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Libro Colfalconieri riassunto

Economia Aziendale (Università Cattolica del Sacro Cuore)

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CAP. 1

LA DIMENSIONE D’IMPRESA

1. Dimensione aziendale: i contorni del fenomeno


La definizione di cosa si intenda per “dimensione aziendale” è una definizione
complessa e difficile da formulare.
Possiamo prendere in considerazione la definizione classica che ne dà Onida e
che dice che: “Il concetto di dimensione dell’azienda si ricollega al volume
di produzione o di affari che l’azienda è idonea a sviluppare periodicamente, col
pieno impiego dei fattori produttivi stabilmente a disposizione e quindi entro i
limiti posti dal complessivo capitale disponibile, dagli impianti costituti e
dall’organizzazione in atto”.
Si sono però, come dicevamo, riscontrati dei limiti a questa definizione e delle
difficoltà nel determinare la dimensione d’azienda, anche a causa dell’alto
numero di fattori che devono essere presi in considerazione.
Ci sono dei fattori quantitativi come:
- di natura economica: tra questi fattori ritroviamo il fatturato (inteso
come il volume d’affari dell’azienda, cioè l’ammontare delle vendite
realizzato dall’impresa in un anno), e il valore aggiunto (inteso come la
differenza tra il valore dei beni e dei servizi prodotti e il valore dei
prodotti intermedi);
- di natura tecnica: tra questi fattori ritroviamo la capacità degli
impianti, e la quantità di prodotti lavorati in un determinato periodo di
tempo, etc.;
- di natura patrimoniale: tra questi fattori ritroviamo il capitale
proprio (cioè il capitale, monetario o sotto forma di beni, che viene
conferito dai soci; quello monetario viene definito capitale sociale) e il
capitale investito (inteso come il capitale usato per acquistare beni
strumentali, che servono cioè alla produzione di altri beni);
- di natura organizzativa: tra questi fattori ritroviamo ad esempio il
numero dei dipendenti.
La dimensione d’azienda dipende anche dal paese in cui opera, ma anche dal
settore di appartenenza: bisogna infatti confrontare aziende che
appartengano allo stesso settore per poter dire quale delle due abbia
dimensioni maggiori.
Oltre agli aspetti quantitativi, bisogna anche valutare i fattori qualitativi:
- stile di direzione e possesso dell’impresa: un’impresa può infatti
essere piccola o grande a seconda di come essa viene guidata; per
esempio in un’impresa di piccole dimensioni tutte le funzioni dirigenziali
vengono accentrate nell’imprenditore, mentre in una di grandi dimensioni
ci sono più livelli di dirigenti;
- caratteristiche strutturali: si fa qui riferimento alla forma giuridica con
cui è retta l’impresa;

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- rapporti con altre imprese: si fa riferimento ai legami di dipendenza


economica che per esempio delle aziende fornitrici di parti di un singolo
manufatto hanno nei confronti di imprese di maggiori dimensioni;
- influenza sul mercato: con questo si intende il peso che l’impresa
considerata ha rispetto alle altre sul mercato; con il termine “peso” si
indica la maggiore o minore capacità che l’impresa ha di permanere sul
mercato e di influenzarlo intervenendo sia sul prezzo che sulla quantità
negoziata.

Risulta quindi chiaro che i soli elementi quantitativi non possono essere usati
per determinare le dimensioni dell’azienda, ma che ogni parametro preso
singolarmente può solamente fornire delle “indicazioni” che devono essere
attentamente vagliate congiuntamente ad altri parametri.

3. La piccola e media impresa e l’”impresa minore”


Le piccole imprese possono essere riconosciute grazie a dei caratteri tipici, che
sono i seguenti:
- è composta da pochi soci, spesso uniti da legami familiari;
- è indipendente, in quanto non appartiene a nessun gruppo economico;
- è dotata di un livello tecnologico limitato;
- detiene una quota piccola sul mercato di sbocco;
- offre una gamma di prodotti limitata;
- è gestita personalmente dai proprietari;
- esiste la possibilità che i vertici dell’azienda instaurino e mantengano
contatti aziendali diretti con i propri dipendenti.
Questo gruppo, che viene chiamato PMI (cioè Piccole e Medie Imprese), tende
però ad accomunare realtà molto diverse: questo termine confonde due realtà
che sono infatti caratterizzate da problematiche distinte, pur avendo delle
caratteristiche comuni.
Proprio per la necessità di individuare una linea di demarcazione tra le due
realtà è stato usato il termine di imprese minori.

Quello che maggiormente ci interessa evidenziare sono i percorsi di crescita


perseguibili dalle PMI.
A questo proposito si scontrano due scuole di pensiero:
- la scuola statunitense: questa scuola sostiene che lo sviluppo
dimensionale della piccola impresa debba essere un imperativo
irrinunciabile; la piccola impresa è quindi soltanto una “fase” del
processo di crescita di un’azienda;
- la scuola inglese: questa scuola sostiene invece che la piccola impresa
sia basata sulla figura del piccolo imprenditore, che può quindi anche
decidere di mantenere la sua impresa una piccola impresa e di non farla
crescere; egli potrebbe anche decidere di aumentare in essa il “tasso di
managerialità”.

4. L’evoluzione del tradizionale concetto di dimensione

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In passato il fenomeno della crescita era orientato sulla crescita interna,


legata allo sviluppo graduale delle originali strutture produttive, organizzative e
commerciali; si proseguiva poi con la crescita esterna, con la quale si
perseguivano gli stessi risultati della crescita interna.
La sola differenza tra crescita esterna e interna era data dal fatto che la
crescita veniva attuata non direttamente, ma tramite altre imprese.
Questa crescita esterna si basava poi su aggregazioni di tipo “forte”, come
fusioni ed acquisizioni per poter accrescere la quota di mercato dell’impresa.
Attualmente invece si tende a porre l’accento su nuovi sistemi di crescita
esterna, su nuovi sistemi di integrazione: i cosiddetti sistemi di integrazione
“deboli”, come gli accordi, o anche le acquisizioni e le fusioni poste in essere
non con l’intento di accrescere le quote di mercato dell’azienda, ma di sfruttare
le esperienze delle varie aziende.
Si passa quindi da quello che veniva definito “sistema d’impresa”, a quello che
viene chiamato “impresa rete” o “rete di imprese”.
Sia imprese di grandi dimensioni che quelle di piccole dimensioni possono
partecipare a reti di imprese per il raggiungimento di economie di scopo e di
scala.

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CAP. 2

LA CRESCITA DIMENSIONALE

1. Sviluppo e crescita dimensionale nelle teorie economiche


Il concetto di dimensione d’impresa ha avuto un’evoluzione nel tempo.
Secondo la teoria neoclassica, la dimensione d’impresa doveva essere
focalizzata sugli aspetti produttivi, ma questa visione risultava riduttiva e
inadeguata, finendo quindi per non prender in considerazione altri fenomeni
rilevanti dal punto di vista economico, come gli aspetti commerciali,
organizzativi e finanziari.
Successivamente furono sviluppate diverse teorie sulla grande impresa, teorie
che sono ricondotte a tre differenti approcci:
- comportamentistico: questa visione pone in risalto gli aspetti
organizzativi ed operativi legati al funzionamento dell’impresa ed è
imperniato sulla ricerca di soluzioni soddisfacenti per l’impresa, al
contrario invece della teoria neoclassica che era invece focalizzata sulla
ricerca della dimensione ottimale;
- della grande impresa manageriale: secondo questa seconda teoria, la
grande impresa è capace, tramite un’efficiente organizzazione, di
pianificare a lungo termine lo sviluppo industriale, usando in modo valido
e economie di scala e le tecnologie;
- del capitalismo manageriale: questa terza teoria analizza infine le
decisioni aziendali in relazione alla crescita e allo sviluppo delle imprese.
In particolare poi, in questo terzo approccio, tre sono state le personalità che si
sono maggiormente distinte:
- Baumol: egli vede come finalità della dirigenza dell’impresa sia quella di
massimizzare le vendite, che quella di aumentare le dimensioni
dell’azienda, mezzo questo per soddisfare le proprie aspettative;
- Williamson: egli parla invece di “spese discrezionali”, facendo
riferimento alla discrezionalità dei manager nell’effettuare delle politiche
aziendali che massimizzano i propri vantaggi rispetto a quello degli
azionisti;
- Marris: propone delle sue considerazioni sull’interesse dei dirigenti ad
aumentare le dimensioni per soddisfare le proprie ambizioni.
In questo filone delle teorie manageriali, appare poi una nuova teoria, cioè la
teoria dello sviluppo dell’impresa, esposta dalla Penrose.
Secondo la Penrose infatti, si deve abbandonare la teoria neoclassica
dell’impresa che vuole al centro di tutto la dimensione dell’impresa: la Penrose
sostituisce infatti questo concetto con quello della crescita dimensionale
dell’impresa, cioè del suo tasso di sviluppo.

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Per la Penrose è possibile raggiungere l’economicità a qualsiasi dimensione


l’azienda sia, mentre limiti all’espansione possono essere legati soltanto alla
scarsità di risorse interne.
Lo sviluppo dimensionale si manifesta con processi di auto-apprendimento del
tipo “learning by doing” e di sviluppo di risorse interne.
Possiamo notare a questo punto che sia nell’approccio economico tradizionale
sia nella teoria dello sviluppo, è stata posta in primo piano l’importanza della
tecnologia vista come vincolo ai fini del raggiungimento degli obiettivi
programmati.

2. Crescita, ampliamento dimensionale, sviluppo: alcune precisazioni


terminologiche
I due termini “crescita” e “sviluppo” sono dei termini che vengono spesso usati
come sinonimi, ma che in realtà presentano delle differenze.
Per sviluppo si intende un processo quantitativo e qualitativo che, da una
parte porta all’accrescimento dell’attività dell’impresa e dall’altra porta
all’evoluzione dei rapporti fra impresa e ambiente circostante.
Per crescita si intende invece l’aumento delle dimensioni fisiche di un’azienda.
Non tutte le imprese sono tese verso una crescita dimensionale, ma tutte, al
contrario, sono motivate ad uno sviluppo che riguarda sia aspetti tecnologici,
che organizzativi.
Ci si deve però chiedere se l’ampliamento dimensionale conduca sempre ad
uno sviluppo dell’azienda oppure no: non possiamo sempre affermare che
crescita dimensionale equivalga a sviluppo dell’azienda, in quanto in alcuni casi
l’aumento dimensionale costituisce un elemento di “non progresso”, un
elemento negativo, un freno, un fattore destabilizzante.
Possiamo quindi dire che si ha sviluppo dell’azienda quando abbinati a
fenomeni di aumento dimensionale si hanno positivi riflessi sul suo
equilibrio.

3. Le strategie di crescita
Se l’impresa vuole intraprendere un percorso di crescita, essa deve anche
definire delle strategie di crescita, cioè delle strategie che possano
indirizzare la crescita dell’azienda stessa.

Esistono sia delle condizioni esogene (esterne) che delle condizioni endogene
(interne) che favoriscono l’affermazione di strategie di crescita:
- condizioni esogene: tra queste ritroviamo la tendenza alla crescita
dell’intero sistema economico o del settore di cui l’impresa fa parte; la
mancanza di una valida concorrenza che spinge quindi l’impresa ad
incrementare la propria quota di mercato; fenomeni contingenti come
l’approvazione di politiche economiche o politiche di sviluppo da parte del
governo;
- condizioni endogene: tra questa condizioni ritroviamo motivazioni
manageriali come l’atteggiamento dei manager favorevole all’espansione
per trarre maggiori benefici; motivazioni strutturali; motivazioni
economico-finanziarie come la disposizione di un patrimonio.

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Da queste condizioni notiamo infatti quindi che l’azienda cresce o per sfruttare
opportunità offerte dal mercato o cercando di crearne delle nuove.

