mezzo collo. La posa geometri-
ca, egizia, mostra una gamba tesa ad angolo acuto col pavimento, il pie-
de piantato per terra. L’altra in avanti ad angolo con la prima, piegata al
ginocchio ad angolo retto, in modo che polpaccio e coscia si dispongano
sempre ad angolo retto. Il piede destro calca il pavimento di legno, forma
un angolo acuto col tallone. Il busto pende verso la direzione della secon-
da gamba, forma con lei un secondo angolo acuto. Spalle in linea retta ad
angolo con le perpendicolari del piano fotografico. Un braccio dritto, in
linea con le spalle, si dirige verso l’alto con l’avambraccio allo snodo del
gomito e di nuovo verso il basso con la mano allo snodo del polso. Posi-
zione opposta per l’altro braccio: angolo acuto con le spalle, in linea oriz-
zontale al piano, si piega al gomito verso l’alto e di nuovo al polso for-
mando un angolo con la mano tesa davanti a lei, come il becco di un
uccello. Il collo s’innesta sulle spalle, portando il capo all’indietro. Il
profilo, che fa scendere uno dei paraorecchie triangolari del cappellino,
mostra il marcato sopracciglio, gli occhi chiusi, il piccolo naso e la boc-
ca chiusa come gli occhi. Sotto la bocca, la linea perfetta del mento segna
la differenza con il lungo collo che s’innesta sulle spalle. Geometria ero-
14 Follia e creazione
Seconda fotografia: è vestita di una blusa che le copre una sola gamba,
oppure con un solo pantalone, l’altra è scoperta e mostra la coscia nuda.
Difficile definire la stoffa del vestito senza maniche. Lei è riversata all’in-
dietro da una parte, come a svenire. La gamba sinistra è piegata in avanti,
sul ginocchio ad angolo con la coscia, il piede nudo calca il pavimento. La
gamba nuda scende da dietro in linea retta, si piega al ginocchio, il piede
appoggia le dita, mentre il palmo è sollevato sul pavimento. Come stesse
cadendo all’indietro. Il busto piegato, in modo da mantenere un equilibrio
instabile che reagisce alla caduta. Le braccia nude disegnano due linee pa-
rallele sulla sinistra, nella direzione contraria rispetto al busto, il capo co-
perto da un cappello con lunghe frange pendenti, si muove nella direzione
opposta rispetto alle braccia. Due forze contrastanti spingono il corpo: una
verso la caduta, l’altra cerca di equilibrarsi. Una gamba spinge verso l’e-
quilibrio, l’altra cede alla caduta, quasi a inginocchiarsi, le braccia pronte
a riparare il corpo, la testa in avanti. Capo, busto, gamba e piede, da un
lato, equilibrano; braccia, gamba e piede, dall’altro, squilibrano. La dan-
zatrice si muove nello spazio e nel tempo attraverso squilibri. Immagine
dionisiaca, corpo dissociato da un cedimento che prende tutto il lato de-
stro tranne il braccio, che si sposta a supporto della parte sinistra. Massi-
mo punto di dissociazione il bacino, che sembra mostrare due parti che
vanno in direzione opposta, come due corpi indipendenti, un ossimoro.
La figlia di Joyce 15
2. La vita di Lucia
Vorrei rileggere la storia di Lucia Joyce, liberare la sua vita dalla diagnosi
di schizofrenia per restituirla, almeno fino a trent’anni, alla grande isteria che
invade e decostruisce da sé, con la sola presenza, la cura morale ancora do-
16 Follia e creazione
Di fronte alla profezie di Nora, e a quelle ben più gravi degli psichiatri,
James reagisce diversamente. Osserva la figlia come un parto letterario, si
convince che Lucia, nella vita reale, sia fonte d’ispirazione della sua fic-
tion. Non intende affidarla ai medici, intuisce che il sistema manicomiale
sarà dannoso. La sua pretesa conoscenza dei sentimenti di Lucia, i suoi
scambi affettivi, le ispirazioni letterarie che lei gli regala fanno pensare a
Joyce che Lucia sia chiaroveggente. Scrive a una conoscente:
Forse sono un idiota ma ritengo importantissimo ciò che Lucia dice quando
parla di se stessa. Le sue intuizioni sono straordinarie. Le persone che hanno
deformato la sua natura dolce e gentile, sono loro un fallimento [...] Io e mia
moglie [sic!] possiamo fare centinaia di esempi riguardanti la sua chiaroveg-
genza. (Cfr Ellmann, pag. 677)
Joyce sarà criticato, deriso, accusato post mortem di essersi opposto alle
cure per la figlia. Perlopiù si sostiene che se Joyce avesse permesso di rico-
verarla prima, la storia sarebbe andata diversamente. Chi lo sostiene mo-
stra ignoranza verso le cure psichiatriche dell’epoca, che consistevano nel
ricovero repressivo a vita, con qualche cenno ricreativo. Carol Loeb Sch-
loss (2003) biografa di Lucia, sottolinea questa deriva.
Chi frequenta Joyce si domanda come possa un intellettuale moderno,
uno scrittore importante, credere alla telepatia. La cultura laica, cui Joyce
appartiene, è sarcastica, il pamphlet di Kant contro gli Arcana Coelestia di
Swedenborg è definitivo, da là non si regredisce. Sogni di un visionario
chiariti coi sogni della metafisica è linea di demarcazione. Kant definisce
il sapere di Swedenborg paradiso dei sognatori, dove ognuno può dire e
sostenere ciò che vuole. Ma lo scrittore sa che la fiction abita nel paradiso
dei sognatori e Jimmie Joyce ne ha costruito uno enorme durante la vita, o
forse ha costruito un inferno.
