Sei sulla pagina 1di 41

STORIA D'IMPRESA, COMPLESSITÀ E COMPARAZIONI

PARTE I: TEMI DI FONDO

1. INTRODUZIONE
Il tema di questo libro è l' analisi dello sviluppo economico moderno attraverso l' analisi di uno dei
suoi attori principali: l' impresa.
Imprenditori e manager
Sono imprenditori coloro che innovano, assumono rischi, colgono le opportunità, assumono le
decisioni ai massimi livelli aziendali.
I manager sono coloro che, portatori di competenze teoriche e esperienza pratica, hanno sviluppato un
preciso sapere funzionale. Essi godono di autonomia decisionale in un segmento significativo dell'
attività aziendale.

2. STORIA E TEORIE DELL' IMPRESA


Una "nuova" unità d'analisi
A partire dalla prima rivoluzione industriale l' impresa è stata una delle più importanti unità di analisi
per comprendere la crescita economica moderna. Il termine impresa si differenzia dal termine fabbrica
in quanto quest' ultima identifica la modalità inglese di organizzazione della produzione.
Quando la prima rivoluzione industriale ha preso avvio, alla fine del XVIII secolo, la concentrazione
di capitale e forza lavoro in un unico luogo fisico non era una novità. Infatti, nel periodo
preindustriale grandi masse di lavoratori erano già impiegate nella cantieristica, nell' industria
mineraria e in quella delle costruzioni. Ciò che si presentava come nuovo era la speciale
combinazione di un processo produttivo centralizzato con una tecnologia più efficiente.
La natura mutevole dell' impresa
L' "impresa" e le sue "interpretazioni" sono state al centro dell' interesse di numerose discipline, oltre
all' economia e agli studi di management. Sono state infatti all' origine di dibattiti in merito alla
legislazione, in particolare sul tema dell' identità giuridica dell' impresa.
Anche il ruolo degli individui è diventato un ambito di ricerca per antropologi e psicologi.
La prospettiva neoclassica
Nel pensiero economico la prospettiva originaria sull' impresa è quella proposta dalla teoria
neoclassica che considera il comportamento dell' impresa in un segmento temporale definito.
L' impresa può definirsi price-taker, con esigue possibilità di influenzare i mercati o il settore in cui
opera, e il contributo degli attori economici che agiscono all' interno dell' impresa non è rilevante.
L' impresa rappresentativa di questo modello è di dimensioni medio-piccole, e svolge un numero
limitato di funzioni.
L' impresa neoclassica operava all' interno di un sistema altamente competitivo, caratterizzato dalla
presenza di numerose unità produttive nello stesso settore. Le conoscenze tecniche e le altre
informazioni erano ipotizzate come liberamente disponibili, o ottenibili a costi minimi.
Questo tipo di impresa non è orientata alla crescita.
Oggetto di questa teoria erano quindi nel complesso la concorrenza perfetta e il monopolio, mentre la
struttura interna dell' impresa rimaneva estranea all' analisi.
Dinamica economica in prospettiva storica
In contrasto con questo tipo di impostazione teorica, la storia d'impresa ha una specifica dimensione
comparativa e dinamica: le imprese sono viste come unità complesse che evolvono nel tempo,
caratterizzate da notevoli differenze nelle loro strutture e dinamiche interne.
Le imprese che suscitano il maggiore interesse degli storici sono quelle che mostrano la tendenza alla
crescita dimensionale. La crescita non è un processo meccanico, soggetto solo ai calcoli economici.
Le imprese possono continuare a espandersi anche in presenza di una riduzione nel tasso di crescita
dei profitti. Possono anche volontariamente frenare la crescita limitando la loro dimensione per
evitare i problemi connessi con l' espansione.
Infine, va considerata la complessità relazionale: il processo di sviluppo economico dei due secoli
passati ha creato organizzazioni estremamente complesse, con significative relazioni interne ed
esterne.
1
Le imprese mostrano diversi percorsi di crescita che variano nei rispettivi contesti geografici e storici.
Data una certa tecnologia, lo sviluppo dell' impresa è spesso determinato dalle dimensioni e dal
dinamismo del mercato di consumo. Altri due elementi significativi capaci di determinare l'
espansione dell' impresa possono essere l' efficienza dei mercati finanziari nel convogliare le risorse
necessarie alla stessa, e la presenza di una cornice giuridica che faciliti l' attività economica.
L' evoluzione dell' impresa può anche essere collegata al sistema culturale e a quello istituzionale
delle diverse società. La tecnologia promuove il processo di crescita, ma i modelli culturali giocano
ancora un ruolo considerevole in questo processo.
Teoria e realtà delle grandi imprese
Molti anni fa l' economista austriaco Schumpeter ha lanciato una sfida all' approccio neoclassico. La
riflessione di Schumpeter era costruita su due assunti fondamentali. Il prmo riguarda la "propensione
competitiva" dell' impresa intesa quale motore principale della crescita economica, soprattutto grazie
all' azione dell' imprenditore. In secondo luogo egli credeva che il disequilibrio fosse più importante
dell' omogeneità fra le imprese ipotizzata dall' apparato teorico classico. Inoltre, egli sottolineò il
ruolo della grande impresa come il più potente agente del cambiamento e della crescita.
Schumpeter era interessato al ruolo innovativo dell' impresa, e al modo in cui l' innovazione veniva
realizzata sotto la guida dell' imprenditore.
La situazione cambiò dopo la II guerra mondiale, quando venne sviluppata la maggior parte delle
"nuove" teorie dell' impresa.
Un' attenzione crescente venne dedicata alla tecnologia, considerata quale motore principale del
processo di crescita. Ma le più intense spinte alla crescita derivavano dalla produzione e dalla
distribuzione di massa, affermatesi nei settori centrali della seconda rivoluzione industriale. Chandler
ha evidenziato gli effetti di questa trasformazione indotta dalla tecnologia. Egli ha analizzato le
risposte imprenditoriali al cambiamento tecnologico, dando così inizio ad un filone di studi sulla
relazione interattiva fra la strategia e la struttura di una grande impresa.
Fra i primi a orientare l' interesse degli studiosi verso la spiegazione del processo di crescita dell'
impresa moderna è stata l' economista americana Penrose secondo la quale, le imprese sono insiemi
di risorse e competenze. Il processo di crescita è spiegato dall' abilità dell' imprenditore di sfruttare al
meglio le sue capacità materiali e umane.
Fondato sia sull' idea elaborata da Schumpeter, sia sull' idea della Penrose, è il concetto di routines
introdotto da due economisti americani (Nelson e Winter).
Questi autori hanno considerato le routines come le modalità con cui le organizzazioni sono in grado
di "ricordare" il comportamento di successo per mantenere le loro posizioni di vertice. Questo spiega
la diffusa resistenza al cambiamento da parte di individui e organizzazioni.
L' accumulazione di capacità e conoscenze è quindi cruciale per spiegare il successo l' insuccesso di
un' organizzazione: la competitività dipende dall' abilità del management di comprendere e sfruttare al
meglio il volume di risorse accumulate all' interno dell' azienda.
Nei primi anni Sessanta, Marris sviluppò un' altra importante area di ricerca con la pubblicazione del
volume The Economic Theory of Managerial Capitalism. Nella sua analisi la crescita dell' impresa è
attribuita all' interesse personale del management.
Le loro scelte arrivano però a scontrarsi con gli interessi degli azionisti, più sensibili all' eventuale
distribuzioni di dividenti che alle strategie di crescita. In questa prospettiva, quindi, il processo di
crescita di un' impresa finisce per essere il risultato di una sorta di contrattazione fra manager e
azionisti.
Gli anni Settanta e Ottanta: teoria dell' agenzia ed economia dei costi di transizione
A partire dagli anni Settanta è stata in messa in discussione la separazione fra proprietà e controllo
dell' impresa.
Nel 1976 due studiosi americani, Jensen e Meckling, sono intervenuti nel dibattito. La loro analisi si
concentrò sui problemi che sorgono nel rapporto fra gli azionisti (definiti principal) e i manager
(definiti agent). La teoria dell' agenzia sviluppata da Jensen e Mackling considera l' impresa come
una sorta di "finzione legale".
La teoria dei costi di transizione invece si è proposta di spiegare la ragione dell' esistenza dell'
impresa. L' origine di questa teoria risale ad un articolo di Coase il quale afferma che le imprese
devono la loro origine alla necessità di contenere i costi che le transazioni di mercato comportano.
2
Il nucleo della riflessione di Coase fu in seguito sviluppato da Williamson. Secondo Williamson, le
transazioni comportano costi di ricerca e controllo.
Esistono tre tipi di costi di transazione:
- costi di "scoperta dei prezzi adeguati"
- costi di "negoziazione e di conclusione di contratti separati per ogni transazione"
- costi legati all' incertezza.
Questi costi possono essere ridotti, ma non eliminati.
Ricondotte nell' impresa, le transazioni vengono coperte da un contratto particolare, in cui alcuni
contraenti (i dipendenti) scambiano una remunerazione fissa contro il dovere di sgeuire gli ordini dell'
imprenditore "entro alcuni limiti".
"Da una a tante": teorie sull' impresa del XXI secolo
All' inizio del nuovo millennio sono emersi diversi modelli organizzativi e differenti approcci teorici.
Le tecnologie della terza rivoluzione industriale (elettronica e telecomunicazioni) hanno avuto infatti
un impatto profondo sulla struttura e sulle dinamiche delle aziende.
Langlois ha sostenuto che l' espansione dei mercati dovuta al processi di globalizzazione ha innescato
negli ultimi due decenni un' ulteriore spinta alla specializzazione delle unità produttive. Le nuove
tecnologie informatiche hanno facilitato un processo di coordinamento fra aziende, che a sua volta ha
favorito una sostanziale riduzione dell' incertezza e dei costi di transazione.

3. IMPRENDITORIALITÀ
Un fenomeno elusivo
Nel ventennio appena trascorso il tema dell' imprenditorialità ha richiamato l' attenzione generale a
causa della crisi della grande corporation e della contemporanea scoperta della piccola impresa.
L' imprenditorialità è un fenomeno elusivo, un concetto che è molto difficile definire con chiarezza.
Eroe, entità invisibile, uomo qualunque
Schumpeter sottolineava il ruolo della cultura nella spiegazione dell' attività imprenditoriale (egli
aveva una visione eroica dell' imprenditore).
Weber descrive l' imprenditore come portatore di una "razionalità strumentale" che lo rende capace di
mettere sistematicamente in relazione alcuni obiettivi con i mezzi più adatti a raggiungerli (egli aveva
una visione eroica dell' imprenditore).
Sombart sottolinea le caratteristiche elitarie dell' imprenditore, che con la sua energia vitale e la sua
creatività dà vita a fattori economici che altrimenti possono essere considerati inerti (lavoro e
capitale), anch' egli aveva una visione eroica dell' imprenditore).
Nietzsche sottolienava la differenza fra coloro che sono molto più avanti rispetto alle convenzioni
morali del loro tempo e coloro che non fanno nient' altro che adattarsi a esse, evidenziando così il
ruolo di individui i quali scelgono un percorso che non appare razionale, spinti da una non comune
forza di volontà (anch' egli aveva una visione eroica dell' imprenditore.
In ogni caso, nessuno più di Schumpeter ha posto l' imprenditore al centro del sistema economico,
considerandolo il motore della crescita. Per lui, fondamentale è l' innovazione la quale giustifica il
profitto imprenditoriale e non si adatta alla domanda corrente ma impone il suo prodotto sul mercato.
Denison, cercando di individuare l' origine della crescita degli Stati Uniti nel periodo 1900-1960 per
rendere conto dell' incremento di produttività, menziona fattori quali il progresso tecnico, il capitale
umano, la riallocazione delle risorse, il cambiamento istituzionale mentre non cita l' imprenditorialità
(totale assenza dell' imprenditorialità).
C'è però una via di mezzo tra Schumpeter e la teoria neoclassica. Non tutti gli economisti hanno
completamente ignorato l' imprenditore.
Cantillon, per esempio, parla di imprenditore come di un mediatore che acquista beni a un prezzo dato
per poi rivenderli a un prezzo ancora non determinato. Cantillon riconosce nell' imprenditore il vero
motore dell' economia. L' idea che Cantillon ha dell' imprenditore è quella di un individuo abile nel
fronteggiare l' incertezza (per lui l' imprenditore è una persona comune).
Esistono poi anche altri approcci alla figura dell' imprenditore.
Imprenditorialità e organizzazione
Nella maggioranza dei casi, per essere sicuro che le sue idee si realizzino e per sostenerle,
l'imprenditore è indotto a creare un' impresa con un' organizzazione, un sistema di risorse fisiche e
3
umane tenuto insieme da relazioni gerarchiche. Il tessuto connettivo dell' impresa è rappresentato
dagli strati intermedi del management, collocati fra i lavoratori e l' imprenditore.
Ma nel caso dei settori cruciali per la competitività di un Paese, le organizzazioni crescono in misura
sorprendente, spesso al di là del controllo del leader dell' impresa. In questo modo le organizzazioni
finiscono per soffocare lo slancio dell' imprenditore. Schumpeter infatti anticipava l' inevitabile
declino del sistema capitalistico borghese che nella forza viali dell' imprenditore trovava la sua
giustificazione.
Negli Stati Uniti, il Paese del capitalismo manageriale, l' ascesa delle grandi organizzazioni ha avuto l'
impatto maggiore sugli studi nella prima metà del XX secolo.
Organizzazione significa routine, mentre l' imprenditorialità è associata alla creatività; l' una equivale
a conformismo, mentre l' altra suggerisce l' originalità; l' una opera per la stabilità, mentre l' altra
promuove il cambiamento. La crisi della grande impresa negli anni Settanta ha portato a un
ripensamento di questa dicotomia in vista di una diversa valutazione dell' organizzazione, non più
considerata come una macchina senz'anima.
Lazonick ha evidenziato, nel successo dell' impresa giapponese degli anni Ottanta, l' abilità della
classe dirigente a coinvolgere nel processo innovativo tutte le componenti della vita dell' impresa
partendo dai lavoratori in fabbrica. Ma è il management di medio livello che va considerato con
particolare attenzione.
Il fatto che l' innovazione provenga dall' interno dell' impresa e non proceda secondo una trasmissione
dall' alto al basso dell' organizzazione p un' opinione condivisa da una vasta comunità di studiosi di
management.
Il focus degli studi di Chandler è proprio l' analisi delle decisioni imprenditoriali. Nel suo primo
lavoro, Chandler distingue attentamente le funzioni di un imprenditore da quelle di un manager.
Mentre il primo ha la responsabilità di allocare le risorse ai massimi livelli dell' impresa, il secondo
agisce all' interno di un sistema di risorse creato dall' imprenditore.
Compito imprescindibile dell' imprenditore è la creazione di un' ampia gerarchia manageriale.
Il top (o senior) management comprende quel numero ristretto di persone (presidente, amministratore
delegato, ecc..) che estende la sua responsabilità e autorità all' intera azienda e risponde direttamente
agli organi di governo, dei quali in certi casi è anche componente.
Il middle management ha invece responsabilità e autorità su parti dell' azienda (unità organizzative),
risponde al top management e occupa posizioni intermedie tra questo e il livello operativo.
Il triplice investimento che un' impresa deve fare riguarda:
-gli impianti
-strutture della distribuzione che rendano possibile un collegamento fluido tra la fabbrica e il mercato
-assunzione e promozione del management (è il più difficile in quanto il management deve esercitare
un' autonomia operativa all' interno di un segmento importante dell' attività d' impresa e questo è un
fenomeno di diffusione del potere, non facile da realizzare per la classe dominante).
Divorzio tra proprietà e controllo: molti lo considerano un serio pericolo per il funzionamento del
capitalismo americano. Chandler invece lo considera indispensabile per un' economia moderna dando
vanataggi a tutti:
- consumatori --> disporre di buoni prodotti a prezzi convenienti
- lavoratori --> crescita occupazione e alti salari
- azionisti --> incremento del reddito del capitale e dividendi
- intera Nazione --> protetta dal punto di vista militare e si può collocare al vertice delle classifiche
economiche detenendo una quota crescente del commercio internazionale.
Il ritorno degli animal spirits
Animal spirits è un termine utilizzato in campo economico per indicare quella spinta, talvolta
imprevedibile, degli imprenditori ad investire e fare impresa.
L' espressione è coniata da J.M. Keynes. Secondo l' economista inglese gli animal spirits sono un
insieme di forze e motivazioni, tra cui l' intuizione personale e l' ottimismo, che spingono l'
imprenditore a ricercare il successo, investendo anche in settori dove le analisi di mercato non
lasciano grandi speranze di successo.

4
L' imprenditorialità nella storia
Non possiamo non collocare l' imprenditorialità all' interno del sistema economico, sociale, culturale e
politico del quale è parte.
Cipolla tratta questo problema affrontando l' argomento cruciale della produttività. Non è sufficiente
correlare l' incremento della produzione a quello della quantità degli input e, tuttavia, nemmeno l' idea
di chiamare questo surplus "reazione creativa della storia", come fa Schumpeter, appare convincente.
Secondo Cipolla, l' economista austriaco commette l' errore di ridurre l' intera questione a una parte
che, in questo caso specifico, è l' attività imprenditoriale. Cipolla non pensa che questo sia sufficiente.
Come è stato argomentato a proposito del fattore lavoro, è la "forza vitale"di un' intera società che a
un certo punto può entrare in gioco con un effetto decisivo, producendo la scintilla della "reazione
creativa della storia".
Inoltre, per quasi trent'anni l' unità fondamentale di analisi della storia d' impresa americana è stata l'
imprenditorialità aziendale (corporate entrepreneurship).

PARTE II: DALL' ETÀ PREINDUSTRIALE ALLA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

4. PRIMA DELL' INDUSTRIA


L' europa preindustriale: caratteristiche generali
L' Europa preindustriale non si presentava come un' area economica omogenea e tuttavia i Paesi
europei condividevano alcuni tratti comuni, a partire dalla preponderanza del settore primario. La
forza lavoro era infatti composta soprattutto da contadini e dalle loro famiglie, che lavoravano
appezzamenti di terra trasmessi di generazione in generazione. La mobilità era contenuta, come
modesto era il livello di urbanizzazione. Solo alcune città, come Parigi, Londra e Napoli, avevano
raggiunto dimensioni considerevoli.
La forza della tradizione rendeva il panorama poco dinamico, ma queste economie non erano certo
immobili (gli indici di crescita erano in movimento e anche la popolazione totale europea era
cresciuta).
Le società erano segnate da una distribuzione del reddito fortemente squilibrata. Il potere d' acquisto
era concentrato quasi esclusivamente nelle mani di un' esigua quota della popolazione totale, cioè
coloro che possedevano e controllavano l' attività economica, agricola e industriale.
Dopo il XV secolo, a seguito della positiva diffusione di nuove tecniche nella coltivazione dei terreni,
si arrivò a disporre di un surplus agricolo: questo processo rimase comunque confinato in alcune aree
più favorite dalle condizioni geografiche e climatiche.
Nei tre secoli che precedono la rivoluzione industriale, l' economia nel suo complesso diventa
progressivamente più dinamica, grazie alla diffusione di una serie di importanti innovazioni nel
settore primario, la cosiddetta "rivoluzione agraria". L' espansione della domanda stimolò allora lo
sviluppo del commercio a lunga distanza, a sua volta sostenuto dai miglioramenti nelle tecniche di
navigazione e di costruzione delle navi. Inoltre l' efficienza dei mercati finanziari fu sostenuta dall'
introduzione di innovazioni come la cambiale e la banconota.
Questi processi però non si diffusero in maniera omogenea, si diffusero nell' area britannica, nell'
Europa nord-occidentale e nell'Italia settentrionale, mentre le periferie scontavano l' arretratezza e la
staticità economica.
Tipologie della produzione manifatturiera: il putting-out system
Esistevano piccole unità produttive a conduzione familiare, di contadini e, a volte, artigiani che
componevano sistemi economici chiusi, basati sull' autoconsumo. Le campagne erano di conseguenza
un importante serbatoio di manodopera: i contadini poveri potevano così dedicare il loro tempo ad
attività non agricole per integrare i loro scarsi redditi, e la manifattura rappresentava un' alternativa all'
emigrazione.
La presenza di una manodopera poco costosa incoraggiò gli imprenditori a trasferire in campagna
alcune fasi produttive della manifattura, sviluppando il putting-out system, basato su un' architettura
organizzativa gerarchica ma flessibile. Al vertice dell' organizzazione era il mercante-imprenditore,
proprietario delle materie prime, che coordinava l' attività di una rete di lavoratori a domicilio
impegnati in alcune fasi del processo produttivo.