4. I confini dell’impresa
Altro aspetto di un’impresa difficile da definire è quello che riguarda i confini
dell’impresa stessa.
Tradizionalmente l’impresa viene vista come un’entità unitaria; accanto a
questa visione, si comprende anche che esistono delle forme di aggregazione,
che finiscono formalmente o di fatto per ampliare le dimensioni della singola
impresa.
Alcune forme di aggregazione possono essere ad esempio il gruppo di imprese,
i rapporti di subfornitura, franchising, consorzi, joint-venture.
Possono quindi sussistere tre diversi livelli di confini:
- di singola impresa;
- di gruppo;
- di aggregato.

5. Crescita e aspetti sociali


La crescita dimensionale delle imprese porta con sé delle ripercussioni
sull’ambiente circostante, ripercussioni che possono essere positive o negative.
Un aspetto sicuramente positivo è il fatto che la crescita dimensionale,
specialmente se effettuata secondo modalità interne, finisce per creare nuove
opportunità, diritte o indirette, di lavoro.
D’altro canto però, questa crescita dimensionale porta anche ad effetti
negativi sull’ambiente circostante: per esempio si parla dell’impatto
ecologico sul territorio, dell’aumento delle preesistenti produzioni e dello
stravolgimento del territorio a causa della necessità di costruire nuove
infrastrutture, come vie di comunicazione o abitazioni.
Pertanto la crescita dimensionale dovrebbe tenere in considerazione non più
solamente i benefici che essa porta all’azienda che la mette in atto, ma anche i
costi che la crescita implica: non è più quindi proponibile la logica dello
“sviluppo dell’impresa centrata solo sugli aspetti economico-tecnici”.

6. Gli ostacoli alla crescita dimensionale


Esistono però dei fenomeni ed elementi che ostacolano o contrastano la
tendenza evolutiva dell’impresa, che è una tendenza naturale.
E’ possibile individuare tre ordini di fattori riconducibili a:
- elementi di natura tecnica: tra questi aspetti ritroviamo la rigidità dei
costi legati al più alto grado di meccanizzazione e alla capacità di
sfruttare gli impianti;
- elementi di natura organizzativa: è molto più difficile organizzare
un’impresa di grandi dimensioni rispetto a una di minore entità;
- elementi legati al mercato: tra questi fattori ritroviamo i maggiori oneri
cui va incontro la grande impresa rispetto a quella di piccole dimensioni;
per esempio il costo del lavoro è generalmente maggiore nelle grandi
imprese rispetto a quelle di minore entità.

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Pertanto per evitare gli inconvenienti della crescita incontrollata occorre saper
sopportare le inevitabili tensioni connesse al processo stesso, mantenendo una
buona flessibilità operativa nonché consentendo alla struttura organizzativa
una efficiente e rapida comunicazione.

CAP. 3

LE ECONOMIE DI SCALA, SCOPO E TRANSAZIONE

1. I vantaggi della crescita dimensionale


Tre sono le ragioni che inducono un’impresa ad integrare più unità
produttive al suo interno:
- quella di monopolizzare il mercato: questo consente all’impresa che si
espande di fissare prezzi superiori rispetto alla situazione di concorrenza;
- quella che riguarda la dimensione delle risorse impiegate: l’impresa
che si espande utilizza maggiori risorse, fatto che le permette di ottenere
la riduzione dei costi unitari grazie allo sfruttamento di economie di
scala;
- quella che riguarda i costi transazionali: che diminuiscono per
l’impresa che amplia le proprie dimensioni.
Pertanto possiamo dire che ciò che spinge un’impresa alla crescita sono per lo
più i vantaggi connessi a:
- economie di scala;
- economie di scopo o di raggio d’azione;
- economie di transazione.

ECONOMIE DI SCALA
Per economie di scala si intendono le riduzioni del costo unitario nella
produzione e nella vendita di un bene ottenute passando da un’entità
produttiva minore ad una di maggiori dimensioni.
Queste economie di scala possono presentarsi su diversi piani:
- piano tecnologico: sul piano tecnologico, le economie di scala sono
legate alla diminuzione dei costi di produzione conseguenti alla crescita
delle dimensioni degli impianti (anche se dopo un certo aumento della
produzione, le economie di scala iniziano a ridursi fino a scomparire, per
trasformarsi invece in diseconomie di scala); i macchinari che vengono
impiegati sono maggiormente produttivi e questo permette la
diminuzione dei costi fissi per unità di prodotto;

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- piano commerciale: sul piano commerciale, le economie di scala


possono riguardare sia gli approvvigionamenti che la politica delle
vendite:
• approvvigionamenti: risparmi effettivi nell’ordinazione e nei costi di
spedizione (per aver acquistato una maggiore quantità di fornitura);
possibilità di stipulare contratti più favorevoli quando si acquista in
grande quantità, grazie alla capacità che ha l’impresa di grandi
dimensioni di minacciare credibilmente una sua imminente espansione
verticale della produzione;
• promozione delle vendite: l’azienda di grandi dimensioni può ha
maggiore possibilità di promuovere le proprie vendite tramite la
pubblicità e le tecniche di vendita; attraverso particolari tecniche di
marketing, l’azienda può influenzare gusti e abitudini dei consumatori;
- piano finanziario: sul piano finanziario, le economie di scala sono
connesse alla riduzione dei costi di acquisizione dei capitali; questo
permette alle imprese di maggiori dimensioni di ottenere credito bancario
a condizioni più favorevoli;
- piano della ricerca: sul piano della ricerca, possiamo affermare che le
grandi società possono più facilmente sostenere ricerche di una certa
portata, e possono possedere laboratori di ricerca, impiegando tecnici e
scienziati specializzati e costosi impianti. Esse mantengono un portafoglio
di R&S molto differenziato, in modo tale da differenziare anche il rischio;
- piano del management: dal punto di vista del management, le grandi
imprese hanno maggiore possibilità di darsi una struttura organizzativa
che consenta di utilizzare competenze specializzate a livello personale
tecnico-direttivo o il vantaggio di poter assumere, selezionare o
promuovere un management più capace; possiamo quindi dire che le
imprese di grandi dimensioni sono in grado di attirare più facilmente
elementi dotati di elevate qualità manageriali e specialisti nei vari settori
di gestione.
Forse però il più grande vantaggio della grande dimensione consiste nella
possibilità di una politica di diversificazione del prodotto e nella
ripartizione del rischio: allargando le dimensioni, si può infatti preservare la
stabilità di un’impresa, sia riducendo l’impatto delle fluttuazioni di mercato, sia
riducendo i rischi conseguenti a insuccessi nel lancio di nuovi prodotti.
Le economie di scala che abbiamo elencato possono essere di due tipi:
- economie di scala interne: quelle che dipendono dalla risorse delle
singole aziende, dalla loro organizzazione e dall’efficienza della loro
amministrazione;
- economie di scala esterne: quelle che invece dipendono dallo sviluppo
generale dell’industria.

Secondo alcuni economisti “classici”, i benefici delle economie di scala possono


essere perseguiti non soltanto da imprese di notevoli dimensioni, ma anche
raggruppando un gran numero di produttori più piccoli all’interno di un
distretto.

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Il distretto industriale viene definito come un complesso di piccoli produttori


per i quali l’intero processo produttivo è suddiviso in diverse fasi, ciascuna
delle quali viene svolta in differenti stabilimenti mantenendo costi ed economie
proprie della grande dimensione.
Come le imprese di grandi dimensioni, anche questi distretti possono godere di
due diverse economie di scala, interne ed esterne.
Perché si possa parlare di economie di scala, devono sussistere le seguenti
condizioni:
- le imprese sono concentrate sul territorio;
- il processo produttivo è suddivisibile in fasi;
- le fasi possono essere sufficientemente svolte in piccoli complessi.
In questo modo anche le imprese di piccole dimensioni riescono ad ottenere
economie di scala, dette economie esterne di agglomerazione.

Si è osservato che esistono però dei limiti alla crescita dimensionale.


Sussiste un limite oggettivo alla crescita delle dimensioni dell’impresa,
rappresentato dalla progressiva perdita di controllo delle informazioni nel
passaggio da un livello gerarchico all’altro e dai confini interni che diventano
sempre maggiori con l’aumentare delle dimensioni dell’impresa, provocando
costi di produzione più alti e, quindi, diseconomie di scala.

ECONOMIE DI SCOPO o di raggio d’azione


L’espressione “economie di scopo” deriva dall’espressione inglese “economies
of scope”: in realtà il termine “scope” sta a significare estensione, confine
dell’impresa e quindi la traduzione italiana “scopo” è fuorviante.
Sarebbe quindi meglio chiamarle “economie di estensione” o “economie di
raggio d’azione”.
Le economie di scopo sono i minori costi che si ottengono quando un’impresa
produce due o più prodotti usando le stesse risorse.
Queste economie si identificano quindi con l’estensione orizzontale
dell’azienda stessa: l’aspetto che caratterizza le economie di scopo è infatti la
capacità di integrazione dell’impresa con terzi o di parti dell’impresa tra di loro.
Si può godere quindi di vantaggi derivanti dalla diversificazione dei beni
prodotti e dall’ampliamento della gamma di prodotti proposti: in questo modo,
per esempio, si può ottenere la riduzione dei costi fissi, con l’uso delle stesse
reti distributive e le stesse reti di trasporto per prodotti differenti.
Altro aspetto fondamentale che riguarda queste economie è legato al concetto
di varietà, proprio della flessibilità ed efficienza: questa è la capacità di
un’impresa di agire contemporaneamente su più variabili, sul grado di
flessibilità quindi dell’impresa stessa.
Si parla perciò di economie di flessibilità.

ECONOMIE DI TRANSAZIONE

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Le economie di transazione sono quelle economie che si ottengono quando


si diminuiscono gli scambi con terzi e quindi quando l’azienda decide di
integrarsi verticalmente, o a monte o a valle, con altre aziende.
Quando infatti un’impresa compie degli scambi con terzi, essa sostiene due tipi
di costi:
- costi d’uso del mercato: lo scambio di mercato presuppone infatti
l’acquisizione di informazioni da parte di entrambi gli attori dello
scambio, in quanto entrambi si trovano in una situazione di “razionalità
limitata”;
- costi di controllo del mercato: questi sono quei costi legati alla
presenza di comportamenti opportunistici da parte di alcuni soggetti che
intervengono negli scambi, e sono sostenuti per verificare che
l’esecuzione delle transazioni avvengano secondo le condizioni pre-
pattuite dagli scambisti.
I costi transazionali sono tanto più elevati, quanto maggiore è la tecnologia
incorporata nel prodotto, cioè quanto più è alto il know how.
Le aziende dovranno quindi tendere alla massimizzazione delle economie di
scala e alla minimizzazione dei costi di transazione.

Oltre a queste tre forme di economie che costituiscono di per sé delle forze
aggreganti, altre forze aggreganti sono:
- avversione alla pressione competitiva;
- orientamento al dominio;
- occasioni e orientamenti speculativi;
- relazioni di solidarietà (di gruppo familiare o sociale).

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CAP. 4

LA DIMENSIONE E IL CONCETTO DI ESTENSIONE

1. INTEGRAZIONE ORIZZONTALE
L’integrazione orizzontale misura la numerosità e la disomogeneità delle
combinazioni economiche per prodotto e per mercato.
Con lo sviluppo orizzontale l’azienda tende ad aumentare le proprie dimensioni,
incrementando il suo peso nello specifico campo di attività in cui essa opera.
L’integrazione orizzontale si attua accorpando più unità producenti il medesimo
bene, o uno differenziato, aumentando quindi la presenza in termini
quantitativi su uno specifico mercato.
In questo modo l’impresa ha la possibilità di provocare una maggiore
concentrazione del mercato, arrivando anche a posizioni monopolistiche, in cui
l’impresa stessa è in grado di controllare produzione, prezzi e mercati.