Questo inferno è abitato da un elenco di metonimie: Eileen Vance, the
girl Joyce did not marry; Milly/Molly Bloom, madre/moglie/figlia; Gerty
22 Follia e creazione
1 Secondo Zack Bowen, questa parafrasi di una canzone di Samuel Lover (Dublino
1797-1868) chiama in causa l’amante di Molly Bloom, Boylan, in rapporto alla:
“Consustanzialità di sua moglie, sua figlia e tutte le tentatrici e sirene che sono
parte della sua [di Bloom] esistenza, le cui combinazioni associate verranno usa-
te pienamente da Joyce nelle questioni madre/figlia di Finnegans Wake” (Bowen,
1974, p. 86).
La figlia di Joyce 23
Anche Eileen aveva mani lunghe, sottili, fresche e bianche, perché era
una ragazza. Parevano avorio; soltanto eran morbide. Era quello il senso di
Torre eburnea, ma i protestanti non potevano capirlo e se ne facevano bef-
fe. Un giorno le era stato vicino e guardava il cortile dell’albergo. Un ca-
meriere stava issando una striscia di stamina sull’asta della bandiera e un
fox-terrier scorazzava qua e là sul prato assolato. Gli aveva messo una
mano in tasca dove c’era la sua e Stephen aveva sentito com’era fresca, sot-
tile e morbida quella mano. Eileen aveva detto che le tasche eran cose buf-
fe: e poi, tutto a un tratto, si era staccata ed era corsa ridendo giù per la cur-
va in declivio sul sentiero. I suoi capelli biondi le eran volati dietro come
oro nel sole. Torre eburnea, Casa aurea. Pensandoci si poteva comprender-
le, le cose (D. p. 64-65).
La relazione coinvolge altre ragazze che guardano: Edy una delle ami-
che di Gerty dice: “Cosa non darei per sapere a che pensi”, Cissy va chie-
dere “a zio Peppe laggiù, che ore sono alla sua patacca”, costringendo Blo-
om a “tirare fuori una mano di tasca innervosito, e mettersi a giocherellare
con la catena dell’orologio, guardando la chiesa”.
24 Follia e creazione
Issy è la figlia di HCE e ALP. Il secondo acronimo sta per Anna Livia
Plurabelle, il primo è un acronimo variabile, che definisce un’identità mo-
bile. HCE e ALP sono i genitori di Issy Earwicker, da cui deriva uno dei
possibili acronimi di HCE: Harold o Humphrey Chimpden Earwicker, so-
prannome (Earwicker) ricevuto da un Re Marinaio (Sailor King).
Finnegans Wake è un testo illeggibile, come in un sogno ogni cosa è
evanescente e si presenta costantemente in forma diversa, un’esperienza
dionisiaca. C’è una Caduta (Fall) che riceve espressioni differenti, raccon-
tata in modi diversi, perché ci sono mormorii, voci, rumori poco chiari in-
torno alla Caduta. Ci sarebbe anche una lettera, che non si sa dove sia o se
qualcuno la possieda, dettata da ALP, la moglie di HCE, al figlio Shem, lo
scrivano, e portata a destinazione dal figlio Shaun, il postino, con una rive-
lazione: Issy avrebbe consumato a Phoenix Park (Dublino) un rapporto in-
cestuoso voyeuristico con il padre HCE, davanti a testimoni che in parte ri-
vestono l’apparenza dei figli. I mormorii mutano continuamente e tutta
l’opera è concepita come vita notturna onirica familiare.
Issy, Milly, Gerty, Eileen sono metonimie di Lucia. Il lettore non pensi
che questo è il riassunto del testo, Finnegans Wake è illeggibile, gli studio-
si di Joyce, dopo anni di consultazioni e di approfondimenti, hanno cerca-
to di ricostruire episodi che abbiano una trama narrativa, così come la in-
tendiamo in generale. Finnegans Wake è un capolavoro del delirio onirico
notturno, descrive la vita dall’interno dell’inconscio, come nessun psicoa-
nalista ha mai tentato. Maestro di psicoanalisi familiare, Joyce legge i pro-
cessi affettivi che si muovono dentro il disordine delle relazioni intime. Il
La figlia di Joyce 25
delirio che appartiene alla sua Opera è anche un piano d’intesa affettiva
con Lucia. Ma Lucia non delira, è una veggente.
4. Lucia e la psicoanalisi
2 C’è stata una prima versione di questo testo decisamente schierata in senso sinto-
matologico e decisamente negativa, però sembra scomparsa.
La figlia di Joyce 27
danza, amici di famiglia, Beckett, fratello. Per dirla con Kernberg (1985), i
suoi disordini appartengono al dominio dell’impulsività istrionica.
