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Imuribianchi

Progetto grafico e copertina


BosioAssociati, Savigliano (CN)
ISBN 978-88-8103-756-8
© 2010 Edizioni Diabasis
via Emilia S. Stefano 54 I-42121 Reggio Emilia Italia
telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047
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Gianfranco Pasquino

Quasi sindaco
Politica e società a Bologna
2008-2010
Ai quattromila quattrocento quarantotto elettori
della lista “Cittadini per Bologna”
con gratitudine.
Gianfranco Pasquino

Quasi sindaco
Politica e società a Bologna
2008-2010

Appena una premessa

Capitolo primo Capitolo sesto


Fare politica Incontrarsi, così

Capitolo secondo Capitolo settimo


Se queste sono primarie Disinformazia

Capitolo terzo Capitolo ottavo


I visitors Vaste programme

Capitolo quarto Capitolo nono


Il candidato latitante Bilancio e commiato

Capitolo quinto Appendice


La zampa di Prodi Programma dei
“Cittadini per Bologna”
Appena una premessa Indice

Dalla metà di ottobre del 2008 all’8 giugno del 2009


mi sono gradualmente impegnato in un’avventura
politica rappresentata dalla campagna per diventare
sindaco di Bologna. Fin dall’inizio ero perfettamente
consapevole che la vittoria costituiva una missione
impossibile. Tuttavia, ero anche convinto che quella
campagna potesse effettivamente equivalere ad una
“missione”, vale a dire a un tragitto politico e
programmatico nel corso del quale sarei riuscito ad
incidere in qualche modo sull’opinione pubblica e sulla
politica bolognese. Adesso, sono in grado di affermare
che, da un lato, ho sottovalutato la difficoltà del
compito e, dall’altro, ho nettamente sopravvalutato la
disponibilità e l’apertura dell’opinione pubblica
bolognese e la qualità della politica locale.
In seguito, per molti mesi successivi, mentre ero
impegnato in altre attività − insegnare all’Università di
Bologna, fare ricerca all’Italian Academy for Advanced
Studies in America alla Columbia University, dirigere il
Master in Relazioni Internazionali Bologna-Buenos Aires,
scrivere commenti di politica, tenere conferenze,
passeggiare lungo le spiagge della Romagna −, ho
pensato, senza lasciarmi ossessionare, a come era
andata la nostra campagna elettorale e al suo
sicuramente deludente esito. Ma ho anche riflettuto
sullo stato di degrado politico e amministrativo in cui è
caduta la città, naturalmente, con alcune eccezioni
importanti, e dal quale neppure l’eccellente opera di un
bravo Commissario mandato dal governo, Annamaria
Cancellieri, riesce a risollevarla. Tuttavia, l’interludio del
Commissario e la “sospensione della politica”, oltre a
stabilizzare la situazione, hanno messo in evidenza le
grandi potenzialità, purché se ne abbiano le capacità e
la volontà, di una corretta amministrazione quotidiana.
Mentre nelle sedi dei partiti, nelle redazioni di alcuni
quotidiani, nei salotti borghesi, molti ben pasciuti
coccodrilli versavano inutili e tardive lacrime sulla città
“ferita” dal commissariamento, tutto meritatissimo,
anche dai piangenti, e “umiliata”, per colpa di buona
parte dei suoi cittadini-elettori e dei suoi dirigenti
politici, lentamente, ma amaramente, maturava in me
la convinzione che dovessi mettere per iscritto quanto
abbiamo fatto, malfatto, non fatto, tentato di fare. Che
lo dovessi in particolare ai miei elettori, a coloro che
hanno votato la lista civica “Cittadini per Bologna”, a
coloro che in quella lista sono entrati, a coloro che
variamente ci hanno aiutati e finanziato.
Quello che segue è un racconto non soltanto
personale, ma politico. Mi auguro che sia utile; lo credo
indispensabile. È giusto che quanto abbiamo fatto, noi
“Cittadini per Bologna”, sia ricordato. Può servire di
insegnamento, prima di tutto a noi. Ma è anche una
riflessione delicata sulla politica in quella che una volta
era considerata la capitale rossa del buongoverno. Ecco,
nelle pagine che seguono desidero che i lettori e gli
elettori trovino un tentativo di spiegazione, senza
cedimenti a una tradizione che non esiste più, ad un
mito che si è logorato da più di un decennio, a
lamentazioni spropositate e a ingiustificabili esibizioni di
orgoglio cittadino. Questa è la mia personale
spiegazione, inevitabilmente incompleta, che sarò lieto
di mettere a confronto con altre spiegazioni, in una città
nella quale, peraltro, il confronto aspro e argomentato,
ma civile, sembra essere quasi totalmente scomparso.
Peccato, poiché confrontandosi con le opinioni altrui e
con qualche dato duro si riesce sempre ad imparare
qualcosa. Almeno, ci si può provare.

Bologna, settembre 2010


Indice
Capitolo primo
Fare politica

“Ma chi te lo fa fare?”: è stata la domanda più


frequente dopo che, all’inizio del febbraio 2009,
annunciai ufficialmente la mia candidatura 1 in una
conferenza stampa al Bar La Linea (che ringrazio per la
sempre gentile ospitalità). Quella domanda ce la
eravamo posti molte volte anche noi, prima di creare la
nostra Associazione, “Cittadini per Bologna”, e di
decidere che, sì, questa volta non potevamo proprio
tirarci/tornare indietro. Erano molte le considerazioni
che ci avevano spinto a “farlo”. Credo di non sbagliare
se affermo che il nostro piccolo, avremmo presto, ma
già troppo tardi, capito, che era troppo piccolo, gruppo
era fortemente motivato a misurarsi in una campagna
elettorale per una molteplicità di ragioni. Dunque,
anzitutto, me lo ha fatto fare il gruppo. Con quasi tutti
loro, meno due o tre, che nutrivano altre non
confessate mire e che se ne sarebbero andati,
condividevo, in maniera più o meno ampia, due
motivazioni. La prima era che pensavamo di avere
qualcosa di importante da immettere nel circuito del
discorso politico e programmatico di Bologna.
Sapevamo che tipo di città avremmo voluto disegnare e
quali contenuti, non soltanto utili, ma originali, collocare
nel nostro sintetico programma. Non volevamo
certamente scrivere una superflua e fuorviante
enciclopedia delle cose da fare, tipo quelle 283
famigerate pagine della Fabbrica del Programma di
Prodi 2006, che costituiscono l’esempio peggiore,
indimenticabile, tutto da evitare. La seconda
motivazione era, e non ci sembrava affatto illusoria alla
luce dello stato confusionale del Partito Democratico,
proprio quella di cambiare quel partito e i suoi dirigenti.
Grande fu lo scandalo quando «la Repubblica» locale
mise come titolo a una mia intervista che mi auguravo
la sconfitta del PD e dei suoi dirigenti. Era
un’affermazione che non ho ritrattato e che, anzi,
considero assolutamente meritoria. Conteneva una
pluralità di significati sui quali, purtroppo, nessuno volle
allora misurarsi. La sconfitta dei dirigenti del Partito
Democratico poteva anche cominciare con l’essere
costretti ad andare al ballottaggio con il loro mediocre
(poi si scoprì che era anche qualcosa di più grave)
candidato, perdere molti voti, dovere dare le dimissioni.
1 Guarda la galleria fotografica della campagna elettorale.
Non ho niente né da aggiungere né da cambiare: titolo
e obiettivo sono, e rimangono, anche se polemicamente
esagerati, sostanzialmente corretti. A distanza di molti
mesi, sono, però, più che lieto di constatare che il
segretario provinciale del Partito Democratico, Andrea
De Maria, ha dovuto lasciare la carica. Il partito, che è
un’associazione costosamente benefica e assistenziale,
gli ha offerto un posto, leggere “stipendio”, a Roma,
tanto là a fare danni sono in molti. Che il “vigilante”
Claudio Merighi, braccio armato di Delbono, e grande
sparatore di dichiarazioni offensive nei miei confronti,
subito premiato con la carica di vice-sindaco, ma poi
travolto dalle dimissioni del suo pupillo, ha trovato
posto, per ragioni che mi sfuggono, nella segreteria,
evidentemente altro luogo assistenziale, del Presidente
della Regione Emilia-Romagna, Vasco Errani. Purtroppo,
per tutti, Salvatore Caronna, l’altro grande sponsor di
Delbono, ha trovato asilo politico fino al 2014 nel
Parlamento Europeo. Sul suo significativo contributo al
governo del partito di Bologna e dell’Emilia- Romagna,
parlano le dimensioni dei voti perduti dal 1999 ad oggi,
intorno al quindici per cento.
In quella limpida dichiarazione e in quel preciso
proposito, non ero affatto stato “frainteso”, anche se,
naturalmente, «la Repubblica» non aveva nessunissima
intenzione di riferire esattamente le mie dichiarazioni
quanto piuttosto di mirare a screditarmi negli ambienti
della sua sinistra da salotti e altri luoghi poco
raccomandabili per chi volesse provare a cambiare la
politica. Non so quale sia stato il grado di successo del
quotidiano in termini di vendite e di influenza.
Comunque, quei salotti, che già frequentavo molto
sporadicamente, cessarono qualsiasi invito dal
momento in cui sembrò, fine novembre 2008, che avrei
potuto essere candidato. Per quanto già ampiamente
screditati dalla manfrina che avevano condotto prima di
ingoiare senza una sola riserva il paracadutamento di
Cofferati nel giugno del 2003, i salotti della cosiddetta
borghesia rossa continuarono imperterriti nel loro cieco
settarismo, mai discutendo il merito o il demerito della
mia candidatura (prima i programmi, poi, magari anche
le persone, con la loro storia, la loro biografia, le loro
eventuali qualità), sempre sostenendo acidamente e
obliquamente che avrei fatto perdere il candidato del
PD. Un omaggio francamente esagerato, sicuramente
non fondato su nessun dato accertabile.
Quanto alle altre motivazioni della candidatura, sono
inevitabilmente legate a me, alla mia persona, alla mia
biografia professionale e politica. Allora e ancora di più
adesso, i cittadini di Bologna sono esposti alla
intollerabile valanga di esternazioni dei candidati e dei
collaboratori dei quotidiani locali che dichiarano a voce
alta di “amare la città”. È un tripudio di ipocrisia. Anche
a noi, “Cittadini per Bologna”, e a me, una città meglio
amministrata piacerebbe molto. Per questo decidemmo
di fare la campagna elettorale e di prendere parte alle
elezioni. La nostra quota di “amore” continua, però, ad
andare ad altre cose molto più importanti: la giustizia
sociale, il governo delle leggi, l’eguaglianza di
opportunità, persino, una certa idea di patria e di
Europa nonché comprensibilmente di Bologna. Certo,
non riusciamo affatto a provare amore per i
comportamenti, non soltanto elettorali, di molti
bolognesi. Dunque, volevamo mettere all’opera non
alcuni vaghi e altisonanti sentimenti amorosi, tutti da
sottoporre a verifica, ma il nostro impegno per
migliorare la vita di coloro che sanno che, seppure a
fatica, una Bologna migliore è possibile a condizione che
venga sconfitto il blocco di potere costruitosi e
cementatosi intorno al PCI e poi trasferitosi armi e
bagagli, senza nessuna defezione e, quel che più conta,
senza nessuna perdita di “posti di lavoro”, sul Partito
Democratico.
Oltre all’impegno, che avremmo imparato essere
molto costoso in termini di energie, tempo, denaro,
amarezze e frustrazioni, altri due elementi furono alla
base della mia decisione. Da un lato, la reazione contro
un’ennesima, ancorché classica, ipocrisia: quella di
coloro che sostengono che le proprie personali
candidature sono motivate da “spirito di servizio”.
Pronunciata, poi, con grande sussiego, qualche volta
appena sussurrata, da personaggi che traggono da
cariche politiche il loro abbondante sostentamento,
comunque superiore a qualsiasi compenso da loro
acquisibile sul mercato, questa frase era e rimane
assolutamente irritante. Chi fa politica, quand’anche
cominciasse, ma ci credo pochissimo, per spirito di
servizio, capisce rapidamente quanti sono i privilegi, di
condizioni di lavoro, di status, di reddito, di visibilità,
qualche volta persino di prestigio (sic) di cui gode. Non
a caso quasi nessuno dei politici smetterebbe mai di sua
propria volontà. Sarebbe, dunque, molto più
apprezzabile che coloro che fanno politica dichiarassero
sinceramente che lo fanno per “ambizione”. Se poi la
loro ambizione si limita a quei privilegi, peccato.
Toccherà agli elettori e all’opinione pubblica castigarli.
Personalmente, la mia ambizione è sempre consistita
nel cercare di cambiare le situazioni, ovviamente,
sperando di migliorarle con idee, proposte, scritti,
interventi, stile di comportamento e, soprattutto,
sostenendo con voce alta e forte il mio dissenso, e
argomentandolo trasparentemente, in pubblico. Sì, fra
le varie motivazioni che mi hanno spinto a candidarmi
c’era proprio l’ambizione unita alla convinzione che
saremmo riusciti a fare vedere che è possibile produrre
qualcosa di molto diverso da una politica burocratica e
che è possibile farlo anche con pochi soldi.
Infine, ed è la motivazione più delicata da esprimere,
ma che pensavamo, in seguito, almeno io ho cambiato
idea, che fosse ampiamente diffusa in città: per “senso
civico”. Ci sono certamente a Bologna molte persone
che vogliono partecipare e che si impegnano in
associazioni dei più vari tipi. Le abbiamo incontrate.
Purtroppo, molte di loro, non tutte, hanno poi,
probabilmente perché non siamo riuscite a convincerle,
deciso di mantenere i loro tradizionali comportamenti di
voto. Quel che rimane, però, è che il mio “senso civico”
e quello di molti dei miei collaboratori si è espresso,
come centinaia di persone possono testimoniare,
nell’incontrare e nel dialogare con tutti coloro che ne
avessero voglia: davanti ai supermercati, nelle strade e
nelle piazze, nelle iniziative pubbliche che abbiamo
organizzato. La politica non è solo partecipazione. È
anche dialogo fra persone: ascoltare, conversare,
spiegare, persuadere, rivedere le proprie idee. Ci
abbiamo provato. Da questo punto di vista non abbiamo
nulla da rimproverarci. Da altri punti di vista,
ovviamente, anche alla luce dell’esito, sicuramente
sconfortante e piuttosto al di sotto delle nostre
aspettative, è evidente che abbiamo parecchio da
rimproverarci e da spiegarci, oltre che da imparare. Nel
corso di questo libro, cercherò nella maniera più
esauriente e più candida possibile, ma certo mai
disinteressata, di capire che cosa è successo, perché è
successo e se poteva essere diverso.