Le differenti tipologie con cui si effettua un’integrazione orizzontale sono:


- la linea di prodotti esistente: questa alternativa non comporta la
modifica dei prodotti già esistenti e può essere attuata sia sugli stessi
mercati in cui l’impresa già opera, oppure su mercati geograficamente
nuovi;
- prodotti differenziati: questa alternativa è sicuramente più complessa
e può nascere come necessità di differenziare il proprio prodotto rispetto
a quello dei concorrenti;
- impiego prevalente di marketing: in particolare nei mercati in cui
l’impresa è già presente, essa può decidere di far acquistare quantità
maggiori ai propri clienti, oppure di acquisire nuovi consumatori, oppure

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ancora di abbinare a fenomeni pubblicitari e promozionali una


diminuzione dei prezzi.

Le motivazioni che portano ad un’integrazione orizzontale sono:


- aumento della quota di mercato: con ciò si intende la maggiore forza
che l’azienda acquisisce a livello di marketing;
- acquisizione di know how: se l’azienda infatti non si integrasse
orizzontalmente, essa dovrebbe sostenere dei costi altissimi per ottenere
queste conoscenze, investimento rischiosissimo e non sempre dal
risultato positivo;
- miglioramento dell’efficienza operativa: con l’efficienza produttiva
l’azienda sarà in grado di ampliare la propria produzione e, in questo
modo, anche di ripartire i costi fissi su una produzione appunto più
ampia, cosa che permette una minore incidenza dei costi fissi per unità
prodotta;
- salvaguardia dal calo di domanda: aumentando, diversificando la
produzione e i mercati di sbocco della produzione, l’azienda può limitare
il calo della propria domanda;
- volontà di acquisire maggior potere monopolistico: spesso
l’integrazione orizzontale ha come fine quello di “togliere” dal mercato
alcuni concorrenti o creare delle barriere all’entrata nei confronti di
potenziali concorrenti.

Si possono poi distinguere anche altri due tipi di integrazione orizzontale:


- integrazione orizzontale laterale: questa prevede l’integrazione tra
imprese che producono varianti dello stesso tipo di prodotto;
- integrazione orizzontale diagonale: questa prevede invece l’aggiunta
al proprio prodotto di servizi ausiliari.

2. INTEGRAZIONE VERTICALE
L’integrazione verticale riguarda la numerosità e la disomogeneità delle fasi
del processo di produzione economica svolte all’interno dell’azienda.
Con lo sviluppo verticale l’azienda può controllare processi produttivi o
distributivi posti “a monte” o “a valle” rispetto alla propria tradizionale attività:
- a monte o ascendente: avviene quando l’impresa si integra con
aziende che svolgono lavorazioni che nella filiera produttiva si collocano
in una posizione precedente rispetto a quelle svolte dall’azienda che si
sta integrando;
- a valle o discendente: avviene quando l’impresa si integra con aziende
che svolgono lavorazioni che nella filiera produttiva si collocano in una
posizione successiva rispetto a quelle svolte dall’azienda che si sta
integrando.
Per filiera tecnologico-produttiva si intende l’insieme di lavorazioni che devono
essere effettuate in “cascata” per passare dalla materia prima al prodotto
finito.

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L’azienda che si espande “a monte” finirà con l’introdurre nel proprio ciclo
produttivo lavorazioni preliminari e intermedie rispetto al prodotto finale.
Con l’integrazione “a valle” l’azienda finirà per modificare il mercato di sbocco.

Quest’integrazione verticale può poi essere di due tipi:


- integrazione verticale completa: si ha quando l’azienda, a seguito
dell’integrazione, viene a collocarsi in un ambito differente rispetto al
passato; per esempio si colloca ad un livello più a monte o più a valle
rispetto alla preesistente posizione;
- integrazione verticale parziale: si ha quando l’azienda, a seguito
dell’integrazione, non modifica la propria posizione sul mercato, in
quanto la maggior parte dei beni necessari alla produzione e dei beni
venduti continuano ad essere acquistati o venduti sui mercati
tradizionali.

Le motivazioni che portano ad un’integrazione verticale sono:


- riduzione dei costi di transazione: tale riduzione è particolarmente
sensibile per le integrazioni di tipo ascendente in cui si ha una riduzione
dei costi di approvvigionamento; in questo caso però ci si deve accertare
che vi sia un’uguaglianza fra il costo di produzione e il prezzo di acquisto
da terzi, altrimenti l’integrazione non è conveniente;
- aumento del valore aggiunto: in caso di integrazione verticale si ha
un aumento del valore aggiunto dei prodotti;
- possibilità di un maggior controllo sui costi di produzione: questo
controllo permette di ridurre i costi di produzione, in quanto si riducono
le inefficienze dei fornitori e dei clienti attraverso una valida
programmazione;
- continuità e sicurezza negli approvvigionamenti: questo è un
vantaggio dell’integrazione “a monte” che permette all’azienda di
approvvigionarsi secondo le proprie necessità del momento (just in
time);
- r i d u z i o n e d e i r i s c h i d i v e n d i t a : q u e s t o è u n va n t a g g i o
dell’integrazione “a valle” che permette all’impresa di ampliare il proprio
mercato, influenzandone più attivamente la domanda e riducendo i rischi
connessi alla fase di vendita;
- vantaggi competitivi e concorrenziali: l’integrazione verticale
permette infatti che l’impresa integrata aumenti il proprio peso sul
mercato, costituendo barriere all’entrata; questo fenomeno è anche
quello meno perseguito dall’autorità antitrust.

3. La misurazione dell’integrazione verticale


Il grado di integrazione verticale può essere oggetto di misurazioni dirette e
indirette.
Un esempio di misurazione è quello proposto da Adelman, che si riferisce al
rapporto tra valore aggiunto e fatturato:

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VA
Iv = -----
F

Più l’indice dà risultato elevato, più l’azienda risulta integrata


verticalmente.
Il caso limite è rappresentato da un indice pari a 1.
Sono state però fatte delle obiezioni a questo indice:
- ambiguità: il valore dell’indice varia notevolmente a seconda del settore
sul quale esso viene calcolato; esso dipende per esempio dal numero di
aziende o anche dal fatto che ci siano o meno fusioni;
- influenzabilità da parte dell’inflazione: il valore dell’indice varia molto
anche in base alla variazione dei prezzi delle materie prime o dei
semilavorati;
- efficienza e grado di integrazione: questa obiezione interessa anche il
concetto stesso di valore aggiunto che ingloba in sé anche il profitto, con
la conseguenza di far sembrare più integrate le imprese più efficienti.
Nonostante i limiti individuati però, si può concludere che l’indice Valore
Aggiunto/ Fatturato sia un valido indicatore del grado di integrazione verticale
delle imprese o di un settore.

Altro indice che è stato individuato è stato il rapporto tra Valore del Magazzino
e Fatturato, ma anche questo ha degli inconvenienti.
Possiamo quindi concludere che non esiste un solo indice che possa
racchiudere l’intero concetto dell’integrazione verticale, senza la perdita di
informazioni.

4. La disintegrazione verticale e il problema de decentramento


L’impresa di grandi dimensioni presuppone vantaggi, quali un’unica politica di
finanziamento, la ripartizione dei rischi, una comune politica di acquisti e
vendite, ma numerosi sono gli svantaggi connessi alle grandi dimensioni,
soprattutto le difficoltà di coordinamento, con conseguenze sul comportamento
dei dipendenti.
Esistono insomma degli elementi che tendono a favorire, almeno in particolari
momenti e per particolari produzioni, le imprese di minori dimensioni.
In effetti due sono le modalità per la ristrutturazione di una grande azienda
mediante un decentramento:
- un decentramento organizzativo in cui la grande impresa finisce con
l’essere suddivisa in tante unità produttive distinte, oppure si può attuare
una struttura organizzativa di tipo multidivisionale;
- un decentramento produttivo attraverso il quale la produzione
complessa viene frazionata in diversi ed autonomi cicli operativi
(subfornitura).

5. LO SVILUPPO DIVERSIFICATO
Abbiamo finora esaminato la possibilità per l’impresa di espandersi nello stesso
settore di attività (sviluppo orizzontale) o in settori collegati (sviluppo o

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integrazione verticale); la crescita dimensionale può essere realizzata anche


abbandonando il settore, i mercati o i prodotti con i quali l’azienda era solita
competere: si giunge quindi ad uno sviluppo diversificato.
Con la diversificazione si viene ad attuare una produzione di beni abbastanza
diversi dagli altri e ciò porterà a significativi cambiamenti nei programmi di
produzione e di commercializzazione dell’impresa.

6. LA DIVERSIFICAZIONE E LE SUE TIPOLOGIE


Occorre fare una classificazione delle diverse tipologie di diversificazione:
- diversificazione omogenea o correlata: si ha quando i nuovi prodotti
presentano aspetti tecnologici o di mercato legati alla precedente attività
dell’impresa, vi è quindi un legame con il passato;
- diversificazione correlata concentrica: presuppone l’esistenza di
un’attività principale (core business) dalla quale si sviluppano
circolarmente nuove attività;
- diversificazione sequenziale: lo sviluppo è conseguito utilizzando e
sfruttando fattori sinergici di volta in volta diversi e tali da condurre
l’impresa verso nuovi settori;
- diversificazione piena: con tale diversificazione l’impresa finirà con il
produrre un insieme di prodotti diversi sostanzialmente imposti
all’impresa dai consumatori che si aspettano di ottenere tali beni dallo
stesso produttore.
7. Le ragioni dell’attuazione della diversificazione
Si devono analizzare le motivazioni che spingono un’azienda ad abbandonare il
proprio settore per inoltrarsi in campi a lei nuovi.

Le motivazioni possono essere ricondotte a:

- la ripartizione dei rischi;

- la massimizzazione della crescita;

- la ricerca del potere di mercato.

Strettamente connessi ai motivi sopraindicati appaiono i vantaggi derivanti da


un processo di diversificazione:

- economie di scopo e valorizzazione delle risorse in eccesso: le


economie di scopo si ottengono quando il costo totale della produzione di
un insieme di prodotti è inferiore ai costi combinati di produzione dei
singoli componenti realizzati da diverse imprese specializzate; tali
economie di scopo possono realizzarsi soprattutto con riguardo ad
attività tangibili, per esempio gli impianti che essendo indivisibili possono
essere sottoutilizzati, rispetto alla capacità produttiva, in quanto la
domanda del bene prodotto è inferiore; con la diversificazione si può
invece attuare una strategia di maggior utilizzo degli impianti; altre

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economie di scopo si possono realizzare con riguardo ad attività


intangibili, quali i marchi, la credibilità dell’azienda, la tecnologia;

- vantaggi informativi che si formano all’interno di un’impresa


diversificata: mediante la diversificazione l’impresa ha un accesso
privilegiato ad informazioni già disponibili, per esempio potrà contare su
dipendenti già “collaudati” di cui si conoscono le caratteristiche.

L’impresa diversificata potrà ottenere delle informazioni privilegiate, non


solo nel settore del personale, ma anche in atri campi (commerciale,
finanziario, tecnologico, etc.);

- riduzione del rischio finanziario imprenditoriale: l’operare in più


settori può essere meno rischioso che concentrarsi in un unico settore: in
particolare è possibile mediare risultati negativi di un settore con risultati
positivi di altri comparti.

Gli aspetti negativi dell’impresa diversificata possono essere dovuti a:

- errori di valutazione: tali errori sono imputabili alla mancanza di una


chiara visione del ruolo che l’impresa potrà avere nel settore in cui vuole
entrare;

- assenza di una seria pianificazione nella diversificazione: per un’efficiente


diversificazione occorre stabilire preventivamente se tale diversificazione
può servire, occorre selezionare i mercati in cui si vuole operare e
definire il piano vero e proprio legato alle acquisizioni, fusioni, accordi;

- motivi psicologici: legati a forme di “rifiuto” dell’operazione da parte


dei dirigenti dell’impresa originaria e di quelle acquisite o incorporate.