Con Lucia Joyce Jung rimane influenzato da ideologie diagnostiche in-
capaci di fare una diagnosi differenziale, incapaci di pensare al delirio
come a un disordine della sensibilità e riflessività del soggetto, incapaci di
immaginare una terapia. Ciò appare strano, già nel 1919 Jung sostiene che
le ingravescenze schizofreniche sono spesso la conseguenza di un cattivo
trattamento manicomiale. In fondo Jung è stato tra i primi a prendere posi-
zioni antioppressive in psichiatria e tra i primi a pensare a un trattamento
psicoterapeutico per la schizofrenia. Di fronte al caso Lucia Joyce sembra
vivere un’esperienza che lo porta a considerare l’Opera di Joyce e la rela-
zione padre/figlia come due facce della stessa medaglia. L’uno sopravvive
alla corrente, anzi la trasforma, l’altra ne soccombe. Jung riguardo a Ulis-
se scrive: “Non mi passerebbe mai per la mente di considerare l’Ulisse
come un prodotto schizofrenico”, tuttavia: “Lo schizofrenico possiede la
stessa tendenza ad alienarsi dalla realtà o, viceversa, ad alienare da sé la re-
altà” (Jung, 1932/1999). Lo sforzo a non usare le categorie psichiatriche è
vanificato dalla deviazione professionale.
Che significa la presa di posizione antipsichiatrica di Joyce? Fino a che
punto Joyce avrebbe potuto credere a Myers? Che cosa intende quando
dice che Lucia è chiaroveggente? Perché, nonostante l’irritazione verso
Jung, spinge Lucia a entrare in terapia con lui?
Mentre tutte le precedenti consultazioni psichiatriche, una ventina, erano
pilotate dal fratello Giorgio, a volte con l’inganno, James, su consiglio di una
conoscente, decide di chiedere la consultazione con Jung, ma gli restituisce
tutta l’ambivalenza che aveva ricevuto in forma di critica letteraria. Jung non
aveva ancora scritto il saggio sulla sincronicità3. Però già negli anni Trenta
aveva conosciuto Pauli e con lui aveva a lungo trattato l’argomento, perciò
ne era avvezzo, a differenza di altri psicoanalisti influenzati dai pregiudizi
del razionalismo scientifico dell’epoca, increduli e freddi verso i discorsi sul-
la telepatia. Jung avrebbe potuto ascoltare la voce di Lucia e stabilire un rap-
porto di traslazione adeguato. Joyce pensava, con ragione, che Jung, fosse
l’unico che avrebbe potuto ascoltare e curare la figlia. Le modalità sono le
classiche dell’epoca: il padre che va dallo psichiatra, due uomini, per consul-
tarsi a proposito della figlia. Come con la Dora di Freud.
3 Il saggio sulla sincronicità fu pubblicato nel 1952 insieme a un saggio del fisico
Pauli, che era stato in analisi da Jung. Pauli, nel suo testo parla di come i suoi so-
gni avessero un’influenza decisiva sulla sua esperienza scientifica, ciò che intuiva
nel sogno veniva formalizzato nella vaglia da equazioni differenziali.
28 Follia e creazione
Joyce: Dottor Jung, so che Lei è l’unico medico che può aiutare mia figlia,
comprendere le sue inquietudini. Come penso Le abbiano riferito, io non ho af-
fatto apprezzato il Suo giudizio sul mio lavoro, ma credo che su ciò si possa
passare oltre, considerando che la letteratura non è certo il Suo campo di studi.
Ho saputo che Lei tiene in grande considerazione fenomeni che l’attuale psi-
cologia deride, come la chiaroveggenza, io so che mia figlia è una chiaroveg-
gente.
Jung: Esimio Maestro, ho la massima considerazione della Sua Opera, ci
sono stati malintesi e anch’io, a una prima lettura, sono caduto in alcuni gravi
errori di valutazione, le assicuro però che l’ultima stesura è assai diversa, che
invece per me Lei è un maestro anche per la mia professione, la psicologia ana-
litica. Personalmente non credo a una forma naturale di telepatia. Si tratta piut-
tosto di andare incontro alla telepatia. Il veggente ha qualità particolari, che gli
permettono di cogliere, immediatamente e meglio di qualunque psicologo, gli
archetipi inconsci, ed è attraverso questi meccanismi profondi che si produco-
no fenomeni strabilianti.
Joyce: Lasciamo perdere la recensione. Le Sue ultime parole invece mi con-
fortano, Lei crede, come me, che Lucia sia chiaroveggente, se non ho compre-
so male.
Jung: Non ho detto ciò, quel che ho affermato è che sono convinto che il fe-
nomeno della telepatia, così come lo ha studiato uno psicologo inglese il seco-
lo scorso, è da prendere seriamente in considerazione. Quanto a Sua figlia, si
tratta di incontrarla e di ascoltarla. Le dico francamente che potrebbe trattarsi
di un fenomeno di plagio oppure, come hanno asserito gli eminenti colleghi che
mi hanno preceduto, di una forma schizofrenica, come direbbe il mio Maestro
Eugen Bleuler.
Joyce: Cosa intende per plagio?
Jung: Beh, sarebbe il male minore. Potrebbe avere a che fare con la Sua
grandiosa Opera letteraria...
Joyce: Certamente mia figlia, come mia moglie Nora, è stata una grande
fonte ispiratrice della mia opera, ma questo non ha niente a che fare con la sua
chiaroveggenza, che c’entra? In che modo potrei averla plagiata?
Jung; Sua figlia legge la Sua opera?
Joyce: Sta leggendo parti dell’Work in Progress che sto scrivendo, si tratta di
un testo molto complesso, tanto da far considerare l’Ulisse un Bildungsroman...
Jung: Lei parla tedesco, magari meglio del mio inglese!
Joyce (cambia lingua): Abbiamo vissuto a Zurigo durante la guerra.
Jung: Si sente dall’accento che abbiamo in comune, dunque anche Lucia?
Joyce: Certo meglio di me, aveva sette anni quando ci trasferimmo.