Avvertenza
Farò riferimento alle persone, individuate con nomi e cognomi,
soltanto quando è strettamente necessario. Non è mia intenzione
coinvolgere in questo racconto nessuno che non lo voglia.
D’altronde, anche se “Cittadini per Bologna” non è affatto stata una
mia avventura personale, e colgo l’occasione per ringraziare coloro
che si sono lealmente impegnati con me, questo piccolo libro
contiene il mio punto di vista, non l’unico possibile, ma certamente
un punto di vista autentico e sincero. Per questo, sono costretto ad
oscillare fra due pronomi “io”, quando mia è l’opinione e mia la
responsabilità, e “noi” quando ho fondati motivi per credere che la
posizione che esprimo era ed è condivisa dai “Cittadini per
Bologna”.
Capitolo secondo Indice

Se queste sono primarie

Le primarie per la scelta del candidato del Partito


Democratico alla carica di sindaco di Bologna sono
cominciate molto prima di qualsiasi data ufficiale.
All’inizio dell’ottobre 2008, un paio di giorni dopo che il
collega professor Paolo Pombeni mi aveva comunicato
che sarebbe stato il Presidente del Comitato per la
Rielezione del Sindaco Sergio Cofferati, questi, già
ricandidatosi, dopo averlo ricevuto per discutere una
prima impostazione della campagna elettorale,
annunciava la sua rinuncia per motivi di famiglia. Senza
perdere un attimo di tempo, forse persino sollevati da
un peso, i dirigenti del PD locale, vale a dire, il
segretario provinciale Andrea De Maria e il segretario
regionale Salvatore Caronna, lanciarono la candidatura
di Flavio Delbono. Con interventi evidentemente già
concordati in anticipo, a sostegno di Delbono arrivarono
subito le dichiarazioni dell’anziano ex-sindaco nonché
presidente dell’Assemblea cittadina del PD, Renato
Zangheri, del quasi segretario nazionale, Pierluigi
Bersani, quattro anni prima evocato come “briscolone”,
e del Presidente della Regione Emilia-Romagna, Vasco
Errani, comprensibilmente soddisfatto dell’uscita dalla
scena regionale di un probabile aspirante alla sua
carica.
Debbo subito ricordare che, nella sua qualità di
segretario provinciale di Bologna, Caronna si era
impegnato allo spasimo, proprio quattro anni prima, per
evitare le primarie che era consapevole di non riuscire a
controllare. Adesso, la situazione era cambiata. Da un
lato, lo Statuto del Partito Democratico impone le
primarie per tutte le cariche elettive monocratiche;
dall’altro, evidentemente, candidando un ex-Margherita,
oltre a prevenirne le temibili e temute richieste che
Delbono, Assessore al Bilancio e Vice-presidente della
Regione Emilia-Romagna, avrebbe fatto pervenire per
una sua promozione alla Presidenza, era plausibile
acquisire anche qualche prestigioso appoggio cittadino.
Fatto sta che prima che si stilasse un regolamento,
esisteva già un front runner appoggiato dai pezzi da
novanta del Partito bolognese ed emiliano. Al riguardo,
sarebbe interessante conoscere il parere dei prodiani e,
in special modo, della portavoce di Prodi, la quale si è
ritagliata il ruolo di vestale delle primarie alla sola
condizione che riguardino gli altri. E dire che, quando le
primarie le chiedeva ad alta voce, contro la riconferma
di Cofferati, il Presidente del Quartiere Santo Stefano,
Andrea Forlani, per tutta l’estate 2008 i dirigenti del PD
avevano detto picche oppure opposto, strategia abituale
per molti di loro, una combinazione di sprezzante
sbeffeggio e di sublime indifferenza. Nonostante vari
maltrattamenti e altre disavventure, Forlani è tuttora
nel partito.
In qualche modo, mentre gradualmente entravano in
lizza, oltre a Forlani, l’assessore della Giunta Cofferati,
Virginiangelo Merola, e il Presidente del Consiglio
provinciale (dopo dieci anni di presidenza del Consiglio
comunale), Maurizio Cevenini, nel mese di ottobre
venne stilato un primo regolamento. In effetti, avendo
già partecipato alle non luminosissime primarie del
1998, arrivando secondo con distacco, dietro la
candidata di buona parte dell’apparato dei Democratici
di Sinistra e del sindacato CGIL-SPI, Cevenini deve
essere considerato, da tutti i punti di vista, oltre che
“legittimante”, recidivo. Quanto ad alcuni dei “Cittadini
per Bologna”, unitamente ad un relativamente ristretto
gruppo di persone, lavoravamo da tempo per
conseguire tre ambiziosi obiettivi. Primo, fare sì che le
primarie diventassero uno strumento, facilmente
attivabile, ma non necessariamente obbligatorio, che
sarebbe anche stupido qualora esistesse un unico
candidato, per di più insediato in una carica
monocratica e con buone probabilità di rielezione: non
siamo dogmatici fondamentalisti. Secondo, ottenere che
le primarie fossero aperte, ovvero che vi potessero
partecipare e votare tutti coloro che si riconoscevano
grosso modo nell’area della sinistra democratica, e di
coalizione, in modo da attrarre e, certo, anche da
vincolare all’esito, i partiti e le associazioni di coloro che
vi partecipavano. Terzo, renderle intelligentemente
tempestive, ovvero tenute in un periodo non troppo
distante dalla data delle elezioni alle quali fanno
riferimento in modo da sfruttare al meglio la carica di
partecipazione e di slancio che primarie fatte bene, vale
a dire secondo le regole, sono in grado di sprigionare.
Sono esigenze tuttora valide.
Fissiamo il punto preliminare più importante. Quello
che è stato a lungo oggetto di discussione all’interno del
nostro gruppo, non era la mia personale candidatura a
sindaco, ma le modalità con le quali ottenere che quelle
tre richieste entrassero nel dibattito, fino ad allora,
assolutamente ripiegato su se stesso, autoreferenziale e
non privo di propensioni manipolatorie, che si svolgeva
nel Partito Democratico. Le ritenevamo prioritarie e
sistemiche, vale a dire, che venivano prima di ogni altra
considerazione e che non dovevano giovare a qualcuno,
ad uno specifico candidato o partito, ma al sistema
politico bolognese.
Quando fu abbastanza chiaro che nessuna delle
richieste che avevamo debitamente inoltrato sarebbe
stata presa in considerazione, ci ritrovammo ad oscillare
fra due poli: prendere atto e lasciare perdere oppure
entrare nelle primarie e portare le nostre richieste nel
cuore, meglio, nel molle e pesante corpaccione del
partito. Nonostante l’evidente complessità della seconda
opzione, si manifestò una chiara maggioranza a favore
della mia partecipazione alle primarie del Partito
Democratico. Personalmente, continuavo ad essere
dubbioso. Forse conoscevo il partito e i partitanti meglio
dei miei giovani, entusiasti, ma, per lo più, piuttosto
ingenui, sostenitori. Quando decidemmo, eravamo,
però, colpevolmente arrivati molto, troppo vicini alla
data di scadenza per la raccolta delle firme. Qui fecero
la loro comparsa il bizantinismo del regolamento e le
opportunità di manipolazione nella sua applicazione, che
la maggior parte dei dirigenti del PD aveva intenzione di
utilizzare a fondo, con impegno, puntiglio, furbizia.
Secondo il regolamento, per essere valida la
candidatura doveva essere presentata con due modalità
alternative. Prima modalità: raccogliendo un certo
numero di firme degli iscritti, all’incirca 400 dei 12.500
iscritti al Partito Democratico. A richiesta, i responsabili
dell’organizzazione si affrettarono a comunicarci che,
per un guasto al server, non sarebbe neppure stato
possibile inviare un breve messaggio neppure ai 4.500
iscritti dotati di posta elettronica. Nessuno dei circoli
cittadini del Partito sedicente Democratico, tranne
quello al quale erano iscritti due dei miei collaboratori,
si è prestato a raccogliere le firme. La seconda modalità
consisteva nella raccolta di un certo numero di firme, se
non sbaglio una cinquantina, dei componenti
dell’Assemblea cittadina. Molti di costoro avevano fin
dalla partenza già dato la loro firma ai vari candidati del
partito. Poiché avevo votato nelle cosiddette “primarie”
per Veltroni, vale a dire, più correttamente, l’elezione
diretta del segretario ad opera dei simpatizzanti per il
PD, svoltesi nell’ottobre 2007, (personalmente, non
soltanto per evitare un esito “plebiscitario”, avevo
votato per Rosy Bindi segretaria nazionale e per Antonio
La Forgia segretario regionale), ero da considerare un
“fondatore” del PD, con tanto di riconoscimento
cartaceo. Quindi, avevo titolo per candidarmi alle
primarie. Poiché, però, qui viene il bello, non mi ero
iscritto, non potevo firmare per la mia candidatura. A
quel punto, chiedemmo di avere accesso ai registri degli
iscritti bolognesi per contattarli e chiedere se erano
disposti a firmare per la presentazione della mia
candidatura. La risposta, era ancora Kafka che, stilato il
regolamento, dava la linea, fu chiarissima (sic). La
parafraso. “Se Pasquino non conosce gli iscritti, è logico
e giusto che non possa chiedere loro la firma e, di
conseguenza, non riesca a candidarsi.” Il fatto è che,
molto probabilmente, conoscevo di persona quelle
quattro centinaia di iscritti le cui firme mi servivano, ed
ero da loro sufficientemente conosciuto. Ma non potevo
sapere chi era effettivamente iscritto oppure no
semplicemente guardandoli in faccia uno per uno e
chiedendolo loro di volta in volta. Comunque, in tempi
brevi, neanche una settimana, raccogliemmo, senza
potere utilizzare né i registri né i numeri di telefono
(difesa assoluta della privacy, sulla quale lascio ai lettori
la prerogativa, se vogliono, di commentare) circa 1.500
firme di sostenitori della mia candidatura, delle quali,
però, soltanto 280 circa regolarmente iscritti al PD: non
poche, ma non abbastanza.
Ci restava la seconda strada: chiedere le firme ai
delegati all’Assemblea cittadina che fortunatamente si
riuniva proprio in quei giorni. Frettolosamente, mi fu
addirittura concesso di parlare. Dissi poche essenziali
parole a quell’assemblea svogliata e distratta, non
particolarmente interessata né a me né al loro stesso
rituale dibattito. Comunque, era una assemblea poco
frequentata; vi contai meno di duecento persone
presenti su, credo, quattrocento componenti. Sintetizzo.
«Molti di voi mi conoscono da anni. Sanno quali
battaglie ho combattuto. Con molti di voi condivido
numerose posizioni politiche ed etiche. Con altri, ho,
naturalmente, differenze di opinione, anche profonde.
Ma è chiaro che apparteniamo grosso modo alla stessa
area politicoculturale. Se volete che io riesca a
candidarmi, è necessario che un certo numero di voi mi
dia la sua firma che non lo impegna per nulla a votarmi
nelle primarie». Discorso breve e chiaro, senza
concessioni, ma anche senza esasperazioni. Senza
neanche un attimo di respiro chi presiedeva
l’Assemblea, ovvero Luisa Lazzaroni, che sarebbe
diventata famosa per fare da tramite fra Delbono e
Cinzia Cracchi, diede la parola all’iscritto successivo, un
presidente di quartiere. Ricevetti subito una risposta
nient’affatto diplomatica o sibillina, in politichese, si
direbbe franca. «Pasquino ha bisogno di firme? Si
arrangi. Sono affari suoi». Nessuno intervenne dal palco
a sostenere la tesi opposta, cioè che la mia presenza
nelle primarie poteva essere utile anche per dimostrare
l’apertura del partito, per fare circolare altre idee, se le
avevo, per incoraggiare la partecipazione.
Continuammo la raccolta, mentre nel pomeriggio del
venerdì, per la precisione alle ore 15.42, ricevetti una
curiosa posta elettronica da Mara Grilli, segretaria del
prof. Carlo Galli, il quale aveva aggiunto alle molte
cariche da lui già accumulate, anche quella di
Presidente del Comitato per le Primarie del PD. La
lettera allegata aveva il seguente contenuto gentilmente
informativo:

Caro amico,
ti comunico che il totale delle firme di
sottoscrizione
della tua candidatura alle prossime primarie,
raccolte presso i circoli del PD alla data del 13 novembre
2008, è di 4.

Mi affrettai a ringraziare mentre la situazione


evolveva.
La scadenza fissata per la consegna delle firme era le
ore 14 di martedì 17 novembre. Nel corso del
pomeriggio di lunedì, i miei collaboratori furono
informati per telefono e poi da una nota di agenzia che,
con nostra enorme sorpresa, il candidato Delbono ci
cedeva graziosamente e generosamente un certo
numero, all’incirca una ottantina, di “sue” firme di
iscritti al Partito Democratico, disponeva evidentemente
di un buon surplus, affinché noi raggiungessimo la
quota prestabilita per la candidatura. Già questa ci
parve una scorrettezza regolamentare e politica. Quei
firmatari avrebbero dovuto prima essere informati che
cosa si stava facendo delle loro firme. Poi, avrebbero
dovuto spiegare perché mollavano Delbono. Infine,
perché intendevano appoggiare me. Quando, come
ciliegina sulla torta, il candidato Delbono si spinse
addirittura a dichiarare che, seconda plateale
scorrettezza, firmava lui stesso la mia candidatura, ci
siamo addirittura sorridentemente irritati. Poiché erano
da poche settimane terminate le primarie USA,
pensammo che, si parvissima licet…, sarebbe stato
come se Barack Obama avesse firmato per la
candidatura di Hillary Clinton e/o viceversa!
Ci siamo interrogati sul perché di quella bizzarra
decisione, non sappiamo presa da chi. La risposta che ci
siamo dati è che deve essersi svolto un conciliabolo
“democratico” intorno al quesito: “Pasquino ci
danneggia di più se raccoglie le firme e concorre oppure
se non ce la fa e rimane fuori a piede e mente liberi?”.
La risposta era facile. “Dentro” avrebbero potuto
isolarmi, ad esempio, rendendo il mio accesso alle
sezioni e agli iscritti quasi impossibile, e, una volta
sconfittomi, mi avrebbero non soltanto escluso del
tutto, ma anche “silenziato”. Fuori, non si sapeva che
cosa avrei potuto fare. Vinsero i “dentristi”, ma
giocarono male le loro carte. Infatti, in testa all’elenco
delle firme “cedute” si trovava quella del Sen. Walter
Vitali che, quando si profilava la mia candidatura, molto
correttamente mi aveva detto personalmente di non
sostenermi essendo stato lui, sindaco, a reclutare
Delbono come Assessore al Bilancio del Comune di
Bologna. Ne seguivano altre, il primo pacchetto in
ordine alfabetico, poi alla rinfusa. Una volta deciso che
la seconda opzione. “Pasquino a correre fuori”, era più
temibile, i dirigenti del PD, continuo a usare questa
espressione perché l’attribuzione delle responsabilità
non è assolutamente chiara, decisero di annunciare
senza imbarazzo che, grazie alle firme datemi da
Delbono, ero automaticamente diventato candidato.
Potevo soltanto rinunciare. Per ragioni politiche, vale a
dire che sarei sempre stato etichettato come il
candidato di second’ordine, in campo soltanto grazie
alla “generosità” (carità pelosa?) di Delbono e di alcuni
dirigenti del PD, e per ragioni etiche, vale a dire, il
regolamento si rispetta sempre, a meno che si riesca a
cambiarlo, non avevo altra scelta che la rinuncia. È
interessante notare che nella successiva Assemblea
cittadina, ancora una volta molto scarsamente
frequentata, che ha ratificato l’esistenza di quattro
candidati, tutti già con cariche amministrative, nessuno
ha neppure menzionato il mio nome. Come se non fossi
mai esistito.
Dunque, dopo una frenetica consultazione fra di noi,
respingemmo l’offerta. Primo, dovevamo prendere atto
che non eravamo stati capaci di raccogliere il numero
richiesto di firme. Secondo, la cessione da parte di
Delbono era, in effetti, una decisione dei dirigenti del
PD, in particolare una furbata del segretario De Maria.
Terzo, si sarebbe rivelata una polpetta avvelenata. Per
tutta la campagna delle primarie, chiunque avesse
voluto avrebbe potuto zittirci ricordandoci che eravamo
in lizza soltanto per gentile concessione e che, dunque,
mi comportassi riconoscendo la magnanimità del partito
che troppo spesso mettevo sotto accusa per i suoi
metodi e il suo stile, certamente lontani, anzi estranei,
da una apprezzabile concezione democratica.
Prendemmo, dunque, atto, nonostante il vigoroso e
rumoroso dissenso del nostro esperto di primarie nel
mondo, Marco Valbruzzi, che la strada delle primarie
non era più percorribile. Avremmo, fra l’altro, dato più
che l’impressione che le procedure fossero state
rispettate e avremmo legittimato l’esito. Al contrario, ad
almeno uno dei candidati era stato offerto l’uso delle
strutture del partito, compreso l’accesso indiscriminato
all’indirizzario degli iscritti, e facilitazioni di ogni altro
genere. Sarebbe, probabilmente, stato necessario
raccontare tutto questo per filo e per segno,
immediatamente. Tuttavia, da un lato, continuare nella
polemica esplicita contro il Partito Democratico, che
vantava la democraticità delle sue procedure, non ci
sembrava una operazione particolarmente eccitante e, a
quel punto, neanche produttiva di conseguenze positive,
e per chi? Dall’altro, l’attenzione dei mass media si era,
giustamente, subito orientata verso i quattro candidati,
verso i loro sostenitori, che andavano schierandosi,
verso le loro rispettive campagne e le idee. La votazione
avrebbe avuto luogo entro meno di quattro settimane, il
14 dicembre 2008, data che già avevamo criticato
perché, troppo distante, dal voto cittadino (8 giugno
2009), non avrebbe in alcun modo consentito di
sfruttare l’abbrivio di primarie fatte bene.
Alla luce di quanto già sapevamo, e poi abbiamo
anche ulteriormente appreso, il ritornello “Pasquino
doveva fare le primarie”, più volte, anche in maniera
sgradevole, cantato dallo staff prodiano, appare
assolutamente pretestuoso. In uno slancio di
democraticità, quei prodiani avrebbero fatto molto
meglio a preoccuparsi dell’evidente squilibrio iniziale,
poco democratico, a favore del loro candidato Delbono,
squilibrio che, incidentalmente, ebbe conseguenze
negative sulla partecipazione popolare alle primarie. Il
14 dicembre andarono a votare meno della metà degli
elettori bolognesi che nell’ottobre dell’anno precedente
erano accorsi alle improvvisate urne per Veltroni.
Avendo ottenuto qualcosa meno del cinquanta per cento
dei voti espressi, Delbono venne dichiarato vincitore.
Insomma, un risultato complessivamente non proprio
entusiasmante.
Prendemmo atto, seppure con qualche amarezza e
altrettanta irritazione, ma consapevoli dei nostri errori,
che quel “passaggio” si era chiuso. Avevamo, però,
capito anche che non eravamo debolissimi. Dentro il
Partito Democratico il nostro sostegno era minimo, ma
non nullo. Fuori c’erano più di mille e quattrocento
bolognesi che avevano firmato per la mia candidatura.
Avere rifiutato di farsi ingabbiare in un una trappola
preconfezionata, non significava automaticamente
essere costretti a rifugiarsi sull’Aventino, pardon sulla
Montagnola. Anzi, proprio l’esperienza fatta suggeriva
ancora più forte l’esigenza di cambiare le regole, il
partito, le modalità di fare politica. Per un po’
decidemmo di aspettare alla prova del programma con
critiche, con idee, con proposte e con una visione della
città, il candidato che era stato incoronato dalle
primarie, mentre i dirigenti “democratici” continuavano
ad esercitarsi fondamentalmente e concretamente
sull’organigramma. Per i cultori dell’organigramma,
l’inizio era stato assolutamente promettente. La
candidatura di Delbono aveva reso vacanti due ottime
cariche: Assessore al Bilancio e Vice-Presidente della
Regione Emilia-Romagna. Nel frattempo, sempre più
insistente era il brusio, interno ed esterno, sulla
possibilità e plausibilità di una nostra lista civica.
Capitolo terzo Indice