8. L’espansione internazionale

Un’altra modalità di crescita è data dall’espansione internazionale, cioè la


strategia volta ad ottenere nuovi sbocchi della propria produzione collocati
all’estero.

Tale sviluppo è perseguibile in tempi non brevi e caratterizzato da tipici


momenti della sua attuazione.

Occorrerà prima di tutto:

a) definire l’impresa multinazionale;

b) definire le fasi storico culturali dell’impresa stessa;

c) modalità della sua attuazione;

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d) caratteristiche peculiari.

a) l’impresa multinazionale è un’impresa che svolge all’estero una parte


rilevante della propria attività mediante unità operative (di ricerca, produzione,
di distribuzione) di cui controlla direttamente la gestione e guidate con una
strategia che considera più nazioni come facenti parte di un solo grande
mercato.

E’ possibile individuare tre categorie di imprese multinazionali:

- la prima riguarda quelle imprese che si sono sì sviluppate all’estero ma


mantengono una posizione dominante sul mercato interno;

- la seconda, che in seguito verrà detta internazionale, è quella impresa


che ha superato la tradizionale distinzione fra mercato interno ed esterno
ma mantenendo la propria origine nazionale nella proprietà e nel
management;

- la terza categoria di imprese, che verranno definite globali o


transnazionali, tendono ad avere una visione multinazionale sia nella
composizione societaria, sia nel management, sia nelle strategie di
sviluppo.

b) per quanto riguarda le fasi storico culturali del processo di


internazionalizzazione, questo ha interessato dapprima le imprese
multinazionali, poi le imprese internazionali per arrivare alle imprese globali e
transnazionali.

Le prime, quindi le imprese multinazionali, furono caratterizzate dalla


necessità delle imprese di decentralizzare la propria attività e la propria
capacità organizzativa per venire incontro alle differenti esigenze nazionali; ciò
nel periodo storico prima della seconda guerra mondiale.

Gli aspetti che caratterizzano tali imprese multinazionali sono:

- una federazione decentralizzata: si intende sia la distribuzione delle


risorse alle filiali estere sia il delegare a persone di fiducia la
responsabilità delle consociate estere;

- controllo personale: il controllo tra direzione centrale e responsabili locali


avviene in base ad un rapporto personale di tipo fiduciario;

- mentalità multinazionale del management: la strategia consiste nel


miglioramento dell’azienda nei mercati mondiali più importanti gestendo

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le unità all’estero come un insieme di imprese indipendenti il cui obiettivo


era quello di aver presente il solo mercato locale, adattandosi alle sue
esigenze (gusti, cultura, tradizioni) cercando solo di ottimizzare la
propria posizione.

Con caratteristiche diverse si presenta l’impresa internazionale, tipica della


realtà economica dei primi decenni del secondo dopoguerra. Obiettivo delle
grandi imprese che perseguivano l’internazionalizzazione era il trasferimento di
conoscenze sia tecnologiche che commerciali. In sostanza, le consociate locali
erano portate ad adottare prodotti e/o strategie della casa madre con la
conseguenza, rispetto alle imprese multinazionali, di una maggiore dipendenza
della consociata estera rispetto alla sede centrale.

L’impresa globale vede invece una centralizzazione delle attività, delle risorse
e delle responsabilità: le consociate estere si limitano alla sola funzione di
marketing (vendita, assistenza) assemblando i beni prodotti altrove oppure
svolgendo una funzione specifica decentrata per motivi strategici (si pensi alla
produzione di beni in un paese in via di sviluppo con un costo della ano d’opera
molto contenuto).

Le unità locali sono meno indipendenti in termine di progettazione e svolgono


un’attività prettamente esecutiva.

Fra l’impresa globale e l’impresa multinazionale si colloca l’impresa


transnazionale.

Questa impresa cerca di coniugare i vantaggi legati all’integrazione e quindi


all’efficienza propri dell’impresa globale, con la possibilità di sfruttare
opportunità locali tipiche dell’impresa multinazionale.

L’azienda globale ha quale vantaggio competitivo la produzione di grande scala,


l’impresa multinazionale invece fonda le proprie aspettative di successo nella
differenziazione, mentre l’azienda internazionale è tesa ad utilizzare le
innovazioni, sviluppate dalla casa madre, al fine di contenere i costi e/o
aumentare i ricavi.

L’impresa transnazionale invece di centralizzare o decentralizzare le proprie


risorse finisce con l’operare una selezione delle decisioni da prendere. La
società transnazionale finirà per concentrare, presso la sede centrale, certe
risorse, come la ricerca di base, sia per realizzare economie di scala sia per
difendere certe competenze di tipo strategico. Finirà quindi per centralizzare le
risorse, a livello globale, nel proprio paese d’origine e all’estero per mezzo di
una rete integrata: in tal modo si ottengono due vantaggi strategici: il

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coordinamento globale delle attività ed una elevata flessibilità e


diversificazione.

9. L’attuazione dell’espansione internazionale

Le principali fasi di espansione di un’impresa industriale possono essere


ricondotte a:

- esportazione (indiretta o diretta): la fase dell’esportazione è la prima


forma di sviluppo internazionale; è la modalità che presenta minori rischi
e più contenuti investimenti fissi consentendo di verificare la capacità del
mercato estero di assorbire i beni; si parla di esportazione diretta quando
a prendere l’iniziativa con il mercato estero è l’impresa stessa e indiretta
quando si lascia autonomia al compratore o all’intermediario estero;

- reti di distribuzione: tali reti consentono di acquisire più facilmente il


cliente abituato a servirsi di venditori locali; la rete di distribuzione può
essere acquisita direttamente, ottenendone il controllo, oppure con
forme di compartecipazione (joint-venture, franchising);

- accordi di licenza con produttori esteri;

- assemblaggio all’estero di prodotti;

- produzione all’estero;

- strutture estere autosufficienti: ciò significa predisporre una struttura


produttiva e distributiva autosufficiente, una consociata estera.

CAP. 5

LE MODALITA’ DI CRESCITA

1. La crescita interna e la crescita esterna


La crescita di un’azienda può essere, come sappiamo, di due tipi: crescita
interna e crescita esterna. Questa divisione dipende dal grado di coesione tra
le diverse imprese:

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- coesione nulla: quando l’azienda effettua una politica di crescita


totalmente indipendente dalle realtà esterne perseguendo una crescita
interna;
- coesione massima: quando l’azienda effettua una completa
integrazione con strutture prima esterne di aziende terze; saremo quindi
in presenza di crescita esterna.

CRESCITA INTERNA
La crescita interna è quella che si verifica quando un’impresa aumenta le
proprie dimensioni accrescendo gradualmente le proprie strutture produttive,
commerciali, amministrative, di ricerca, senza far ricorso ad alleanze o fusioni.
La crescita interna, rispetto a quella esterna, presenta dei vantaggi:
- scelta dell’investimento: quando si tratta di fare un investimento
(come l’acquisto di un macchinario, di un impianto, di uno stabilimento)
per favorire la crescita dell’azienda, la crescita interna presenta il
vantaggio di poter “calibrare” l’investimento, in base alle specifiche
esigenze dell’azienda e in conformità agli orientamenti strategici
dell’impresa. La possibilità che l’impresa ha è quindi quella di “modellare”
l’investimento in base a quelle che sono le sue specifiche esigenze: al
contrario invece della crescita esterna che implica spesso anche
l’acquisto di risorse che non interessano effettivamente;
- entità dell’investimento: questa considerazione risulta nettamente
legata a quella precedente; si dice infatti che la crescita esterna
presupponga spesso il dover rilevare delle aziende di dimensioni notevoli
rispetto a quelli che sono gli obiettivi dell’azienda che acquista. Nella
crescita interna invece si ha maggiore elasticità e non si ha il rischio di
inglobare anche funzioni alle quali non si è interessati;
- minimizzazione dei costi: la crescita interna presuppone anche dei
costi inferiori rispetto a quelli richiesti da quella esterna. I costi dei quali
si parla sono quelli legati all’integrazione, alla fusione,
all’intermediazione; al contrario questi costi devono essere sostenuti
dall’impresa che decide di operare una crescita esterna ! questi costi si
riferiscono anche ai “costi di mercato” che si riducono notevolmente in
caso di crescita interna: si fa riferimento ad esempio ai costi di ricerca
del fornitore, ai costi di negoziazione del contratto e così via;
- presenza di normative antitrust: il fenomeno della crescita aziendale
è sinonimo dell’aumento di potere di un’impresa sul mercato, tale da
poter portare a situazioni di oligopolio o di monopolio; interviene quindi
l’antitrust che cerca di impedire la formazione di oligopoli e monopoli per
garantire la naturale concorrenza del mercato. Si tende quindi a limitare
o impedire forme di concentrazione tipiche della crescita esterna, come
fusioni, acquisizioni o joint-venture. La crescita interna è invece l’unica
forma di crescita che è permessa alle imprese che perseguono strategie
di espansione finalizzate al dominio del mercato.

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CRESCITA ESTERNA
La crescita esterna è quella che si verifica quando un’impresa aumenta le
proprie dimensioni facendo ricorso all’acquisto di imprese esterne, ad alleanze,
accordi, etc..
La crescita esterna, rispetto a quella interna, presenta dei vantaggi:
- tempi e ritorno dell’investimento: la decisione di accrescere le
proprie dimensioni presuppone dei tempi lunghi quando la crescita è
interna, in quanto l’azienda deve avere tempo di dare vita fisicamente
alle varie fasi operative del progetto e deve avere i tempi economici
giusti per vedere dei risultati del suo investimento. Il vantaggio della
crescita esterna è invece proprio quello di acquisire un’impresa già
funzionante con i seguenti vantaggi operativi rispetto alla situazione di
partenza ex-novo;
- incremento in termini di valore: la crescita esterna permette di
acquisire delle imprese sottovalutate, cioè imprese il cui prezzo di
cessione è inferiore al costo di sostituzione dei beni propri dell’azienda
stessa; con la crescita esterna si ha quindi un rilancio tecnico, finanziario
ed economico dell’azienda acquistata con crescita quindi del valore
dell’impresa stessa;
- situazioni di mercato: si fa riferimento alle situazioni in cui la crescita
esterna, e quindi l’incorporazione di aziende esterne, permette la
riduzione della concorrenza sul mercato, situazione vantaggiosa per le
imprese, anche se perseguita dall’antitrust;
- aspetti finanziari: la crescita esterna presenta delle opportunità
d’acquisto con basso impegno finanziario, in quanto spesso il concambio
è una permuta tra le azioni di due società, quindi non si hanno uscite
finanziarie;
- considerazioni giuridico-fiscali: ogni operazione delle imprese deve
essere attentamente valutata nei suoi risvolti giuridico-fiscali che
possono causare sia costi che benefici. Mentre la crescita interna non
presuppone particolari oneri in quanto non sono necessarie particolari
autorizzazioni, la crescita esterna presuppone un oneroso iter
deliberativo.
Possiamo quindi riassumere i vantaggi della crescita esterna in questi tre
punti:
- aumento delle alternative strategiche: le alternative sono varie, dalle
fusioni alle acquisizioni, dai cartelli alle associazioni in partecipazione;
- tempi raidi di attuazione: attraverso la crescita esterna si ha la rapida
acquisizione di risorse manageriali, forza lavoro, brevetti, know how,
impianti, etc.;
- maggiore verificabilità del successo o insuccesso della manovra: è più
agevole infatti con la crescita esterna scorporare i risultati ottenuti a
seguito di questa strategia dalle singole unità; processo molto più
complicato in caso di crescita interna.
Vediamo ora alcune delle forme più tipiche e tradizionali di crescita esterna e le
tre modalità secondo le quali la crescita esterna si realizza:
- indipendenza: possiamo abbinare questa modalità alla crescita interna;

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- cooperazione: questa modalità è abbinabile alla crescita esterna; con la


cooperazione si vengono a creare tra due o più imprese dei legami
cosiddetti “deboli”, meno coinvolgenti, detti accordi e alleanze, che
hanno minor durata e che hanno un oggetto ben circoscritto;
- integrazione: questa modalità è anch’essa abbinabile alla crescita
esterna; con l’integrazione si vengono a creare però dei legami cosiddetti
“forti”, più coinvolgenti, detti acquisizioni e fusioni, che hanno durata
più lunga e un oggetto più ampio.
Sia cooperazione che integrazione vengono dette aggregazioni.