5
L' efficienza di questa formula di organizzazione derivava, oltre che dall' ampia disponibilità di
manodopera rurale a basso costo, dall' elevata flessibilità del sistema: la rete di lavoranti poteva essere
velocemente estesa o ridimensionata a seconda delle variazioni della domanda.
La forza lavoro era pagata a cottimo in base alla quantità di pezzi prodotti. Le tecnologie rudimentali
in uso nella manifattura domestica rurale non richiedevano particolari competenze da parte dei
lavoranti; il sistema non incentivava i miglioramenti e può aver rallentato l' introduzione di strumenti
e tecniche produttive più efficienti.
La produzione artigianale rurale e urbana
Anche l' artigianato aveva un ruolo importante. Caratteristiche di questa attività erano un maggior
livello di complessità organizzativa, tecniche più sofisticate e la presenza di lavoratori specializzati.
La localizzazione di queste attività artigiane dipendeva dalla disponibilità di materie prime e dalla
vicinanza alle fonti di energia a basso costo: acqua, vento, legna (in campagna o nell' ambiente
urbano).
Il maestro, proprietario della bottega, gestiva l' intero processo produttivo supervisionando il lavoro
degli apprendisti. Questi ultimi, retribuiti a cottimo, imparavano la professione direttamente sul lavoro
e, dopo un lungo periodo di apprendistato, erano pronti a diventare maestri a loro volta, iniziando un'
attività propria.
Il maestro e la sua bottega erano parte integrante di un sistema organizzativo più ampio, la
corporazione, che riuniva le attività specializzate dello stesso tipo. A fondamento della struttura
corporativa vi era una precisa regolamentazione scritta relativa alla quantità, alla qualità e al prezzo
delle merci prodotte.
Gli obiettivi del sistema corporativo variavano in relazione all' area di insediamento e alla particolare
situazione politica ma erano principalmente l' organizzazione degli input produttivi, la gestione della
formazione e del capitale umano e il severo controllo degli standard qualitativi del settore.
Il sistema corporativo era conservatore: l' introduzione e la diffusione dell' innovazione tecnologica
erano scoraggiate perchè ne minacciavano la stabilità, e questo è evidente nel caso inglese, che ha
visto il sistema di fabbrica affermarsi fuori dalla cerchia delle mura urbane, eludendo i controlli
corporativi. Sotto la pressione della trasformazione economica vissuta dall' Europa nell' età moderna,
il sistema delle corporazioni ha sofferto un progressivo indebolimento nel corso del 500, e quasi
ovunque è stato abolito entro la fine del XVIII secolo.
La "grande impresa" prima della rivoluzione industriale
Imprese di grandi dimensioni, con un elevato numero di lavoratori e un' alta intensità di capitale erano
presenti anche prima della rivoluzione industriale. "Manifattura" era il termine comunemente usato
per descrivere la concentrazione di lavoratori attivi nello stesso luogo. Secondo alcuni studiosi l'
emergere dell' organizzazione di fabbrica rappresenta la conseguenza della concentrazione di
numerosi lavoratori nelle "manifatture".
Nelle fabbriche, solo una piccola porzione dei dipendenti lavorava esclusivamente "dentro"
l'impianto, perchè la maggioranza era in realtà impegnata "fuori", nelle lavorazioni a domicilio. Nel
complesso, la quota di addetti impiegata nella manifattura accentrata era leggermente inferiore
rispetto a quella attiva nella manifattura a domicilio, la forma più diffusa di organizzazione della
produzione preindustriale.
Per quanto riguarda la manifattura accentrata, essa consente all' imprenditore di esercitare uno
stretto controllo su tempi e qualità del lavoro però l' artigiano perde la libertà di gestire tempi e
ritmi di lavoro. Inoltre l' imprenditore deve investire in capitale fisso (strumenti e immobili) e,
potendo cambiare strumenti e tecniche di produzione a suo piacimento, riesce a reagire
rapidamente alle variazioni di domanda ma avendo compiuto investimenti in strumenti o
macchine, se la domanda si rivela inferiore a quanto previsto rischia di andare in perdita.
La rivoluzione agraria e la "nuova agricoltura"
Prima della rivoluzione agraria non esistevano concimi chimici e fertilizzanti dunque era necessario
far riposare il terreno (maggese) e farlo concimare naturalmente con il pascolo degli animali.
Dopo la rivoluzione agraria, in Europa occidentale non c' erano nuove terre fertili da mettere a coltura
e quindi occorreva aumentare le rese per sfamare la popolazione in aumento, sparisce il maggese e si
scoprono alcune piante da foraggio che aumentano la produttività dei campi quindi invece di lasciare
la terra a riposo, il quarto anno si semina foraggio (come per esempio erba medica e trifoglio) che
6
arricchisce la terra di nutrienti. In questo modo migliora l' allevamento e aumenta la produzione di
letame, unico concime conosciuto.
Tuttavia ci furono anche delle conseguenze negative in quanto i contadini perdono i diritti sulle terre
comuni, si aboliscono i campi aperti cioè i campi incolti o coltivati che, dopo il raccolto, venivano
lasciati liberi come pascolo per tutti i contadini del villaggio e i campi vengono recintati: questo portò
a un arricchimento dei grandi proprietari che accumularono denaro e capitali da investire.
L' economia però, essenzialmente agricola, non poteva essere spinta oltre ad un certo limite e questo,
unito alla crescita della popolazione, portò ad una produzione per la sussistenza cioè una produzione
prevalentemente agricola che forniva alla grande maggioranza della popolazione solo lo stretto
necessario per sopravvivere.

5. IMPRESE E IMPRENDITORI NELLA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE


La prima rivoluzione industriale ha trasformato l' economia mondiale, ha imposto l' egemonia
britannica e ha dato inizio al primo profondo cambiamento della dinamica demografica.
L'eccezione britannica
Per la prima volta nello storia l' origine della "ricchezza della nazione" non era più riconducibile in
modo esclusivo al settore primario e al commercio dei prodotti agricoli: il cuore dell' economia era
ora l' industria.
L' Europa continentale seguì l' esempio britannico con ritmi di crescita diversi da Paese a Paese, e
talvolta la transizione avvenne con un considerevole ritardo.
Man mano che le diverse nazioni procedevano sulla strada della transizione economica, aumentava
anche il grado di specializzazione nelle esportazioni dei Paesi coinvolti, come conseguenza dell'
impiego più efficiente della dotazione di risorse e, contemporaneamente, delle tecnologie disponibili.
Alcuni dei paesi che per primi avevano seguito l' esempio inglese acquisirono, nella seconda metà del
XIX secolo, la posizione di leader nella graduatoria delle esportazioni di prodotti industriali.
Per la prima volta nella storia, alcuni Paesi europei godevano di una posizione stabile sui mercati
internazioni grazie alla loro specializzazione produttiva industriale.
Cambiamento strutturale e vantaggio competitivo britannico
Innovazioni di prodotto e innovazioni organizzative nei processi produttivi contribuirono ad
accelerare il tasso di crescita in alcuni settori industriali. Le nuove tecnologie hanno svolto un ruolo
decisivo in alcuni rami dei comparti tessile, minerario, siderurgico e della meccanica leggera, il cui
sviluppo è diventato centrale nella trasformazione dell' economia inglese. Alla tradizionale fonte
primaria di energia, la forza idraulica, si aggiunse la macchina a vapore. L' introduzione e la
diffusione di quest' ultima, mise a disposizione dell' industria quantità crescenti di energia a basso
costo che, per la prima volta, poteva essere trasferita con relativa facilità da un luogo all' altro, con un
impatto significativo sull' efficienza e sui costi di localizzazione degli impianti.
L' insieme di innovazioni caratteristico della fase iniziale della prima rivoluzione industriale inglese
deve essere ricondotto a una serie di presupposti economici, culturali, istituzionali e legali che si
affiancarono allo sviluppo commerciale, ormai consolidato e già in grado di garantire un' elevata
efficienza nella distribuzione delle merci e nella mobilitazione del credito.
A metà del XIX secolo, la Gran Bretagna era senza dubbio la più avanzata nazione industriale. Gli
inglesi esportavano beni industriali e importavano cibo e materie prime poco costosi prodotti all'
estero.
Dal "micro" al "macro": imprenditori e imprese
Un ruolo importante nei processi della "grande trasformazione" è quello svolto dagli imprenditori. In
molti casi l' attività imprenditoriale ha rappresentato uno strumento potente di ascesa sociale, un'
evoluzione nuova per la maggior parte delle statiche società europee preindustriali.
Nel "popolo" degli imprenditori inglesi della prima rivoluzione industriale troviamo innanzitutto gli
artigiani e i maestri che avevano trasformato le loro botteghe in fabbriche e ampliato l' orizzonte delle
loro attività dal raggio locale a quello regionale, poi al livello nazionale e in alcuni casi perfino
internazionale.
Oltre agli artigiani, la nuova classe imprenditoriale includeva un gran numero di ex commercianti e
mercanti.

7
Occasionalmente diventavano imprenditori anche esponenti di classi sociali che era meno usuale
associare al rischio d' impresa: alcuni nobili e proprietari terrieri erano disposti a mescolare le attività
tradizionali e le nuove occasioni di impiego della ricchezza, continuando a gestire vaste proprietà
agrarie e investendo contemporaneamente nell' attività mineraria o nella costruzione di infrastrutture
per realizzare i necessari collegamenti ai nuovi mercati di sbocco.
L' impresa nella prima rivoluzione industriale: proprietà, controllo, gestione
La fabbrica della prima rivoluzione industriale aveva dimensioni contenute, e raramente arrivava a
occupare più di qualche decina di dipendenti. I suoi caratteri più rilevanti sono infatti da riferire all'
assetto proprietario e all' organizzazione del processo produttivo. Dimensioni iniziali ridotte
comportavano quindi necessità finanziarie contenute che, nella maggioranza dei casi, venivano fornire
da investitori di modeste ricchezza ma in buone relazioni con l' imprenditore: in questo modo
proprietà e controllo delle aziende restavano nelle mani del fondatore e della sua cerchia familiare. In
attesa di una regolamentazione legislativa in materia di società per azioni (introdotta in Inghilterra
solo nel 1856), lo strumento legale della partnership permetteva di associare al proprietario/fondatore
dell' impresa soci apportatori di capitali aggiuntivi.
Gestione e proprietà delle aziende facevano capo unicamente al proprietario/fondatore, il quale
talvolta delegava alcune funzioni ai familiari o ai soci ma, più spesso si valeva semplicemente del
lavoro di capi officina e sorveglianti, responsabili dell' organizzazione dei ritmi di lavoro nella
fabbrica.
In ogni caso l' accentramento nell' imprenditore delle decisioni strategiche e delle scelte operative
della gestione ordinaria dell' attività produttiva costituiva la regola.
L' impresa nella prima rivoluzione industriale: il processo di produzione
Le nuove tecnologie di questo periodo possono essere definite come grappoli di innovazioni in quanto
avevano interessato singole fasi o stadi, senza coinvolgere l' intero ciclo di trasformazione della
materia prima al prodotto finito. L' innovazione introdotta in una fase creava una strozzatura del
flusso della produzione e spingeva le aziende a introdurre innovazioni anche nelle altre fasi.
Molti imprenditori controllavano fabbriche operative nelle diverse fasi del processo produttivo
(mancava quindi l' integrazione tecnica). C' era anche la tendenza al raggruppamento di unità
produttive simili nella stessa area geografica, sostanzialmente per sfruttare indubbi vantaggi di
localizzazione e vicinanza: questi andavano dalla velocità di circolazione di beni e servizi, alla
concentrazione di lavoratori specializzati, il miglior veicolo per la diffusione di competenze
innovative.
Un economista inglese, Marshall, sottolineò il fenomeno di formazione dei cosiddetti "distretti
industriali" che erano delle aree territoriali circoscritte in cui era concentrata una certa produzione e
caratterizzate da un numero elevati di piccole e medie imprese.
Inoltre egli riteneva che le economie di mercato tendessero verso imprese di grandi dimensioni
(rendimenti di scala crescenti). Tuttavia in alcuni settori industriali l' attività produttiva si prestava ad
essere svolta nell' ambito di un network di imprese di piccole e medie dimensioni, basate sul lavoro
artigianale.
Commercio e mercati
La trasformazione sul versante della produzione impose una complessa ridefinizione anche delle
funzioni distributive e commerciale all' interno del sistema economico. Per gestire le relazioni con il
mercato era ora necessario per l' imprenditore industriale creare reti efficienti di agenti, rappresentanti
e partner commerciali indipendenti, capaci di spingere le vendite oltre gli stretti limiti dei mercati
locali. Talvolta membri della famiglia erano impiegati come agenti di commercio, il network familiare
non poteva però garantire a lungo il successo della distribuzione su larga scala imposta dallo sviluppo
del sistema di fabbrica.
Era quindi necessario rivolgersi ai "grandi" commercianti capaci di agire da mediatori nelle
transizioni su mercati anche molto lontani. In realtà la relazione con i mercanti non era sempre
vantaggiosa perchè essi tendevano a considerare gli industriali come semplici fornitori di merci,
imponendo marchi propri, per godere di sostanziali margini di ricavo sigli acquisti all' ingrosso.
Durante la prima rivoluzione industriale ci fu quindi una tensione fra gli industriali e i mercanti,
tuttavia l' intermediazione dei mercanti era necessaria.

8
Il finanziamento delle imprese
Artigiani, mercanti, nobili e tecnici: tutti si trovarono a fronteggiare sfide nuove nel momento dell'
avvio di nuove imprese industriali o dell' espansione di attività già esistenti. La creazione di
organizzazioni produttive complesse poneva problemi sconosciuti a chi era abituato ad agire nelle
strutture economiche preindustriali.
Il primo problema da risolvere era legato al reperimento delle risorse finanziarie da tradurre in
capitale fisso e circolante necessario al funzionamento corrente dell' impresa.
In questa fase si presenta come decisiva la capacità di sfruttare in maniera efficiente una molteplicità
di canali di finanziamento a breve e lungo termine, a partire dai patrimoni personali, dalle risorse
familiari o della cerchia prossima di conoscenti, fino al credito delle istituzioni locali.
Il patrimonio personale rappresentava il serbatoio di risorse indispensabile non solo nella fase di
avvio, ma anche per le necessità correnti dell' azienda e per finanziarne l' eventuale espansione.
I circuiti di credito erano un' altra fonte di finanziamento. La prossimità geografica era il dato
essenziale, perché l' operazione di finanziamento si fondava sulla conoscenza diretta del richiedente e
della consistenza delle risorse patrimoniali a garanzia dell' investimento.

6. TECNOLOGIA, SOCIETÀ E SISTEMA DI FABBRICA


Nelle fabbriche della "nuova economia" industriale gli imprenditori combinavano capitale fisso e
capitale circolante per produrre grandi quantità di beni standardizzati destinati al mercato interno e a
quelli esteri.
La fabbrica moderna si impone come un modello completamente diverso dai precedenti luoghi e
metodi di organizzazione del lavoro. Innanzitutto, nella fabbrica si radunava un consistente numero di
lavoratori, molti più di quanto normalmente accadesse in ogni insediamento produttivo del passato.
Una seconda cesura con il passato era rappresentata dalla netta separazione tra unità di produzione e
di consumo: il sistema di fabbrica imponeva infatti il trasferimento e la concentrazione dei lavoratori
in uno stabilimento, dove un' unica fonte di energia alimentava i numerosi macchinari.
Il terzo elemento caratteristico del sistema di fabbrica era la specializzazione del lavoro. Alla
specializzazione del lavoro corrispondeva inoltre la specializzazione delle macchine.
La meccanizzazione di alcune fasi del processo di produzione era un ulteriore carattere distintivo della
fabbrica moderna. Le macchine erano strumenti molto più sofisticati degli attrezzi utilizzati dagli
artigiani.
I macchinari richiedevano, proprio per la loro maggiore complessità tecnica, la presenza di lavoratori
specializzati nella manutenzione, e infine erano costosi. A differenza del passato inoltre, il lavoratore
non era più proprietario dei mezzi di produzione.
Le macchine utilizzate in questo periodo richiedevano l' applicazione di quantità di energia superiore
rispetto al passato, un' energia che doveva essere a basso costo e continuamente disponibile.
Tale fabbisogno era soddisfatto con la localizzazione delle fabbriche in aree in cui era possibile
derivare la forza motrice da fiumi, torrenti e corsi d' acqua; questi vincoli d' insediamento vennero
superati dall' adozione della macchina a vapore, che trasformava l' energia termica in forza motrice
immediatamente disponibile.
Il sistema di fabbrica si diffuse velocemente in Gran Bretagna e con un ritmo più lento sul continente:
la nuova modalità di produzione sottraeva lavoratori all' agricoltura e non ovunque le società erano
disposte ad abbandonare gli equilibri garantiti dagli assetti economici preindustriali: l' attività agricola
era ancora considerata da molti un sistema sufficientemente remunerativo e il fondamento di uno
"stile di vita" tranquillo; per altri invece, era intollerabile l' impatto sociale, economico e psicologico
dell' organizzazione di fabbrica sulla vita dei lavoratori, che venivano talvolta definiti "schiavi
salariati".

L'impatto sociale del sistema di fabbrica


A livello macroeconomico le maggiori trasformazioni segnavano il ritmo della crescita, la quantità e
la qualità dei flussi di commercio internazionale, il contributo dell' agricoltura e dell' industria alla
formazione della ricchezza nazionale e all' occupazione.
A livello micro invece, i proprietari si trovarono a sperimentare varie soluzione nell' architettura degli
stabilimenti, ma anche nell' organizzazione e nella disciplina della manodopera: si trattava di definire
9
le regole di comportamento per una forza lavoro pendolare, composta da persone di età, sesso ed
estrazione sociale diversi.
Dal punto di vista dei lavoratori, l' inserimento nel sistema di fabbrica comportava spesso un profondo
cambiamento delle abitudini e degli stili di vita. Il risultato era per tutti lo scardinamento delle
abitudini della vita contadina o del villaggio, la rinuncia a una relativa libertà nella scelta dei tempi di
lavoro e riposo, e l' inserimento nel processo continuo dei turni diurni e notturni scanditi da orari fissi
e dal ritmo delle macchine. Gli imprenditori dovevano anche impedire l' assenteismo di massa di
questa forza lavoro di origine contadina nei momenti di raccolto.
Il funzionamento della fabbrica inoltre introdusse progressivamente gerarchie e ruoli rigidamente
definiti.
La gestione del cambiamento
Di fronte allo sgretolamento delle strutture sociali tradizionali, gli imprenditori sperimentarono una
serie di soluzioni per controllare i tumultuosi cambiamenti della prima industrializzazione e dare una
risposta al disagio sociale di cui erano essi stessi responsabili.
Alla fabbrica venivano così affiancati alloggi e dormitori per i lavoratori provenienti da villaggi
lontani e, in seguito, spacci per l' acquisto di generi di prima necessità, come cibo e vestiti.
Questo sistema, in molti Paesi europei dove l' industrializzazione costringeva all' inurbamento masse
di lavoratori agricoli, era considerato un modo per mantenere vivi i legami e i valori della tradizione
contadina, compresi la fiducia e il rispetto dovuti al proprietario terriero.
Mentre l' avanzata della rivoluzione industriale scuoteva alle radici le strutture sociali consolidate, si
affermava in Europa una classe sociale nuova, la borghesia industriale, destinata ad assumere la
leadership politica ed economica e a produrre una legislazione mirata ad attenuare gli aspetti più aspri
della vita in fabbrica. A partire dall' Inghilterra e dalla Germania, dove furono inizialmente introdotte,
le nuove regolamentazioni sul lavoro delle donne e dei bambini, sulle assicurazioni obbligatorie e il
mutuo soccorso si diffusero, con tempi e modalità differenti da Paese a Paese, in tutta Europa.
Perchè la fabbrica?
Nemmeno l' imprenditore più attento ai risvolti sociali del sistema di fabbrica era in grado di
prevenire o sanare tutti i problemi sorti con l' industrializzazione.
Il desiderio di tornare al periodo precedente, quando erano gli individui e le famiglie, e non le
macchine, a controllare i ritmi di vita, era diffuso.
Questo portò a lotte sindacali e movimenti politici che, attraverso l' Ottocento e il Novecento, sono
arrivati fino all' odierna "grande recessione".
Joseph Schumpeter studiò con attenzione quei conflitti: nella sua visione gli imprenditori-innovatori
erano quelli che traevano immediato vantaggio dalle nuove tecnologie e dalle nuove forme
organizzative, ma la maggiore efficienza del sistema economico aveva in definitiva portato grandi
benefici alla società in generale.
La storiografia marxista invece ha delineato un diverso paradigma di analisi per spiegare la diffusione
del sistema di fabbrica, affermando che la necessità di concentrare la manodopera in un unico luogo
era legata allo sforzo degli imprenditori di accentuare il controllo e quindi l' efficiente sfruttamento
dei lavoratori. Secondo Marx l' introduzione delle macchine avrebbe portato ad un impoverimento e
ad una svalutazione professionale dei lavoratori e quindi alla caduta tendenziale del tasso di profitto in
quanto la classe operaia non era più in grado si acquistare i beni industriali e questo avrebbe condotto
alla crisi della società capitalistica.