I visitors

Non sono certamente la più socievole delle persone.


Anzi, valuto al più alto livello la mia privacy. Accetto
pochi e selezionati inviti. Sono piuttosto a mio agio con
me stesso, con i miei libri, con i film. Tuttavia, quando
sono una persona pubblica sono perfettamente
consapevole di avere degli obblighi e delle richieste che
devo soddisfare. Sono stato una persona pubblica,
come Senatore di Portomaggiore (Ferrara) per due
legislature 1983-1987, 1987-1992, in Parlamento con il
gruppo della Sinistra Indipendente; e come Senatore di
Rimini, 1994-1996, in Parlamento con il gruppo dei
Progressisti. Ho fatto cinque campagne elettorali e,
come si capisce facilmente, ne ho perse due (storie
degne di un altro libro che, forse, un giorno verrà). Ho
parlato di politica e di istituzioni dovunque, in Emilia-
Romagna e altrove. Gli inviti in Emilia-Romagna sono
notevolmente diminuiti, fino alla quasi completa
scomparsa quando è diventato segretario del partito,
comunque si chiamasse, Salvatore Caronna. No
problem. Sono un pubblico ufficiale anche quando
insegno Scienza politica. Credo di non avere negato
incontri e ricevimenti a nessuno degli studenti che me li
hanno chiesti. Ascolto e rispondo, anche alle poste
elettroniche. A maggior ragione, un candidato a una
carica elettiva deve essere disponibile a interagire e
interloquire con chiunque voglia parlargli. I casi qui
riportati e descritti hanno, però, qualcosa in comune
che va oltre la pura e semplice relazione fra persone.
Racconta moltissimo sulla politica e sui politici
bolognesi.
Dopo la dichiarazione della mia candidatura, il clan di
Delbono ha a lungo fatto circolare la voce che io mi
sarei ritirato da un momento all’altro. In verità, i
“Cittadini per Bologna” non hanno pensato mai,
neanche per un momento, di intrattenere l’idea di una
ritirata. Abbiamo, semmai, avuto il timore di non
riuscire a raccogliere le firme per presentare in tempo la
lista con tutte le candidature. Noi non avevamo alle
spalle né un partito con i suoi militanti e con i molti
soldi del finanziamento pubblico né un’organizzazione
con collaboratori collaudati e spesso pagati. Mentre
affrontavamo questi e altri problemi quotidiani, che si
accavallavano, cominciarono anche le richieste di
incontri. La prima in ordine di tempo fu quella di Mauro
Zani. Già potente segretario del Partito Democratico di
Sinistra di Bologna e poi dell’Emilia-Romagna,
Presidente della Provincia di Bologna, deputato al
Parlamento italiano e poi al Parlamento europeo, Zani è
un politico capace e leale. I nostri rapporti politici sono
stati caratterizzati da tre episodi importanti almeno per
me.
Nel 1992, Zani, segretario regionale dell’Emilia-
Romagna, mi comunicò che la mia candidatura a
Senatore di Portomaggiore non era più possibile. I
compagni di Ferrara rivolevano quel seggio. Mi offrì, in
cambio, il collegio senatoriale di Castelnuovo Monti-
Sassuolo. A mo’ di informazione, chiesi quanto “sicuro”
era. Onestamente, Zani mi disse che poteva “scattare”,
ma anche no. Accettai. Feci una durissima e
faticosissima campagna elettorale, caratterizzata anche
da qualche errore dei dirigenti locali. In seguito a due
circostanze fatali, fui sconfitto risultando il primo dei
non eletti. Nella zona del collegio che riguardava
Castelnuovo persi voti a favore del candidato di
Rifondazione Comunista, Jones Reverberi. Sfortuna
volle che nel sorteggio il simbolo di RC finisse proprio in
alto a sinistra dove tradizionalmente stava quello del
PCI (diventato Partito Democratico della Sinistra). Nella
zona di Sassuolo si produsse una non del tutto
imprevedibile frana a favore della Lega Nord. Nessun
commento da parte di Zani.
Il secondo incontro fu molto più interessante e con
straordinarie conseguenze che durano tutt’oggi. La
sconfitta nel giugno 1999 della candidata del PDS a
sindaco di Bologna, Silvia Bartolini, a favore di Giorgio
Guazzaloca, aveva provocato le dimissioni di tutta la
segreteria del Partito bolognese. Il deputato Zani,
persona molto informata dei fatti, venne inviato a
commissariare il partito. Il 2 luglio 1999, «la
Repubblica» già scriveva che il prossimo segretario del
partito sarebbe stato Salvatore Caronna, il cui merito,
altamente politico e organizzativo, era di essere stato
l’unico che non aveva tirato fuori il coltello nelle riunioni
di segreteria. Dal canto suo, Zani portava notevoli
responsabilità, se si vuole, indirette, nella sconfitta del
partito a Bologna. Le sue responsabilità andavano divise
con Walter Vitali, il sindaco uscente e ricandidabile, che
aveva prematuramente gettato la spugna e tutto il resto
a fronte delle critiche, non tutte immotivate, ma tutte
pericolose, del segretario della Federazione, Alessandro
Ramazza che voleva indebolirlo e succedergli. Quando
nel marasma fu chiesto a Zani, che era già anche stato
Presidente della Provincia di Bologna, la sua
disponibilità, ma non alla candidatura, bensì a
partecipare alle primarie, Zani rifiutò sostenendo,
sembra, di non volere lacerare il partito facendo le
primarie. Gravissimo errore: il partito rimase lacerato,
Zani avrebbe vinto le primarie e la carica di sindaco.
Forse avrebbe anche governato la crisi incombente del
partito e, magari, cacciato i mediocri burocrati
carrieristi. Volere troppo bene al partito, alla sua fasulla
unitarietà, può, talvolta, causare del male.
Proprio nel nome di una fasulla unità, nel dicembre
1999, Zani non soltanto appoggiò la candidatura di
Caronna alla segretaria del Partito Democratico di
Sinistra di Bologna contro la mia, ma non prese in
nessuna considerazione le nostre critiche alla gestione
del partito, passata e... futura. Persi avendo, peraltro,
ottenuto quasi il venti per cento dei voti. Sembra che ai
“compagni” non fosse andata giù la mia dichiarazione di
rinuncia allo stipendio di segretario della Federazione e
di semplice richiesta di rimborso spese per il telefonino
e per i taxi. E la federazione intraprese la strada delle
“magnifiche sorti e progressive2” ottenendo, sotto la
guida originale e fantasiosa di Caronna, lo straordinario
risultato di non riuscire ad esprimere nel 2003-2004
neanche un candidato alla carica di sindaco (ma già
allora circolò il nome di Delbono) e di dovere chiedere
e/o accettare che vi venisse paracadutato uno che la
città non l’aveva mai neanche visitata: Sergio Cofferati.
A riprova che, lo debbo proprio dire in questo modo,
la mia politica non si intesse né di rimpianti né di
rancori, il terzo incontro con Zani avvenne all’insegna di
un’importantissima convergenza politica contro le
modalità con le quali alcuni tanto avventurosi quanto
disperati dirigenti nazionali dei Democratici di Sinistra e
della Margherita andavano precipitosamente alla
costruzione del Partito Democratico. Dopo avere letto
alcuni miei articoli coraggiosamente pubblicati dal
direttore Antonio Padellaro su «l’Unità», Zani mi
telefonò per chiedermi se ero disposto ad appoggiare e
firmare una Terza Mozione per il Congresso di
scioglimento dei Democratici di Sinistra. In concorrenza
con la mozione dei “sì, senza se e senza ma” e dei “no,
ce ne andiamo”, avremmo decorosamente sostenuto
che un altro partito era indubbiamente necessario,
persino possibile, magari federato e, addirittura,
“democratico e socialista”. La Terza Mozione,
debitamente contrastata in tutti i congressi di sezione ai
quali andai a presentarla e a difenderla, conquistò