CAP. 6

LE AGGREGAZIONI E GLI ACCORDI

1. Le aggregazioni

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Una delle classificazioni che interessano le aggregazioni è quella che le


distingue tra equity e non equity.
Un’altra distinzione vede invece una classificazione legata all’individuazione di
tre classi di aggregati aziendali: informali, su base contrattuale,
patrimoniali.
Altri autori classificano le aggregazioni in base a due variabili:
- grado di coordinamento: con questo si intende l’insieme delle norme che
regolano i rapporti tra le imprese;
- grado di dominanza: questa variabile indica il grado di dipendenza tra le
aziende nei processi decisionali.
Le aggregazioni di tipo equity (incorporazioni, acquisizioni, fusioni) registrano
un forte grado di dominanza di un’azienda sulle altre; le aggregazioni invece di
tipo non-equity (accordi) registrano un massimo grado di coordinamento e
nullo quello di dominanza.

E’ stata elaborata una mappa classificatoria delle due forme di aggregazione,


equity e non equity:

EQUITY NON EQUITY


1) Legame patrimoniale: si richiede 1) Non esiste legame patrimoniale o,
un impegno di capitali; comunque, è di peso attenuato;

2) Soggetto economico unitario 2) Differenti soggetti economici;


(almeno in parte);
3) Maggiore stabilità del rapporto: il 3) Minore stabilità del rapporto:
legame patrimoniale costituisce anche questo avviene anche in quanto non
un freno per quelle imprese che c’è, o è minimo, il vincolo
vorrebbero uscire dall’aggregazione; patrimoniale;

4) Maggiore livello di criticità: a causa 4) Minore livello di criticità (almeno


della profonda integrazione che si apparente): questo livello di criticità è
attua, si verifica anche una grande meno vincolante e l’accordo può
criticità. essere sciolto più facilmente.

CAP. 7

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LE AGGREGAZIONI NON-EQUITY

1. Le aggregazioni non-equity
Si è cercato di classificare le aggregazioni non-equity in gruppi fondamentali:

a) a carattere informale
- su base produttiva:
* reti di subfornitura;
* costellazioni;
* distretti;
- su base finanziaria;
- su base personale:
* city community of interests;
* gentlemen’s agreement;
b) su base contrattuale (o a carattere formale)
- cartelli;
- affitto d’azienda;
- associazioni in partecipazione;
- associazioni temporanee fra imprese;
- unioni volontarie e gruppi d’acquisto;
- contratti di franchising;
- consorzi;
- Geie.

a) AGGREGAZIONI NON-EQUITY A CARATTERE INFORMALE SU BASE


PRODUTTIVA
Caratteristica comune di queste aggregazioni è la presenza di un grande
numero di aziende coinvolte, con dimensioni contenute e la loro fungibilità,
cioè la loro sostituibilità.
Di questo gruppo di aggregazioni fanno parte:

Reti di subfornitura
Le reti di subfornitura sono date dalla presenza di un’impresa principale di
grandi dimensioni che utilizza imprese esterne, di piccole-medie dimensioni,
per far svolgere loro determinate lavorazioni.
L’attività delle imprese medio-piccole fornitrici è spesso indirizzata quasi
esclusivamente alla grande impresa cliente, con la creazione di vincoli di vera e
propria subordinazione.
Il rapporto che si viene a creare è simile a quello di un gruppo: l’impresa
fornitrice è alle dipendenze della maggiore, che ha il peso preponderante nel
rapporto.
Solamente se le aziende subordinate hanno competenze specifiche, esse
possono modificare questo rapporto tra impresa maggiore quelle minori.
Tra le varie imprese gli accordi che vengono stipulati sono di modesta
importanza, in quanto i fornitori sono generalmente fungibili.

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Costellazioni
Le costellazioni sono un insieme di aziende, generalmente di medio-piccole
dimensioni, tutte interessate alla produzione o alla commercializzazione di
beni.
Comprendiamo quindi che non esiste una grande impresa di riferimento, ma
solamente medio-piccole aziende.
La nascita di queste costellazioni avviene generalmente come risultato di una
crisi di domanda e dei conseguenti licenziamenti.
Esiste comunque nelle costellazioni un’impresa-guida, non necessariamente
di grandi dimensioni. Che ha il compito di coordinare l’attività delle singole
imprese.
Il peso che le varie aziende esercitano all’interno della costellazione dipende
dei loro specifici fattori strategici: il peso è inoltre spesso influenzato dal ruolo
dell’azienda guida.
Il rapporto che si instaura tra le imprese è un rapporto interattivo: infatti
non ci sono rapporti solo tra l’impresa-guida e le imprese medio-piccole, ma
anche tra le imprese medio-piccole.
Anche nelle costellazioni, come nelle reti di subfornitura, l’importanza del
singolo accordo è modesta salvo competenze specifiche.

Distretti industriali
Lo studio del fenomeno dei distretti industriali prende avvio dall’osservazione
dello sviluppo industriale nel corso del XIX secolo, quando ci si accorse che da
un parte si stata affermando la produzione di massa, mentre dall’altra parte
permanevano zone in cui sopravvivevano piccole aziende che sviluppavano
nuove tecnologie senza però ingrandirsi.
Tale impostazione veniva definita “dualismo industriale”.
Fu Marshall a studiare per la prima volta il distretto industriale e coniare
questa stessa espressione.
Il distretto industriale è inteso come la concentrazione di industrie
specializzate in particolari località.
Il numero di queste imprese è notevole ed elevata è anche la
specializzazione delle stesse concentrate in un medesimo ambito territoriale:
la produzione dei beni viene infatti suddivisa tra differenti piccole aziende
specializzate in determinate fasi della produzione stessa.
Queste imprese sono tutte di modeste dimensioni senza che esista
un’impresa leader.
Si forma perciò un mercato locale competitivo, ma caratterizzato dalla
presenza di un unico “ambiente sociale” deli imprenditori, quindi mossi dalla
reciproca cooperazione: possiamo quindi dire che il rapporto è sia di
cooperazione che di concorrenza.
Questa atmosfera favorisce nuove invenzioni e miglioramenti delle tecniche e
degli impianti, grazie al continuo scambio di suggerimenti costruttivi tra i
diversi soggetti.

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Nasce così la possibilità di dar vita a imprese specializzate e di attirare


lavoratori specializzati e imprenditori.

AGGREGAZIONI NON-EQUITY A CARATTERE INFORMALE SU BASE


FINANZIARIA
Questo tipo di aggregazioni presuppone uno stretto rapporto tra finanziatore
(singolo ente o ristretto numero di enti) e impresa.
Spesso il finanziatore è una banca.
Affinché si possa parlare di aggregazioni di tipo finanziario occorre che
sussistano due condizioni fondamentali:
- che l’entità dei finanziamenti concessi da finanziatore sia considerevole;
- che i finanziamenti vengano concessi da un unico ente o da un gruppo
ristretto di enti.
Il finanziatore incide quindi profondamente sulle scelte di gestione
dell’impresa finanziata: il finanziatore è infatti interessato a conoscere in ogni
momento lo “stato di salute” dell’impresa che ha finanziato, e nasce proprio da
qui la richiesta continua di “posti” nel consiglio d’amministrazione della società
in questione.
Generalmente si ricorre a questo tipo di integrazioni quando l’impresa che
richiede finanziamenti si trova ad affrontare un periodo difficile, oppure quando
si trova in un momento di crisi latente o esplicita.
L’importanza quindi del singolo accordo in un’aggregazione di questo genere
sta nell’interesse dei finanziatori di non perdere il denaro che essi hanno
investito.

AGGREGAZIONI NON-EQUITY A CARATTERE INFORMALE SU BASE


PERSONALE
Queste aggregazioni sono dei collegamenti istituiti tra le imprese per iniziativa
di singoli individui: ne sono esempio l’utilizzo da parte di più imprese di stessi
consulenti, professionisti, tecnici, amministratori.
Di questo gruppo di aggregazioni fanno parte:

City communities of interests


Le city communities of interests sono delle comunità che nascono quando
le società e le banche di una stessa città sono così legate fra di loro, attraverso
i rispettivi consigli di amministrazione, in cui si trovano le stesse persone, da
costituire un complesso operante con unità d’intenti.
Le aziende coinvolte da queste aggregazioni sono imprese produttive, istituti
bancari, assicurativi, finanziari, aziende di erogazione pubblica.
Il rapporto tra società e banche è di tipo collusivo-collaborativo.

Gentlemen’s agreement
Le gentlemen’s agreement sono invece delle aggregazioni che non vengono
formalizzate per iscritto e spesso legati a tentativi di riduzione della
competitività.

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Il motivo principale della loro segretezza è quello di aggirare le normative


antitrust.
Le aziende che vengono coinvolte sono aziende operanti nello stesso settore o
facenti parte di una stessa filiera produttiva.
Anche qui, come nelle city communities of interests, il rapporto tra le imprese
è di tipo collusivo-collaborativo.
L’uscita di un’impresa da questo accordo potrebbe anche mettere a repentaglio
l’accordo stesso o i vantaggi ai quali si vuole giungere.

b) AGGREGAZIONI NON-EQUITY SU BASE CONTRATTUALE (A


CARATTERE FORMALE)
Queste sono quelle aggregazioni incentrate su specifici legami di tipo giuridico
derivanti dalla stipula di un ben determinato contratto.
Esse possono avere una diversa estensione, cioè possono riguardare fenomeni
di grado diverso nei rapporti tra le imprese; possono anche avere una diversa
durata, infatti possono essere sia transitori che permanenti.
Va comunque ricordato che le aziende partecipanti mantengono la propria
individualità sia a livello giuridico che a livello economico.
Di questo gruppo di aggregazioni fanno parte:

Cartelli
Con il termine cartello si intende un’associazione di aziende operanti nel
medesimo settore con prodotti scarsamente differenziati miranti ad attuare
politiche di collaborazione al fine di ridurre e/o disciplinare la concorrenza.
L’obiettivo del cartello è quindi quello di ridurre la pressione competitiva
esercitando sul mercato un’azione volta ad eliminare la concorrenza,
trasformando un ambiente altamente competitivo in un mercato
sostanzialmente orientato all’oligopolio o al monopolio.
L’opinione sui cartelli appare negativa, in quanto i cartelli hanno spesso
aumentato indebitamente i profitti, scoraggiato gli investimenti, rallentato il
progresso tecnico.
Questa limitazione della concorrenza viene generalmente perseguita tramite
intese che riguardano i volumi di produzione e di vendita, i prezzi, la
ripartizione dei mercati, le caratteristiche dei beni da produrre, etc..
Esistono per esempio i cartelli di zona, cioè quei cartelli che frazionano il
mercato in diverse aree di influenza.
Esistono anche dei cartelli che riguardano i prezzi, che fanno in modo che non
si verifichino guerre sui prezzi (prezzi minimi e prezzi massimi).
In generale gli obiettivi principali dei cartelli sono:
- massimizzazione dei profitti congiunti;
- suddivisione dei mercati.
Affinché l’accordo funzioni in modo perfetto occorre un ente centrale che
coordini le imprese e la necessità che queste ultime si attengano alle direttive
concertate: questo ente centrale viene detto ufficio centrale.