PARTE III: NASCITA E CONSOLIDAMENTO DELLA GRANDE IMPRESA

7. LE INFRASTRUTTURE
L' emergere della grande impresa: alle origini della discontinuità
L' ultimo quarto del XIX secolo ha visto sorgere nei Paesi industriali più avanzati le grandi imprese
(large corporation). Per la loro dimensione e complessità, queste organizzazioni richiedono, per la
prima volta nella storia, una struttura di governo formata da manager salariati, non proprietari,
portatori di specifiche competenze tecniche.
Prima della rivoluzione industriale sono molto rati i casi di dimensioni analoghe a quelle di una
moderna large corporation. I giganti del capitalismo preindustriale, come per esempio le grandi
10
banche e le compagnie d'oltremare, erano gestiti da pochi manager e impiegati, perchè il numero delle
unità operative e la quantità delle transazioni erano nettamente inferiori rispetto agli standard
moderni.
La grande trasformazione economica iniziò con l' industrializzazione (uso di nuove fonti di energia,
applicazione del vapore ai processi produttivi, introduzione di nuovi macchinari, ingrandimento delle
fabbriche).
La grande impresa, però, non è sorta in concomitanza con i cambiamenti sperimentati nell' Inghilterra
della fine del XVIII secolo. Le fabbriche della prima rivoluzione industriale avevano dimensioni
limitate a causa dei costi e delle incertezze dei trasporti a largo raggio.
Inoltre la capacità produttiva delle prime imprese industriali era decisamente inferiore a quella media
registrata un secolo dopo. Le aziende continuavano a svolgere una singola funzione ed erano
concentrate su un unico prodotto.
I requisiti fondamentali per l' emergere della large corporation con la sua gerarchia manageriale sono
quindi da ricercare nei progressi tecnologici e nell' allargamento dei mercati che avvenne alla fine
dell' Ottocento quando una grande varietà di processi innovativi ha determinato una svolta che ha
come presupposto i grandi cambiamenti nel sistema di comunicazioni e trasporto. La navigazione a
vapore, la ferrovia, il telegrafo e il telefono hanno consentito alle imprese di compiere il salto
dimensionale, di raggiungere mercati molto più vasti facendo affidamento su relazioni sicure e
costanti con i fornitori e con i clienti, ma anche di organizzare sulla base di scadenze certe e regolari
le proprie operazioni interne.
La depressione degli anni Ottanta dell' Ottocento
Negli anni ottanta dell' Ottocento, una lunga recessione, ricordata come "Depressione di fine
Ottocento", investì i paesi occidentali, industrializzati e non, manifestandosi con un lento
assorbimento dell' offerta e una marcata riduzione dei prezzi dei prodotti agricoli e industriali.
Il ceto imprenditoriale reagì alla recessione coalizzandosi per evitare la riduzione dei profitti e per
premere più efficacemente sui governi, al fine di ottenere tutele protezionistiche e interventi di tipo
coloniale. Questi ultimi servivano per conquistare militarmente nuovi sbocchi commerciali al riparo
dalla concorrenza. Ma le colonie potevano anche diventare luoghi proficui di investimento di capitali
per la costruzione delle infrastrutture, oppure, se ne erano dotate, potevano fornire alla madrepatria
materie prime a buon mercato. Erano utili inoltre per sostenere l’occupazione (per offrire cariche
gratificanti ai ceti medi) e servivano anche a distrarre l’attenzione dalla questione sociale.
Tuttavia, negli anni della Depressione, la scienza fece passi da gigante, favorendo l' innovazione
tecnologica. Ne scaturì un grappolo di innovazioni in grado di imprimere, da fine Ottocento, una
nuova spinta propulsiva alle economie occidentali. Vennero poste le premesse per una seconda
rivoluzione Industriale incentrata sull’elettricità, sulla chimica, sulla produzione dell’acciaio.
Dal tardo Ottocento cominciò ad entrare in uso l’energia elettrica, che aprì la strada allo sviluppo
industriale anche a paesi, come l’Italia, privi di carbone. Le maggiori città si dotarono di
illuminazione elettrica e di metropolitane.
La diffusione delle reti di trasporto e comunicazione
Le invenzioni più importanti nelle telecomunicazioni furono il telegrafo, inventato nel 1844 e il
telefono, invenzione brevettata dall' americano di origini scozzesi Alexander Graham Bell nel 1876.
Insieme, il telegrafo e il telefono contribuivano a facilitare le comunicazioni in un mondo sempre
meglio collegato da chilometri di ferrovie e dalla navigazione a vapore.
L' arrivo della ferrovia rappresenta la svolta decisiva, che rende di colpo obsoleta, lenta e inaffidabile,
ogni altra forma di trasporto.
In Germania, il rapido sviluppo ferroviario era strettamente legato all' industrializzazione del Paese e
anche in un Paese dove l' industrializzazione procedeva lentamente, come l' Italia, una delle prime
grandi imprese si formò nel settore ferroviario.
Nello stesso periodo carbone e vapore stavano trasformando anche il trasporto sull' acqua (fu
realizzato il primo battello a vapore per il trasporto commerciale). Nel secondo Ottocento l' uso del
vapore rivoluzionò anche la navigazione oceanica.
Le reti di comunicazione e trasporto e la nascita della grande impresa
La costruzione e il completamento delle reti di trasporto e comunicazione di estensione nazionale e
collegate oltre i confini con quelle dei Paesi vicini hanno richiesto lo sviluppo delle competenze per
11
amministrarle. Una volta operative però, queste infrastrutture divennero l' elemento decisivo nella fase
di formazione delle grandi imprese moderne.
Treni e mercati
Il mezzo di trasporto ferroviario è diventato in breve tempo una componente fondamentale della
produzione e distribuzione su larga scala, un requisito indispensabile per la nascita delle grandi
imprese industriali e commerciali moderne.
La costruzione delle reti ferroviarie e telegrafiche ha portati alla creazione di mercati davvero
nazionali, perchè le società erano finalmente nella condizione di soddisfare velocemente la clientela in
ogni angolo del Paese: questa possibilità ha rappresentato un forte incentivo all' aumento della
capacità produttiva delle imprese, che potevano ora rispettare le scadenze di consegna senza subire il
condizionamento delle variabili meteorologiche.
L'esito della rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni della seconda metà del XIX secolo fu in
definitiva un abbassamento dei costi e una velocizzazione nella distribuzione dei beni: ora le imprese
avevano un importante incentivo ad accrescere la scala delle attività e a riorganizzare in maniera più
efficiente l' intero processo produttivo.
Ferrovie e finanza
La costruzione delle infrastrutture richiedeva capitali, e le stesse istituzioni finanziarie nazionali che
sostennero la diffusione della rete ferroviaria saranno fondamentali nello sviluppo delle grandi
imprese industriali moderne.
In Germania, la costruzione delle infrastrutture ferroviarie aveva portato alla creazione delle banche
universali mentre negli Stati Uniti la cospicua quantità di capitali necessari alla realizzazione delle
ferrovie aveva contribuito alla creazione delle banche di investimento specializzate.
Le ferrovie e il management
Lo sviluppo delle ferrovie ha imposto nuove forme nell' assetto della proprietà delle grandi imprese
emergenti e, soprattutto, nelle strutture di governo aziendale. Diversamente dal passato, le compagnie
ferroviarie si trovarono a dover gestire enormi investimenti e numerosissimi dipendenti.
La varietà e la mole dei compiti di responsabilità dirigenziale ha preso dato luogo a una
frammentazione della proprietà aziendale e ad una sistematica divisione dei ruoli: se da un lato
emergeva la posizione di numerosi azionisti, dall' altro erano i manager salariati che erano incaricati a
tempo pieno dell' amministrazione dell' impresa.
L' estensione complessiva della rete di trasporti statunitense, quasi tutta a binario unico, faceva sì che
fosse indispensabile per ogni singola compagnia ferroviaria dotarsi di una gerarchia manageriale
dedicata alla programmazione e al controllo preciso della circolazione dei propri treni.
Nelle società più grandi le decisione operative erano sempre più spesso affidate a manager che non
possedevano azioni della compagnia: proprietà e direzione dell' impresa arrivarono così a definire
posizioni e ruoli nettamente separati.
Man mano che la complessità dell' attività aumentava, poi, i manager cominciarono a ripartirsi i
compiti e a delegare gli impegni a dirigenti intermedi, dedicati a coordinare e sovraintendere le
diverse attività funzionali di ogni divisione.
La distinzioni di line e staff venne presto adottata nelle compagnie ferroviarie per definire la struttura
dei ruoli. I manager di line controllavano il movimento dei passeggeri e dei treni. Lo staff era invece
composto dai dirigenti responsabili della definizione degli standard e della formulazione delle
politiche dei dipartimenti funzionali.
L' organizzazione manageriale delle società ferroviarie vide in questi decenni una continua ricerca di
miglioramenti e registrò considerevoli successi: complessità e dimensioni della rete spinsero le
compagnie ad adottare sistemi organizzativi basati su divisioni territoriali indipendenti dirette da
general manager, che controllavano le attività dei vari dipartimenti funzionali e rispondevano a un
ceto direzionali responsabile delle decisioni strategiche. Lavorando insieme, i general manager
furono alla fine in grado di coordinare il flusso del traffico in tutta l' enorme estensione del sistema
ferroviario statunitense.
La ferrovia transcontinentale
Per costruirla furono necessarie due grandi compagnie ferroviarie, una iniziò la realizzazione da est e l'
altra da ovest fino a incontrarsi a metà strada. Qui venne poi messo un chiodo d' oro (Golden Spike) a
sigillo di quest' opera che avrebbe trasformato gli Stati Uniti.
12
Prima delle fine del secolo inoltre sorsero anche altre ferrovie transcontinentali, tutte ad opera di grandi
compagnie nazionali.
Treni, relazioni industriali e regolamentazione della concorrenza
Il settore ferroviario fu il primo segmento dell' economia americana nel quale il governo federale
intervenne a regolare la competizione.
É nell' ambito delle ferrovie statunitensi che si osservano i primi tentativi di controllo della
concorrenza attraverso accordi di cartello. La stabilità del sistema restava tuttavia precaria, ed erano
ancora molto vantaggiosi gli incentivi a disattendere gli accordi.
Alcuni leader del settore sostennero allora l' ipotesi di una definizione del problema attraverso l'
intervento governativo.
Il supporto politico a questa posizione si rivelò tuttavia debole e, quando il Congresso decise di
adottare una normativa, con l' Interstate Commerce Act, non solo rifiutò il riconoscimento ai cartelli
ferroviari, ma li dichiarò illegali.
Le competenze strategiche e organizzative accumulate nel settore delle ferrovie vennero, infine,
rapidamente trasferite agli altri comparti dell’attività economica grazie all’apporto di imprenditori e
manager che avevano iniziato la loro carriera nelle società ferroviarie prima di intraprendere iniziative
industriali autonome. É questo il caso di Andrew Canergie che dalla pratica nel settore ferroviario, fu
il primo a sfruttare pienamente le economie di scala nella produzione dell' acciaio. Proprio come nel
settore ferroviario era conveniente caricare al massimo treni grandi e rapidi, così Canergie intuì che
nell' industria siderurgica la produzione di grandi quantità di acciaio avrebbe causato una drastica
caduta dei costi unitari.

8. TECNOLOGIA E ORGANIZZAZIONE
Le tecnologie della seconda rivoluzione industriale
I nuovi sistemi di trasporto e comunicazione hanno rapidamente messo in moto la trasformazione di
interi settori dell' economia, a partire dalla distribuzione delle merci. Nuovi venditori prendevano il
posto dei commercianti tradizionali, empori e grandi magazzini guadagnavano velocemente
popolarità, iniziavano le vendite in saldo e per corrispondenza.
La vendita per corrispondenza offriva una varietà di prodotti più ampia di quella disponibile nei
negozi ed erano in grado di soddisfare quasi tutte le necessità di una famiglia contadina. Anche le
catene di vendita erano cresciute velocemente. In pochi anni arrivarono a contare su squadre di
manager specializzati nelle tecniche di vendita e nel coordinamento della distribuzione per una
molteplicità di negozi collegati.
Le tecniche per attirare clienti inventate in questo periodo furono molte: prezzo fisso ed esposto,
ingresso libero, possibilità di rendere la merce e soprattutto le vetrine.
Le prime tre nazioni industrializzate, Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna, alla fine dell' 800
vantavano i due terzi della produzione manifatturiera mondiale.
Le nuove reti di trasporto e comunicazione trasformarono infatti in profondità il mondo dell' industria,
furono inventate macchine per l' inscatolamento, divennero largamente disponibili le tecniche per la
distillazione del petrolio, ma anche dello zucchero, degli oli vegetali e delle bevande alcoliche,
incominciò la produzione automobilistica e, infine, ci fu la disponibilità di una nuova forma di energia
molto flessibile come l' elettricità.
Questo complesso di innovazioni fu definito "seconda rivoluzione industriale".
Il dualismo settoriale e le condizioni per il successo
Le tecnologie della seconda rivoluzione industriale ebbero un impatto non uniforme sui vari rami dell'
industria, al punto da creare fra i settori un profondo dualismo e a marcare il confine fra quelli
dominati dalla grande impresa e gli altri.
Per sfruttare i vantaggi di costo resi possibili dalle nuove tecnologie di produzione di massa, agli
imprenditori si presentava ora l' occasione di compiere il "triplice investimento" nelle attività correlate
della produzione, della distribuzione di massa integrata alla produzione, e del management, vale a
dire nella crescita e nella formazione di una gerarchia manageriale operativa negli uffici centrali e dei
dipartimenti funzionali.

13
Gli investimenti necessari: la produzione
Il primo obiettivo da raggiungere per le grandi aziende impegnate nello sfruttamento delle economie
di scala e di diversificazione era quello di ottenere un elevato livello di produzione.
I costi fissi necessari a mantenere operativi gli impianti erano molto alti e potevano essere compensati
solo attraverso l' utilizzo pieno e continuo degli stabilimenti. Due componenti risultavano quindi
decisive nella determinazione dei costi e dei profitti: la capacità produttiva installata e il throughout,
vale a dire la quantità di materie prime effettivamente immesse nel processo produttivo in una data
unità di tempo.
La vicenda presentata qui di seguito dimostra quanto sia stato importante perseguire, in questa fase, le
economie di scala e di diversificazione.
L' esempio riguarda la Standard Oil, una delle prime imprese moderne statunitensi, e la
trasformazione vissuta dall' industria petrolifera americana negli ultimi decenni dell' Ottocento.
All’inizio del decennio 1880 erano quaranta le società operative nel settore petrolifero, legate da
un’alleanza che consentiva loro di esercitare il controllo della produzione. Erano entità indipendenti
dal punto di vista legale, ma ognuna era legata alla Standard Oil Company di Jonh D. Rockefeller
attraverso scambi di azioni e altri stratagemmi finanziari. Nel 1882 le società decisero di collegarsi
formalmente dando vita allo Standard Oil Trust. Il trust forniva gli strumenti legali necessari alla
creazione di un ufficio centrale capace di concretizzare la razionalizzazione del settore e trarre
vantaggio dalle economie di scala. In poco tempo, la riorganizzazione guidata dal trust riuscì in
pratica a dimezzare i costi medi di produzione.
Conseguenze importanti dei nuovi impegnativi investimenti si registrarono nell' organizzazione del
lavoro di fabbrica il cui controllo non potè più essere delegato ai capi officina. Alla fine del XIX
secolo Taylor sostenne la necessità di una divisione delle fasi di lavoro in una serie di compiti
elementari. Il taylorismo divenne una realtà con l' introduzione della catena di montaggio nella
produzione automobilistica alla Ford (modello T).
Investimenti necessari: la distribuzione
In questo periodo alcuni prodotti nuovi richiesero strutture di distribuzione rinnovate e l' utilizzo di
competenze specifiche di marketing e commercializzazione e i continui investimenti richiesti per
mantenere in efficienza tale sistema incentivarono gli industriali ad assumere in proprio i costi di
marketing e delle spedizioni.
I macchinari prodotti alla fine dell' 800 erano abbastanza complessi e richiedevano una dimostrazione
prima della vendita, l' installazione e la manutenzione periodica una volta realizzata la vendita, e
inoltre richiedevano, in caso di guasti, una riparazione da tecnici specializzati. Inoltre, il servizio di
vendita era spesso affiancato da un servizio di finanziamento. Mentre gli industriali avevano le risorse
e le competenze per offrire tutto ciò, i grossisti solo raramente potevano assumersi tutti questi costi.
Da qui la decisione da parte delle industrie di farsi carico della distribuzione dei prodotti che
producevano.
Investimenti necessari: la gerarchia manageriale
Ad un certo punto si rese indispensabile, a causa dell' aumento della complessità delle grandi imprese
in un arco di tempo relativamente breve, un terzo investimento, quello destinato all' assunzione e alla
formazione dei quadri manageriali.
Le gerarchie manageriali vennero inizialmente organizzate sulla base di dipartimenti, ognuno dedicato
a una specifica funzione. Al vertice di ogni dipartimento erano i dirigenti di livello intermedio,
responsabili del coordinamento e del controllo delle attività dei manager di livello più basso. I
manager di primo livello (top management) dirigevano le unità operative dell' impresa.
Questa non fu comunque una fase di facile transizione. Il risultato di questo complicato processo fu
che l' impresa divenne essa stessa una sorta di entità politica: da una parte emergeva una forte
richiesta finanziaria da parte di un ampio gruppo di azionisti interessati alla redistribuzione dei profitti
sotto forma di dividendi, mentre dall' altra, ai massimi livelli dirigenziali, si manifestava l' esigenza di
utilizzare i profitti per sostenere l' ulteriore espansione dell' impresa.

9. I MODELLI NAZIONALI
Varianti nazionali

14
Il processo di industrializzazione si diffuse in Europa, a partire dalla Gran Bretagna, seguendo le linee
geografiche delle zone ricche di risorse minerarie, e in particolare di carbone, dato l’uso del vapore
come fonte energetica. Tuttavia, ad accelerare o ritardare lo sviluppo contribuirono in modo
significativo anche l’atteggiamento del potere politico e le scelte delle banche. Infatti, tanto più un
Paese risultò ritardatario nell’avviare il processo di industrializzazione, tanto più il ruolo dello Stato e
degli intermediari finanziari si dimostrò importante.
La grande impresa nei Paesi avanzati
Gli Stati Uniti
La grande impresa si era affermata negli Stati Uniti in tutti i settori in cui lo sviluppo tecnologico lo
aveva reso possibile. Nella maggioranza dei casi le caratteristiche di queste imprese erano
sostanzialmente differenti da quelle che le avevano precedute: queste società tendevano a integrare un
crescente numero di funzioni all' interno, come per esempio produzione e distribuzione, e in molti casi
diventavano multinazionali. Anche il management era diverso: per la prima volta si intravedeva una
separazione netta fra proprietà e controllo.
Il panorama non era tuttavia uniforme: le famiglie proprietarie non scomparvero e non ci fu un
divorzio definitivo fra proprietà e controllo.
Nei consigli d' amministrazione erano presenti membri provenienti dall' interno dell' impresa (inside
director) e altri di provenienza esterna (outside director): i secondi rappresentavano la proprietà ma
non avevano nè il tempo, nè le competenze, nè le informazioni necessarie ad amministrare l' impresa;
erano quindi costretti a dipendere dagli inside director, manager stipendiati presenti in azienda a
tempo pieno, i quali prendevano le decisione strategiche, ma anche quelle relative alla loro
successione ai vertici della società.
Il mercato nordamericano era estremamente dinamico grazie alla crescita esponenziale della
popolazione e al progressivo incremento del potere d'acquisto dei consumatori.
Non mancarono però i primi segnali di diffidenza nei confronti di organizzazioni aziendali capaci di
minare alle fondamenta i sistemi tradizionali di produzione e distribuzione. La large corporation
minacciava alcuni valori fondanti del Paese, quali la fiducia nella libera competizione e la
convinzione che nella gara per la conquista della ricchezza e del potere tutti dovessero partire con le
stesse opportunità.
L' applicazione delle nuove tecnologie ai processi industriali aveva causato uno squilibrio fra
domanda e offerta e, conseguentemente, una generale caduta dei prezzi che aveva a sua volta spinto le
grandi imprese ad accordarsi per il controllo del mercato. Si venne infatti a creare anche una vera e
propria battaglia antitrust.
Il tema del controllo e della regolamentazione del big business ebbe fine con il presidente Wilson che
fece approvare il Clayton Antitrust Act e fece istituire la Federal Trade Commission, due strumenti
essenziali per rafforzare la precedente legislazione contro gli accordi interaziendali. Però, anche se l'
intenzione delle forze politiche e della magistratura era di limitare la crescita della large corporation,
nella realtà la legislazione antitrust provocò l' effetto opposto in quanto portò a un' ondata di fusioni.
Tra il XIX e il XX secolo quindi negli Stati Uniti avvenne una trasformazione che comportò il
passaggio da gruppi di piccole dimensioni, con una prospettiva di azione locale e capaci di gestire i
rapporti interni in modo informale, a organizzazioni complesse di dimensioni nazionali, con una
struttura formalmente definita.
Germania
In Germania la grande azienda, già prima del 1914, mostrava caratteri simili a quelli della large
corporation americana.
In Germania i proprietari continuano più a lungo che negli Stati Uniti ad avere voce in capitolo nella
direzione dell'azienda, senza però rinunciare a compiere gli investimenti necessari all'espansione e a
costruire una estesa e selezionata gerarchia manageriale.
In Germania come negli Stati Uniti, l' opinione pubblica era favorevole alla grande dimensione d'
impresa.
Diversamente invece da quanto stava avvenendo negli Stati Uniti, la grande corporation non assunse
in Germania il ruolo di leader in tutti i settori della seconda rivoluzione industriale, a causa soprattutto
del reddito pro capite nazionale relativamente basso.