2 Rif. Canto XXXIV “La ginestra, o il fiore del deserto”, v. 51, G. Leopardi
(1836).
all’incirca il dieci per cento e noi fummo “fatti”
politicamente “fuori”. Mentre Zani annunciò che non si
sarebbe ricandidato all’Europarlamento, nel tripudio
degli aspiranti e del già europarlamentare Vittorio Prodi,
da parte mia presi atto che, in seguito alla nascita del
Partito Democratico non avevo più nessun luogo e
nessun referente con il quale fare politica. Zani diede
vita ad un’Associazione “DemocraticieSocialisti”, alla
quale aderii subito, che, però, gracile, poco dinamica e
ancora meno propositiva, non decollò mai.
Nel corso del mese di marzo del 2009, del tutto
inaspettatamente, Zani mi chiese un appuntamento e
divenne il mio primo visitor. Lo ricevetti a casa senza
avere appurato quale sarebbe stato l’oggetto del
colloquio. Ancora adesso non lo saprei individuare con
precisione e per non fargli nessun torto mi limito a
scrivere quello che mi sembra di avere capito.
Sostanzialmente, Zani appariva preoccupato dalla
prospettiva della mia candidatura. Il suo timore era che
causassi una divisione abbastanza profonda
nell’elettorato del Partito Democratico (di quei dirigenti,
che continuavano a sbeffeggiarlo, a Zani giustamente
non importava proprio nulla) e che creassi una
situazione nella quale i candidati della destra riuscissero
a intrufolarsi. Faceva ancora la sua comparsa, persino in
un autorevole, intelligente e dignitoso dirigente politico,
il vecchio, non sempre criticabile, riflesso dell’uomo di
partito, ma Zani prese atto delle mie intenzioni.
Espresse le sue perplessità, ma non cercò in nessun
modo di dissuadermi. Nessun consiglio; nessuna offerta
d’aiuto. Forse toccava a me chiedere. Ma non volevamo
cambiarlo questo Partito? Certamente, nessuno della
sua Associazione “DemocraticieSocialisti”, della quale
facevo parte e per la quale avevo anche tenuto una
conferenza pubblica su “Laicità e Costituzione”, mi invitò
a parlare da loro, a chiarire le ragioni della mia
candidatura né, tanto meno, si espresse, privatamente
o pubblicamente, a mio favore o mi diede sostegno di
qualsiasi altro tipo. Alla fine dell’agosto 2010 Zani ha
lanciato sul suo blog l’idea di un “candidato civico di
sinistra”.
Il secondo visitor è ugualmente importante, ma la
visita fu molto più imbarazzante. Con Guido Fanti, già
sindaco di Bologna (1966-1970), Presidente della
Regione Emilia-Romagna (1970-1976), prima Deputato
e poi Senatore (1976-1987) del PCI, più volte
Europarlamentare, ci eravamo conosciuti per l’appunto
in Senato. Suo figlio, Lanfranco, si era variamente
interessato alla Scienza Politica, la materia che insegno,
chiedendo consigli e suggerimenti anche dopo la laurea.
Oramai pensionato per ragioni d’età, Fanti non aveva
affatto rinunciato alla politica, mantenendo reale
interesse e vivace passione per le idee e i programmi.
Già nel 2003-2004 era riuscito a raccogliere molte e
buone energie per la formulazione di un programma di
governo per la città. Naturalmente, né Cofferati né i
Diessini, senza neppure procedere ad un rispettoso
omaggio verbale, lo avevano minimamente preso in
considerazione. Altro che programma: la priorità fu data
alla processione di Cofferati nei quartieri della città, con
oculata manipolazione degli interventi e degli eletti alla
Assemblea cittadina che avrebbe incoronato la
straordinaria, credevano, dicevano, personalità del
leader sindacalista. Tutto il resto, non c’era neppure
bisogno di dirlo, era carta straccia. Sulle pagine de «la
Repubblica» di Bologna, mentre criticavo vigorosamente
le modalità con le quali il Cofferati era stato “unto” dal
suo partito, non avevo lesinato osservazioni ugualmente
critiche, non sui punti programmatici elaborati dal
gruppo di persone che avevano collaborato con Fanti,
ma sull’illusione che qualcuno ne tenesse conto. In
assenza di un candidato che le facesse proprie, quelle
proposte erano destinate a rimanere lettera morta.
Evidentemente non fui affatto convincente cosicché
nell’inverno 2008-primavera 2009 Fanti rilanciò, quasi
con le stesse persone, il suo sforzo programmatico. La
differenza importante rispetto a cinque anni prima fu
che Fanti sembrava ormai molto lontano dal Partito
Democratico, al quale non aveva aderito, e dai suoi
dirigenti locali. Ugualmente lontani e collocati nel
gruppo che si chiamava Sinistra e Libertà, erano non
pochi di coloro che avevano contribuito alla stesura del
programma da sottoporre ai candidati. La presentazione
del programma, ad opera dello stesso Fanti, e il
susseguente dibattito avvennero in una sala della
Provincia. Poi fu la volta degli interventi dei candidati in
ordine alfabetico. Ricordo che quello di Delbono, il
primo ad intervenire, in una delle pochissime occasioni
in cui accettò di essere presente con gli altri candidati,
fu breve e vago, quasi sottovalutasse o non fosse
all’altezza della situazione. Direi tutt’e due. Quando
toccò a me, che avevo letto il programma, utilizzai il
mio tempo sia per intervenire su alcuni punti
controversi sia per dire che anche noi, “Cittadini per
Bologna”, stavamo preparando il nostro programma.
Sarebbe stato fatto di proposte chiare e facilmente
traducibili. Conclusi dichiarando che avremmo volentieri
“saccheggiato” il programma che Fanti metteva a
disposizione dei candidati e della città. Non era soltanto
un tentativo di captare la benevolenza di Fanti, il quale
comunque non disponeva di voti. Era un’indicazione
politica di disponibilità a discutere con quell’area che
sapevo divisa al suo interno cosicché, quando Fanti mi
chiese un incontro personale, accettai subito.
Rimandato una prima volta per ragioni di salute
dell’ottantaquattrenne ex-sindaco, l’incontro ebbe luogo
al bar del Bologna Center della Johns Hopkins. Era il
periodo delle vacanze pasquali per gli studenti i quali,
dunque, non c’erano. Fu un colloquio tanto cordiale
quanto imbarazzante e improduttivo. In maniera soave,
Fanti mi fece capire che il candidato del PD non gli
aveva destato una impressione positiva. Colsi
l’occasione per rincarare la dose e fargli notare che quel
candidato non soltanto non aveva neanche sfogliato il
suo programma e che, pur dovendolo discutere, non si
era preparato, ma che il programma glielo avrebbero
consegnato chiavi in mano gli uffici del PD. Fanti
continuò sottolineando che i candidati della destra,
ovviamente, non gli erano graditi. Ma la ragione per la
quale aveva voluto incontrarmi, me ne resi conto
soltanto alla fine del colloquio, durato una mezz’ora, era
un’altra molto più importante. Fanti voleva, da un lato,
sondare le mie intenzioni (ero davvero deciso a
candidarmi?); dall’altro, voleva capire se, rinunciando
alla mia candidatura, fossi disposto a confluire in
Sinistra e Libertà che, però, non avrebbe voluto me
come candidato, ma aveva deciso di sostenere Delbono.
Insomma, la sua era una richiesta felpata di mia
desistenza. Ancora una volta, nonostante il suo non
gradimento per il candidato del PD, l’anziano ex-
comunista era soprattutto preoccupato di non “fare
perdere” il partito, quindi, bloccando qualsiasi
cambiamento. Confesso che rimasi alquanto sorpreso,
ma anche molto turbato da questo atteggiamento.
Un paio di settimane dopo la mia sorpresa fu ancora
più grande quando ricevetti una telefonata di Delbono,
che conoscevo appena, con una richiesta di incontro
bilaterale. Trovai la cosa molto divertente e intrigante.
Gli proposi di vederci nell’ufficio nel quale ricevo gli
studenti al Bologna Center, territorio non ostile e a lui
già noto poiché da diversi anni vi teneva un corso di
Economia. Quell’anno vi aveva rinunciato a causa della
campagna elettorale. Appresi qualche mese dopo nel
corso dell’inchiesta sulle sue malefatte che si era
“dimenticato” di denunciare al fisco i compensi ricevuti.
Non so neppure come definire l’incontro con Delbono.
Probabilmente, erano stati i dirigenti del PD, nessuno
dei quali, incidentalmente, mi cercò mai né prima né
durante la campagna elettorale, a spingerlo a questo
passo, ma per dirmi che cosa? Non lo so, ma lo intuisco.
Non poteva essere per parlare del tempo atmosferico in
quella primavera del 2009, appena perturbata. Né per
avere notizie sui miei corsi (“Contemporary Italian
Politics” e “Political Systems of the Developing World”)
al Bologna Center. Né del mio grado di soddisfazione,
alto, con l’insegnamento e con i servizi, eccellenti,molto
migliori di quelli dell’Università di Bologna (alla quale,
peraltro, Delbono non insegnava da più di dieci anni)
offerti dall’Università “americana”, come la Hopkins è
abitualmente definita. Né per valutare la campagna
elettorale, faticosa e, aggettivo d’obbligo,
“interessante”. Insomma, in venticinque minuti di inutile
e vuoto colloquio, Delbono non riuscì a chiedermi la sola
cosa che preoccupava i suoi sponsors del PD: mi sarei
ritirato oppure sarei arrivato diritto e filato al primo
turno di giugno? Eppure, ai centri per anziani e ai
giornalisti, lui parlava, un giorno sì e quello dopo anche,
del mio imminente ritiro. Venticinque minuti buttati: un
brutto, inutile, deprimente, per lui, incontro.
Peggiore fu, per la perdita tempo, l’ultimo incontro
ripetutamente ricercato, da Gian Guido Naldi, forse a
nome di Sinistra e Libertà, della quale credo fosse il
coordinatore cittadino. Sapevo vagamente che era un
ex-sindacalista fortunosamente diventato consigliere
comunale. Da lui richiestomi e un paio di volte
rimandato a causa di altri suoi impegni, l’incontro
avvenne, ancora una volta nel mio ufficio al Bologna
Center, verso la fine di aprile. Naldi sì, sapeva
abbastanza bene che cosa voleva chiedermi, ma
altrettanto sicuramente non sapeva come chiedermelo.
Tanto per cominciare il suo problema consisteva nel
trovare il modo con il quale rivolgersi a me: con il tu
oppure con il lei, con il cognome oppure con
l’appellativo Professore? Già questo portava via un po’
di tempo nella sua conversazione che non aveva né
capo né coda, ma soltanto qualche contenuto che
esprimeva poco e male, forse, ma dubito,
vergognandosi un po’. Insomma, davvero, volevo
andare avanti? Bella domanda a pochi giorni dall’inizio
della raccolte delle firme per presentare candidatura e
liste. Ovviamente, sì, per l’appunto se riusciremo a
raccogliere le firme. Ma avevo valutato le difficoltà?
Ovviamente, sì: ogni giorno, tutti i giorni le valutavamo,
e sapevamo che erano molte e serie. Non avevo
pensato ad accompagnarmi/aderire alla loro lista (non
sono i verbi del contorto e tormentato Naldi; i suoi non
li ricordo più)? Non avevano pensato loro di appoggiare
la mia candidatura, pur mantenendo la loro lista?
Sapevo che c’era un intenso dibattito interno, con alcuni
a sostenermi, e anche con pesanti pressioni contrarie
del PD che non aveva nessuna difficoltà a promettere
cariche e posti. Queste cariche promesse costituivano
un elemento di grande rilevanza per l’avida e trucida
omonima del Naldi, Milena, che mi accusava
frequentemente, in dichiarazioni al limite dell’ingiuria,
rilasciate alle agenzie, senza sapere di che cosa parlava,
di nefandezze quali personalismo e presidenzialismo
come se l’elezione di un sindaco non implicasse
intrinsecamente un po’ di personalizzazione della
politica e un po’ di presidenzialismo delle istituzioni.
Eletta in Consiglio comunale, premiata con un
Assessorato, la Naldi è poi stata travolta dal
Commissariamento.
Alla fine, il Naldi tirò fuori in maniera un po’
scomposta il suo arruffato e intimorito coniglio dal
cilindro. “Sì, insomma, avevo mai pensato al
Parlamento europeo?” Ecco, mi rivelò, Claudio Fava,
coordinatore nazionale di Sinistra e Libertà, mi chiedeva
se fossi interessato ad una candidatura nelle loro liste.
[In effetti, un segretario di Fava mi aveva cercato un
paio di volte per combinare un appuntamento che non
ci fu mai.] Per fortuna, il periodare del Naldi era tanto
lento e impasticciato che ebbi abbastanza tempo per
assorbire la sua del tutto strabiliante offerta e per dire
che mi pareva di essere già abbastanza impegnato in
una complicata campagna elettorale per fare il sindaco,
che miravo a offrire alla città una alternativa di sinistra,
nella sinistra, che il Parlamento europeo, ancorché
affascinante, era tutt’un’altra storia, che ringraziavo,
ma che no. Ripensandoci qualche tempo dopo capii che
l’offerta di Naldi mirava non soltanto a farmi desistere
da sindaco, ma a cancellare la lista “Cittadini per
Bologna” poiché loro, i Naldi & Company, temevano che
avrei portato via voti dalla loro lista, dal ristretto bacino
in cui pescavano. Il colloquio si concluse con Naldi che,
senza nessuna mia domanda in tale senso, mi annunciò
che lui non si sarebbe ricandidato. Usciva dalla politica.
Nel marzo 2010 Gian Guido Naldi è stato eletto,
immagino per puro “spirito di servizio”, al Consiglio
Regionale dell’Emilia-Romagna nelle liste di “Sinistra e
Libertà”.
Quale lezione complessiva tirare dagli incontri con
questi visitors? Ci ho riflettuto spesso. Intendiamoci:
niente di lancinante e, in fondo, neppure sorprendente.
Qualcuno, per malinteso senso di appartenenza e,
forse, di gratitudine, non riesce a strappare il cordone
ombelicale neppure da un partito che con la storia del
PCI c’entra pochissimo e che oramai è ridotto ad una
dispensa di posti. In questo modo ne perpetua una
cattiva esistenza. Qualcuno sa che i posti sono, per
l’appunto, dispensati dal Partito Democratico e, quindi,
si limita ad un gioco delle parti per ottenere alcuni di
quei posti. Lungi dal contribuire alla trasformazione
della sinistra, tutti finiscono per sanzionare lo status
quo e il degrado della politica locale, di cui sono e
debbono essere considerati ugualmente responsabili.
Nel frattempo, molti, 38 in particolare, quelli esclusi dal
Consiglio comunale a causa del Commissariamento, si
sono riposizionati, pronti ad agire nella campagna
elettorale del 2011 nello stesso modo di quella del 2009
per riavere le posizioni allora conquistate e, magari,
qualcosina in più. Il buongoverno della città è una
variabile che non occupa mai il primo posto nelle loro
considerazioni. La prova provata la abbiamo già avuta.
Capitolo quarto Indice