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Tanto maggiore è il numero delle imprese che aderiscono al cartello tanto più
efficace sarà la politica perseguita dal cartello stesso creando delle barriere
all’entrata.
Esistono però anche dei casi in cui il cartello viene visto positivamente: si pensi
ad esempio alle devastanti guerre sui prezzi.

Affitto d’azienda
L’affitto d’azienda è regolato dal Codice Civile agli articoli 2561 e 2562 che
prevedono che l’affittuario (colui al quale è stata data in affitto l’azienda) deve
esercitare l’azienda stessa sotto lo stesso nome e deve gestire l’azienda senza
modificarne l’attività e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e
degli impianti. La differenza tra il patrimonio all’inizio dell’affitto e al termine
dell’affitto viene regolata in denaro, tenendo conto dei valori correnti al
termine dell’affitto.
In tale rapporto l’affittuario finisce spesso per ottenere il completo controllo dei
beni aziendali: tale versatilità permette di volta in volta l’ottimizzazione della
struttura e dell’organizzazione produttiva e il superamento di problematiche
connesse al ricambio generazionale.
In questo modo l’affitto d’azienda si configura come il mezzo per evitare che
l’azienda si disgreghi.
Si viene a determinare uno stretto legame da un punto di vista giuridico,
mentre dal punto di vista economico si assiste ad una netta prevalenza di una
parte sull’altra.
Le aziende possono decidere di operare un affitto d’azienda sia per cause
aziendali che per cause extra-aziendali:
- cause aziendali: per evitare la disgregazione, mediante la liquidazione,
la crescita dell’azienda;
- cause extra-aziendali: sono quelle legate alle caratteristiche
dell’imprenditore, come la necessità di ritirarsi per un certo periodo di
tempo a seguito di problemi personali di salute, l’improvvisa sfiducia nei
confronti dei collaboratori che di fatto gestivano l’azienda oppure per
necessità fiscali.
L’affitto d’azienda è una forma di aggregazione flessibile e non definitiva e tale
da essere modificata o risolta in maniera abbastanza rapida ed agevole.

Associazione in partecipazione
Il contratto di associazione in partecipazione è regolato dall’art. 2549 del
Codice Civile che stabilisce che l’associante attribuisce all’associato una
partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il
corrispettivo di un determinato apporto.
L’associante ha un peso preponderante rispetto all’associato, salvo situazioni
particolari in cui l’associato è portatore di conoscenze strategiche ben
difficilmente ottenibili in proprio o da terzi.
I rapporti che si vengono a creare possono quindi essere differenti a seconda
del grado di integrazione fra associante ed associato.

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Esso può riguardare solo un singolo affare (modesto legale) ma può


coinvolgere anche l’intera gestione: in questo caso si dice che la forma di
integrazione è molto spinta.
L’associazione in partecipazione consente perciò all’impresa l’ampliamento della
sfera d’attività avvalendosi del contributo patrimoniale di altri soggetti.

Associazioni temporanee fra imprese


Caratteristica dell’associazione temporanea fra imprese è la volontà di
realizzare in comune una data opera complessa e di grande entità (appalto o
fornitura) che richiede ingenti mezzi finanziari, disponibilità tecniche e di know
how troppo onerosa per le singole imprese coinvolte (costruzione di una
autostrada, di un aeroporto e di un complesso industriale).
Tutte le aziende coinvolte nell’associazione temporanea mantengono la propria
autonomia giuridica, economica e operativa. Viene designata un’impresa
capofila o capogruppo, che svolgerà le funzioni di rappresentante con l’ente
committente.
I raggruppamenti temporanei possono essere di due tipi:
- raggruppamenti orizzontali: questi raggruppamenti avvengono tra
imprese dello stesso settore; ad ogni impresa verrà quindi associato uno
specifico segmento dell’intera opera di cui sarà anche responsabile (sarà
anche responsabile, con le altre imprese, dell’intero manufatto);
- raggruppamenti verticali: questi raggruppamenti avvengono tra imprese
con competenze e caratteristiche differenti coinvolti nella realizzazione di
un’opera complessa.
Questo accordo, oltre a ripartire i compiti fra le imprese, permette una
divisione dei rischi.
Se l’impresa capofila dovesse fallire, l’appaltante può continuare l’opera con
un’altra impresa che assume la veste di mandataria, oppure può recedere
dall’appalto.

Unioni volontarie
Fanno parte dei contratti di collaborazione nel settore commerciale, così come i
gruppi di acquisto collettivi, i centri commerciali e i contratti di franchising.
Le unioni volontarie consistono nel raggruppamento fra uno o più grossisti e
un certo numero di dettaglianti, in cui le aziende coinvolte mantengono la
propria autonomia giuridica ed economica.
Tutte le attività svolte vengono attuate dal “centro operativo” dell’unione
formato dai grossisti che è vero fulcro dell’associazione.
I legami che si instaurano sono in genere di tipo “debole” in quanto i soggetti
coinvolti possono aderire e recedere liberamente senza pesanti vincoli: infatti
l’uscita di un aderente all’associazione non dovrebbe causare pesanti danni
economici nonché squilibri gestionali.
Se invece il grossista fosse solamente uno e questo abbandonasse l’unione,
allora sì ci sarebbe un danneggiamento pesante dell’associazione.
I vantaggi che si ottengono da entrambe le parti son indiscutibili:
- grossisti: riduzione dei costi di distribuzione, fidelizzazione dei
dettaglianti;

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- dettaglianti: riduzione dei costi di approvvigionamento, possibilità di


ammodernare e rendere più funzionali i punti vendita.

Gruppi di acquisto collettivo


I gruppi di acquisto collettivo sono simili alle unioni volontarie, ma
prevedono solamente la presenza di imprese dettaglianti che sono unite negli
acquisti per realizzare economie di scala volte alla riduzione di costi connessi
agli acquisti di merci e prodotti.
Tutte le aziende mantengono la propria autonomia economica e giuridica, come
nelle unioni volontarie, ma qui l’associazione è meno vincolante, nel senso che
i partecipanti all’accordo sono svincolati da rigide disposizioni in tema di
quantità di acquisti centralizzati e quindi le imprese dettaglianti partecipanti
non hanno l’obbligo di acquistare tutto tramite il canale associativo, ma
possono acquistarne una parte tramite l’associazione, un altro solo o
parzialmente o interamente presso fornitori non rientranti nell’associazione.
Qui manca un’impresa “guida” e quindi non ci sono servizi e prestazioni
centralizzate.

Centri commerciali
I centri commerciali sono una forma associativa che può essere di due tipi:
- centro commerciale all’ingrosso: è un’entità costituita da un numero
di esercizi di vendita all’ingrosso non inferiore a cinque, inseriti in una
struttura a destinazione specifica provvista di spazi di servizio comuni
gestiti unitariamente;
- centro commerciale al dettaglio: è un’entità costituita da un numero
di esercizi di vendita al dettaglio, di qualunque dimensione, non inferiore
a otto e che abbiano una superficie di vendita complessiva di almeno
3.500 metri quadrati, integrati da esercizi per la somministrazione al
pubblico di alimenti e bevande e siano inseriti in una struttura a
destinazione specifica provvista di spai di servizio comuni gestiti
unitariamente.

Franchising
La formula del franchising si sviluppò negli Stati Uniti verso la fine
dell’ottocento.
Il contratto di franchising è un contratto fra una grossa società che ha creato
un’immagine e un modello aziendale (il franchisor) ed altre società, di
dimensioni generalmente ridotte (i franchisee), che possono utilizzare la
formula commerciale e il marchio della casa-madre.
Affinché una rete di franchising abbia successo è opportuno rispettare delle
condizioni:
- possesso di un know-how commerciale (formula, tecniche,
conoscenze commerciali) originale ed esclusivo;
- possesso di un marchio e di segni distintivi da concedere in licenza
d’uso ai partecipanti alla forma di associazione;
- possesso di un programma valido ed efficiente tale da poter essere
riprodotto ed utilizzato da altri senza subire alterazioni.

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Vi sono diverse forme di franchising, ma gli elementi comuni caratterizzanti


tale contratto sono:
- collaborazione continuativa fra franchisor e franchisees con vantaggi
di entrambi (penetrazione più rapida sui mercati e veloce crescita
commerciale, possibilità di ampliare le conoscenze ed esperienze ed
utilizzare un “nome” affermato per il franchisee);
- sicurezza ed assistenza.
Il contratto di franchising può riguardare svariati settori o attività e quindi
avremo diverse specie:
- il franchising di distribuzione di prodotti: il franchising si impegna a
cedere i prodotti del franchisor in un punto vendita recante le insegne del
franchisor che assume un ruolo di produttore o fornitore. Il franchisor
infatti raccoglie i prodotti da fornitori e/o produttori esterni distribuendoli
sul mercato tramite la rete di franchisee (p.e. settore abbigliamento,
alimentare);
- il franchising di servizi: il franchisee offre prestazioni di servizi ed idee
sperimentate e esse a punto dal franchisor utilizzando la classica
caratteristica del marchio o dell’insegna del franchisor (p.e. agenzie
immobiliari);
- il franchising di produzione: è lo stesso franchisee a produrre beni su
licenza e con il marchio del franchisor (p.e. aziende produttrici di
bevande – Coca Cola).
I franchising possono anche essere classificati nel seguente modo:
- franchising imprenditoriale: è caratterizzato dalla formula “aperta”
dove il franchisor dà solo indicazioni di massima (lay-out) e delle insegne
del punto vendita; si tratta di una formula tesa al reclutamento di
aziende già presenti sul mercato locale piuttosto che crearne di nuove;
- franchising pianificato: l’intervento del franchisor è più pesante ed è
caratterizzato da un un’offerta “chiavi in mano”. Di franchising pianificato
ne esistono due tipi:
o franchising manageriale: l’intervento del franchisor è mirato
solo ad alcuni aspetti della gestione del punto vendita offrendo
consulenza in merito alle tecniche legate alla scelta ottimale
dell’assortimento senza imporre particolari politiche di acquisto;
o franchising centralizzato: l’intervento dell’affiliante è più
coinvolgente in quanto tocca svariate aree gestionali dell’affiliato
(contabilità, gestione del magazzino); in questo caso il franchisee
si occupa delle sole funzioni di vendita e della gestione del
personale.
Il franchising non ha durata illimitata ma è necessario che la durata del
contratto sia di un numero di anni sufficiente per ammortizzare le spese di
costituzione e di avviamento sostenute dal franchisee per lo svolgimento della
sua attività: normalmente 3-5 anni fino ad un massimo di nove anni.
In definitiva i vantaggi per il franchisor sono una riduzione degli investimenti
ed un aumento della flessibilità aziendale in quanto si cerca di ridurre i costi
fissi, con la conseguenza di un aumento della redditività (capacità di produrre
degli utili) e della competitività.

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Per i franchisee i benefici sono quelli dell’aumento dimensionale,


dell’acquisizione di nuovo know how e un servizio pubblicitario.