15
Inoltre la banca, in qualità di azionista, esercita, nella gestione delle imprese, un ruolo più rilevante in
Germania che non nei paesi anglosassoni. In primo luogo perchè, in qualità di banche universali, gli
istituti di credito tedeschi erano di dimensioni maggiori e inoltre perchè la superiore entità dei
finanziamenti alle aziende, dava alle banche tedesche maggiori opportunità di intervenire nella
formulazione di strategie al vertice delle imprese. Nel nuovo secolo, tuttavia, i rapporti tra banche e
imprese si avviarono al termine quando nelle principali aziende lo sviluppo aveva raggiunto un punto
tale da permettere l' autofinanziamento della crescita e, allo stesso tempo, la sempre maggiore
complessità dei problemi gestionali, relativi alla produzione, al marketing e allo sviluppo di nuovi
prodotti, aveva provocato un declino dell' influenza dei banchieri.
Ancora diversamente dagli Stati Uniti, dove il mercato interno era il principale target delle imprese,
per l' industria tedesca erano i mercati esteri a giocare un ruolo critico nel loro successo. Le
esportazioni furono quindi il motore principale nella crescita industriale della Germania.
La combinazione di un mercato interno in crescita e di mercati esteri sempre più estesi offriva
sufficienti stimoli agli imprenditori tedeschi per attuare grandi investimenti, innovare, e puntare alla
crescita dimensionale delle imprese.
In Germania inoltre era del tutto assente una legislazione specifica contro i monopoli e le pratiche
monopolistiche. Nel 1897 si ha il riconoscimento legale dei cartelli, la Corte tedesca infatti sentenziò
che gli accordi contrattuali sui prezzi, sulla produzione e sulla spartizione dei mercati potevano avere
un riconoscimento giuridico in quanto non andavano solo a vantaggio di coloro che li avevano
stipulati, ma anche dell' interesse pubblico.
Nel caso tedesco è importante anche sottolineare lo sviluppo di eccellenti istituzioni educative di
livello superiore, che hanno rappresentato una componente decisiva per il successo economico di
molti settori (formazione a tutti i livelli).
La Germania vide per prima la crescita di una classe media formata da ingegneri, tecnici-burocrati e
ricercatori, capace di guidare il Paese nel processo di industrializzazione e modernizzazione
economica.
Come nel caso degli Stati Uniti, l' affermazione della corporation come protagonista dell' economia
tedesca ha cambiato, ma non eliminato, la piccola impresa.
Gran Bretagna
Negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale grandi imprese avevano integrato
con successo la produzione con una buona rete di marketing, ed erano in grado di competere a livello
internazionale.
I vincoli e le opportunità che gli imprenditori inglesi di erano trovati ad affrontare erano però diversi
da quelli dei loro pari tedeschi e americani: la grande impresa si era concentrata nei settori dei beni di
largo consumo e, in alcuni casi, si era deciso di non investire nè nella produzione e nella distribuzione
di massa, nè nel management. Persistevano infatti un gran numero di famiglie proprietarie, che
lasciavano ben poco spazio alla creazione di estese gerarchie manageriali.
Gli ostacoli e le opportunità che gli imprenditori inglesi si trovarono ad affrontare includevano le
caratteristiche dei loro mercati, l' atteggiamento dell' opinione pubblica e le scelte dei legislatori nei
confronti della grande corporation e del sistema educativo nazionale.
Il mercato interno era poco dinamico, la Gran Bretagna continuava ad esportare prodotti tipici della
prima rivoluzione industriale e aveva completato la sua trasformazione in una società urbano-
industriale.
In questo Paese inoltre gli accordi per il controllo della competizione fra imprese si erano dimostrati
molto efficaci: la legge non poteva nè impedirli nè sanzionarli.
Infine, in Gran Bretagna, la risposta delle istituzioni di formazione superiore alle esigenze delle nuove
imprese industriali è stata molto lenta.
Il difficile approdo delle società azionarie
Le società azionarie, a norma del Bubble Act del 1720, potevano essere costituite solo con specifica
legge del Parlamento. Da ciò derivò che il loro numero fosse molto limitato.
Le imprese si dividevano quindi in ditte individuali e partnerships.
Le ditte individuali erano molto più numerose.
Le partnerships si costituivano solo nel momento in cui una ditta individuale doveva crescere di
dimensione, e le risorse del singolo imprenditore non erano sufficienti allo scopo.
16
Una alternativa alle partnership, e alle impraticabili società azionarie, si fece tuttavia strada negli anni
’30 dell’800, a “rivoluzione” industriale ormai completata, e fu la costituzione di associazioni di equa
partecipazione: uno strumento non regolamentato dalla legge, che consentiva all’imprenditore di
raccogliere danaro presso conoscenti, garantendo loro una partecipazione agli utili dell’impresa, pur
rimanendo questa una ditta individuale.
All’inizio degli anni Cinquanta emerse tuttavia un movimento di opinione pubblica che chiedeva una
diversa legislazione sulle società azionarie, tale da consentire anche ai piccoli risparmiatori di
partecipare alla ricchezza creata dalla “rivoluzione” industriale. A sollecitare questa innovazione
legislativa concorsero anche quelli che furono i primi giornalisti economici, i quali vedevano nello
sviluppo delle società azionarie uno strumento per la “diversificazione del rischio” in capo a chi
viveva di rendita.
A metà del XIX secolo nasce la limited company, un tipo di società che prevedeva che il capitale di
un’ impresa (costituita mediante atto pubblico) fosse suddiviso in azioni liberamente trasferibili sul
mercato mobiliare, con una una responsabilità societaria degli azionisti limitata al solo controvalore
del capitale sottoscritto e, all' inizio del XX secolo, nasce la limited private company, un altro tipo
di società non regolamentata dalla legge, costituita mediante scrittura privata (cioè, “registrata
privatamente) che consentiva ugualmente la responsabilità limitata, ma non permetteva la trasferibilità
delle azioni sul mercato mobiliare.
Gli effetti della limited company furono una trasformazione delle ditte individuali o delle parternships
in Limited Co., al solo scopo di sottrarre i loro proprietari alla responsabilità illimitata.
Comunque più diffuse erano le limited private companies.
Il declino dell' industria britannica
La teoria della terza generazione
Secondo tale teoria, la generazione successiva al fondatore dell’impresa si limitava a gestire il
successo conseguito dal genitore, o tutt’al più a consolidarlo, mentre la terza tendeva a disinteressarsi
dell’impresa, presa da altri interessi, e finendo perciò per mandarla in rovina.
Per quanto riguarda il rapporto proprietà-controllo, a fine ‘800 i manager erano, nelle imprese
britanniche, in numero molto limitato, e, soprattutto, non avevano autonomia decisionale, dipendendo
completamente dalle scelte della proprietà, anche nelle imprese maggiori.
L’impresa britannica non sviluppò infatti una teoria del management, anche perché la maggioranza
dei proprietari erano i gestori diretti dell’impresa.
Solo a partire dalla metà degli anni Ottanta cominciò una qualche divaricazione tra proprietà e
controllo delle maggiori imprese britanniche. I Consigli di amministrazione erano «teoricamente»
liberi di controllare i destini delle loro società senza interferenze. In realtà, per molti decenni i
principali esponenti dei consigli di amministrazione detenevano i pacchetti azionari di maggioranza
relativa delle singole società, impedendo che si manifestasse quella separazione tra proprietà e
controllo che si verificò invece negli Stati Uniti. Questi azionisti-consiglieri d’amministrazione
facevano coincidere nella propria persona anche il ruolo di manager.
I latecomer
A causa del livello tecnologico raggiunto dalle nazioni più avanzate, i Paesi che hanno scelto la strada
dell' industrializzazione negli ultimi due decenni dell' Ottocento hanno dovuto aprirsi un varco tra
forti concorrenti e questa ha comportato anche un intreccio fitto fra imprese e Stato.
Lo Stato ha sostenuto la grande impresa con sovvenzioni, protezionismo e altre politiche economiche
fino ad arrivare, in alcuni casi, all' impegno diretto come imprenditore. L' esito di questo processo è
stato un significativo mutamento nella strategia dell' impresa: tra le ragioni della crescita
dimensionale, per la grande impresa dei Paesi ritardatari, si posso individuare numerosi esempi di
"crescita strategica" guidata da obiettivi politici o perseguita da società interessate a ottenere un
maggiore potere negoziale proprio nei confronti dello Stato.
Francia
Se una parte della Francia anticipò i paesi germanici in un deciso cambiamento dalla manifattura
tradizionale al sistema di fabbrica, essa, dopo una partenza veloce conobbe non pochi rallentamenti
nel suo processo di industrializzazione a causa del costo del lavoro e di una minor disponibilità di
risorse energetiche.

17
Alla base della struttura dell' impresa francese vi è il Code de Commerce napoleonico del 1807 che
prevedeva diverse forme di associazione:
a) ditta individuale
b) società semplice o impresa familiare: tale società era di semplice costituzione, con il solo obbligo
di depositare lo statuto nei registri della locale Camera di Commercio e di incorporare nel nome della
società quello della famiglia. Essa fu nell’800 il tipo di impresa più diffusa.
c) società in accomandita, formata tra soci legalmente responsabili della gestione, e soci c.d.
“creditori” o “dormienti”. Il capitale era suddiviso in quote, ma poteva essere in parte anche sotto
forma di azioni. I soci “gestori” rispondevano illimitatamente delle obbligazioni sociali; quelli
“dormienti” per il solo capitale conferito.
d) società per azioni, associazioni di capitali fondate per uno scopo determinato, che doveva essere
obbligatoriamente incorporato nel nome dell’impresa. Il capitale era rappresentato da azioni di valore
nominale, liberamente trasferibili sul mercato mobiliare. Fino al 1867 queste società furono
strettamente controllate dallo Stato, già dal momento della loro formazione. I loro Statuti dovevano
infatti essere sottoposti al Consiglio di Stato, che poteva anche imporre modifiche, e solo
successivamente concedeva l’autorizzazione ad operare.
Alla fine della guerra di successione spagnola, la Francia si ritrova con un debito pubblico altissimo e
con conseguenti gravi problemi finanziari. Si crea allora, sulla base del progetto dell' economista
inglese John Law, una moneta cartacea con cui risolvere il debito pubblico francese.
Il sistema escogitato da Law era basato sulla creazione di una Compagnia che emetteva azioni coperte
e garantite dai possedimenti francesi in America. Ma la speculazione provocò inflazione e soprattutto
si concluse in una crisi finanziaria pesantissima.
La Società semplice fu per tutto il XIX secolo la forma più diffusa d’impresa. Essa si prestava,
infatti, sia alla gestione di imprese di piccole dimensioni, che di taglia maggiore, purché permanessero
familiari. Era infatti il desiderio di non perdere il controllo familiare che portava i proprietari ad
adottare, e a conservare tale forma giuridica.
La Società in accomandita era scelta per le imprese di maggiore dimensione, dove erano necessari
capitali anche di terzi.
La Società per azioni o era una evoluzione delle Società in accomandita, o nasceva come tale per
l’importanza del business prescelto: ad esempio nelle banche e nelle assicurazioni. Scarse, tuttavia,
furono, almeno fino agli anni ‘70/‘80 dell’800, le società a capitale diffuso.
Fu l’introduzione delle innovazioni tecnologiche, a portare ad una molteplicità di fonti di
approvvigionamento finanziario.
Il finanziamento industriale avvenne attraverso due modalità: l' autofinanziamento che ebbe un ruolo
centrale non solo nelle imprese familiari ma anche in alcune grandi imprese, e il credito bancario: il
ricorso alle banche e ad altre fonti di finanziamento esterno si sviluppò gradualmente e in modo
diseguale, a seconda delle regioni, del tipo di impresa e del tipo di anticipi richiesti.
Per quanto riguarda la gestione delle imprese, nelle grandi società azionarie, compaiono già negli anni
'60/'70 dell' 800 tre tendenze: quella alla divisione del potere, alla specializzazione delle funzioni e
all' ascesa dei tecnici. Tra la fine dell’Ottocento e il primo trentennio del secolo successivo si gettano
le fondamenta per la diffusione della grande impresa e del capitalismo manageriale.
Russia
I due momenti fondamentali nei quali la Russia ha realizzato la sua industrializzazione sono quelli
dell’ultima fase zarista e in particolare gli zar Alessandro III e Nicola II, e più tardi, tra le due guerre
mondiali, sotto la dittatura staliniana.
Nell’Ottocento l’immenso impero russo risultò in sensibile ritardo rispetto ai paesi occidentali sul
cammino dell’industrializzazione. L’immobilità dell’impero venne scossa dalla sconfitta nella guerra
di Crimea. Alessandro II avviò allora il processo di abolizione della servitù e i suoi successori,
Alessandro III e Nicola II, dal 1881 all’inizio della prima guerra mondiale tentarono di avviare il
processo di industrializzazione con motivazioni essenzialmente politico militari: mantenimento del
potere e del ruolo di grande potenza e miglioramento degli armamenti.
L' industrializzazione fu quindi forzata e questo portò ad una forte avversione dei contadini nei
confronti del lavoro di fabbrica.

18
Mancando capitali e tecnologia interni, gli zar favorirono l’ingresso di capitale straniero e lo Stato, per
finanziare l' industrializzazione, ricorse soprattutto al debito pubblico.
Un vasto programma di costruzioni ferroviarie fu realizzato in parte con capitale pubblico, in parte
garantendo ai privati, un interesse sul capitale investito. Per il finanziamento delle ferrovie, come
delle altre infrastrutture fu necessario ricorrere massicciamente a prestiti collocati in larga misura
all’estero e per pagare gli interessi su questi prestiti venne accentuata la pressione fiscale.
L’industrializzazione a chiazze non apportò benefici al mondo miserabile e chiuso dei contadini, al
contrario, il pagamento degli interessi sul crescente debito pubblico portò ad un appesantimento della
fiscalità, che compresse invece di espandere i consumi interni.
La cultura prevalente, populista, combatteva l’individualismo egoistico della cultura occidentale
portata in Russia dal rinnovamento industriale. Favorevoli al cambiamento erano invece i marxisti,
che lo vedevano però come una leva per sollevare la ribellione dei lavoratori e sovvertire l’ordine
imperiale.
L’autocrazia zarista, chiusa in se stessa, non riuscì a dominare il complesso e difficile processo di
cambiamento economico e sociale che ogni avvio di industrializzazione comporta. La miseria
contadina esplose in ripetuti episodi di ribellione sempre repressi con estrema durezza. Sarà
l’insostenibilità dello sforzo bellico, nel corso della prima guerra mondiale, a determinare la rivolta
definitiva, quella che porterà alla fine dell’impero zarista e all’instaurazione di un regime comunista.
Un ventennio dopo, negli anni in cui l’Occidente attraversava la più grave crisi economica che il
capitalismo abbia finora affrontato, la dittatura staliniana impose ai russi uno sforzo titanico e
disumano per trasformare l’economia e portarla rapidamente a collocarsi tra le più industrializzate al
mondo. Ancora una volta gli obiettivi primari erano la difesa e la conservazione del potere, ancora
una volta a pagare il prezzo più caro fu il mondo contadino. Il risultato in termini di miglioramento
della produzione nei settori di base e degli armamenti fu strepitoso, senza precedenti, ma le sofferenze
inflitte alla popolazione risultarono del tutto inaccettabili.
Giappone
Il Giappone fu il primo paese non occidentale a raggiungere una posizione di primo piano nel
panorama economico internazionale.
Il maggior imprenditore giapponese fu lo Stato che però non era l' unico protagonista della crescita
economica: le imprese private ebbero infatti un ruolo fondamentale assumendo la gestione delle
aziende create dal governo, quando questo comprese che non poteva sostenerne lo sviluppo fino alla
grande dimensione.
L' istituzione centrale dell' industrializzazione giapponese è stata quindi lo zaibatsu, il gruppo
industriale diversificato posseduto e controllato da ricche famiglie. La configurazione tipica dello
zaibatsu era quella della diversificazione in vari settori industriali correlati, con una particolare
concentrazione nella finanza, nella navigazione e nel commercio con l' estero.
Italia
Nei decenni che precedono lo scoppio della primo conflitto anche l' economia italiana ha visto l' avvio
di un vigoroso processo di industrializzazione. La modesta dotazione di risorse del Paese, combinata
con la difficoltà a raggiungere la frontiera tecnologica internazionale, ha reso quasi inevitabile la
creazione di fitti intrecci fra la grande impresa e lo Stato. Gli strumenti dell' intervento pubblico erano
protezionismo, commesse, favori e sussidi; a questi i governi italiani aggiunsero il "salvataggio
industriale".
La crescita delle grandi imprese private, come la Fiat o la Pirelli, erano vincolate dai limiti del
mercato interno.

PARTE IV: STATO E MERCATO FRA LE DUE GUERRE MONDIALI

10. L' IMPRESA MULTIDIVISIONALE E IL CAPITALISMO MANAGERIALE


Il cambiamento organizzativo nella grande impresa americana: dalla U-form alla M-form
Alla fine della prima guerra mondiale gli Stati Uniti erano il Paese industriale più sviluppato a livello
mondiale. Le imprese nate dalla fusione erano complessi di valore ben superiore alla semplice somma
delle parti iniziali. Un segnale sicuro del successo della fusione era a questo punto la drastica
diminuzione dei costi unitari di produzione e la conseguente espansione delle quote di mercato.
19
La formula organizzativa e di gestione caratteristica della grande azienda americana era, in generale,
la U-form (impresa unitaria). In queste imprese il management e il consiglio d' amministrazione
coincidevano e l' autorità era fortemente centralizzata.
Negli Stati Uniti, nel corso del quarantennio precedente la Grande Guerra, i “pionieri” avevano
acquisito le necessarie competenze tecniche e manageriali mettendo a punto il nuovo disegno
organizzativo con chiari percorsi gerarchici sia per quanto riguardava l’autorità, sia per la
comunicazione interna all’impresa. Tale struttura presentava l'inconveniente di essere poco flessibile
in quanto tutte le decisioni erano assunte da un unico centro direzionale; con l'ampliarsi della struttura
aziendale questa scarsa flessibilità si traduceva in una dispersione di informazioni e nell'assunzione di
decisioni errate a causa della limitata conoscenza da parte degli organi direttivi di tutte le complesse
articolazioni aziendali. A ciò va aggiunta una sostanziale demotivazione dei quadri intermedi poco
coinvolti nella gestione aziendale.
Negli anni Venti, il ruolo del management professionale aveva acquisito un' importanza crescente: da
questa fase di trasformazione era infine emersa la moderna impresa multidivisionale (M-form).
Sempre in questi anni il PIL e la domanda aggregata avevano cominciato a stabilizzarsi. Le imprese
non avrebbero più potuto contare esclusivamente sui fattori esterni, la crescita della popolazione, la
costruzione delle ferrovie, l' urbanizzazione, per la loro espansione: diventava essenziale compensare
la caduta della domanda.
In alcuni settori, la crescita dei dipartimenti di ricerca e sviluppo apriva la possibilità di elaborare
nuovi prodotti basati su tecnologie originali. Si era così avviato un processo di diversificazione.
Particolarmente disorientato appariva ora il top management di fronte alla prospettiva di avviare e
governare un crescente numero di linee di prodotto diverse, senza il tempo per mettere a fuoco le
decisioni strategiche generali.
I vantaggi della M-form furono molti: in primo luogo la responsabilità delle decisioni operative è
attribuita a divisioni operative sostanzialmente indipendenti, in secondo luogo lo staff collegato alla
direzione generale può dedicarsi al controllo delle singole divisioni operative, inoltre la direzione
generale può occuparsi esclusivamente di decisioni strategiche e della performance complessiva
dell’organizzazione e infine la struttura che ne risulta è più razionale e sfrutta meglio le possibili
sinergie: l’insieme viene ad essere più efficiente e più efficace.
Il problema della U-form era che i manager di medio livello si occupavano di interessi funzionali e i
manager di alto livello dovevano seguire la competizione fra dipartimenti. La U-form era adatta sino a
quando le imprese concentrarono i propri sforzi in attività omogenee. Con la M-form, invece,
ciascuna divisione viene gestita autonomamente.
In Europa la diffusione della M-form fu lenta e sostanzialmente dovuta alle società di consulenza
americane.
General Motors: successo e conflitto interno in una grande impresa multidivisionale
Costituita nel 1908 da William Durant, la General Motors era il risultato della fusione di diverse
aziende pioniere del settore automobilistico: Buick, Oldsmobile, Cadillac, Pontiac, e di alcuni piccoli
produttori di auto, camion e componenti. Per Durant l' obiettivo era ristrutturare gli impianti in vista di
un ulteriore aumento della produzione. La Gm decise presto, a differenza della Ford sua storica rivale,
di mettere sul mercato le sue azioni che quindi, già nel 1911, venivano quotate alla borsa di New
York.
La Gm riveste un'importanza straordinaria nella storia dell'impresa, in quanto, diventata la più
importante produttrice di automobili nel mercato statunitense, divenne un gigante dell'economia che
seppe differenziare con successo la propria produzione anche al di fuori del settore automobilistico:
sua, per esempio, è l'invenzione del frigorifero col marchio Frigidaire.
Fin dal 1911, la Gm vendette all'estero veicoli interamente prodotti e montati negli Stati Uniti. Per
eludere i dazi protezionistici, la General Motors adottò poi la strategia di esportare pezzi di
autovetture e di assemblarli all'estero e grazie a questa politica l'azienda risultò ancor più competitiva.
Tra il 1923 e il 1928 la General Motors aprì 19 stabilimenti di montaggio in 15 diversi paesi. In un
terzo momento l'espansione della Gm all'estero previde anche la diretta acquisizione di veri e propri
stabilimenti produttori di auto, con l'inizio di una conseguente attività di fabbricazione in Europa. Nel
1929 veniva acquisita anche l'Adam Opel, la più grande fabbrica di automobili tedesca, di modo che
la Gm fu uno dei primi esempi di società multinazionale. La crisi più grave attraversata dall'impresa
20
fu quella del 1920, quando crollò il mercato degli autoveicoli. In questo periodo Durant si dimise e gli
subentrò P. Du Pont, il quale si fece aiutare da un celebre manager che rimase ai vertici dell impresa
molto a lungo: Sloan. Questi ristrutturò l'azienda trasformandola da un disaggregato insieme di
diverse unità produttive in un vasto complesso ben integrato, sviluppando un'ampia gamma di
modelli, dall'auto economica a quella di lusso, con innovazioni non solo di struttura ma anche di
marketing. In tal modo la Gm accrebbe enormemente il proprio potere e la propria importanza sul
mercato.
Così ristrutturata la Gm superò presto la Ford. Se il motto di Ford era "di ogni colore, purchè sia
nero", la filosofia di Sloan era invece riassunta nella frase "un' automobile per ogni borsa e per ogni
scopo".
Quando Ford cominciò a perdere terreno su quelli che erano stati i suoi punti di vantaggio in quanto
first mover, reagì licenziando alcuni manager in posizioni chiave per l' impresa. Sloan arrivò subito ad
assumerli con l' obiettivo di rafforzare ulteriormente il suo team di dirigenti ad alto livello.
Alla fine del 1940 la Gm superò definitivamente la Ford.
Solo dopo la morte di Henry Ford (1947) la società che portava il suo nome si dimostrava capace di
riconquistare alcune delle posizioni perse, copiando la forma organizzativa della Gm e assumendo
manager di alto profilo.
Le procedure e i sistemi di controllo di gestione ideati e progettati all’interno della GM durante gli
anni ‘20 consentirono, inoltre, al top management di trasmettere ai singoli manager divisionali le
politiche e gli obiettivi in termini di profitto e crescita per l’intera corporate garantendo, in ogni caso,
un’enorme libertà di scelta su come impiegare le risorse a loro disposizione in modo più efficiente ed
efficace. La scelta di ristrutturare l’impresa alla luce di un modello multidivisionale e di affiancare a
questo un efficace ed efficiente sistema di controllo di gestione, in definitiva, permise ai manager
della GM di realizzare l’obiettivo di costruire un controllo centralizzato con responsabilità
decentralizzata al fine di rendere la GM una tra le più grandi e profittevoli realtà imprenditoriali nel
panorama nazionale ed internazionale.
L' ascesa del capitalismo manageriale nel dibattito dei contemporanei: la separazione fra controllo e
proprietà e il ruolo del manager
La comparsa della forma multidivisionale ha rappresentato un fattore importante nell' affermazione
dell' impresa manageriale, con la separazione fra controllo e proprietà.
Una conseguenza significativa di questa separazione era rappresentata dalla possibilità che si
verificasse una divergenza di interessi fra il gruppo di controllo e la maggioranza degli azionisti.
La proprietà dell’impresa può essere passiva: degli azionisti privi di responsabilità che vantano dei
diritti verso l’impresa ma senza quasi alcun effettivo potere verso di essa oppure attiva: di chi esercita
il controllo giornaliero e ha il potere sull’impresa senza però avere quasi alcun dovere verso di essa.
Berle e Means criticano fortemente i manager in quanto in grado di deviare il flusso dei profitti a loro
esclusivo vantaggio.
La questione era stabilire nei confronti di chi i manager erano da considerare responsabili e le
possibilità erano 3:
-la prima era che i manager dovessero riferirsi solo agli azionisti
-la seconda via consisteva nel riconoscere ufficialmente la situazione emersa dagli sviluppi recenti,
vale a dire che i dirigenti governavano l' impresa a vantaggio dei propri interessi
-la terza alternativa era il riconoscimento del principio secondo il quale le moderne società quotate in
Borsa non erano solo al servizio dei proprietari ma, piuttosto, della comunità intera.
Solo la terza opzione, sostenevano Berle e Means, poteva schiudere il percorso dello sviluppo dell'
impresa moderna secondo linee socialmente più accettabili.
Burnham scrisse "The managerial revolution" dove sottoscrive alcune delle tesi di Berle e Means
circa il nuovo potere dei manager ma secondo lui la separazione tra controllo e proprietà del capitale
sia destinata a concludersi con la completa vittoria dei manager. Si tratta di una vera e propria
rivoluzione sociale, da cui questi emergeranno come nuova classe dominante.
Rathenau anni prima e in un contesto completamente diverso, quello della Germania del primo
dopoguerra, rileva come nella società per azioni l' impresa diventi un soggetto autonomo, acquistando
una vita indipendente dai propri membri.