Jung: Questo faciliterà enormemente il mio lavoro! Lucia è qui con Lei? La
facciamo entrare?
Per Jung, Joyce e la figlia erano come sulla riva di un fiume, lei ci era
caduta, lui vi si era immerso.
Vent’anni dopo Jung esplicita la sua convinzione, la stessa che aveva
avuto nella prima recensione dell’Ulisse. Come potremmo dire? Arte dege-
nerata. Jung cade nella trappola psichiatrica, giudica Lucia in base al giu-
dizio, distorto e incompetente, della lettura dell’Ulisse. Questa la recensio-
ne vera, la prima, che non abbiamo perché andata distrutta, non quella
pubblicata, che si trova nelle Opere di Jung. Ma nell’intertestualità di Ulis-
se un monologo possiamo leggere, dietro le parole di circostanza che paio-
no mostrare apprezzamento, un’incomprensione di Joyce, tutta l’Anima
psichiatrica che aveva, almeno in questa circostanza, attanagliato Jung. La
stessa persona che aveva raccontato ben altre storie, in altre memorabili pa-
gine, intorno alla schizofrenia e alla sincronicità, era caduta dentro quadri
diagnostici desueti e impoveriti.
Sulla base di questi giudizi diventa più facile capire la ragione per cui
molti intellettuali e giornalisti anglosassoni si siano schierati così aperta-
mente contro Lucia Joyce. Più recentemente, contro la sua biografa Carol
Loeb Schloss. Forse Schloss ha esagerato nel considerare Lucia un genio
incompreso. Tuttavia, la presa di posizione verso la supposta saggezza del
fratello nel volerla internare in manicomio, l’acribia nel dare per scontata
la diagnosi, gli attacchi verso la debolezza della volontà di Lucia, le dichia-
razioni che bisognava ricoverarla prima - come se ciò fosse stato d’aiuto
per la sua salute mentale in piena epoca manicomiale - infine, il fatto che il
lascito di Joyce sia stato tenuto sotto il rigido controllo del figlio di Gior-
gio Joyce; tutto ciò desta qualche sospetto. Joyce ha scritto in inglese, ma
è irlandese, italiano, svizzero e francese. Appartiene alla vita, come pure la
relazione dello scrittore con la figlia.
31
II.
IL CASO TRA FICTION E CLINICA
1. Telling e reporting
Il telling avviene quando dico: “Ti amo”. La verità sta nella prima perso-
na. Se dico: “Ti amo”, e l’altro mi risponde “Non è vero”, rimango sconcer-
tato, mortificato. Bateson la chiama patologia dell’epistemologia. Posso
cercare di dimostrarlo con i gesti, ma ogni gesto può avere l’effetto contra-
rio. Potrei imbrogliare, non c’è corrispondenza tra linguaggio e realtà fat-
tuale. “Ti amo” non è un fatto, ma una dichiarazione che contiene gesti e
azioni per il futuro. Verità in prima e terza persona rispondono a piani con-
versazionali differenti.
La prima persona rimanda al corpo, al gesto che contiene ambiguità co-
stitutive: bacio/morso, carezza/schiaffo, abbraccio/lotta. Telling è la gran-
de ragione del corpo. La menzogna non è mancata corrispondenza tra pa-
role e cose, è mancata corrispondenza tra ciò che dico e le conseguenze. Se
la villanella è costretta a sposare il principe, pena la morte, dirà “Ti amo”.
La patologia epistemologica è evidente, lo dice per non morire.
Invece se si dice a una persona: “Paola ti ama”, reporting, la persona cui
è indirizzata la frase può metterne in questione la veridicità e rispondere
“Non ci credo”. L’interlocutore può a sua volta dire: “Chiediglielo!”, invi-
tando l’altra a sollecitare la parola presso Paola.
Durante l’azione clinica gli operatori pensano gli utenti/pazienti come
mentitori perché parlano in prima persona. La patologia è la convinzione
che la menzogna sia un tentativo di nascondere la follia. Invece la men-
zogna è dovuta al contesto: “Che sarà di me se dico che oggi ho visto di
nuovo la madonna, che ho delirato?”. L’istituzione sanitaria si costituisce
come assoggettamento. Il corpo viene costretto, per mantenere la propria
soggettivazione, per dire la verità, a trasgredire. L’idea che i pazienti
mentano quando parlano in prima persona, è patogena. Se telling è men-
zogna, le uniche dichiarazioni valide sono reporting. Solo gli operatori
sono testimoni validi. La soggettività è confiscata, il soggetto ridotto a
paziente, isolato dal mondo delle relazioni. Alcuni di loro (non siamo mai
noi) diventano corpi docili, ottengono di essere lasciati in pace, dimessi.
Ciò che nel gergo medico è definito compliance, rispondere quel che l’al-
tro vuole sentirsi dire. A questo rischio non si sottraggono le terapie col-
laborative.
Ernest Jones definì il collaborazionismo quislinguismo (Jones, 1951).
Questo neologismo si riferisce al nome del norvegese Quisling, che regalò ai
nazisti, per una sorta di lealtà mista a terrore, la Norvegia. In senso più gene-
rale il quislinguismo (o quislingismo) caratterizza le condotta di chi collabo-
ra con l’autorità per ottenere vantaggi secondari e non essere annientata. Pri-
mo Levi definisce qualcosa di simile con il termine zona grigia.