Geie
Il GEIE (Gruppo Europeo di Interesse Economico), introdotto in Italia con il D.
Lgs. 23 luglio 1991 è uno strumento di diritto comunitario volto a favorire il
formarsi di associazioni fra imprese e anche professionisti appartenenti a
differenti paesi della Comunità europea.
Coinvolge quindi società, enti o persone fisiche (da un minimo di due ad un
massimo di 20) di almeno due differenti stati della UE; tutte le aziende
coinvolte mantengono la propria indipendenza economica e giuridica. Tutte le
aziende coinvolte hanno generalmente il medesimo “peso” e le più importanti
decisioni devono essere prese all’unanimità.
Il GEIE ha due organi: il collegio dei membri (organo molto elastico a cui
fanno parte i soggetti partecipanti al gruppo che possono prendere qualche
decisione relativa ai fini della realizzazione dell’oggetto sociale del gruppo) e
uno o più amministratori (la loro funzione è simile a quella dei
rappresentanti della società).
I partecipanti al GEIE sono responsabili solidamente ed illimitatamente per le
obbligazioni assunte dal Gruppo stesso.
Gli obiettivi del GEIE sono svariati: tra di essi ricordiamo la ripartizione degli
oneri e dei rischi, la razionalizzazione delle strutture aziendali, la fruizione di
servizi comuni, la valorizzazione e la condivisione del singolo know how; tra
questi traguardi troviamo anche il miglioramento della produttività e
competitività e l’accrescimento reddituale.
Il GEIE ha la funzione di supporto all’attività delle singole aziende associate
(centro studi, acquisti e vendite centralizzate) e non ha come scopo la
realizzazione di profitti: infatti tali profitti vengono distribuiti, in base a quanto
previsto dal contratto, fra i vari contraenti.
L’accordo può esser a tempo determinato o indeterminato.

Consorzi
Il consorzio è un’associazione di persone fisiche o giuridiche liberamente
creata o obbligatoriamente imposta per il soddisfacimento in comune di un
bisogno proprio di queste persone.
I consorzi infatti possono essere:
- consorzi volontari: essi sono organizzazioni la cui costituzione è
lasciata alla volontà delle parti (es. Melinda, Parmigiano Reggiano) !
questi consorzi volontari possono riguardare:
o settore privato: per esempio in campo agricolo (bonifica,
irrigazione, miglioramento fondiario) o in campo industriale (in
questo campo i consorzi possono essere orizzontali, verticali o
misti)
o settore pubblico: questi consorzi possono riguardare l’ambito della
pubblica amministrazione, come per opere di pubblica utilità).

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- consorzi obbligatori: essi sono obbligatori per l’alto interesse di tutela


della collettività (es. per il riciclaggio di contenitori o imballaggi per
liquidi, degli oli usati);
- consorzi coattivi: ormai in disuso, essi sono motivato dai vantaggi che
dovrebbe produrre ad una determinata categoria suddividendo, tra i
partecipanti, anche i relativi oneri (esempio è l’Istituto cotoniero italiano,
A loro volta i consorzi in campo industriale possono essere di diversa tipologia:
- i consorzi orizzontali: tali consorzi hanno l’obiettivo di ridurre gli effetti
negativi della concorrenza fra i partecipanti;
- i consorzi verticali: hanno l’obiettivo di ridurre i costi attuando in comune
l’acquisto dei beni, la gestione di magazzini, effettuando servizi di
consulenza aziendale e di ricerca, realizzando campagne pubblicitarie;
- i consorzi misti:
Si può fare ancora una distinzione tra:
- consorzi di servizi: svolgono funzioni di assistenza nei confronti dei
consorziati (fiscale, amministrativa, legale);
- consorzi funzionali: non si limitano all’assistenza di supporto ma si
occupano dei fenomeni gestionali dei partecipanti;
- consorzi monofase: se sono aggregazioni aventi un’attività in comune
riguardante una sola area funzionale;
- consorzi plurifase: se sono aggregazioni aventi un’attività in comune
riguardante più aree funzionali;
- consorzi con attività interna: tali consorzi presuppongono
interventi a favore dei consorziati miranti ad un migliore svolgimento dei
loro processi gestionali (si pensi ai servizi di consulenza legale, alla
tenuta della contabilità);
- consorzi con attività esterna: il consorzio svolge per conto dei
consorziati determinate attività a monte o a valle dell’attività svolta dai
singoli partecipanti. Il consorzio per esempio con attività esterna viene a
svolgere un’attività sempre più completa raggiungendo un’autonomia e
un peso economico superiore a quello dei singoli consorziati che,
comunque, mantengono in tutti i casi la propria autonomia dal punto di
vista giuridico ed economico, anche se mitigata dai vincoli e limiti posti
dal contratto consortile.
Le imprese che partecipano al consorzio mantengono autonomia giuridica ed
economica più o meno condizionata dai limiti imposti dal consorzio.
Queste imprese finiscono per operare in comune, sfruttando dimensioni più
ampie.
I vantaggi dei partecipanti al consorzio sono riconducibili a taluni aspetti
positivi tipici della grande dimensione, come quella del coordinamento delle
autonome attività svolte dalle singole imprese partecipanti.

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CAP. 8

LE AGGREGAZIONI EQUITY

1. Le aggregazioni equity
Le aggregazioni di tipo equity presuppongono legami di tipo patrimoniale
consistenti nella partecipazione di un’impresa al capitale di altre.
Tali rapporti di partecipazione possono essere di tipo:
- Totale: che presuppongono cioè legami “forti”, cioè la partecipazione
totale al capitale; qui è ben precisa la figura dell’impresa che,
giuridicamente ed economicamente, domina nei confronti di tutte le altre
(aggregazioni totali). Ne sono esempi: i trust, i konzern, i keiretsu, i
gruppi economici;
- Parziale: che presuppongono cioè legami “deboli”, cioè caratterizzati sì
da un rapporto patrimoniale in cambio di azioni o quote di altre società,
ma tale legame è limitato in senso quantitativo (la partecipazione è di
tipo minoritario, o comunque non superiore al 50% del capitale) e
qualitativo (in quanto l’azienda che detiene la partecipazione non
rappresenta l’unico soggetto economico. Ne sono esempi le joint-venture
e le partecipazioni minoritarie e gli scambi azionari.

a) AGGREGAZIONI EQUITY PARZIALI


Tra le aggregazioni equity parziali ci sono:

Partecipazioni minoritarie o scambi azionari


Queste partecipazioni minoritarie o scambi azionari permettono agli
acquirenti di limitarsi ad una partecipazione minoritaria nell’azienda
considerata, riducendo così il rischio finanziario/patrimoniale, ma ottenendo
comunque un posto nel consiglio di amministrazione, cosa che permette di
avere sempre un quadro completo delle prospettive del settore in cui egli vuole
entrare.
Gli obiettivi che si vogliono perseguire sono:
- di tipo acquisitivo: l’entrare al momento in modo sommesso per poi
eventualmente incrementare la partecipazione valutando con maggiore
tranquillità determinati elementi relativi alla bontà o meno
dell’investimento;

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- stipulazione di alleanze: una partecipazione minoritaria può essere la


premessa per un’alleanza, o comunque una collaborazione, fra imprese.

Joint-venture
Esistono due differenti forme di joint-venture:
- joint-venture corporation: presuppone la costituzione di una realtà
societaria appositamente costituita con responsabilità limitata (società di
capitale), per lo svolgimento di un’attività congiunta;
- unicorpored o contractual joint-venture: non presuppongono la
costituzione di una specifica società, ma fra i partecipanti esiste un
rapporto di tipo contrattuale per lo svolgimento in comune di una data
attività. Sono esempi i contratti di associazione in partecipazione,
contratti di franchising, consorzi.
A seconda del grado di integrazione, abbiamo:
- le joint-venture orizzontali: caratterizzate dal fatto di svolgere
un’attività simile a quella propria dei singoli partecipanti all’accordo (le
imprese partecipanti operano tutte nello stesso settore);
- le joint-venture verticali: costituite per effettuare determinate
attività a monte o a valle dei processi produttivi dei partecipanti per
ottenere vantaggi economici nella fornitura e nella distribuzione;
- le joint-venture diversificate: si avranno quanto i partecipanti hanno
l’esigenza di inserirsi in settori con grosse barriere all’entrata per le quali
è estremamente difficile l’ingresso della singola azienda, mentre
attraverso tali accordi si sfruttano le specifiche competenze delle singole
imprese.
In tutte queste joint-ventures, tutti i partecipanti mantengono la propria
indipendenza giuridica.
Le motivazioni quindi per la creazione di joint-ventures sono:
- ridurre i rischi insiti in progetti con elevati investimenti;
- penetrazione produttiva e commerciale in determinati mercati;
- trasferimento di tecnologia (inteso come trasferimento di conoscenze da
un’impresa ad un’altra in cambio di denaro o il diritto di fabbricare
determinati prodotti), complementarietà tecnologica (cioè lo scambio di
tecnologia tra le parti).
L’accordo darà buoni risultati se tutti i partecipanti concordano sugli obiettivi da
raggiungere o quando un partecipante assume decisamente un ruolo guida non
contestato dagli altri.
La conclusione dell’accordo porta normalmente uno dei partecipanti alla joint-
venture a rilevare la totalità delle quote o azioni.

b) AGGREGAZIONI EQUITY TOTALI


Ne sono esempi:

Trust
I trust sono realtà superate da altre forme di aggregazione, soprattutto dai
gruppi aziendali.

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Il trust aveva una funzione di controllo del mercato e spesso monopolistica,


tanto è vero che venne dichiarato illegittimo dallo Sherman Act.
Nei trust erano presenti le caratteristiche tipiche del gruppo: autonomia
giuridica delle società partecipanti all’accordo e legami patrimoniali fra le parti
e il “board of trustees”.
La struttura del trust prevedeva il trasferimento di un sufficiente numero di
azioni al Board of trustees: agli azionisti che avevano attuato il trasferimento
venivano assegnati dei certificati di trust che garantivano loro dei diritti sugli
utili del trust; in questo modo il board poteva gestire unitariamente le aziende
aggregate nel trust.

Konzern
Il konzern è una forma di aggregazione tipica della realtà tedesca. I rapporti
tra le singole aziende sono di tipo patrimoniale (partecipazione azionaria) ma
non mancano elementi riconducibili a fenomeni contrattuali o informali come
contratti di fornitura, contratti di affitto di aziende, etc.

Keiretsu
Il Keiretsu è una forma di aggregazione tipicamente giapponese: tale
aggregazione prevede un gruppo di imprese collegate, imprese indipendenti
ma con legami molto stretti e che, sovente, hanno lo stesso nome.
Il keiretsu offre i vantaggi tipici della rete di imprese: trasmissione di
informazioni, cessione di beni prodotti, possibilità di costituire joint-venture con
altre aziende facenti parte dell’accordo.

Fusione
La fusione è uno strumento di crescita esterna: in effetti la crescita esterna
può avvenire mediante acquisizione di altre imprese, le quali possono
mantenere la loro individualità giuridica (ed allora si ha la formazione di
gruppi) oppure possono perdere tale individualità giuridica perché vengono
compenetrate in una nuova organizzazione, cioè la costituzione di una nuova
società (fusione propriamente detta) oppure assorbite in una società
preesistente che rimane in essere (fusione per incorporazione).
La fusione può anche costituire una valida alternativa allo sviluppo
interno: la fusione è un modo molto più rapido di quanto consentito
dall’espansione per via interna di raggiungere dimensioni maggiori e di
ottenere una soddisfacente diversificazione delle attività aziendali.
Infatti con la fusione possono essere ridotte in modo sostanziale le difficoltà
tecniche ed organizzative legate all’entrata in nuovi campi di attività; si
possono anche raggiungere in tempi brevi posizioni di mercato che altrimenti
avrebbero richiesto anni di sforzi, riducendo nel contempo anche la pressione
della concorrenza.
Nella fusione può esserci un soggetto “attivo” ed uno “passivo”, oppure un
“sostanziale equilibrio di potere contrattuale”.
La fusione è solo uno degli strumenti legali mediante cui possono procurarsi
fenomeni di concentrazione e di integrazione aziendale.