21
11. L' EUROPA FRA LE DUE GUERRE: CONVERGENZE E DIVERGENZE CON GLI STATI
UNITI
Nel 1925 alcune imprese chimiche tedesche, fra le maggiori del Paese definivano un accordo formale
che aveva come esito una federazione chiamata I.G. Farben che diventava così la maggiore società
chimica in Europa e una delle più grandi a livello mondiale. La fondazione della IG Farben fu una
reazione alla sconfitta della Germania nel primo conflitto mondiale e detenne un monopolio quasi
totale sulla produzione chimica durante il periodo della Germania Nazista.
Anche il governo britannico stava operando indirettamente per promuovere una fusione inglese di
imprese dello stesso settore e questa fusione si concretizzò nel 1927 con la creazione dell'ICI.
Una convergenza imperfetta
Il caso ICI rappresenta le caratteristiche dell' ambiente economico, culturale e politico in cui si
trovava a operare la "corporation europea" nel periodo infrabellico. Le decisioni politiche avevano
assunto una connotazione protezionista, corporativa e sempre più interventista, sia nei governi
democratici sia in quelli autoritari; gli accordi e i cartelli erano tollerati sia a livello nazionale sia
internazionale: questo contesto aveva dato forma alla grande impresa europea.
Alle origine del "modello europeo": la ristrettezza dei mercati
La guerra mondiale aveva posto un brusco epilogo alla prima globalizzazione economica, privando gli
europei di quei mercati continentali che restavano ancora a disposizione delle compagnie statunitensi.
La diffusione del modello dell' impresa manageriale in Europa avvenne più lentamente rispetto all'
America a causa dei fattori culturali, della struttura dei mercati e delle politiche industriali adottate dai
governi in ogni nazione.
Non è difficile trovare spiegazioni alla lentezza della transizione europea al capitalismo manageriale.
Nella prima metà del XX secolo l' Europa sprofondò nella crisi e nel caos: due guerre mondiali, una
crisi economica di vaste proporzioni, le dittature, il nazionalismo economico degli anni Trenta non
potevano non avere conseguenze. Un altro elemento che ha contribuito in modo determinante a
determinare le caratteristiche delle imprese europee è rappresentato dalla dimensione contenuta e
dallo scarso dinamismo dei mercati nazionali.
Le aree periferiche del continente (l' Italia meridionale e, in qualche misura, anche le province rurali
francesi) erano ancora gravate da una diffusa arretratezza sociale ed economica, e da un esteso
dominio dell' agricoltura. Queste regioni esprimevano livelli di domanda molto contenuti.
Nel periodo fra le due guerre non era facile costituire grandi imprese internazionali competitive.
Strategie d' internazionalizzazione della produzione attraverso investimenti diretti erano adottate
essenzialmente da quelle compagnie insediate in Paesi con mercati interni molto ristretti; questo
processo proseguiva anche dopo la fine della guerra, che aveva lasciato il mercato europeo
frammentato in economie nazionali protette.
La vicenda britannica si presenta invece come una parziale eccezione a questi sviluppo. Negli anni fra
le due guerre, le imprese inglesi continuarono a operare a un livello internazionale superiore rispetto
alla media europea.
Le origini del modello europeo: il ruolo delle istituzioni
Una conseguenza dell' "arretratezza" strutturale dell' Europa continentale fu l' adozione di politiche
statali tali da rendere più rapido l' accesso alla frontiera tecnologica internazionale. Le istituzioni
pubbliche ebbero in Europa un ruolo importante nella definizione delle regole relative alla
competizione e alle strategie imprenditoriali, con effetti anche molto diversi da Paese a Paese.
I cartelli
Le istituzioni giuridiche assunsero una funzione importante nella regolamentazione dei mercati e della
concorrenza. Gli europei erano molto più tolleranti nei confronti dei cartelli rispetto agli americani.
Nel periodo fra le due guerre, la "cartellizzazione" si diffondeva in tutta l' Europa, diventando una
componente essenziale delle politiche economiche approntate sia dai regimi dittatoriali sia dai governi
democratici.
I cartelli consentivano ai partecipanti di godere di una relativa stabilità dei prezzi e della domanda.
Questo poneva però un serio freno al potenziale espansivo delle imprese, disincentivando il
perseguimento di strategie di sviluppo.

22
Stati imprenditori e interventisti
In Italia, l' attitudine interventista dello Stato aveva dato il tono all' industrializzazione nazionale dai
suoi inizi: lo Stato italiano era direttamente proprietario di alcune delle strutture di servizi più
importanti del Paese e, dalla metà degli anni Venti, era diventato un influente azionista in diverse
compagnie industriali attraverso i vari "salvataggi" compiuti per evitare alle imprese italiane il rischio
di bancarotta e fallimento. Questa politica continuava all' inizio degli anni Trenta, quando, con la
fondazione dell' IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale, l' ente pubblico a cui erano trasferite le
quote azionarie delle società possedute dalle maggiori banche), lo Stato italiano diventava il maggiore
investitore del Paese.
Mercati dei capitali, finanza aziendale, proprietà e controllo
In Gran Bretagna, mentre le banche regionali e locali finanziavano la maggior parte delle piccole
imprese operanti nei settori tradizionali, un dinamico mercato azionario aveva occupato una posizione
di rilievo a supporto delle più significative iniziative imprenditoriali nell' industria e nel commercio.
In Germania lo sviluppo delle grandi imprese fu sostenuto dal mercato azionario, insieme a un
consistente autofinanziamento e ad un efficiente sistema bancario, articolato in grandi istituti di
credito. A partire dalla fine dell' Ottocento le banche erano diventate la componente chiave del
capitalismo tedesco, in qualità di importanti creditori e influenti azionisti. In molti casi esse erano in
grado di indirizzare le scelte delle società. Una parziale attenuazione di questo meccanismo si
registrava subito dopo la prima guerra mondiale, quando la fragilità delle banche aveva indotto le
imprese tedesche a ricercare fonti addizionali di finanziamento sui mercati azionari. Questa situazione
non durò tuttavia a lungo: il potere e l' influenza delle banche vennero presto restaurati nel periodo
postbellico.
In Francia e, ancor più, in Italia, le famiglie imprenditrici furono in grado di mantenere uno stretto
controllo sulle loro imprese, ricorrendo in misura relativamente limitata al mercato azionario e
accentuando la dipendenza del credito fornito dalle banche più importanti.
Le relazioni industriali
Un altro ambito in cui si rese evidente la differenza fra Europa e Stati Uniti è quello che riguarda le
relazione fra capitale e lavoro, sia dalla prospettiva della partecipazione dei lavoratori, sia da quelle
delle pratiche manageriali. Nella cultura economica europea gli impiegati e gli operai rappresentavano
componenti fondamentali per l' impresa. La partecipazione dei lavoratori al governo dell' azienda era
un tratto caratteristico dell' esperienza europea successiva al primo grande conflitto.
I lavoratori americani erano invece meno sindacalizzati e meno interessati a un coinvolgimento diretto
nella vita aziendale rispetto ai colleghi europei.
Strategie e strutture delle imprese europee negli anni fra le due guerre
In questo panorama economico, nel periodo fra le due guerre le imprese europee erano rimaste in
media più piccole delle concorrenti americane, si mostravano meno interessate a promuovere la
separazione fra proprietà e controllo, erano meno diversificate.
Il percorso seguito dall' Europa includeva inoltre la progressiva diffusione dell' H-form (struttura a
holding), che si dimostrava flessibile a adattabile a diverse situazioni.
L' H-form rappresenta un gruppo di imprese controllate da una società capogruppo attraverso
partecipazioni azionarie. La holding è a lungo rimasta la forma preferita di organizzazione delle
grandi imprese europee.

12. ALLE ORIGINI DEL MIRACOLO GIAPPONESE. IMPRENDITORIALITÀ, STATO E


GRUPPI DI IMPRESE
Dal feudalesimo alla modernizzazione
L' anno 1868 segna l' inizio della cosiddetta "rivoluzione Meji" con la quale un gruppo di oligarchici,
aristocratici e samurai prese il controllo del governo nazionale (rivoluzione dall' alto).
Quella della rivoluzione Meji è considerata convenzionalmente come la data d' inizio della storia del
Giappone moderno.
Prima di questa rivoluzione il Giappone era sostanzialmente chiuso alle influenze esterne e all'
isolamento si accompagnava una forte rigidità sociale: la società giapponese premoderna era divisa in
caste, che consentivano una mobilità minima.

23
Dopo la svolta politica radicale della rivoluzione Meji, il principale obiettivo del nuovo governo
divenne la modernizzazione economica, considerata necessaria per mantenere lo status di nazione
indipendente.
Il processo di modernizzazione delle istituzione venne condotto attraverso l' imitazione dei modelli
occidentali: Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti.
Da mercanti a imprenditori: la nascita degli zaibatsu
La straordinaria performance del Giappone si fondava su una politica centralizzata di
modernizzazione intensiva, accompagnata però dall' importante contributo dell' imprenditoria privata.
I successi dell' iniziativa privata convinsero quindi ad un certo punto, il governo giapponese a ridurre
il proprio impegno diretto in alcuni settori dell' economia nazionale: lo Stato cominciò a vendere
alcuni impianti agli imprenditori privati a prezzi e condizioni favorevoli.
Fra gli acquirenti vi erano diversi commercianti che decidevano di impiegare le ricchezze accumulate
negli scambi in queste intraprese industriali ex-statali.
Le imprese che intraprendevano questo percorso erano chiamate zaibatsu. Gli zaibatsu erano Grandi
concentrazioni industriali e finanziarie giapponesi in cui la proprietà dell'impresa è condivisa da
grandi banche, società di assicurazioni e società di commercio.
Comunità di imprese
Gli zaibatsu svolsero un ruolo importante però non bisogna sottostimare il contributo di piccole e
medie imprese sparse in tutto il Paese. La piccola azienda imprenditoriale era spesso attiva in settori
con uno specifico contenuto artigianale.
La disponibilità di forza lavoro a basso costo e la diffusione capillare dei motori elettrici
rappresentavano i fattori decisivi per spiegare la persistenza della piccola dimensione nel sistema
produttivo giapponese.
"Famiglie che regnano, ma non governano": management, organizzazione del lavoro e relazioni
industriali negli zaibatsu
I grandi gruppi giapponesi arrivarono presto a dotarsi delle gerarchie manageriali e delle strutture
organizzative indispensabili per gestire le loro attività sempre più complesse e decentrate.
L' affermazione delle gerarchie manageriali proseguì per tutto il decennio 1930, in particolare all'
interno degli zaibatsu.
Nel periodo precedente il secondo conflitto, la separazione fra proprietà e controllo all' interno dei
grandi gruppi era realizzata attraverso la nomina di un banto, una sorta di general manager che
tecnicamente non apparteneva alla famiglia proprietaria, ma le era legato da anni di dipendenza e da
un vincolo speciale di fedeltà. Già alla fine del primo conflitto, per la maggior parte degli zaibatsu si
può parlare di "famiglie regnanti", ma ormai lontane dal governo dell' impresa.
Nazionalismo, militarismo e crescita industriale fra le due guerre: il ruolo dello Stato
Negli ottant' anni trascorsi tra la fine dell' isolamento del Paese e lo scoppio del secondo conflitto
mondiale il Giappone realizzò un processo di modernizzazione e operò con successo la transizione
dalla prima alla seconda rivoluzione industriale. Inizialmente nazione periferica, fu capace di
raggiungere lo status di potenza economica mondiale nella seconda metà del XX secolo, grazie,
almeno in parte alle originali tecniche organizzative e alla specifica forma d'impresa adottate in questo
periodo.
Determinante è stato il ruolo svolto dallo Stato, il quale, anche dopo aver abbandonato l' intervento
diretto attraverso le imprese pubbliche, ha mantenuto una forte influenza sul sistema economico nel
suo complesso.

PARTE V: DAL DOPOGUERRA ALLA CADUTA DEL MURO

13. DALLA SECONDA GUERRA MONDIALE ALLA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE


A partire dagli anni Venti, i dipartimenti di Ricerca&Sviluppo avevano supportato le strategie di
diversificazione delle grandi imprese sviluppando nuove soluzioni tecnologiche e nuovi prodotti.
I dipendenti dei laboratori di R&S stabilivano una rete diffusa di cooperazione fra le imprese e i
dipartimenti di ricerca delle maggiori sedi universitarie: questo processo di "istituzionalizzazione
dell'innovazione" era particolarmente accentuato nelle economie statunitense e tedesca.

24
La ricerca arrivò ad assumere il carattere di risorsa strategica, soprattutto in quei settori che basavano
il proprio sviluppo su una tecnologia sofisticata. Il possesso delle più avanzate conoscenze
scientifiche e di una tecnologia superiore era fondamentale per a competitività sui mercati interni e
internazionali e per proteggere le loro conquiste di punta, le imprese si servivano di un sistema di
brevetti.
L'industria modellata dalla tecnologia: il ruolo della seconda guerra mondiale
Il secondo conflitto mondiale impose ai Paesi coinvolti un intenso sforzo di mobilitazione industriale.
Durante la guerra gli Stati Uniti e la Germania furono in condizione di procedere sulla via dell'
avanzamento tecnologico in diversi settori della ricerca applicata all' ambito militare.
Nuovi settori per una nuova rivoluzione industriale
La terza rivoluzione industriale ha visto la creazione di settori completamente nuovi e di nuove
opportunità di mercato. Il primo è quello delle comunicazioni, con l' affermazione di internet e dei
moderni sistemi di telecomunicazione. La seconda area riguarda invece i trasporti. La terza area di
addensamento delle innovazioni tecnologiche della terza rivoluzione industriale è quella della fisica
della materia. I programmi di ricerca per l' utilizzo dell' energia atomica a fini pacifici iniziavano,
subito dopo la guerra, in tutte le nazioni sviluppate.
Trend globali
Grazie alle tecnologie della terza rivoluzione industriale, nell' ultimo quarto del XX secolo si è
assistito a una nuova globalizzazione, testimoniata innanzitutto dall' incremento del volume e dell'
intensità del commercio mondiale.
Imprese e imprenditori nell' era dello "spazio stretto"
Le nuove tecnologie della terza rivoluzione industriale hanno dato origine a una gamma differenziata
di risposte imprenditoriali. Le aziende consolidate hanno dovuto rinnovare le loro strategie per
riaffermare la posizione di first mover, mentre si aprivano spazi e opportunità per nuove attività
imprenditoriali e nuovi produttori di nicchia.
Nuove forme organizzative?
La grande impresa è uscita rafforzata dalla rivoluzione tecnologica, diventando sempre più globale ed
espandendo le proprie attività su una scala considerevolmente maggiore rispetto al passato. La
crescente rilevanza dei settori ad alta intensità di tecnologia e di conoscenze, con forti investimenti in
ricerca e sviluppo, ha enfatizzato l' importanza dei processi di apprendimento e diffusione della
conoscenza all' interno dell' organizzazione.
L' emergere di nuovi settori ha però causato dei cambiamenti nelle strategie delle imprese:
frequentemente si è imposto infatti come una necessità il decentramento.

14. L'EGEMONIA AMERICANA E IL SUO DECLINO


Quando ha termine il secondo conflitto mondiale, il grande Paese d'oltreoceano era da diversi decenni
la maggiore potenza economica del pianeta.
La "sfida" americana
I grandi sommovimenti politici ed economici della prima metà del XX secolo non misero in
discussione la supremazia americana, che anzi venne poderosamente rafforzata dalla seconda guerra
mondiale. L'industria non subì alcun danno dal conflitto, e addirittura beneficiò di finanziamenti
statali senza precedenti a sostegno della difesa nazionale, che stimolarono le produzioni già
consolidate e si concretizzarono anche in risorse per la ricerca.
Durante gli anni '50 e '60, spinto anche dalla competizione con l' Unione Sovietica, lo Stato continuò a
intervenire massicciamente nella formazione e nella ricerca, contribuendo senz'altro a rafforzare un
sistema d'istruzione già all' avanguardia, in particolare a livello universitario.
All' inizio degli anni Sessanta erano pochi i settori nei quali gli Stati Uniti non risultassero in
posizione di prima fila a livello mondiale.
Spinti dalla consapevolezza di una superiorità tecnica e organizzativa rispetto alle altre nazioni che
tentavano di ostacolarli con il protezionismo, e favoriti da una sicura egemonia culturale nel mondo
occidentale, gli investimenti esteri statunitensi raggiunsero una tale intensità dopo il 1960 da far
parlare di "sfida americana".