Il candidato latitante

In questo capitolo, non parlerò del latitante Berlusconi


che, pure, rifiutò qualsiasi dibattito con Rutelli nella
campagna elettorale del 2001 e fece altrettanto sfidato
da Veltroni nel 2008. Non riferirò le critiche indignate e
ipocrite dei politici e degli elettori del centro-sinistra
contro chi snobba i dibattiti, strumento della
democrazia, con gli altri candidati. A Bologna, nessuno
si prese la briga di segnalare le assenze dalla maggior
parte dei dibattiti, in verità, quasi tutti, di Flavio
Delbono. “Ma dai, quel che si critica a Roma, non vale
mica anche per Bologna”. La latitanza, qualche volta
una vera e propria fuga, di Delbono dai dibattiti ebbe
anche alcuni momenti di sicura ilarità. Ma avevano
ragione i suoi consiglieri e i suoi strateghi (quasi
certamente, De Maria e Merighi): meglio latitare e
fuggire che fare brutte figure. In effetti, le brutte figure
erano cominciate addirittura prima dell’inizio della
campagna delle primarie quando, all’inizio di novembre
2008, i potenziali candidati: Maurizio Cevenini, Andrea
Forlani, Virginiangelo Merola, Gianfranco Pasquino e per
l’appunto Flavio Delbono erano stati invitati a un
dibattito pubblico tenuto alle Scuderie di piazza Verdi
sul welfare e la sua riforma. Mani in tasca, con tono a
metà fra il saccente e lo sprezzante, Delbono aveva
parlato unicamente dei costi economici del welfare,
cittadino e regionale, mostrando di non avere nessuna
conoscenza dei sistemi di welfare nei paesi scandinavi e
socialdemocratici, e di non capire i grandi compiti sociali
che un welfare efficacemente strutturato e
periodicamente aggiornato continua a svolgere in
Europa. Non una affascinante prestazione oratoria, non
una convincente esibizione di sapere tecnico, non un
promettente esordio pubblico. Tutto questo giustifica la
decisione rapidamente presa dai suoi sponsor nel Partito
Democratico di fare un uso cauto e limitato del loro
candidato soltanto di fronte a platee amiche (i centri
per anziani), soprattutto evitando il dibattito e ancor di
più il contraddittorio. Alla luce della flagrante latitanza
del candidato e di quello che abbiamo saputo dopo,
suscita non poca ilarità lo slogan che campeggiava sui
grandi manifesti affissi e pagati dal PD fin da metà
campagna elettorale: “c’è Delbono a Bologna”.
Furono, dunque, accuratamente schivate le riunioni
organizzate dalla Compagnia delle Donne (non posso
resistere a scrivere che, eppure lì, il suo fascino, la sua,
in città piuttosto nota ed esibita, ars amatoria, avrebbe
potuto essere considerata tale da sopperire alle carenze
di ars oratoria), dove venne sostituito dalla figura
gradevole e gentile di Maurizio Cevenini. In effetti,
sempre in maniera signorile, Cevenini spupazzò
l’impacciato candidato del suo partito, nessuna scusa
per il bisticcio, alla partita di calcio. Lì, comunque, non
c’era dibattito e non doveva parlare. Non so se Delbono
avesse mai visto in precedenza lo stadio Dallara. Tutti
sanno oppure dovrebbero imparare che la presenza di
un mantovano, per di più interista, addobbato con la
sciarpa del Bologna, squadra della quale non aveva
probabilmente mai visto neppure una partita prima
della campagna elettorale, risultava alquanto ridicola.
Mi è rimasta una, credo legittimità, curiosità. Se
qualcuno l’ha fatto, chi ha pagato il biglietto della
Tribuna Vip e, in subordine, poiché personalmente
disponevo dell’abbonamento di Tribuna Gold, perché
nessuno mi ha invitato fra i Vip? Ero candidato anch’io.
Senza procedere ad un elenco puntiglioso degli
incontri ai quali il candidato del PD sfuggì, mi limito a
ricordare quelli, due, organizzati all’inizio e alla fine
della campagna elettorale, dall’Agesci, che, in quanto
cattolici, avrebbero dovuto essere un suo gruppo di
riferimento tutt’altro che ostile al quale, però, avrebbe
dovuto dire qualcosa. Peccato perché in quelle occasioni
gli organizzatori chiesero anche, opportunamente, ai
candidati di impegnarsi ad agire in maniera
responsabile, ovvero riferendo all’elettorato quanto e
come del loro programma riuscivano ad attuare, un
interessante tentativo di introdurre e fare valere
l’accountability: la volontà/capacità di essere e di
rimanere responsabili. Non spettacolari, ma utili, furono
anche gli incontri organizzati fra tutti i candidati da
Radio Tau, la radio dell’Antoniano, abilmente condotta
da Paolo Bonazzi il quale faceva domande intelligenti e
applicava fermamente e correttamente a tutti gli
interventi la par condicio. Praticamente, ho visto e
ascoltato il candidato del PD in due sole occasioni che,
però, lo si vedrà subito, non sono affatto qualificabili
come dibattiti: il primo sullo sport, il secondo sulla
cultura.
Non tanto i contenuti, appiccicaticci, l’abituale
insieme confezionato burocraticamente, “bisognerebbe
fare questo e quello”, ma con l’aggiunta dell’esperto
contabile, “costa”, quanto, piuttosto, le modalità della
presentazione, non giungo fino a dire lo “stile”, perché
non ce n’era, mi sono rimaste impresse. Delbono
svolgeva, in maniera svogliata, un compito che gli era
stato preparato da Ivan Pizzirani, presente, come ogni
buon allenatore, in sala, a sostenere il suo pupillo.
L’argomento, però, “ruolo, compiti, futuro delle
associazioni sportive amatoriali cittadine”, proprio non
interessava al candidato che, in questa come in altre
occasioni, non mostrava neanche il minimo interesse
per le persone concrete che erano venute ad ascoltarlo,
quasi tutte, probabilmente suoi elettori. L’altro
elemento rivelatore, di quello che non fu in nessun
modo un dibattito, è costituito, non saprei come meglio
dire, dal timing e dalla sequenza degli interventi. Gli
organizzatori avevano invitato i candidati per le ore 21
in ordine alfabetico. Come è mia consuetudine, arrivai
puntuale e mi accomodai fra il pubblico, abbastanza
numeroso, ad ascoltare quello che avrebbe detto il
candidato Alfredo Cazzola. Non soltanto è sempre
possibile, quando si ha un minimo di conoscenze di
base, imparare dagli altri, ma nel caso di Cazzola era
evidente che si poteva imparare qualcosa dalla sua
esperienza (Virtus, molto vincente, e Bologna F.C.,
alquanto sofferente) tutt’altro che breve, marginale e
irrilevante. Inoltre, quel che diceva avrebbe non
soltanto potuto essere istruttivo per me, ma mi avrebbe
consentito di calibrare meglio la mia presentazione, di
segnare e segnalare le differenze, persino,
eventualmente, di criticare i punti sui quali non fossimo
stati d’accordo. Insomma, Cazzola non era un candidato
qualsiasi, ma un candidato importante, persona molto
informata dei fatti.
In maniera furtiva, ma senza dubbio preconfezionata,
Delbono arrivò non soltanto quando Cazzola aveva già
terminato il suo intervento, ma, evidentemente per non
incontrarlo, un paio di minuti dopo. Parlò, senza
entusiasmo né suo né del pubblico, e se ne andò
velocemente per evitare di ascoltarmi. Avendo, invece,
seguito gli interventi di entrambi i candidati, quando
toccò a me potei permettermi di segnalare le differenze,
esprimere le critiche, mettere in rilievo quanto nel mio
programma per le moltissime associazioni sportive
bolognesi avremmo proposto di fare e avremmo fatto in
stretto, essenziale contatto con loro. Sottolineai, in
particolare, quanto importante è lo sport amatoriale per
i ragazzini e, sì, lo so, può sembrare retorico, quanto
significativo è il contributo alla vita di una società civile,
anche come strumento di integrazione dei giovanissimi
immigrati.
L’altra occasione di incontro è stata, in un certo
senso, ancora più imbarazzante. Questa volta l’invito
veniva dalla Lega delle Cooperative. L’argomento era la
cultura a Bologna. Dopo un’introduzione del Presidente
Gianpiero Calzolari che presentò il documento da loro
elaborato, l’ordine degli interventi fu, in maniera del
tutto inaspettata, alfabetico all’incontrario. Vale a dire
che toccò a me iniziare. Naturalmente, nel ristretto
gruppo dei “Cittadini per Bologna” avevamo fatto
numerose riflessioni sulla “cultura a Bologna”, sulle sue
diverse componenti e sulle loro prospettive. Altrettanto,
naturalmente, le mie esperienze, sia all’Università sia al
Mulino sia, più in generale, come fruitore di musei e di