34 Follia e creazione
2. La lingua dell’altro
1 Ringrazio Marco Dotti e Marcelo Pakman per avermi mostrato il rischio della de-
clinazione di collaborazione in collaborazionismo attraverso l’idea jonesiana di
quislinguismo.
Il caso tra fiction e clinica 35
3. Un monte di Grazia
In questo racconto l’uso frequente del corsivo connota differenti piani lin-
guistici, mostra alcune forme di sottomissione alle pratiche discorsive degli
operatori sanitari (la lingua dell’altro) da parte dei pazienti. Il termine pazien-
te, più che per designare la posizione del malato nella sua definizione classi-
ca, serve a esprimere la pazienza necessaria a sottoporsi a un intervento isti-
tuzionale. Vedremo, come in un preparato a più strati, livelli linguistici che
paiono agglutinati in un insieme unico.
Il caso tra fiction e clinica 37
2 Ho presentato in maniera più ampia questo caso in un saggio che ho scritto con
Maria Nichterlein, pubblicato su Human Systems, Barbetta, Nichterlein (2010)
38 Follia e creazione
1. Ekphrasis
Las Meninas, enigma in tre movimenti. Chi guarda l’opera per la prima
volta rimane sconcertato, può formulare qualche ipotesi riguardo a cosa
Velazquez stia dipingendo. La tela nella tela è girata e occupa gran parte
della zona della tela alla nostra sinistra. Si tratta della stessa tela in via di
composizione? Come se egli fosse dinanzi a uno specchio? Proviamo a
escluderlo, anche se ancora non sappiamo il perché.
Primo movimento: il pittore guarda chi osserva la tela in questo mo-
mento, se l’osservatore si muove, il suo sguardo segue l’osservatore. Tra
noi e gli occhi mobili di Velazquez possiamo tracciare un segmento in li-
nea retta. Si muove, se noi ci muoviamo, mantiene la traiettoria, piano
d’intesa. Invero Velazquez non sta guardando noi, guarda ciò che sta di-
pingendo, per questo è arretrato dalla tela nella tela, per osservare a sua
volta, sembra, fuori dalla tela, fuori da entrambe le tele. Quella interna,
su cui dipinge, a sua volta dipinta, e quella esterna che contiene anche il
pittore. Che cosa osservi non si sa, perché ciò che sta osservando non è
42 Follia e creazione
nella tela, è dipinto o sta per esserlo nella tela nella tela, non dove noi
siamo.
Ciò che dipinge Velazquez sta nella parte della sala che la tela non mo-
stra, né mostra la tela nella tela, perché girata. Lo spazio si dissocia in tre
parti distinte. Si crea un triangolo: lo sguardo di Velazquez, il nostro e un
terzo invisibile, che non si riesce a cogliere, un’altra psiche. Potremmo an-
che dire in quattro parti distinte: le prime tre menzionate da Foucault e una
quarta parte che potrebbe essere il sembiante della parte terza, il sembian-
te di ciò che è ancora per noi invisibile.
scoperto che il soggetto del dipinto sono i regnanti di Spagna, ma non ab-
biamo mai veduto quel dipinto.
2. Schismogenesi
Ogni tavola ha una legenda, redatta da Bateson, che descrive quanto ac-
cade. La ricerca di Bali segna una svolta radicale nel pensiero di Bateson.
Non esistono solo relazioni apicali, che raggiungono un climax. A Bali Ba-
teson osserva una forma interattiva caratterizzata da un plateau continuo
d’intensità senza climax.
Il plateau, vibrazione continua, “si sostituisce al climax”. Le immagini
in sequenza mostrano interazioni del tutto diverse da quelle incontrate tra
gli Iatmul della Nuova Guinea. In Balinese Character non solo si scopre
un’interazione diversa, che l’Occidente adulto moderno non pratica, ma si
osserva un’interazione a-finalizzata, senza climax. Un rizoma. Bateson ri-
prende un tema caro a Darwin a Nietzsche: l’origine di un fenomeno bio-
logico, relazionale e sociale è eterogenea alla funzione svolta qui e ora. Ba-
teson a Bali - inizio anni Quaranta del secolo scorso - trova che le
interazioni umane possono essere a-finalizzate. Come tra gli esseri viventi,
anche le relazioni umane non hanno una finalità cosciente. L’idea della fi-
nalità cosciente, di tenere sotto controllo le relazioni affettive e sociali è
corruttiva.
3. Playing, l’aion
gli dice di non lanciare gli animali, lui prosegue, la madre mi guarda, con
un cenno suggerisco di lasciarlo fare. Lancia gli animali che stanno sopra
il contenitore, poi guarda dentro il contenitore e vede altri peluche più pic-
coli, li prende, uno a uno li lancia lontano fino a svuotare il contenitore, poi
guarda dentro. Il contenitore è vuoto. A quel punto si mette a sedere. La
madre gli dice: “Hai svuotato il contenitore, ma non hai giocato con nessu-
no degli animali, dunque?” lui fa spallucce. È chiaro che il bambino, gio-
cando, svuota il contenitore.
Il gioco, secondo me e la madre, avrebbe dovuto cominciare quando tro-
vava il peluche adatto, lui finisce quando ha svuotato il contenitore. Ha fi-
nito di giocare quando gli adulti pensavano dovesse cominciare, il suo tem-
po di giocante gli antichi lo chiamavano aion, un fanciullo che gioca. Per
l’adulto occidentale il gioco è kronos, qualcosa che comincia e finisce, fi-
nalizzato. Là c’era qualcosa da svuotare, qui qualcosa da riempire.