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Oltre che alla crescita interna, la fusione viene anche preferita all’acquisizione
in alcuni casi:
- chi ha il controllo della società da acquisire può essere disposto alla
fusione ma non alla vendita;
- l’acquisizione richiede investimenti notevoli, mentre la fusione consente
di utilizzare come “moneta” azioni invece che denaro contante;
- con società distinte si hanno costi fissi, come spese di amministrazione,
che con la fusione vengono evitati;
- l’acquisizione può non dare adito ad una soddisfacente conduzione
economica dell’impresa.
A seconda delle caratteristiche economiche delle operazioni di fusione, si
possono avere:
- fusioni orizzontali: fusioni effettuate tra imprese i cui prodotti sono
considerati come equivalenti dagli acquirenti e ad altissima elasticità
(esse sono dello stesso settore);
- fusioni verticali: fusioni in cui l’espansione di un’impresa avviene negli
stadi di produzione immediatamente collegati, a monte o a valle, nel suo
campo di attività;
- fusioni conglomerali: fusioni fra imprese dedite a produzioni
differenziate sia dal punto di vista tecnologico che funzionale, e che
quindi operano su mercati diversi.
Nonostante questo però, anche le fusioni presentano i loro aspetti negativi:
con la fusione ad esempio, si può sommare una nuova organizzazione ad una
precedente molto simile, oppure si fanno convivere delle organizzazioni molto
diverse tra loro, la cui coesistenza è molto difficile.

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CAP. 9

I gruppi

1. Il concetto di gruppo
Il gruppo di imprese è una forma classica di aggregazione di tipo equity
totale.
Un gruppo è caratterizzato da:
- elementi giuridico-formali:
. presenza di due o più società giuridicamente autonome (altrimenti non
Esisterebbe un gruppo, ma un’azienda unica);
. legami di partecipazione fra le società;
. forma giuridica generalmente costituita da società di capitali;
- elementi sostanziali:
. unità (o unitarietà) del soggetto economico.

2. I legami partecipativi
Tra le società che formano il gruppo di imprese, esistono dei legami
partecipativi, in base ai quali si possono distinguere due tipi di gruppi:
- gruppi verticali: i gruppi verticali sono quei gruppi in cui la gestione è
affidata ad una società capogruppo o holding, società che la possibilità di
esercitare un controllo sulle società del gruppo in quanto possiede delle
partecipazioni nel capitale sociale delle controllate e ha lo scopo di dare
specifiche direttive alle società appartenenti al gruppo stesso;
- gruppi orizzontali: i gruppi orizzontali sono insiemi di imprese legate
tra di loro da vincoli di varia natura; in questi gruppi la direzione unitaria
del gruppo non è rappresentata da una holding, ma viene esercitata
congiuntamente dalle imprese di gruppo che si trovano in una situazione
di reciproca uguaglianza.

Il tipo di legame partecipativo più ricorrente è la modalità verticale, in cui il


legame partecipativo è caratterizzato dal possesso da parte della società
holding di partecipazioni nel capitale sociale delle controllate.

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Il legame partecipativo può essere esaminato in base a due criteri:


- la consistenza delle partecipazioni;
- la struttura delle partecipazioni assunta nel gruppo.

Per quando riguarda la consistenza delle partecipazioni, possiamo


distinguere queste partecipazioni in:
- totalitarie: quando la società capogruppo detiene l’intero capitale
sociale delle controllate;
- maggioranza assoluta;
- maggioranza relativa;
- minoranza.

Per quanto invece riguarda la struttura assunta dalle partecipazioni, possiamo


distinguere in:
- partecipazioni dirette: si parla di gruppo a struttura semplice !
quando è la stessa capogruppo a detenere le partecipazioni nelle società
controllate;
- partecipazioni indirette: si parla di gruppo a struttura complessa
! queste partecipazioni presuppongono il controllo della partecipata
tramite un’altra società controllata; questa partecipazione è denominata
anche “a cascata” ed è finalizzata alla minimizzazione del rischio da
parte del soggetto economico;
- partecipazioni reciproche: si parla di gruppo a catena ! questo
gruppo presuppone l’esistenza di rapporti diretti o indiretti di
partecipazione tra le società del gruppo: si ha una partecipazione
reciproca diretta quando una società del gruppo, che viene controllata
direttamente dalla capogruppo, ha una partecipazione nella capogruppo
stessa; si ha invece una partecipazione reciproca indiretta quando una
società del gruppo, che non viene controllata direttamente dalla
capogruppo, ha una partecipazione nella capogruppo.

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Società H capogruppo o holding


Società A partecipazione totalitaria (100%)
Società B partecipazione di maggioranza assoluta (70%)
Società C partecipazione di maggioranza relativa (30%)
Società D partecipazione di minoranza (30%)
Società A,B,C,D partecipazioni dirette della capogruppo H (gruppo a
struttura semplice)
Società E partecipazione indiretta della capogruppo e diretta della
Società A (gruppo a struttura complessa)
Società H e B partecipazione reciproca diretta (gruppo a struttura a
catena - ciascuna società è azionista dell’altra)
Società H e E partecipazione reciproca indiretta (rapporto di controllo
indiretto in quanto una società del gruppo non control-
lata direttamente dalla capogruppo E ha una partecipa-
zione in questa).
3. Il controllo e l’organizzazione dei gruppi
In merito alla funzione della capogruppo è possibile individuare:
- holding pura (o finanziaria): in cui la funzione di tale holding si limita
alla gestione delle partecipazioni possedute e al loro coordinamento
tecnico e finanziario, ma la holding non svolge alcuna attività industriale
o operativa;
- holding mista: all’interno di tale holding vengono svolte sia funzioni
industriali, sia funzioni proprie del coordinamento del gruppo.
E’ possibile individuare due strutture organizzative contrapposte: la
prima riconducibile ad una capogruppo “monolitica” al cui interno
vengono svolte sia funzioni industriali, sia funzioni proprie del
coordinamento del gruppo, ed una seconda struttura in cui determinati
servizi “centrali” (finanza, coordinamento fiscale, centro contabile) sono
attuati da apposite società.

Per quanto riguarda la holding pura, vengono individuati due particolari gruppi
strutturati in due diversi modi:
- gruppo “a pettine”: questo è un gruppo in cui la holding controlla tutte
le controllate in maniera diretta; così anche se una delle società
controllate viene persa, la perdita si limita solamente a quella società.
Questo sistema di controllo è quindi sicuro, anche se però è un sistema
costoso in quanto bisogna avere partecipazioni dirette in ogni controllata,
si devono impegnare cioè ingenti mezzi finanziari;

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- gruppo “a grappolo”: questo è invece un gruppo in cui la holding


esercita un controllo indiretto sulle controllate ! la holding detiene infatti
una partecipazione diretta in una sola impresa e controlla invece le altre
aziende in maniera indiretta, sfruttando le partecipazioni che la sua
controllata ha nelle altre.
Questo sistema di controllo è meno sicuro di quello “a pettine”: infatti se
ad esempio la holding decidesse la cessione dell’impresa C, si finirebbe
con il perdere anche le società D e E direttamente possedute dalla
società C.
D’altro canto invece, questo sistema è meno costoso in quanto la holding
deve avere la partecipazione diretta in una sola impresa.

4. I gruppi e l’integrazione
I gruppi possono anche essere classificati in base alla forma di integrazione:
- gruppi ad integrazione orizzontale: questi gruppi sono costituiti da
società che svolgono attività simili e che operano nello stesso settore;
- gruppi ad integrazione verticale: questi gruppi sono costituiti da
società con produzioni correlate a monte o a valle;
- gruppi conglomerati: questi gruppi sono costituiti da società operanti
in settori diversi.

5. La genesi dei gruppi


Le motivazioni che portano alla costituzione di un gruppo sono relative prima
di tutto all’aumento delle dimensioni, anche se ciò può far sorgere problemi
di natura organizzativa tipici delle imprese di grandi dimensioni (lentezza nelle
comunicazioni fra i vari livelli di gerarchia, una maggiore burocratizzazione),
problema che la struttura del gruppo riesce a superare.
Pertanto la struttura del gruppo tende ad ottimizzare i vantaggi propri della
crescita esterna ed interna nonché i punti di forza propri delle aziende di
grande e piccola dimensione.

Per quanto riguarda i processi di formazione, si possono avere tre modalità


diverse:
- acquisizione: questa è la modalità più ricorrente, che prevede la
costituzione di un gruppo a seguito di acquisizioni graduali e successive
da parte di una società destinata a diventare la capogruppo;
- concentrazione dei pacchetti di controllo: questa modalità è meno
ricorrente della prima e prevede che più soggetti possessori di pacchetti
di controllo di diverse società conferiscono tali pacchetti ad una
preesistente, o appositamente costituita, società la cui funzione sarà
quella tipica di una holding;
- scorporo o conferimento:

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o lo scorporo presuppone la creazione di un gruppo a seguito della


“frantumazione” di un’unica grande azienda destinata, a seguito
dello scorporo, a rimanere in vita assumendo il carattere di holding
e detenendo le partecipazioni nelle imprese scorporate.
Attraverso questa politica di scorpori si giunge alla costituzione di
un “gruppo” industriale, considerato uno strumento meglio
governabile rispetto ad una società di grandi dimensioni.
Un esempio di scorporo è la scissione: la scissione di una società
si esegue mediante trasferimento di una parte o dell’intero suo
patrimonio a più società preesistenti, o di nuova costituzione, e
assegnazione delle loro azioni o quote ai soci della società scissa;
o il conferimento è invece uno scorporo di aziende o rami di
azienda con contestuale apporto in società di nuova costituzione o
in società già esistenti (non è quindi la società che si è scissa a
divenire holding, come invece avviene nello scorporo).

6. Le finalità e le motivazioni alla costituzione di un gruppo


Svariate sono le motivazioni per la formazione di un gruppo; tra di essere
possiamo distinguere:
- l’aspetto finanziario: le motivazioni finanziarie sono senz’altro
l’aspetto più importante in quanto la formazione di un gruppo permette
un accentramento della gestione finanziaria. La struttura di gruppo
permette consistenti vantaggi finanziari;
- l’aspetto economico: il miglioramento delle condizioni economiche, e
quindi dell’economicità delle aziende del gruppo, può essere economicità
conseguibile solo all’interno del gruppo (di aziende che fanno parte del
gruppo) o economicità super-aziendale (di aziende che non fanno parte
del gruppo ma che, grazie alla sua esistenza, godono di economicità);
- l’aspetto organizzativo: la costituzione di un gruppo può anche trovare
una giustificazione nell’ottica organizzativa: si pensi ai vantaggi legati
alla responsabilizzazione dei dirigenti intermedi posti in posizioni
decisionali nelle società controllate.

7. Da impresa multidivisionale a “gruppo”


Per superare le problematiche derivanti dalla grande dimensione, le imprese
hanno in alcuni casi deciso di organizzarsi secondo una struttura
multidivisionale.
Una struttura organizzativa di questo tipo si fonda su degli elementi
fondamentali:
- decentramento di funzioni operative a unità omogenee, dotate di un
elevato grado di autonomia operativa;
- decentramento delle responsabilità e del potere di decisione ai
dirigenti delle singole divisioni; l’intervento da parte della direzione
centrale deve essere infatti moderato;

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- adozione di complessi sistemi di programmazione e di controllo


nei confronti delle strutture divisionali, per la corretta definizione degli
obiettivi e delle valutazione delle performances.
In questo modo l’alta direzione può dedicare il proprio tempo alla definizione
dei piani finanziari e strategici dell’impresa.
Le imprese organizzate per divisioni si prefiggono quattro obiettivi:
- attuare un forte decentramento;
- incoraggiare l’indipendenza;
- massimizzare il contributo reddituale delle singole divisioni;
- formare i futuri manager ad alto livello.
Esistono però dei prezzi di trasferimento per le transazioni che avvengono tra
le singole divisioni: si possono basare sui prezzi di mercato o sui costi
realmente sostenuti, anche se non esiste un metodo assoluto per stabilire tali
prezzi, in quanto bisogna tener conto delle caratteristiche dei beni oggetto di
scambio interno e delle strutture operative delle singole divisioni.

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