cinema, non da ultima, dell’importante attività svolta
dal Lumière, mi consentivano di avere qualcosa più di
una semplice infarinatura sul tema. Ricordai anche ai
presenti, fra i quali alcuni giornalisti poco interessati e
anche, apparentemente, meno informati, che Bologna
era addirittura già stata qualche anno prima Capitale
europea della Cultura. Ma, contrariamente a quanto
erano riuscite ad approfittare di quella qualifica e
opportunità altre città, a Bologna non si vedevano
tracce di quell’esperienza. Aggiunsi che la cultura è un
insieme di attività, di reti, di rapporti e, in non tanto
implicita critica all’Assessore in carica, sottolineai che la
cultura di una città per esprimersi ha bisogno di essere
anzitutto conosciuta da persone che frequentano quella
città e che la vivono. Affermai, con una punta di
dispiacere e di polemica, ma anche di critica nei
confronti del rettore Pier Ugo Calzolari e del sindaco
Sergio Cofferati, come né l’uno né l’altro avessero
pensato all’Università di Bologna come luogo di
produzione di cultura usufruibile, in forme e modi da
delineare, da tutta la città. Conclusi criticando la
proposta delle Coop di un Parco della Cultura come se
mettendo insieme gli artisti in una specie di falansterio
a loro venisse meglio l’ispirazione. La creatività,
sostenni con qualche esagerazione retorica, arriva nei
momenti più impensati, magari proprio passeggiando in
una città ricca di storia e di cultura del più vario tipo.
Ovviamente, rimasi ad ascoltare l’intervento del
candidato Flavio Delbono, non soltanto Assessore al
Bilancio della Regione Emilia-Romagna, ma anche
professore di Economia all’Università di Bologna,
dunque, almeno presumibilmente, consapevole
dell’esistenza di una grande Università nella quale,
peraltro, erano dieci anni almeno che non insegnava
più. Dei possibili rapporti culturali fra Comune e
Università, di che cosa avrebbe fatto lui, una volta
diventato sindaco, non disse praticamente nulla. Il poco
che disse non merita di essere riassunto. Mi limito a
sottolineare che, ancora una volta, il candidato del PD
parlò di soldi e di bilancio, di costi e di disponibilità,
salvo, ovviamente, dirsi d’accordo con la proposta della
Lega Coop (ci sarebbe mancato altro, anche se quei voti
mi parevano assicurati in partenza), una volta verificato
lo stato delle finanze del Comune. In questa occasione,
come nelle precedenti, l’approccio di Cazzola al tema,
mentre Delbono sgusciava via, avendo sempre qualcosa
di urgente da fare, qualche altro impegno elettorale o
istituzionale da onorare, fu di tipo professionale-
manageriale.
Ovviamente, un conto è la creatività degli artisti un
conto molto diverso è che cosa debbano fare le
istituzioni per favorire, sostenere, facilitare quella
creatività in termini di risorse, di ambiente, di
opportunità e come, senza nessuna connotazione
negativa, sfruttare al meglio la creatività e la cultura
che si esprimono a Bologna. Senza dubbio, Cazzola
aveva le idee chiare in materia, alcune condivisibili,
altre no, tutte presentate con vigore. Se ne sarebbe
potuto discutere in concreto, nell’impostazione generale
e nei dettagli, nelle priorità e negli obiettivi. Concludo
sottolineando che quanto di cultura è esistito a Bologna
sotto la giunta Cofferati è stato ampiamente promosso
e sostenuto dalla Fondazione CarisBo grazie al suo
Presidente Fabio Alberto Roversi Monaco e dalla
Fondazione del Monte grazie al suo Presidente Marco
Cammelli. Insomma, l’approccio professionale e
manageriale non è soltanto utile e necessario. È
indispensabile e, messo all’opera dalle persone giuste,
risulta decisamente efficace. Sarà anche il caso di
ricordare che si contrappone all’approccio clientelare e
assistenziale troppo spesso praticato in Italia dalle
amministrazione locali sia di sinistra che a guida
democristiana. Il resto, ovvero, la produzione culturale,
sta tutta nelle mani e nelle menti di coloro che fanno
con la loro paziente attività e con la loro intensa
creatività la cultura di una città, e non solo.
In conclusione del mio racconto che reputo istruttivo
non unicamente per me, non posso non parlare di un
altro candidato sfuggente e latitante: Giorgio
Guazzaloca. Già nella campagna elettorale contro lo
sfidante Cofferati nel 2004, l’allora sindaco scelse di
evitare i duelli, probabilmente per non scendere dal
livello istituzionale a quello strettamente politico, l’unico
frequentabile dal sindacalista. Fu un errore perché
Guazzaloca avrebbe non soltanto potuto vantare i suoi
meriti di sindaco e le realizzazioni della sua
Amministrazione (che ci sono state), ma anche mettere
in evidenza il dilettantismo generico del suo sfidante e
la sua assoluta non conoscenza della città. La latitanza
non funzionò. Anzi, lasciò la città, in un certo senso, più
povera di informazioni importanti sul fatto e sul da farsi,
ma anche sulla personalità non proprio amabile dello
sfidante. Peccato che anche nel 2009 Guazzaloca abbia
scelto la stessa, perdente, strategia, complicata dal suo
abbandono del ruolo di capo dell’opposizione comunale
per tutto il periodo 2004-2009, grazie alla ricca “borsa
di studio” concessagli dall’amico Presidente della
Camera, Pierferdinando Casini, all’Autorità per le
Comunicazioni.
Nella campagna del 2009 non ricordo di avere visto
Guazzaloca in nessun incontro collettivo. La sua
eventuale saggezza istituzionale da ex-sindaco, la sua,
probabilmente superiore, conoscenza concreta dei
problemi, persino la sua possibilità di critica fondata
delle malefatte e delle non fatte di Cofferati e
dell’assurdo continuismo nel nulla ad opera del PD,
avrebbero certamente giovato alla campagna elettorale
e alla conoscenza dei problemi, delle priorità, delle
soluzioni offerte alla cittadinanza. Per Guazza
un’opportunità non sfruttata; per gli elettori di Bologna
una privazione non meritata; per una certa concezione
di democrazia, sicuramente non esclusivamente mia,
una ferita. Anche con i peggiori degli avversari, con i
più arroganti e con i più strepitanti, i dibattiti su
programmi e persone costituiscono un arricchimento,
reciproco e di tutti. Dubito che questa concezione si stia
affermando e temo che neppure nella campagna
elettorale del 2011 riusciremo ad assistere ad un vero,
ampio, efficace confronto democratico.

Coda. Nessuno degli osservatori e dei commentatori


della politica bolognese ha colto e evidenziato un
elemento piccolo, ma di straordinario impatto che
attiene proprio alla possibilità e all’utilità dei dibattiti, e
che contiene anche un interessante antecedente. Grazie
anche alla presenza della nostra lista e ai voti che
abbiamo ottenuto l’8 giugno 2009, il candidato del PD
mancò la vittoria al primo turno. Fra il primo e il
secondo turno, che, ripeto, non si sarebbe
probabilmente tenuto se la nostra lista fosse stata
assente, dunque, grazie a noi “Cittadini per Bologna” e
ai nostri elettori, si ebbe finalmente il dibattito/duello
radiofonico che ha contato di più, non per la vittoria di
Delbono, mai in dubbio, ma per le sue serie e gravi
conseguenze. Con la frase pronunciata in diretta da
Alfredo Cazzola a metà giugno: «Le porto i saluti della
signora Cinzia», cominciò il percorso che condusse alla
scoperta di intrecci vacanzieri-affaristici del candidato
che sarebbe diventato sindaco. È ipotizzabile che molti
sapessero. Ma, come si dice sempre in questi casi:
“massima fiducia nella magistratura”. Quello con i
giudici sarà un dibattito/dibattimento al quale l’ex-
sindaco non potrà sfuggire. Se, come appare probabile,
gli intrecci affaristici erano stati accettati, tollerati,
nascosti da troppi comprimari del blocchetto di potere
agglutinatosi intorno al Partito Democratico e ai suoi
dirigenti, ne sapremo di più su un deplorevole modo di
fare politica. La parola definitiva spetta alla
magistratura, ma qualche semplice e limpida frase che
riconosca che in politica conta anche l’etica, e che
proprio l’etica può essere l’elemento di diversità positiva
della sinistra, parrebbe ancora oggi oltremodo
opportuna. Invece, il PD e, sembrerebbe, anche la città
hanno semplicemente rimosso il caso Delbono che
potrebbe piombare come un masso nella campagna
elettorale della primavera 2011.
Indice
Capitolo quinto
La zampa di Prodi