Il desiderio infantile è immanente, non ha bisogno di un oggetto ester-
no. Il bisogno dell’oggetto esterno è una forma di addestramento inconsa-
pevole degli adulti. Pensiamo al gioco, attività che struttura regole. Non al
gesto giocante, playing. Il giocante è sotto i nostri occhi.
In questo caso il nome del giocattolo è un rinvio indefinito, Foucault in-
vita a fare lo stesso quando chiede, dopo avere scoperto il nome proprio, di
regredire al movimento dell’osservazione. Quando osserviamo il caso,
quando abbiamo una visione - allucinazione, opera d’arte o altro – abbia-
mo sospeso il nomos, non solo il nome, ma la norma. I mistici la chiamano
estasi, lo sguardo della madre balinese.
4. Costruttivismo radicale
mentre la scultura si sta facendo. L’arte del bricoleur3 osserva il caso, una
vite per terra qui, un asse di legno là.
Il costruttivismo radicale non distingue la realtà dalla visione, è la visio-
ne che produce realtà, perciò ogni visione è allucinazione. Se si parte
dall’origine dell’occhio, quest’affermazione assume un senso. È necessa-
rio interrogarsi su che cos’era l’occhio prima di vedere, domanda darwinia-
na. Alla quale si risponde inventando il sublime. L’occhio era una piaga fo-
tosensibile e la luce indugiava sadicamente su di lei, la desiderava in modo
perverso. Il dolore insopportabile della piaga venne sublimato, visione.
Heinz von Foerster inventò il termine costruttivismo radicale (1987,
1996), dalle sue ipotesi emergono conseguenze anarchiche. L’idea del sog-
getto come macchina non banale, imprevedibile, esposta a cambiamenti ale-
atori. L’idea che non esista alcun apprendimento conseguente a una relazio-
ne educativa intenzionale. L’idea che la relazione terapeutica non ha alcuna
finalità consapevole, è una danza i cui passi si creano durante l’incontro.
III.
PASOLINI. PSICOTERAPIA E LETTERATURA
Terzo: che il medesimo Di Pascuale, cresciuto in clima positivi-
sta nel Maradagàl del Presidente Uguirre, di Carlos Venturini, di
Luis Coñara, di José Barriento e simili, ma soprattutto della Fa-
cultad Medica di Pastrufazio, e reso anche più scettico dall’eser-
cizio della professione, come si avrà occasione di leggere, cre-
deva pochissimo nella Madonna, questo purtroppo è vero, ma
meno ancora nei fantasmi.
(Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore,
in Romanzi e racconti I, p. 593)
1 Tutte le citazioni che riportano solo il nome Pasolini, sono da riferirsi al testo Em-
pirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, prefazione di Guido Fink (per il numero
di pagina: nuova edizione, 2000, terza ristampa, 2007).
50 Follia e creazione
Ciò che io sono abituato a sentire subito in un testo non è … la vicenda ro-
manzesca di un eroe, ma la qualità della pagina che la narra: la reale struttura
di un romanzo non mi pare collocarsi nel suo campo semantico […] ma nel suo
campo linguistico. Per me, se c’è omologia tra struttura sociale e struttura ro-
manzesca, tale omologia va ricercata confrontando la struttura sociale con la
struttura linguistica del romanzo, o, nella fattispecie, con la struttura (finora ho
sempre usato la parola sistema) stilistica (Pasolini, 123)
2. Lo stile in psicoterapia
Dovremmo aggiungere alla lavagna del nostro schizzo geometrico, una nuo-
va linea: una linea serpentina che, partendo dall’alto, scenda, intersecando la li-
nea media, verso il basso, e poi torni di nuovo, sempre intersecando la linea
media, verso l’alto, e poi di nuovo verso il basso, ecc. (Ivi)
2 Il termine realtà qui non ha nulla a che vedere con il Reale in Lacan. Si tratta di
due riflessioni, quella di Pasolini e quella di Lacan, profondamente diverse.
54 Follia e creazione
lazione o Linguaggio Primo, attraverso il suo codice che è dunque il Codice dei
Codici (Pasolini, p.284).
Quando Pasolini scrive, nel giugno 1965, questa recensione del sag-
gio Lo stile indiretto libero in italiano, di Giulio Herczeg, mostra una
certa insistenza sull’aspetto psicologico - linea mediana tra grammati-
ca e sociologia - per esplicitare le forme della relazione con “un’altra
psiche”:
La cosa più odiosa e intollerabile, anche nel più innocente dei borghesi, è
quella di non saper riconoscere altre esperienze vitali che la propria: e di ricon-
durre tutte le altre esperienze vitali a un’analogia sostanziale con la propria. È
una vera offesa che egli compie verso gli altri uomini in condizioni sociali e
storiche diverse (Pasolini, p. 90).
Chi trucca è già sempre fuori dal legame, chi tradisce ha lacerato un
legame che c’era. Ma lo ha lacerato per presentarne uno diverso, ha la-
cerato un legame di benessere da palestra, happy hour, ammiccamenti
televisivi. La grande letteratura è tradimento, la piccola trucco, scrivo-
no Deleuze e Parnet nel loro Dialogue. Per connotare il trucco, Pasoli-
ni usa un termine sociologico: borghese. Indica un sistema culturale a
partire da un orizzonte storico. L’autore preso dal mercato intercetta le
censure editoriali per passarla liscia. Guarda il mercato.