25
I primi segnali del declino e la nuova ondata di fusioni e acquisizioni degli anni Sessanta
La potenza economica degli Stati Uniti sembrava incontenibili; tuttavia, già negli anni '50 si potevano
notare i segni di un certo rallentamento.
In realtà si andava delineando un nuovo scenario caratterizzato da un'intensa competizione alla quale
la maggior parte delle imprese americane non era abituata.
La ripresa dell' economia europea e la rinascita giapponese stavano facendo riapparire rivali stranieri
quanto mai agguerriti.
Le reazioni furono diverse: alcuni intensificarono la ricerca di processi e prodotti migliori, altri
ricercarono opportunità di investimenti e profitti in campi per i quali le loro imprese non possedevano
capacità tecnico-organizzative. Si verificarono quindi fusioni e acquisizioni prive di criteri razionali
dal punto di vista industriale fino ad arrivare alla fine degli anni Sessanta quando la crescita attraverso
fusioni e acquisizioni era diventata una vera e propria mania.
La parabola della conglomerata
Dall' ondata di fusioni e acquisizioni emergeva un nuovo tipo d'impresa: la conglomerata il cui tratto
distintivo era quello di operare in settori non correlati fra loro.
La supremazia senza precedenti nella produzione economica internazionale permetteva alle imprese
americana di conseguire elevati profitti. L' impiego di tali utili cominciava a diventare tuttavia un
serio problema per il top management. Una parte di essi veniva distribuita agli azionisti sotto forma di
dividendi ma gli azionisti degli anni '50 erano perlopiù facoltosi individui interessati alla crescita a
lungo termine del valore dei propri investimenti piuttosto che a ritorni a breve sotto forma di
dividenti, tassati con aliquota molto elevata. Il top management di molte società americane si trovò
così a disporre di quantità considerevoli di utili da investire, con l' obiettivo di ottenere per questi
investimenti profitti a lungo termine e stabilmente crescenti.
Molte aziende approfittarono della ricostruzione postbellica in Europa e in Giappone per espandersi
sui mercati esteri. L' investimento in attività all' estero prometteva buoni profitti e crescita stabile.
Esistevano tuttavia società che appartenevano a settori industriali maturi e per le quali non erano
giustificabili investimenti sui mercati esteri o iniziative di ricerca e sviluppo di ampio respiro.
I manager delle più importanti società dei settori maturi destinarono quindi gli utili non distribuiti alla
realizzazione di strategie di diversificazione in settori non correlati tra loro.
Tra i fattori strutturali che favorivano lo sviluppo delle conglomerate troviamo, per esempio, l'
aumento della pressione fiscale sui profitti d'impresa oppure la rivoluzione avvenuta nel campo
delle scienze manageriali che portò ad applicare i concetti e i metodi sviluppati durante il periodo
bellico ai problemi gestionali dell' economia civile che venivano ora risolti con metodi matematici e
statistici, per l' applicazione dei quali l' uso sistematico del computer era diventato ovviamente
indispensabile.
I maggiori punti di forza della conglomerata sembravano essere la riduzione del rischio, il minor costo
del capitale e la possibilità di una migliore utilizzazione delle risorse manageriali.
In aiuto dei sostenitori della conglomerata vi era poi la constatazione che il nuovo modello di impresa
sembrava vantare ottime prestazioni.
In realtà, i tempi d' oro non durarono a lungo. Gli anni Settanta furono un periodo di crisi economica
per molti Paesi, e in particolare per gli Stati Uniti. Le imprese americana non apparivano immuni dai
grandi problemi dell' economia nazionale e mondiale e le conglomerate anticipavano il generale
rallentamento dell' economia. Era sempre più difficile gestire in modo redditizio società appartenenti a
settori di attività troppo diversificati.
I problemi maggiori furono individuati nella struttura amministrativa sviluppata dal management che
disponeva infatti di una conoscenza piuttosto esigua delle imprese acquisite. Un top management
incompetente e incapace di comprendere i processi tecnologici e i mercati in cui operavano le aziende
facenti parte della conglomerata portarono, all' inizio degli anni Settanta, a un serio declino della
conglomerata statunitense.
Le conglomerate quindi non avevano fatto registrare gli andamenti positivi previsti dai loro creatori,
ed era ormai chiaro che erano diventate ingestibili per i loro stessi manager. A partire dagli anni
Ottanta iniziava così un vasto movimento di ristrutturazione, che puntava a ridurre lo spettro delle
attività, quando non addirittura a ritornare all' attività iniziale al fine di recuperare la competitività
perduta. Inizio così un processo di de-conglomerazione.
26
La ristrutturazione degli anni Ottanta
La crisi della conglomerata portava all'inusitato fenomeno del disinvestimento.
Aziende e parti di aziende venivano, in questo periodo, comprate, vendute, separate e ricombinate in
modo impensabile in precedenza.

15. L'UNIONE SOVIETICA: L' ANTAGONISTA


Dal Medioevo al comunismo
L' Unione Sovietica era il gigantesco Stato erede dell' impero russo che emerse dalla rivoluzione dell'
ottobre 1917.
Lenin, il fondatore dello Stato sovietico, e i suoi seguaci bolscevichi intendevano concretizzare le
teorie di Marx e Engels cioè instaurare un nuovo ordine economico e sociale, il comunismo.
Lenin però, dopo una fase definita "comunismo di guerra", nella quale l' economia regrediva ai livelli
primitivi della requisizione e del baratto, lanciò la Nuova Politica Economica (NEP) con la quale
veniva di fatto riproposto il capitalismo. La NEP si basava sulla cosiddetta "imposta in natura", per la
quale ai contadini non veniva più requisito tutto il prodotto ma, una volta pagata una tassa, o in natura
o in denaro, tutto il resto rimaneva disponibile per il libero commercio. Egualmente si tollerava l'
iniziativa della piccola impresa nell' industria e nel commercio, mentre la grande impresa industriale
era governata da trust, ovvero, un insieme di imprese aggregate per settore e per vicinanza geografica.
Tuttavia i trust presentavano due limiti: potevano trattenere solo il 20% dei profitti per compiere
nuovi investimenti, mentre l' 80% andava allo Stato e inoltre i trust persero la funzione del marketing.
La NEP rappresenta un periodo di relativa prosperità nella storia dell' Unione Sovietica. Tuttavia,
lasciava alcune questioni aperte, questioni accentuate dalla precoce scomparsa del fondatore che morì
nel 1924. Si confrontavano ora nel Partito comunista dell' Unione Sovietica tre posizioni.
La prima era quella di Trotzkij che sosteneva la necessità della rivoluzione permanente, ovvero un
conflitto continui con il mondo capitalistico; questa prospettiva però era priva di realismo.
La seconda posizione aveva l' esponente di maggior spicco in Bukarin che sosteneva l' impossibilità
per la Russia di entrare da sola nello stadio del comunismo previsto da Marx in assenza di uno
sviluppo capitalistico. Bukarin affermava, quindi, la necessità di prorogare la strategia della NEP.
Fu però la terza posizione, quella di Stalin che spazzerà via le altre due. Egli era d' accordo con
Trotzkij sul fatto che il confronto cruento con il mondo capitalistico fosse inevitabile, ma riteneva che
l' Unione Sovietica avrebbe potuto affrontarlo solo quando fosse stata un Paese industrializzato,
militarmente forte. Per questo era necessario il sacrificio dell' agricoltura, i cui prezzi dovevano essere
tenuti bassi nel confronto con quelli dei prodotti industriali. Un obiettivo del genere poteva realizzarsi
solo eliminando qualsiasi forma di capitalismo nelle campagne. Ecco quindi che si affermava la
collettivizzazione forzata delle proprietà agricole.
Allo stesso tempo il mercato veniva abolito anche nell' industria, che passava, così, sotto la dittatura
del Piano.
La dittatura del Piano
Il Piano si collocava al massimo livello di governo e stabiliva che cosa produrre, in quali quantità, con
quali caratteristiche tecnologiche, in quali localizzazioni, a quali prezzi, a quali salari e quindi, in
definitiva, determinava la produzione complessiva e le linee di investimento.
In questo quadro la grande impresa sovietica era ridotta a un' unità produttiva, che non poteva però
decidere cosa e quanto fabbricare, nè i costi dei fattori produttivi, nè aveva alcun potere di influenzare
il mercato.
Tutto ciò era un serio ostacolo all' acquisizione di quelle capacità organizzative che costituiscono la
forza delle imprese nelle economie di mercato.
Tuttavia, non si può negare che questo tipo di organizzazione abbia fatto dell' Unione Sovietica una
potenza industriale. L' economia rigidamente pianificata era alla base della vittoria nel secondo
conflitto mondiale sulla Germania nazista.
L' economia di Piano riusciva anche a procurare un certo limitato benessere ai cittadini sovietici.
Diventava evidente, però, che un sistema così rigido, appariva inadatto a un progresso continuo ed
equilibrato. Con particolare chiarezza emergeva poi il limite di un' impresa priva di capacità decisorie.
Dopo la scomparsa di Stalin veniva infatti compiuto un tentativo di limitare la forte centralizzazione
delle decisioni e della supervisione dell' attività economica.
27
Lo scopo della riforma era conferire all' impresa una maggiore stabilità, ma il risultato reale fu una
spinta verso tendenze autarchiche nelle diverse aree del Paese. Si assisteva quindi a una diminuzione
della specializzazione produttiva. Negli anni '60 venivano costituite le "associazioni per la
produzione" che, attraverso la fusione di impianti e l' integrazione di funzioni produttive, tendevano a
sfruttare nel modo più efficacie le economie di scala e ad ottenere una razionalizzazione dell' insieme
produttivo molto simile a quella delle imprese occidentali.
L' assenza di una "comunità di imprese"
Un economista russo, Yudanov, ad un certo punto sottolineò il fatto che in Unione Sovietica ciò che
era totalmente assente era una "comunità naturale" di imprese.
In Occidente possiamo individuare quattro principali tipi di strategia:
1. la strategia che punta sul volume, ovvero che si concentra sui prodotti standardizzati di massa,
e il cui obiettivo è di attrarre i consumatori con una giusta combinazione qualità/prezzo
2. la strategia di nicchia, la cui forza deriva dal fatto che una fascia, per quanto limitata, di
consumatori, ritiene determinate merci indispensabili
3. la strategia personalizzata, che si adatta a una produzione su piccola scala, non specializzata, e
mira a soddisfare qualunque richiesta del mercato che, di solito è un mercato locale
4. la strategia che ha come obiettivo l' introduzione sul mercato di radicali innovazioni.
Il problema dell' Unione Sovietica era che di queste tipologie esisteva solo la prima, interpretata dalla
grande impresa; questa, però, non aveva gli strumenti per convincere i consumatori in quanto prezzo e
quantità le venivano imposti dal Piano.
Una fine ingloriosa
La pretesa del Piano, di prevedere tutte le variabili in gioco, si rivelava irrealistica, e, per correggerne
gli errori, i tempi erano necessariamente lunghi.
In un quadro di così grande rigidità, diventavano spesso necessari sotterfugi e comportamenti illegali.
I direttori delle imprese-fabbriche inoltravano all' ufficio del Piano richieste maggiori del necessario,
in quanto operavano nel timore costante di restare a corto o privi di rifornimenti.
Una situazione di illegalità diffusa poneva quindi i dirigenti in costante pericolo di ricevere sanzioni,
ma, in realtà si trattava di una condizione necessaria per operare.

16. IL GIAPPONE: LO SFIDANTE


Nei decenni intercorsi tra la fine dell' isolamento economico e il secondo conflitto mondiale, il
Giappone aveva conosciuto un notevole processo di maturazione industriale. Tuttavia, alla vigilia
della guerra, questo processo non si era ancora dimostrato sufficiente per colmare interamente il gap
nei confronti dell' Europa e degli Stati Uniti, dovuto al ritardo con cui il Giappone aveva mosso i
primi passi verso l' industrializzazione.
L' interventismo dello Stato si manifestava con particolare vigore, negli anni fra le due guerre, sia
attraverso l' emanazione di una fitta rete di norme per il controllo e la regolamentazione dell' attività
industriale, sia con la creazione di nuove istituzioni, la più importante delle quali fu il Ministero del
commercio e dell' industria.
L'evoluzione dei gruppo di imprese in Giappone: dagli zaibatsu ai keiretsu
Dopo il 1945 gli zaibatsu venivano sciolti dal Comando alleato come misura di "democratizzazione
economica"; nel sistema delle imprese giapponesi, però, il modo di operare per "gruppi" da parte di
aziende scarsamente legate da vincoli formali rimase intatto. Nei decenni successivi alla seconda
guerra mondiale si affermavano così due nuove forme di organizzazione che finirono per essere
accomunate dal nome keiretsu.
Le riforme imposte dal Comando alleato raggiungevano l' obiettivo di trasformare la struttura
proprietaria delle imprese, permettendo così l' affermazione, anche in Giappone, del fenomeno dell'
azionariato diffuso.
Con il recupero della piena sovranità però, nel 1952, il governo giapponese rovesciava
progressivamente la linea seguita durante l' occupazione, ritenuta un ostacolo a una rapida
ricostruzione economica e ad uno sviluppo accelerato, e incoraggiava la restaurazione degli ex
zaibatsu.
In Giappone vi era l' opinione diffusa e largamente condivisa secondo cui l' impresa, e in particolare la
grande impresa, non apparteneva agli azionisti, ma a tutti i dipendenti. Di conseguenza chi controllava
28
l' impresa non era l' azionista, ma l' insieme dei dipendenti, ossia di tutti coloro che assumevano l'
impegno di dedicare tutta la loro vita lavorativa alla stessa società. La filosofia dell' "impiego a vita"
ha dominato il modello giapponese di organizzazione del lavoro per lo meno fino agli anni Novanta,
quando l' entrata del Paese in una spirale di serie difficoltà economiche ha progressivamente minato la
sostenibilità di tale modello da parte delle imprese.
I gruppi verticali: il caso della Toyota Motors
La Toyota Motors comprava dalle altre aziende circa l' 80 % del valore finale delle proprie
automobili.
Il segreto della Toyota era rappresentato dalla vastissima rete di imprese collegate. In questo modo gli
aumenti del costo del lavoro e delle materie prime erano a carico dei fornitori ed esisteva un accordo
implicito che prevedeva una diminuzione progressiva, nel tempo, dei prezzi che la società principale
doveva pagare per i propri acquisti. Come se ciò non bastasse, il controllo qualità spettava interamente
ai fornitori: la Toyota infatti non ispezionava le parti e i componenti acquistati.
Il ruolo dello Stato
Lo Stato giapponese ha svolto un ruolo molto importante e positivo per il mantenimento e l'
incremento della capacità competitiva di molti settori dell' industria giapponese, essenzialmente quelli
orientati all' esportazione.
Nel dopoguerra l' obiettivo primario era ottenere valuta straniera per finanziare la ricostruzione di un
Paese fino a quel momento del tutto dipendente dall' estero. In questa prospettiva, l' acciaio era
considerato un prodotto strategico.
Il problema era dunque sviluppare l' industria dell' acciaio. Per il successo della strategia di
esportazione era però necessario che il mercato interno diventasse un ambiente strettamente regolato,
nel quale i fattori essenziali, l' offerta, la domanda e i prezzi, dovevano essere attentamente controllati
dal governo.
I passi principali che portarono all' attuazione della strategia furono tre. In primo luogo, il
protezionismo più rigoroso: le importazioni venivano vietate, in quanto avrebbero causato un calo dei
prezzi interni e una sottoutilizzazione degli impianti. In secondo luogo veniva disegnato un sistema di
sostegno dei prezzi, che liberava le aziende dai pericolosi effetti delle fluttuazioni economiche. Infine,
si costruiva un sistema che legava i permessi di ampliare la capacità produttiva delle imprese ai
risultati ottenuti in passato.
Il "miracolo" giapponese
Il capitalismo giapponese della seconda metà del Novecento può essere definito manageriale e
competitivo.
Alimento decisivo della competizione era un mercato interno vasto e, nel ventennio successivo al
1950, in rapida e continua crescita, proprio mentre altri mercati nazionali tendevano a stabilizzarsi. Su
questa base le aziende si lanciavano in una formidabile campagna di investimenti.

17. L' IBRIDA EUROPA


Il progetto di Harvard
All' inizio degli anni Settanta la Divisione Ricerca della Harvard Business School inaugurava un
ambizioso progetto mirato all' analisi in prospettiva comparata delle strategie e delle strutture delle
grandi imprese in quattro Paesi europei che avevano sperimentato due decenni di crescita: Regno
Unito, Germania, Francia e Italia.
L' obiettivo del progetto di Harvard era verificare se la diffusione della grande dimensione aziendale
avesse comportato anche in Europa una modernizzazione organizzativa.
Il risultato atteso del progetto era prevedibile: i ricercatori erano pronti a riscontrare un' inevitabile
convergenza fra il modello americano e quello europeo, sia per le strategie che per le strutture
organizzative.
Diversificazione e multidivisionalizzazione in Europa
Nella seconda metà del XX secolo in Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia si registrò all' interno
delle imprese un profondo cambiamento, segnato dalla rapida diffusione della strategia di
diversificazione.
Il cambiamento delineato era solo in parte dovuto all' "americanizzazione" della cultura europea. Le
origini di questa tendenza erano da ricercare nel processo di modernizzazione delle economie europee
29
iniziato nel secondo dopoguerra con l' avvio dell' European Recovery Program (ERP, meglio
conosciuto come Piano Marshall). Finalizzato a sostenere la ricostruzione ed erigere una barriera
contro l' influenza sovietica in Europa, il programma aveva fornito per quattro anni, dal 1948 al 1952,
un flusso massiccio di risorse finanziarie e tecniche.
Questo primo passo di un più ampio processo di "americanizzazione" dell' economia cadeva nel
periodo di veloce ricostruzione postbellica e inaugurava una fase di intenso cambiamento.
In seguito alle politiche di apertura dei mercati e di abolizione delle barriere del commercio, i due
pilastri dell' americanizzazione, il periodo 1950-70 vedeva una progressiva espansione dei mercati
stessi e un rinnovato dinamismo economico, a dimostrazione dell' efficienza di sistemi finanziari ben
funzionanti.
L' allargamento e il ritrovato dinamismo del mercato europeo ebbero come conseguenze per esempio
il sostanzioso afflusso di investimenti diretti americani da parte delle corporation attratte dalla
domanda crescente e dalla debolezza, nei primi anni dopo la guerra, delle imprese europee in svariati
settori.
L' effetto della presenza delle multinazionali americane nell' economia europea andò comunque bel al
di là del semplice afflusso di capitali: le compagnie statunitensi portarono anche nuove tecnologie e
nuovi prodotti.
Deviazoni
Contrariamente alle aspettative dei ricercatori di Harvard, l' adozione della M-form nelle imprese dell'
Europa occidentale fu abbastanza casuale e, non di rado, solo formale. Nel caso del Regno Unito la
realizzazione di una "vera" struttura multidivisionale è stata un' occorrenza molto rara: questo era
dovuto in primo luogo alla resistenza dei senior manager alla delega del potere e della responsabilità.
Più disponibili erano invece i manager tedeschi. Il modello francese era invece dominato dalla
presenza forte e oppressiva dello Stato, che portava il management di ogni unità a coltivare relazioni
indipendenti con l' amministrazione e il potere politico. Il modello italiano combinava infine i due
estremi, facendo convivere situazioni di autonomia quasi anarchica alla periferia dell' organizzazione,
con un potere decisionale autocratico al centro.
L' anomalia europea, con la sua evoluzione divergente rispetto al modello americano, si presentava in
definitiva come una somma di varianti nazionali.
La svolta degli anni Ottanta
Nella seconda metà degli anni Settanta la lenta e progressiva adozione della forma multidivisionale
subiva un' accelerazione. L' affermazione della M-form in Europa stava però avvenendo negli stessi
anni in cui nella corporation americana iniziava un ripensamento delle strategie competitive e si
cominciava a ridurre il grado di diversificazione.
Lo Stato "interventista"
Un altro lineamento fondamentale preso in considerazione dai ricercatori di Harvard riguardava le
strutture proprietarie delle principali imprese. Insieme alle famiglie e alle istituzioni finanziarie, anche
gli Stati europei erano direttamente coinvolti quali proprietari di imprese industriali e di servizi. Le
politiche d'intervento che avevano segnato il periodo fra i due conflitti mondiali erano proseguite
anche nel dopoguerra. Negli anni della crescita costante fra il 1950-70 quasi ovunque in Europa c' era
una tendenza alla pianificazione e al coordinamento centralizzato del settore privato.
Lo Stato "imprenditore" aveva dunque esteso le sue attività in Europa sull' arco di trent' anni, a partire
dal decennio 1950; solo nei primi anni Ottanta le pressioni esterne e l' inefficienza interna
cominceranno ad assestare colpi decisivi ai vasti complessi aziendali pubblici.
Diverso in ogni Paese, il processo di privatizzazione portava di conseguenza effetti differenziati sulle
strategie e, soprattutto, sulle strutture organizzative e sugli assetti proprietari delle imprese già
controllare dallo Stato.
Nel Regno Unito, per esempio, le politiche di privatizzazione hanno avuto come esito l' emergere di
società ad azionariato diffuso sul modello americano.
In Italia molte aziende venivano cedute attraverso offerte e accordi privati con singoli, famiglie o
gruppi stranieri.
Nonostante le ondate di privatizzazioni, nella maggior parte dei Paesi dell' Europa occidentale gli Stati
hanno mantenuto una posizione importante in molti settori, continuando a esercitare il controllo delle
società attraverso meccanismi e artifici come il sistema della golden share (vale a dire una quota
30
privilegiata di partecipazione, che consente all' operatore pubblico di influenzare direttamente le scelte
del management).
Un' impresa "europea"?
La teoria tradizionale menziona tre tipologie di proprietà: la proprietà personale/familiare, quella
statale e quella riconducibile alle banche. La proprietà familiare tende a opporre resistenza al
decentramento e alla delega del potere e delle responsabilità caratteristici della M.form, e non è
comunque in grado di gestire la complessità della diversificazione. Le strutture multidivisionali
creano un mercato interno dei capitali e delle risorse, il cui funzionamento è basato su trasferimenti di
costi, allocazione dei capitali e flussi finanziari fra le varie divisioni: questo sistema entrerebbe
dunque in concorrenza con il ruolo tradizionale del banchiere e con la sua pretesa di monopolizzare le
decisioni relative all' allocazione delle risorse. Infine lo Stato preferisce strutture organizzative come
la U-form e la holding, perchè consentono di esercitare un forte controllo e attribuiscono al centro un
potere di indirizzo.
Le evidenze però sembrano contestare questi assunti: gli assetti proprietari oggi prevalenti in Europa
presentano un elevato livello di concentrazione, sono fondati su una variegata mescolanza di controllo
statale/bancario/personale e coesistono con diffuse strategie di diversificazione messe in atto dalle
maggiori imprese.
L' esperienza europea ci dimostra due aspetti: in primo luogo che la storia nazionale è importante; la
diversificazione e la divisionalizzazione non sono necessariamente le soluzioni strategiche e di
struttura più efficienti; in molti casi, imprese ad attività unica mostrano livelli di efficienza pari a
quelle ad attività diversificata. In secondo luogo che la storia europea sembra confermare la validità di
una "via continentale" alla diversificazione e alla efficienza gestionale, testimoniata dal successo delle
imprese europee di vario tipo. Una di queste configurazioni originali è denominata "multidivisonale a
rete", in cui la M-form è sostituita da una federazione di piccole e aggressive aziende imprenditoriali.