Pasolini. Psicoterapia e letteratura 55
Nel caso che un autore sia costretto, per rivivere i pensieri del suo
personaggio, a rivivere le sue parole, vuol dire che le parole dell’auto-
re e quelle del personaggio non sono le stesse: il personaggio vive dun-
que in un altro mondo linguistico, ossia psicologico, ossia culturale,
ossia storico. Egli appartiene a un’altra classe sociale. E l’autore dun-
que conosce il mondo di quella classe sociale solo attraverso il perso-
naggio e la sua lingua (Pasolini, p. 90).
pensa che il suo stile dipenda dalla forma. Il terapeuta mimetico corre
un altro rischio, come nella sociologia militante, si posiziona dentro
l’anima dell’altro, senza considerare la differenza, la sua empatia è in-
fallibile, e non riesce a rimanere un passo indietro. Mai innamorarsi
troppo delle proprie ipotesi.
Avevo due obiettivi nel fare il film: il primo, realizzare una sorta di autobio-
grafia assolutamente metaforica, quindi mitizzata; il secondo, affrontare tanto
il problema della psicoanalisi quanto quello del mito. Ma invece di proiettare il
mito sulla psicoanalisi, ho riproiettato la psicoanalisi sul mito. (Pasolini, Le re-
gole di un’illusione - Quaderni, 1991)
3 Richiama i ricordi della figura del padre di Pasolini (ufficiale dell’esercito) e del
rapporto stretto di Pier Paolo con la madre, con la quale si trasferirà a Roma. I due
verranno raggiunti dal padre successivamente, le ragioni del trasferimento di Pa-
solini sono state sufficientemente descritte nelle sue biografie.
Pasolini. Psicoterapia e letteratura 57
Quijote: Hai toccato l’argomento, nello stesso tempo hai definito un ter-
reno poetico nel quale entrambi ci possiamo esprimere, almeno momenta-
neamente, o forse per mantenere, durante tutto il colloquio, l’allegoria.
L’inferno e il paradiso perduto. Qual è la differenza tra queste due condi-
zioni, mi pare che alcuni di noi sperimentino soprattutto la seconda, altri
la prima, altri entrambe. Mi piacerebbe parlare di questa differenza: Dan-
te e Milton. “Pieno di dubbio sto, se pentirmi ora del peccato commesso e
occasionato, o gioire”.
Quijote: Bene, par che stiamo entrando nella carne viva della questio-
ne. La fisica accetta l’idea che teorie contrastanti spieghino fenomeni dif-
ferenti, la matematica accetta l’idea che logicisti, costruttivisti, formalisti,
intuizionisti, ecc., abbiano posizioni differenti, che approcci differenti crei-
no mondi differenti e possano concepire forme matematiche altrettanto
belle in diversi campi. Lo strutturalismo piagetiano si fonda sulla teoria
dei gruppi di trasformazione elaborata dal gruppo Bourbaki, lo struttura-
lismo deleuziano sui sistemi infinitesimali di analisi matematica, la teoria
del double bind parte dalla teoria dei tipi logici di Russell, ecc.
L’unico campo, che ha pretese scientifiche totalitarie oggi pare essere il
campo psi. Da una parte il numero degli psichiatri psicofarmacologi e psi-
cologi behaviouristi, che hanno persino ripreso a difendere una pratica di-
sumana come l’elettroshock, dall’altra quella parte degli psicoanalisti che
ancora stanno chiusi nella torre d’avorio delle sedute quattro volte la set-
timana per vent’anni, si scontrano come due eserciti identici, condividono
la medesima epistemologia del potere, Eteocle e Polinice. Devastano l’a-
nima del soggetto, mancandogli di rispetto, basti osservare come, entram-
bi - e non l’uno meno dell’altro – guardino alle patologie come piaghe da
debellare, come difetti da riparare, un antiumanesimo perverso. Il gatto in
questo caso potrebbe essere il delirio inascoltato dello schizofrenico, per
entrambi è sintomo tout court, non importa il contenuto. Il delirio per gli
uni è una ragione per somministrare neurolettici, spesso a dosaggi elevati,
per gli altri è il segno della distruzione dell’Ego. Entrambi hanno in comu-
ne una convinzione radicata: la schizofrenia è inguaribile. Bene disse una
volta Marcelo Pakman: se è inguaribile, allora, a potiori, è il caso di ri-
spettare i diritti umani di chi ce l’ha.
Dialogo sulla schizofrenia 63
(silenzio)
(silenzio)
nare nella quotidianità (o “nel mercato” come ad esempio accade nei “qua-
dri del toro”) sazi della verità. Noi occidentali abbiamo fatto macroscopi-
camente il percorso inverso. Abbiamo via via dicotomizzato la realtà e
anche il sapere tracciando biforcazioni e precise specializzazioni. A parte
l’idea hegeliana della sintesi, probabilmente abbiamo preferito un percorso
“ad albero” alla Descartes.