18. DIVERSE STRATEGIE PER IL CATCHING UP: COREA DEL SUD E ARGENTINA
Alcuni Paesi, nell' Africa equatoriale o nel subcontinente indiano, risultavano sopraffatti dalla
sproporzione tra popolazione e risorse, e altri, per esempio nell' America Latina, erano afflitti da una
continua turbolenza politico-sociale, capace di rendere effimere fasi di crescita che pure presentavano
tutte le sembianze del decollo economico. I piccoli Stati dell' Estremo Oriente, invece, come per
esempio la Corea del Sud che, dopo la sconfitta americana in Indocina, per una sorta di "effetto
domino" si riteneva potessero in tempi rapidi divenire preda dell' incontenibile avanzata comunista, si
indirizzavano invece verso forme di impetuoso sviluppo economico, distinte da una mescolanza di
intervento pubblico e di confronto con il mercato globale.
Corea del Sud e Argentina, due nazioni che possono essere definite arretrate e periferiche rispetto al
nucleo centrale del capitalismo, hanno avuto performance economiche estremamente differenti nella
seconda metà del secolo scorso. Mentre la Corea del Sud alla metà degli anni Novanta sembrava aver
costruito un' economia stabile basata su forti campioni nazionali in ambito industriale, l' Argentina
aveva alternato fasi di successo e declino economico che nel lungo periodo non avevano portato a una
stabile industrializzazione del Paese. Tuttavia ci sono delle similitudini fra queste due nazioni.
Innanzitutto, le caratteristiche di ristrettezza del mercato interno hanno condizionato nei due Paesi la
crescita delle grandi imprese. In secondo luogo, i due regimi politici autoritari hanno potuto
convogliare senza opposizione le risorse economiche nella direzione da loro scelta.
La Corea del Sud
Tra gli Stati asiatici che si sono distinti per un impetuoso sviluppo nella seconda metà del secolo
scorso emerge la Corea del Sud. Colonia giapponese fino al 1945, terra priva di risorse naturali, la
Corea del Sud disponeva di un apparato industriale esiguo, dato che all' indomani della guerra le
maggiori fabbriche erano collocate nella parte settentrionale della penisola.
Il decollo sudcoreano diventava evidente negli anni Settanta e si basava su una serie di politiche
economiche iniziate nel decennio precedente e volte a favorire la crescita delle esportazioni.
In Corea lo sviluppo veniva promosso da uno Stato autoritario, non ostacolato nella sua azione da una
società caratterizzata da una distribuzione della ricchezza relativamente egualitaria. A differenza di
quanto avveniva in Argentina, lo Stato coreano tuttavia raramente interveniva nell' azione economica

31
diretta facendosi imprenditore mentre si impegnava in una costante attività di sostegno all' industria
privata.
Al mancato raggiungimento della performance richiesta però, le imprese che avevano ricevuto sussidi
e protezione ne venivano private.
La Corea si è concentrata su settori ad alta intensità di capitale dedicando una speciale attenzione alla
fase produttiva e alla qualità del lavoro in fabbrica.
Non si può però parlare di imprese in quanto si trattava in realtà di gruppi di imprese, i chaebol,
controllati da famiglie proprietarie che diversificavano le proprie attività in settori non correlati.
Due classici esempi di chaebol erano la Hyundai e la Samsung.
In questo sistema non erano assenti però punti deboli. Le piccole e medie imprese, per esempio, erano
notevolmente meno dinamiche che nelle altre nazioni industrializzate e le politiche economiche del
Paese nel contesto di crescita economica guidata dai chaebol aveva inibito lo sviluppo di queste
aziende piuttosto che favorire una loro crescita.
Un altro dei punti deboli del sistema era inoltre la rischiosa politica delle banche nel finanziamento
del tumultuoso processo di industrializzazione che rendeva la situazione coreana particolarmente
difficile nel corso della crisi asiatica del 1997-98. L' elenco di piccole e medie imprese, banche e
cheabol falliti in quel periodo è molto lungo.
Tuttavia la Corea del Sud, piccolo gigante, nonostante la crisi e il rallentamento degli anni Novanta,
vantava l' undicesima economia mondiale.
L' Argentina
A differenza della Corea del Sud, si tratta di un Paese ricco di risorse naturali. Nel corso del XX
secolo ha vissuto una sostanziale instabilità politica ed errori di politica economica hanno reso lo
sviluppo industriale argentino molto difficile e, nel lungo periodo, incompleto.
Alla fine del XIX secolo e nel corso dei primi decenni del Novecento, questa nazione era pienamente
integrata nell' economia internazionale e si collocava al sesto posto al mondo per reddito pro capite.
La prosperità di questa fase non era tuttavia accompagnata dalla capacità di iniziare un processo di
industrializzazione solido nel lungo periodo. Il Paese poteva infatti contare su vaste distese di terra ed
esportava con successo prodotti agricoli e cibi conservati.
I governi argentini nel XX secolo intervenivano pesantemente nell' economia del Paese elargendo
protezione e risorse agli imprenditori che erano in grado di esercitare l' attività di lobbying più
efficace. Le società che riuscivano a beneficiare di questo supporto erano essenzialmente riconducibili
a quattro tipi: i grandi gruppi privati diversificati, le multinazionali straniere, le imprese pubbliche e le
piccole e medie aziende.
All' inizio del Novecento, le attività industriali di dimensioni maggiori all' interno del Paese erano
svolte quasi esclusivamente da grandi gruppi d' affari diversificati a proprietà famigliare, simili ai
chaebol coreani.
Nel 1946, la politica governativa portava sulla scena economica argentina altri due importanti
protagonisti: l' impresa pubblica e le piccole aziende locali. Lo sviluppo della prima, avviata non solo
secondo obiettivi economici, ma anche per ragioni sociali e militari, era volto alla costituzione di
grandi campioni nazionali in settori strategici e in comparti militari e legati alla difesa nazionale.
Relativamente alle piccole aziende, il governo si proponeva invece di proteggere e rafforzare l'
iniziativa locale che, nella prima parte del secolo, era stata di fatto quasi completamente soffocata.
L' appoggio dello Stato alle piccole e medie imprese e alle aziende pubbliche si accompagnava a un'
intensa politica di sostituzione delle importazioni e di chiusura alle multinazionali che consentiva per
qualche anno una crescita della struttura industriale del Paese. Quando, nei primi anni Cinquanta, l'
economia iniziava a rallentare, tuttavia, lo Stato cambiava nuovamente il suo indirizzo.
Il governo incoraggiava l' ingresso di imprese, soprattutto americane, concedendo loro numerosi
incentivi. All' interno del Paese erano stabilite alte tariffe protezionistiche ed erano garantiti tempi
brevi e facilitazioni per l' installazione di nuovi impianti.
Neanche queste politiche erano tuttavia in grado di promuovere un' industria efficiente in Argentina e
quando, nella seconda metà degli anni Settanta, l' economia nazionale subiva una fase di ristagno, le
imprese entravano in crisi. Iniziava così un processo di "deindustrializzazione". Nel corso di questo
processo il governo iniziava allora a favorire nuovamente i grandi gruppi nazionali diversificati,

32
dimenticati da tempo. Questi ultimi però non avevano raggiunto elevati livelli di competitività ed
efficienza.
Le multinazionali straniere, anche se avevano introdotto nell' economia argentina molte delle più
recenti innovazioni tecnologiche, organizzative e manageriali, risentivano delle contrastanti politiche
governative e del limitato mercato interno e non riuscivano a raggiungere in Argentina le buone
performance conseguite in altri contesti nazionali.
L' insuccesso dell' industria argentina nel lungo periodo era imputabile almeno a tre fattori. Il primo
risiedeva nella limitatezza del mercato nazionale. In secondo luogo, l' intensa attività di lobbying
degli imprenditori privati si è rivelata negativa per lo sviluppo di imprese efficienti e solide nel lungo
periodo. Disastrose per lo sviluppo di un sistema di imprese competitive sono state infine le politiche
economiche governative.
Nel corso degli anni Novanta una serie di riforme introdotte dal nuove presidente argentino, toccava
ogni aspetto dell' economia argentina. Parallelamente alla trasformazione del sistema bancario e
finanziario, il mondo dell' industria conosceva cambiamenti importanti come la privatizzazione delle
maggiori imprese pubbliche e la liberalizzazione di settori a lungo regolamentati.
In questo contesto di nuove politiche economiche emergevano capacità imprenditoriali rimaste
nascoste sotto gli errori nei decenni precedenti.

PARTE VI: LA GLOBALIZZAZIONE DEI NOSTRI GIORNI

19. MULTINAZIONALI: QUID NOVI?


I trend di lungo periodo
Nei decenni dopo la seconda guerra mondiale una nuova ondata di globalizzazione, integrazione
economica e intensificazione degli investimenti esteri ha movimentato l' economia mondiale.
Le grandi corporation occidentali intensificavano gli investimenti esteri, nello sforzo di riprodurre i
loro vantaggi competitivi in mercati dinamici e promettenti.
La creazione di controllate estere era comunque un processo lungo e complesso.
Investitori e imprese avevano individuato obiettivi in Africa, Asia e America del Sud, in aree
particolarmente allettanti per la dotazione di risorse naturali, in particolare quelle minerarie e
petrolifere. Qui, le strategie di espansione multinazionale erano guidate dal desiderio di stabilire un
rigido controllo sulle materie prime indispensabili ai processi di produzione continua della seconda
rivoluzione industriale.
Gli imprenditori operanti nei Paesi in via di sviluppo cercarono di riprodurre le strategie che avevano
già funzionato così bene nelle rispettive nazioni d'origine.
Dopo la seconda guerra mondiale il dollaro americano risultava sopravvalutato mentre le imprese
europee vivevano una fase temporanea di debolezza. Questa situazione consentiva alle compagnie
statunitensi di consolidare la loro presenza estera, anche nei Paesi sviluppati dell' Occidente.
Poi, gradualmente, anche l' Europa cominciò a ritagliarsi un nuovo ruolo nel processo di espansione
internazionale. Già negli anni Cinquanta e Sessanta molte imprese europee avevano recuperato le
posizioni perse nel dopoguerra, rilanciando la propria capacità competitiva su scala internazionale.
Talvolta grazie al sostegno o al diretto coinvolgimento dello Stato, le compagnie del vecchio
continente cominciavano a sfidare la supremazia americana, proprio quando gli Stati Uniti si
trovavano a gestire una profonda crisi sul versante del debito e, insieme, le preoccupazioni della
guerra in Vietnam.
Organizzazioni multinazionali
L' ormai sperimentata M-form consentì alle maggiori compagnie multinazionali di adattarsi alla nuova
situazione dell' espansione internazionale. La dinamica dell' insediamento prevedeva l' apertura di
consociate e la costruzione di impianti completamente nuovi o il supporto di partner locali per ridurre
i margini di incertezza e limitare i costi di transazione.
Le strategie di internazionalizzazione messe in atto nel secondo dopoguerra sono state oggetto di
numerosi studi.
Il modello interpretativo più efficace e ancora oggi valido è quello elaborato da John Dunning negli
anni Settanta. Lo schema analizza la decisione di operare all' estero come somma di una serie di
motivi. Innanzitutto l' impresa poteva contare su vantaggi derivati dalle proprie caratteristiche interne,
33
intese come capacità e competenze, e definite "vantaggi di proprietà" (ownership advantage). Altri
incentivi all' impianto di attività all' estero erano invece legati alle specificità del Paese "ospite" alle
risorse disponibili: questi, definiti "vantaggi di localizzazione" (location advantage), andavano dalle
dimensioni e dal dinamismo del mercato ospite alla dotazione di infrastrutture, dall' assetto politico
all' ambiente culturale. A seconda della forma assunta dalle operazioni estere, dalla semplice attività
di esportazione fino alla proprietà diretta degli impianti, si definivano infine i "vantaggi di
internalizzazione" (internalization advantage) che, secondo Dunning, erano riferiti alla necessità di
ridurre i costi di transazione e proteggere gli asset strategici dell' impresa multinazionale.
Gli anni Settanta
Le multinazionali cominciarono a sperimentare un processo di trasformazione durante la seconda
parte degli anni Settanta.
Le tre aree protagoniste di questa nuova trasformazione erano quelle della finanza, del commercio e
dei servizi per l' impresa.
Dalla fine degli anni Settanta in avanti, un' area di promettente sviluppo degli investimenti
internazionali era quella relativa alla consulenza aziendale. Il fenomeno aveva avuto origine dalle
richieste, da parte delle grandi imprese statunitensi. di sofisticati servizi contabili e finanziari, sia per
la casa madre che per gli uffici esteri.
Anche se gli Stati Uniti e le multinazionali statunitensi continuavano a svolgere un ruolo importante
in queste dinamiche di cambiamento, gli anni Settanta segnavano la fine del dominio americano in
molti settori.
Nuovi arrivati fra le multinazionali
L' emergere delle multinazionali dell' Asia orientale aveva ragioni diverse da quelle che avevano
spinto l' internazionalizzazione delle imprese americane nei decenni precedenti. Le aziende
giapponesi e asiatiche stabilivano le direttrici della loro espansione estera sulla base di vantaggi
spesso non correlati al possesso di una superiorità tecnologica.
In alcuni casi, lo Stato vincolava esplicitamente la concessione di crediti, sovvenzioni, protezioni all'
avvio di strategie di internazionalizzazione da parte delle imprese.
Negli anni Novanta la globalizzazione economica ha visto lo sviluppo delle cosiddette "multinazionali
del dragone", e delle loro originali strategie di internazionalizzazione. Aziende localizzate nelle
nazioni "di recente industrializzazione hanno scelto di percorrere la strada dell' internazionalizzazione
per acquisire vantaggi competitivi in campo tecnologico.
Strategie e strutture in cambiamento
A partire dalla fine del decennio 1980 le multinazionali hanno adottato un' ampia varietà di nuove
strutture organizzative. Due studiosi di management internazionale hanno condotto diverse ricerche in
questo ambito, individuando alla fine i quattro modelli organizzativi prevalenti delle imprese
multinazionali, internazionali, globali e transnazionali. Fra queste, solo l' imprese globale ricordava la
struttura centralizzata tipica della multinazionale americana "classica".
Gli altri modelli erano invece quelli sviluppati allo scopo di stabilire relazioni più strette con i mercati
locali.
Il modello più "virtuoso" era quello transnazionale, che descriveva le modalità di azione di una
compagnia operante all' interno di un network di consociate indipendenti, tutte con competenze
diverse, in rapporti di collaborazione quanto a scambio di conoscenze e innovazioni.

20. NUOVE FORME DI IMPRESA


Il top management volgeva ora la sua attenzione a programmi tesi a migliorare l' efficienza e la
performance aziendale.
Negli anni Novanta inoltre, altre dinamiche condizionavano l' evoluzione strategica e organizzative
delle maggiori corporation: queste erano sollecitazioni di tipo tecnologico.
Nuove tecnologie e grandi imprese
Un elemento importante in questo panorama è l' impatto delle nuove tecnologie della terza rivoluzione
industriale sulle strutture della grande impresa moderna. In una prima fase gli incrementi di efficienza
e la rapida diminuzione dei costi di trasporto avevano sostenuto l' espansione delle aziende.
Multinazionali e compagnie multibusiness avevano largamente beneficiato della rivoluzione

34
informatica, che permetteva al quartier generale dell' azienda di esercitare uno stretto controllo su
molteplici attività, anche quelle localizzate in aree geografiche distanti.
Negli anni Novanta molti dei settori tipici della seconda rivoluzione industriale cominciavano ora a
sperimentare il decentramento, con il risultato che molti comparti erano sottoposti a interventi di
riduzione di scala, accompagnati da una crescente diversificazione.
Il ridimensionamento della scala di produzione non incentivava necessariamente strategie di
disinvestimento: al contrario, consentiva l' avvio di processi di ristrutturazione e riorganizzazione di
assetti apparentemente consolidati nei settori tecnologicamente maturi, come nel caso della telefonia
mobile dei cellulari, in cui nuovi, dinamici competitori cominciavano a sfidare il dominio delle
compagnie telefoniche.
In altri casi, inoltre, la riduzione della scala ottimale di produzione supportava l' adozione di strategie
di specializzazione prima impraticabili.
Deverticalizzazione, outsourcing e hollowing-out
Le nuove tecnologie, in particolare quelle portatrici di un incremento di efficienza nei trasporti e nelle
telecomunicazioni, influenzavano anche altri aspetti dell' attività economica. Alla specializzazione
delle unità si affiancava una diffusa tendenza alla "dis-integrazione" sotto la pressione delle scelte di
esternalizzazione e/o delocalizzazione (outsourcing) intraprese per alleggerire la struttura dei costi,
fissi e variabili e per acquisire innovazioni dall' esterno.
Una conseguenza di queste trasformazioni è stato l' avvio, in alcuni casi, di reali processi di
"svuotamento" (hollowing-out) delle grandi imprese.
Network e nuove forme organizzative
L' outsourcing si fondava sulla presenza di fornitori specializzati a cui viene affidata la produzione di
specifici componenti o l' erogazione di determinati servizi.
Un altro aspetto della trasformazione in atto fra le grandi imprese riguarda la costruzione di nuove
architetture organizzative, pensate per sfruttare a pieno i vantaggi del decentramento. I prodotti
modulari, formati da componenti assemblati tramite interfaccia standardizzata, si affermavano nel
corso degli anni Novanta. Le architetture modulari consentivano la realizzazione di prodotti finali solo
marginalmente soggetti alla logica della produzione di massa, perchè i componenti potevano essere
adattati in maniera flessibile in combinazioni diverse.
Un processo di tale portata, tuttavia, non avrebbe potuto svolgersi senza costi e potenziali problemi.
Questi sono evidenti nei Paesi che hanno vissuto con maggiore intensità la trasformazione,
compromettendone anche la capacità competitiva, come è successo negli Stati Uniti negli anni
Novanta.
La grande impresa nell' era della new economy
All' interno dei network e delle forme di produzione decentrata, un ruolo particolarmente delicato
spetta a coloro che hanno la responsabilità di coordinare l' intero processo. In queste nuove
configurazioni la grande impresa ha assunto il ruolo di coordinamento e distribuzione dei compiti,
mantenendo al suo interno il controllo di funzioni cruciali come la ricerca e sviluppo.

21. I "RUGGENTI" ANNI NOVANTA


Il ritorno dell' America
All' inizio del terzo millennio gli Stati Uniti si presentavano ancora una volta come leader.
La prosperità degli anni Novanta poggiava su una combinazione di fattori in parte di natura intrinseca
al sistema industriale, in parte esterni alle dinamiche dell' economia americana. Gli Stati Uniti
mostravano una maggiore prosperità in un confronto con le altre economie industriali: il sistema
economico si mostrava infatti ancora in grado di creare numerosi posti di lavoro.
L' aspetto più rilevante riguardava però la posizione di solida leadership americana in quasi tutti i
settori tecnologicamente all' avanguardia e in quelli a maggiore intensità di ricerca.
Le dimensioni del mercato interno, la pressione della concorrenza estera, la presenza di una cornice
istituzionale efficiente e di mercati dei capitali flessibili contribuivano in maniera decisiva al successo
americano.
Solo fortuna?
Per spiegare i successi dell' economia statunitense nel decennio considerato è necessario arricchire il
contesto con alcuni fattori esogeni. In primo luogo, i freni che avevano rallentato l' andamento
35
economico nei decenni precedenti vennero meno quando gli Stati Uniti riuscirono a sfruttare appieno
le opportunità offerte da un incremento del volume degli scambi mondiali senza precedenti, la "nuova
globalizzazione".
Nello scenario politico mondiale inoltre la fine della "guerra fredda" e lo sfaldamento dell' Unione
Sovietica consentivano di contenere le necessità della spesa federale militare nei settori della difesa.
Queste condizioni favorevoli erano potenziate dalle vigorose scelte dell' amministrazione Clinton che
mise in atto una nuova politica industriale, che prevedeva il sostegno alla creatività imprenditoriale
individuale.
Uno degli obiettivi fondamentale della presidenza Clinton era inoltre il controllo e la
razionalizzazione della spesa pubblica che puntasse alla riduzione del deficit.
La new economy
Il concorso di queste condizioni esogene favorevoli faceva dunque da sfondo a un processo di crescita
caratterizzato da un notevole vigore e da una nuova effervescenza imprenditoriale: il decollo della
cosiddetta new economy.
La new economy stimolava la creazione di nuovi posti di lavoro e nuove imprese, in particolare nel
comparto delle ICT (Information Communication Technology).
L' innovativo strumento finanziario del venture capital, (=il venture capital è l'apporto di capitale di
rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato
potenziale di sviluppo) si rivelava un importante supporto per le iniziative imprenditoriali nei settori
technology-intensive.
Nonostante la forte crisi del 2000, la new economy aveva rivoluzionato la struttura competitiva di
interi settori.
Nella seconda metà degli anni Novanta si moltiplicavano le iniziative imprenditoriali basate sullo
sfruttamento delle potenzialità della rete.
La new economy patì una pesante flessione a partire dal 2001, una crisi che causò molti fallimenti.
Nonostante ciò, un numero significativo di iniziative imprenditoriali degli anni Novanta come per
esempio eBay, Amazon, Yahoo e Google, era in grado di beneficiare del collasso del mercato e,
quindi, di consolidare la propria leadership.
Un altro riflesso dello sviluppo della new economy riguardava l' introduzione di profonde
trasformazioni in settori considerati ormai stabili e consolidati. Un forte impatto avevano per esempio
le nuove tecnologie sulla grande distribuzione organizzata.
La ristrutturazione della grande impresa
L'intensa stagione della new economy non esaurisce tutti gli aspetti della ripresa economica
statunitense degli anni Novanta.
Alla metà del decennio 1990 due terzi delle maggiori imprese industriali avevano intrapreso processi
di "ristrutturazione" (re-engineering), un termine che indicava sia politiche brutali di licenziamento sia
decise trasformazioni nelle strategie e nelle strutture organizzative.
Nella nuova congiuntura, la capacità di invertire efficacemente alcune tendenze in atto e intraprendere
strategie veramente nuove rappresentava il discrimine per differenziare l' abilità dei leader a capo
delle imprese.
Molte grandi imprese statunitensi in quegli anni furono obbligate ad affrontare la sfida che imponeva
di adattarsi alle nuove regole del gioco competitivo e, o riuscivano a trasformarsi o erano destinate a
soccombere.
Alcuni elementi comuni caratterizzavano le nuove forme di imprenditorialità, rendendo possibili
storie di successo come quelle di Bill Gates alla Microsoft, Steve Jobs alla Apple e Jeff Bezos alla
Amazon, nonchè lo sviluppo così rapido delle loro aziende. Il primo fattore è rappresentato dalle
conoscenze scientifiche e della tecnologia più sofisticata. Il secondo elemento era costituito dai nuovi
strumenti finanziari che permettevano di indirizzare appropriate risorse verso questi progetti
innovativi ai primi stadi di sviluppo.
Il capitalismo degli investitori
All' inizio del decennio 1990 la quota di azioni delle maggiori corporation americane detenuta da
investitori istituzionali superava per la prima volta quella in mano a singoli indiividui e famiglie
proprietarie.