La scienza in generale si è dipartita dalla filosofia e la stessa cosa è valsa
per la medicina (ma non solo) che è divenuta sempre più settoriale. Forse nel
divorzio tra filosofia e scienza, tra fisica e metafisica si ritrova una necessità:
separare la ragione dall’irrazionalità. Se la “questione della demarcazione” è
di importanza vitale per distinguere la scienza dalla non-scienza, forse que-
sto problema ne pone automaticamente un altro sullo sfondo: a questi due in-
siemi (Scienza e non-scienza) corrispondono i contenuti di razionalità e non-
razionalità. Ma, se la scienza deve essere razionale contro la Filosofia
Scolastica (per Descartes) o in generale contro la metafisica, un uomo irra-
zionale può produrre scienza? Non penso, almeno non per Descartes (altri
epistemologi risolsero il problema della demarcazione in altri modi ad esem-
pio distinguendo tra significante e non-significante, ove la vera scienza era
significante e le “astruserie” della metafisica non-significanti). Ecco allora
porsi una necessaria suddivisione dell’uomo; per Aristotele l’uomo era razio-
nale per definizione, per Sant’Agostino il male e la follia sono da attribuire
al demonio, ma per Descartes il dubbio metodico è assillante. Come posso ri-
solvere il dubbio? Lo risolvo comprendendo che se dubito, penso. E se pen-
so, sono. Posto che sono debbo comprendere cosa conosco. Quel che cono-
sco per Descartes è quel che percepisco chiaramente e distintamente. Fra
queste cose evidenti v’è la res extensa e v’è Dio. Nella Quinta Meditazione
Cartesio ritiene che il concetto di Dio sia chiaro a tutti, se è chiaro a tutti è
vero. Perciò arriva a dedurre dal concetto di Dio la sua esistenza. Ma qua si
presenta la cosa che ritengo essere per noi interessante, Dio è una clausola ri-
chiesta da Descartes come fondamento della conoscenza. Dio diviene in Car-
tesio la condizione di possibilità della scienza proprio perché va a sanare il
dubbio. Ovvero con Dio posso essere certa che non mi sto ingannando, che
non c’è un demone maligno e che non sto sognando. In breve, anche il folle
mina la scienza (non è forse un essere che s’inganna?), Cartesio ha la neces-
sità di salvarla ponendo gli uomini razionali e ponendo Dio. È interessante
pensare al binomio scienza/follia sotto questo aspetto. Laddove la scienza
inizia a pretendere uno statuto per sé, il folle diviene qualcosa da recidere
dall’uomo e dalla ragione.
(silenzio)
Dialogo sulla schizofrenia 67
(silenzio)
(silenzio)
72 Follia e creazione
(silenzio)
Dialogo sulla schizofrenia 75
Sai, un protagonista sul palco di un teatro può farsi anche eroe e trasfor-
mare la tragedia in commedia. L’attore è il miglior esemplare a cui lo psi-
chiatra dovrebbe far riferimento, è infatti colui che utilizza la mimesis, fon-
damento prezioso di un certo tipo di semiotica, che è tutto per il pazzo e
nulla per il cinico che invece si ostina a guardare i pazzi senza mai vederli.
E più li guarda e più si perde.
(silenzio)
(silenzio)
(silenzio)
V.
IL NOME
1. Nome comune
2. Nome proprio
4. Le sovradeterminazioni in Freud
gory Bateson insegna che uno dei rischi maggiori per l’ecologia della men-
te è la finalità cosciente. La convinzione occidentale di poter operare sul
mondo attraverso un progetto è, sosteneva Bateson, antiecologica. La vita
è proliferazione di linee di fuga imprevedibili, di derive, si nutre della
rêverie, (termine francese intraducibile, che non indica solo sogno) ove
trovano posto le inquietudini. Brutalità, disgusto, paura, terrore non si de-
vono mostrare nella forma dell’azione Reale. L’arte, il gesto teatrale, la
musica, l’incanto poetico stanno dentro la rêverie. Gli antichi hanno mes-
so in scena ciò che è terribile. Hanno creato la possibilità dell’ironia che
non deride. Torce la legge e permette di rivelarne il lato osceno, non perché
lo agisce, ma perché ne mette in questione l’ovvietà, la banalità. Si sogna e
immagina sempre meno, ciò dovrebbe creare una certa preoccupazione. Se
non si sognerà più, dove andranno a finire le nostre inquietudini?
Nelle mia lettura, Freud è un esempio di polifonia, è responsivo nella
scrittura dei casi clinici. Ha scelto il nome di Dora, non l’ha collocato a
caso. Perché Ida Bauer è Dora? Pensiamo a come inizia la terapia: Dora
confida a Freud il suo segreto vergognoso, le molestie sessuali subite
dall’amico del padre, che risponde alla sigla signor K.; mi piace immagina-
re che Freud abbia scelto K. per definire qualcosa di opaco, di duro, per il
possibile riferimento all’erezione, pensiero suo, non di Dora. K. si introdu-
ce nella camera di Dora e, di fronte all’imbarazzo di lei, risponde che è casa
sua e che può andare dove vuole. Dora, per come apre il suo cuore a Freud,
è un dono (doron in greco).
Il nome del caso va scelto, così come si sceglie il nome di battesimo,
corrisponde a un’analogia, a un ricordo. Madalena fugge incinta, Linda ri-
mane a casa, Gracia è un monte di grazia, Julio è, come come lo scudiero
del Cavaliere inesistente di Calvino, materia (hylé in greco), se si appoggia
a un albero diventa tutt’uno con questo, nessuno si ricorda di lui, per quan-
to rumore faccia. Job, ricorda Giobbe, per nulla paziente, vittima di sopru-
si. Esprime la sua protesta con Dio, al quale rimarrà sempre fedele. Erne-
sto, il rivoluzionario bianco dell’America Latina e Maria, la madonna nera
di Chestakova, che ha guidato le rivolte in Polonia.
Il nome proprio è metafora o metonimia, condensazione o sostituzione?
Bisogna delirare un po’ per trovare il nome giusto.
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