36
Questa nuova categoria di investitori nutriva aspettative molto diverse da quelle dei tradizionali
azionisti privati, perchè i fondi erano orientati alla massimizzazione di breve periodo del valore delle
azioni.
Particolare preoccupazione destava in loro il comportamento autocratico di alcuni vertici aziendali, la
pratica di non distribuire i profitti, e le strategie di diversificazione, soprattutto quelle che avevano
come risultato la creazione di strutture conglomerate. In caso di cali dei profitti in seguito alle
diversificazioni, la perdita di valore delle quotazioni suscitava pronte risposte da parte degli investitori
istituzionali.
Iniziò così una tendenza al ritorno alle competenze originarie delle imprese, e alla preservazioni delle
attività tradizionali precedenti l' avvio delle diversificazioni (tra gli anni Ottanta e Novanta il livello
medio di diversificazione si era ridotto approssimativamente del 30 %).
Il nuovo governo dell' impresa aveva però come risultato non infrequente quello di indurre nei
manager un forte incentivo ad adottare politiche finalizzate ad aumentare il valore delle azioni nel
breve termine. Molti dirigenti arrivavano così a diminuire drasticamente la capacità dell' impresa di
generare risorse interne da destinare agli investimenti e alle strategie di sviluppo. In alcuni casi, la
necessità di trasferire agli investitori un flusso elevato, costante e sicuro di guadagno portava i
manager ad adottare pratiche illegali e fraudolente, che finivano per provocare fallimenti e scandali.
Questi scandali sollevavano a tal punto l' indignazione dell' opinione pubblica che il governo decise di
intervenire per ritoccare la legislazione relativa al governo delle imprese quotate in borsa.

22. LO SVILUPPO FRENATO: EUROPA E GIAPPONE


La notevole performance dell' economia statunitense negli anni Novanta appare ancora più
rimarchevole se confrontata con gli andamenti che nello stesso periodo si osservavano in Europa e in
Giappone. Negli anni Novanta quasi tutte le economie europee avevano perso competitività.
L' Europa in vendita
Il modello economico su cui era fondata la prosperità del vecchio continente nel secondo dopoguerra
mostrava serie difficoltà che si manifestavano con un rallentamento generale della crescita. Gli Stati
europei usciti dalla seconda guerra mondiale avevano infatti sviluppato dei sistemi economici
imperniati su articolati sistemi di welfare, sul mantenimento di alti livelli occupazionali e su una
pervasiva presenza pubblica nei settori dell' energia, dei trasporti e delle utility. Il modello di
capitalismo europeo, definito "continentale", basato su una consistente spesa pubblica in deficit, aveva
sorretto con successo la crescita economica e soddisfacenti livelli occupazionali nei decenni
postbellici, ma, all' inizio degli anni Ottanta, sembrava ormai insostenibile.
A partire dalla fine degli anni Settanta i diversi Paesi davano inizio a energiche politiche di
privatizzazione.
La ritirata dello Stato dalla proprietà diretta delle grandi imprese imponeva ovunque contestuali
politiche di liberalizzazione che, di regola, comportavano la creazione di autorità di vigilanza
incaricate di monitorare il funzionamento dei mercati e l' efficienze dei servizi forniti ai consumatori.
Contemporaneamente, la rigidità dei mercati del lavoro e di quelli finanziari rallentava la creazione di
nuove iniziative imprenditoriali.
In molti casi, le nazioni europee avevano perso il loro vantaggio competitivo a causa delle pressioni e
delle sfide della globalizzazione. Questa interpretazione era valida per la Gran Bretagna e per la
Francia, ma anche per l' Italia, la cui economia, durante gli anni 70 e 80, era emersa con le produzioni
del made in Italy. Alla fine del decennio però, comunque, anche l' Italia cominciava a soffrire l' aspra
concorrenza del nuovo competitore cinese sui mercati globali.
Il Giappone e il "decennio perduto"
Il 1989 è stato un anno cruciale anche per l' economia giapponese, perchè ha segnato l' esaurimento di
una lunga fase di costante crescita iniziata negli anni 60. Al successo del modello economico
giapponese avevano contribuito quattro tratti fondamentali: una politica industriale che incoraggiava
le imprese nazionali a competere sui mercati esteri, la presenza dei keiretsu, un sistema di relazioni
industriali rinforzato dalla pratica dell' impiego sicuro per tutta la vita e, infine, un efficiente sistema
bancario che garantiva le risorse finanziarie necessarie alle politiche di investimento a lungo termine
delle imprese.

37
Né lo Stato né i gruppo di aziende si mostravano però in grado di modificare i lineamenti di questo
modello per adattarlo a un panorama economico in profonda trasformazione, negli anni 80 e 90. L'
origine della recessione andava rintracciata nella speculazione sui titoli immobiliari.
Diversi elementi avevano concorso a incrementare questa attività speculativa, ma il principale era la
politica monetaria espansiva intrapresa dalla banca centrale negli anni 80.
I problemi derivati da questa tendenza erano poi ingigantiti dalla politica di deregolamentazione del
settore finanziario, intesa dalle autorità economiche come "modernizzazione", per favorire la
concorrenza all' interno di un sistema bancario tradizionalmente rigido.
Le difficoltà del sistema bancario
Le banche dei keiretsu erano le prime a subire le conseguenze della crisi: una percentuale molto
elevata di tutti i crediti concessi nella seconda metà degli anni Ottanta si rivelava inesigibile. L'
industria perdeva quindi il supporto vitale dei finanziamenti delle banche.
I manager delle imprese erano quindi alla ricerca di fonti di finanziamento alternative a quelle
tradizionali, per esempio mediante il ricorso al capitale straniero.
Gli investitori stranieri però esercitarono subito sui manager una pressione indirizzata a modificare i
rapporti informali e la scarsa trasparenza nella gestione delle relazioni fra imprese, mettendo così in
discussione uno dei fondamenti del capitalismo giapponese, vale a dire le pratiche cooperative.
Smantellare i keiretsu?
Una conseguenza della fase di stagnazione era quindi l' indebolimento progressivo della densa rete di
partecipazioni incrociate che legavano reciprocamente le banche e le imprese.
La crisi metteva in seria difficoltà i principali settori industriali, compresi quello automobilistico e l'
elettronico, a causa della sovrapproduzione e dell' indebitamento crescenti.
In passato un efficiente controllo sull' operato della direzione aziendale era assente in Giappone e
difficilmente il management inefficiente sarebbe andato incontro al licenziamento.
Lo sgretolamento delle relazioni industriali
I massicci licenziamenti, sotto l' etichetta di "dimissioni volontarie", erano l' altro aspetto di una crisi
che metteva in discussione tutti i fondamenti del capitalismo giapponese. Il sistema dell' impiego "a
vita" o a lungo termine ne usciva profondamente indebolito, rimpiazzato da una nuova enfasi sulla
meritocrazia e sull' efficienza.

23. NUOVI PROTAGONISTI: CINA E INDIA


La prepotente ascesa dei due giganti asiatici, la Cina e l' India caratterizza in modo inconfondibile la
prima decade del XXI secolo.
Nel 1998 l' India era la quindicesima economia del mondo; oggi è la decima. La Cina, invece, oggi è
la quarta. Nel 2005 e 2006 ha superato l' Italia, la Francia e la Gran Bretagna.
La Cina
Rispetto al Giappone e agli altra Paesi asiatici emergenti, la Cina presenta oggi significative
differenze. Se i primi puntano su industrie a intensità di capitale relativamente elevata, ritenendo una
strada senza sbocco la competitività fondata su basso costo del lavoro, la Cina sembra agire su tutto il
fronte delle tecnologie e soprattutto conta su un fattore lavoro che viene remunerato a prezzi
insostenibili per gli altri.
La Cina nei confronti delle multinazionali ha applicato la politica della "porta aperta".
Sotto questo profilo appare di particolare rilievo la fitta produzione legislativa con cui, dopo il 1978 si
diede inizio alla liberalizzazione economica: da un lato si concedeva sempre maggiore diritto di
cittadinanza all' impresa privata, dall' altro si ridimensionava il peso di quella posseduta dallo Stato.
Però i rapporti tra gli imprenditori e il governo, più che comunista, non furono sempre facili.
Il ridottissimo costo del lavoro è una componente essenziale del "miracolo cinese"; uno strumento non
secondario è però stata la politica d' apertura nei confronti degli investimenti stranieri.
Negli anni 90 esenzioni fiscali o assenza di diritti doganali venivano progressivamente revocati;
restava però la piena libertà imprenditoriale e gestionale e l' impegno a non nazionalizzare le imprese
a capitale estero o a capitale misto, per le quali si annullava anche la clausola dell' obbligo della
presidenza cinese.

38
L' economia cinese ha comunque potentemente favorito i consumatori degli Stati Uniti e degli altri
Paesi occidentali realizzando la commodization di prodotti che prima erano solo di marca, dagli
elettrodomestici agli orologi, dai giocattoli agli articoli di pelletteria.
Oggi la Cina pesa sulle esportazioni globali per i 6 % (nel 1996 la percentuale era del 3%).
L' India
Sotto il profilo politico l' altro gigante asiatico sembra possedere un sicuro vantaggio. L' India è infatti
lo Stato democratico più popolato del mondo, ed è stato capace di far convivere gruppi etnici e
religiosi le cui differenze e rivalità sono potenzialmente esplosive.
La lingua inglese è parlata correntemente nel Paese almeno da tutta la classe media e questa è la leva
potente che fa dell' India il centro mondiale dei servizi moderni. Questo Paese partendo dai centri di
assistenza telefonica attivi 24 ore (call center), ha finito per occupare il campo del terziario avanzato.
Il governo indiano si è impegnato con vigore per il rientro dall' Occidente di tecnici e scienziati,
rientro che effettivamente è avvenuto.
Anche in India, come nei cosiddetti NIC (new industrial countries), la diversificazione non correlata
è una costante del panorama economico.
L' elemento di maggior interesse a proposito degli imprenditori indiani è il forte tratto etico che
caratterizza la loro azioni, spesso vengono costruiti alloggi per i dipendenti, concesse otto ore
giornaliere di lavoro, l' assistenza per la maternità, ecc.

24. UNO SGUARDO CONCLUSIVO


Il lungo cammino che abbiamo percorso sinora è stato possibile grazie all' intreccio di tre elementi: il
primo è il sistema tecnologico visto nella sua evoluzione. Il secondo è l' impresa, un insieme di
uomini e di strumenti di produzione ordinato gerarchicamente. Essa esiste da sempre, diventa un po'
più visibile nell' età della prima rivoluzione industriale perchè si appoggia a un nuovo e grande luogo
di produzione, la fabbrica. La grande impresa è il motore insostituibile dello sviluppo, lo strumento
grazie al quale le nazioni competono per l' egemonia mondiale. Il terzo elemento è il contesto locale.
La nozione di contesto locale si identifica prevalentemente con la dimensione nazionale. Il contesto
locale pone in rilievo a sua volta tre variabili: i mercati nella loro dimensione e dinamicità, il rapporto
fra potere politico e mondo dell' impresa e la cultura.

25. E L' ITALIA?


L'opinione comune e il "modellaccio"
L' Italia è un paese di piccole e medie imprese. Questa è un' opinione corrente, sia degli studiosi sia
del più vasto pubblico. In effetti, fra le nazioni avanzate l' Italia ha un vero e proprio record, con oltre
60% della forza lavoro che si concentra in imprese con un numero di addetti inferiore a cinquanta. L'
idea di fondo è che esista un modello dei Paesi avanzati e l' Italia sia rimasta fuori. In realtà, quello
dell' Italia, è un "modellaccio". L' Italia ha provato a inserirsi nella corrente delle nazioni di prima fila
e stava per riuscire, ma poi qualcosa è andato storto.
L' Italia e la seconda rivoluzione industriale
I lineamenti importanti del modello dei Paesi avanzati si riscontrano, a cavallo del 1900, anche nell'
evoluzione del sistema economico italiano. Anche da noi la prima grande impresa era una società
ferroviaria.
Gli attori
La forma del sistema industriale italiano non appariva diversa da quella delle nazioni di prima fila,
differenti erano invece gli attori dello sviluppo. L' Italia era il terreno ideale per la verifica delle teorie
di Gerschenkron, il quale postula l' esigenza di fattori "sostitutivi" dell' imprenditorialità per
promuovere l' industrializzazione dei Paesi latecomer. Questi erano la banca universale, se il ritardo
era relativamente contenuto, e lo Stato, se il grado di arretratezza era maggiore. In Italia, attorno al
1900, era grande il contributo della banca universale alla fondazione di interi settori e alle più
importanti iniziative industriali. Ma era soprattutto lo Stato il fattore decisivo.
Tuttavia la rivoluzione nelle comunicazioni e nei trasporti provocò la massiccia immissione sul
mercato italiano di prodotti agricoli proveniente da oltreoceano, sommergendo in tal modo il modello
di un ' Italia esportatrice di beni del settore primario.

39
Nel 1884 ci fu la creazione della prima impresa industriale moderna del Paese, la Terni. Alla Terni lo
Stato non concedeva solo sovvenzioni, commesse e protezione doganale ma quando l' impresa fu sull'
orlo della bancarotta, lo Stato fece un salvataggio utilizzando la Banca Nazionale con l' emissione di
nuove banconote.
Il salvataggio attraverso l' intervento della banca centrale, in mezzo secolo, si attuò quattro volte.
Dopo l' Unione Sovietica, l' Italia poteva vantare la maggiore estensione di proprietà industriale
pubblica. In Italia è però mancata una libertà fondamentale in un sistema capitalistico, quella di
fallire.
Il capitalismo politico
La pervasiva presenza dello Stato ha avuto un forte impatto sull' agire imprenditoriale. Mentre nei
Paesi avanzati la crescita era perseguita per ragioni economiche, non di rado in Italia si assisteva a
tentativi di espansione per meglio contrattare con il potere politico.
Nel complesso, se il capitalismo americano può essere definito manageriale, se quello inglese è un
capitalismo personal-familiare, e il tedesco può essere indicato come capitalismo cooperativo, non
pare esagerato definire quello italiano un capitalismo politico.
Il grande capitalismo privato
In Italia c' era anche una grande industria orientata al mercato. Per esempio la Fiat era l' impresa
egemone dell' industria automobilistica italiana già alla vigilia della prima guerra mondiale, quando
produceva la metà dei veicoli nazionali grazie a un imprenditore, Giovanni Agnelli, il primo in Italia a
comprendere che l' automobile non sarebbe rimasta a lungo un "giocattolo per ricchi", ma era
destinata a diventare un tipico prodotto di massa della seconda rivoluzione industriale.
Il mercato interno ristretto
Un problema per l' Italia era però la ristrettezza del mercato interno.
L' Italia era il Paese in cui una catena di grande distribuzione, la Rinascente, non riusciva a puntare sui
magazzini di lusso, e riusciva quindi a salvarsi dalla grave crisi dei primi anni Trenta solo con la
riconversione verso i negozi popolari della Upim (Unico prezzo italiano Milano).
Si potrebbe sostenere che un' alternativa possibile alla ristrettezza del mercato interno era
rappresentata dalle esportazioni. Il mercato internazionale si presentava però caratterizzato da forti
incertezze e fluttuazioni e quando, nel 1926, il governo italiano decideva di sostenere la lira, il settore
automobilistico, fra gli altri, ricevette un durissimo colpo.
Il settore elettrico cuore del potere economico
Alla vigilia della seconda guerra mondiale il capitalismo industriale italiano sembrava regredire verso
forme feudali. Mentre in Italia si celebrava un sistema politico ed economico che andava "verso il
popolo", la realtà mostrava interi rami dell' industria governati da un singolo uomo: come per esempio
Agnelli e Pirelli. Alla fine degli anni Trenta, Stato e famiglie dominavano la grande industria italiana
e la loro azione convergeva nel controllo del settore elettrico, un' industria resa possibile dall'
eccellenza tecnica dei nostri ingegneri e che rappresentava un terreno di sicura rendita.
Un miracolo che viene da lontano
Quando iniziava la seconda guerra mondiale l' Italia era l' unico Paese del Mediterraneo ad avere
raggiunto uno stabile stadio di industrializzazione. Per l' Italia era stato il primo conflitto mondiale il
punto di non ritorno, al termine del quale la nazione era fra le otto più industrializzate del mondo.
La grande impresa protagonista del "miracolo"
Gli anni a cavallo del 1960 sono ricordati come il periodo del "miracolo economico" italiano.
Indiscussi protagonisti sono stati imprenditori che perseguivano le economie di scala e di
diversificazione lanciandosi nella costruzione di grandi impianti e grandi organizzazioni. Non
vedevano nella contrattazione con il potere politico l' essenza del proprio agire imprenditoriale ma
anzi questa era data piuttosto da produzioni di massa che rendessero accessibili beni essenziali alla
maggioranza dei consumatori.
Un approdo "giapponese"?
Un reddito nazionale che in vent' anni (1950-1970) cresceva mediamente del 6 % annuo; la Fiat,
quinta impresa automobilistica mondiale; la Olivetti, che primeggiava sui mercati internazionali con
le sue macchine per scrivere e con le sue calcolatrici; Enrico Mattei, protagonista della politica
petrolifera internazionale; il nucleare, che vedeva l' Italia all' avanguardia in Europa. Tutto questo
dava la sensazione che l' Italia potesse spingersi sino alla frontiera dell' economia mondiale, come il
40
Giappone, un Paese certo molto lontano, ma per molti versi vicino. Negli anni Trenta in Giappone l'
azione dello Stato era troppo pervasiva. Nel secondo dopoguerra si assisteva al ritiro dell' intervento
pubblico diretto, lo Stato proteggeva e sosteneva le grandi imprese ma le obbligava a confrontarsi con
il mercato globale. Si potrebbe dire che in Italia lo Stato avrebbe dovuto ritirarsi dall' intervento
diretto e dedicarsi alla creazione di un quadro di regole all' interno delle quali la grande impresa
potesse prosperare.
Uno Stato politicizzato
La società italiana si è sempre contrassegnata per la su frammentazione localistica, tale da non
sopportare un rapporto diretto fra Stato e cittadini, necessitando invece di una mediazione da parte
della politica.
L' approdo mancato
L' incapacità di raggiungere i risultati del Giappone si concretizzava in cinque grandi episodi:
1. La degenerazione dello Stato imprenditore
2. Il fallimento dei progetti di frontiera tecnologica
3. Le conseguenze delle nazionalizzazione dell' energia elettrica
4. La crisi delle grandi famiglie, che si verifica negli anni Sessanta fra vecchie e nuove dinastie
industriali
5. Il "lungo autunno", periodo di importanti conquiste sociali per i lavoratori, ma anche di tragici
conflitti, come la diffusione del terrorismo (1969-1980)
Da queste sconfitte la grande impresa non si riprenderà più, nonostante i "ruggenti" anni Ottanta, del
resto profondamente contrassegnati dall' assenza di regole.
La scoperta della piccola impresa
L' Italia degli anni Settanta era un mistero. Sembrava afflitta da tutti i mali e da tutte le crisi, ma
continuava a crescere, seconda solo al Giappone. Si riscopriva allora la piccola impresa, speso
organizzata nella forma del distretto industriale, un territorio definito dedicato alla produzione di un
bene in cui, oltre al bene, si fabbricano anche le macchine per la sua realizzazione.
Importanti, per le piccole imprese, erano le istituzioni locali, sia con interventi positivi, come per
esempio nel campo dell' istruzione e della costruzione di infrastrutture, sia anche con la tolleranza
verso comportamenti discutibili come l' evasione fiscale.
Il quarto capitalismo
Dai distretti sono emerse non di rado imprese che in essi hanno creato precise gerarchie. Tali attori
sono definiti "quattro capitalismo" perché non potevano essere identificati nè con la grande impresa
privata, nè con quella pubblica, nè con la piccola impresa.
La formula del successo di questo quarto capitalismo era la concentrazione su una nicchia, ma di
livello globale.

41

Potrebbero piacerti anche