È da almeno quindici anni che Romano Prodi e i


prodiani influenzano profondamente, in via diretta o
indiretta, la politica della città di Bologna. Dieci anni di
Presidenza della Provincia per il fratello Vittorio, al
quale, poi, quando si dichiarava pronto a candidarsi a
sindaco, è stata offerta l’elezione al Parlamento
europeo: altri dieci anni, ancora in corso. La scelta di
Flavio Delbono come assessore al Bilancio nella
rimpastata giunta del sindaco Walter Vitali è stata, oltre
che raccomandata da Stefano Zamagni, benedetta da
Romano Prodi. Quando venne paracadutato da Roma il
Cofferati, in una intervista assolutamente ossequiente
fattagli da Giorgio Tonelli per il TG3 dell’Emilia-
Romagna, in piena piazza Santo Stefano, fra un sospiro
e l’altro, lunghi, Prodi dichiarò: «una candidatura
degna, spazio spazio …; anzi, altrospazio …
degnissima». Veniva in questo modo eliminato dalla
scena nazionale chi poteva diventare un pericolosissimo
concorrente addirittura per la candidatura alla
Presidenza del Consiglio. Insomma, almeno uno di quei
lunghi sospiri era di “scampato pericolo”.
Con la sua sventurata e nient’affatto necessitata
richiesta del voto di fiducia nell’ottobre 1998, il
Presidente del Consiglio Prodi aveva suicidato il suo
primo governo. Ma la mitica esperienza dell’Ulivo, che
certamente contribuì alla vittoria elettorale del 1996,
anche se il contributo decisivo fu la mancata alleanza
fra Berlusconi e la Lega Nord, era venuta meno molto
tempo prima. Le molte sbandierate “convenzioni di
collegio”, vale a dire le assemblee nelle quali i
parlamentari tornassero nei collegi uninominali, nei
quali erano stati eletti, a fare politica, a interloquire con
gli elettori, anche quelli che non li avevano votati, a
spiegare quello che facevano e perché, non nacquero
mai. Prodi governava, mica poteva sporcarsi le mani a
fare politica, magari diventando, come succede nelle
migliori democrazie parlamentari, il capo politico della
coalizione che lo aveva condotto dal niente alla vittoria.
Guai, poi, a considerare le non poche e non tutte ostili
critiche che gli venivano rivolte cercando di imparare.
Chi criticava Prodi veniva immediatamente collocato fra
i cattivi, fra i nemici. Meglio, invece, il Direttore della
rivista «il Mulino » (o chi per lui) che, evidentemente,
del tutto a digiuno di nozioni di costituzionalismo,
formale e materiale, scrisse, a proposito della sconfitta
nel voto di fiducia nel 1998, di “operazione di inaudita
violenza politica”. Nulla di tutto questo. Il compito
fondamentale dei parlamentari consiste proprio nel dare
e nel togliere la fiducia ai governi. Non si trattava
affatto di “inaudita violenza”, ma di normale procedura
democratica. A riprova della confusione politica e
istituzionale, direi culturale, nella quale era piombata la
rivista, qualche tempo dopo vi venne pubblicato anche
un articolo nel quale si tesseva l’elogio di Fausto
Bertinotti, ovvero il maggiore, ancorché nient’affatto
l’unico, responsabile della caduta del primo governo
Prodi.
Non erano soltanto i direttori e i componenti della
redazione della rivista ad essere in stato confusionale.
Anche il Comitato Direttivo della “Associazione di cultura
e politica il Mulino”, peraltro, in un gioco dei quattro
cantoni, composto per lungo tempo da molte delle
stesse persone, non aveva, per quanto fossero poche,
le idee particolarmente chiare. A tenere la Lettura 2007
del Mulino, incidentalmente un evento culturale
suggerito da me una ventina di anni prima, venne
invitato non un socio dell’Associazione, non un autore
della Società Editrice, non un collaboratore dell’Istituto
Cattaneo, ma addirittura il Presidente del Consiglio in
carica il quale, peraltro, aveva due delle caratteristiche
da me appena indicate, chiaramente in secondo piano
rispetto a quella di capo del governo. Probabilmente, i
lungimiranti componenti del Comitato Direttivo avevano
previsto, mancando l’evento per appena poco più di un
mese, la caduta del secondo governo Prodi. La Lettura,
dedicata all’Europa, si tenne all’inizio del mese di
dicembre 2007. Il governo Prodi cadde alla fine del
gennaio 2008. Ebbi variamente modo di esprimere il
mio dissenso, non sulla persona del socio Prodi, non
sulla tematica della lettura, perfettamente appropriata
all’oratore che era stato per cinque anni e più il
Presidente della Commissione Europea, e altrettanto
coerente con gli scopi di un’Associazione che poteva
vantarsi di avere avuto fra i suoi soci il più grande
europeista federalista italiano, Altiero Spinelli. Già
variamente e qualche volta nient’affatto ingiustamente
accusati di essere troppo vicini al centro-sinistra, i soci
del Mulino, fra i quali, un paio di Presidenti del
Consiglio: Giuliano Amato, invitato a tenere la Lettura in
una delle poche date in cui non era neppure ministro, e
Romano Prodi; diversi ministri: passati, Nino Andreatta
e Gino Giugni, e presenti Tommaso Padoa Schioppa e
Arturo Parisi, dovrebbero, a mio parere, essere più
gelosi della loro autonomia, che non significa affatto
disinteresse, dalla politica. Dovrebbero difendere
vigorosamente i confini fra la riflessione e la proposta
politica e l’azione politica. Ne scaturì una brutta e
prolungata polemica, anche personale, fra Prodi, che mi
trattava come un nemico politico, e Pasquino, che
argomentava una visione alternativa, perdente e
definitivamente sconfitta, di un’Associazione che non ha
bisogno di farsi pubblicità invitando un Presidente del
Consiglio in carica, sperando di mascherare in questo
modo la sua mancanza di idee e incapacità di iniziativa.
Tutto questo culminò in quello che, se vi avessero
assistito, i giornalisti lo avrebbero definito un gustoso,
ancorché amarognolo, siparietto.
L’Assemblea Annuale dell’Associazione Il Mulino si
svolge l’ultimo sabato del mese di gennaio. Il governo
era caduto qualche giorno prima. Ad Assemblea appena
iniziata, Romano Prodi entrò con il suo maglione nella
saletta già affollata. Mi vide, venne, penso perché non
c’erano altre sedie libere, a sedersi relativamente vicino
a me e sibilò: «adesso sarai contento!». Di primo
acchito, non afferrai la frase. «Cos’hai detto?», «Che
sarai contento», «Scusa, di che cosa?», «Che è caduto
il governo, era quello che avevate sempre desiderato».
«Stai scherzando? Il peggior governo Prodi è, per me,
preferibile al miglior governo Berlusconi». Ma,
certamente, non lo convinsi. Riporto in coda a questo
capitolo un articolo pubblicato su «l’Unità» il 10 marzo
2008 che esprime con chiarezza la mia valutazione di
Prodi, persona e uomo di governo. Ma, quello scambio
mi è parso, da un lato, rivelatore della mentalità
sospettosa e da assedio che Prodi e la quasi totalità dei
prodiani condividevano e della loro incomprensione del
senso delle critiche, poche e fin troppo blande, che gli
venivano da coloro i quali, soci dell’Associazione,
scrivevano sui quotidiani («Il Corriere della Sera», «la
Repubblica», «Il Sole-24 Ore», «La Stampa»,
«l’Unità»). Dall’altro, ma non lo capii subito, era
un’anticipazione della sua piattaforma nei confronti
della mia candidatura. Quando, tempo dopo questo
scontro verbale,in una Assemblea dell’Associazione,
tenuta, credo, nel dicembre 2008, mi chiese se mi
candidavo a sindaco e risposi di sì, lui mi disse
chiaramente: «vai avanti». Nessuna smentita
successiva, fra l’altro, mai proveniente personalmente
da lui, può cancellare quella breve frase, priva di
requisiti e di sottintesi.
Dopo avere consapevolmente rifiutato di entrare in
primarie pilotate (si veda l’apposito capitoletto),
cominciai a delineare la mia posizione politica: a
sinistra, tentando di costruire qualcosa di simile
all’Ulivo, ovvero una coalizione riformatrice con uno
slancio che derivasse dall’appoggio dei cittadini
insoddisfatti della vecchia politica, di una parte
consistente del Partito Democratico e degli ancora più
vecchi spezzoni della sinistra bolognese. Apriti cielo! La
zampa di Prodi si abbatté inesorabile, con enorme
sicumera e attraverso comunicati torrenziali lanciati per
l’appunto dall’on. Sandra Zampa, a me ignota allora e
tutt’ora sconosciuta, già, come imparai, capo ufficio
stampa del Presidente, evidentemente mandata alla
Camera sulla quota dei prodiani. No, l’Ulivo era il loro
copyright, senza nessuna loro autocritica per non avere
saputo farlo crescere, con neppure una innaffiatina delle
tanto vantate “convenzioni di collegio”. No, la mia
candidatura era improponibile. Avrei dovuto fare le
primarie. Notoriamente, infatti, l’on. Zampa era stata
prescelta attraverso primarie competitive e combattute.
Anzi, continua a battersi, molto riservatamente,
affinché in caso di elezioni anticipate tutti i parlamentari
vengano candidati e ricandidati esclusivamente sulla
base dell’esito di primarie aperte. Sono sicuro di non
sbagliarmi.
Dunque, adesso, è giunto il momento di parlare delle
primarie secondo Prodi. Certamente, non dovremmo
aspettarci una vera e propria filosofia politica delle
primarie (invece, rintracciabile, per gli interessati, in un
paio di articoli da me scritti per la rivista «il Mulino», nel
1997 e nel 1998), ma può essere utile ricordare almeno
due o tre fatti essenziali. Primo, per potenziare la sua
leadership, nient’affatto unanimemente e senza riserve
sostenuta all’interno della Margherita (ah, Rutelli…; ah,
qualche democristiano mai pentito), al suo ritorno
dall’Europa, Prodi richiese che si indicessero
consultazioni primarie. Nel frattempo, le vere e proprie
primarie, non le prime a svolgersi in Italia (ho già fatto
un breve cenno al caso di Bologna 1998), ma le più
importanti, si svolsero in Puglia, fra Nichi Vendola
(Rifondazione Comunista) e Francesco Boccia
(Margherita). Grazioso dono di D’Alema, che pensava di
mettere a tacere Vendola, furono vinte proprio dal
candidato di Rifondazione che avrebbe poi vinto anche
le primarie successive nel 2010 ugualmente volute da
D’Alema che deve essere all’oscuro del detto: errare
humanum est, perseverare diabolicum, le primarie
pugliesi rimangono un esempio molto istruttivo. Non mi
è chiaro perché, ma nella primavera del 2005, Prodi
cominciò a manifestare qualche riserva sulla necessità
di fare svolgere primarie nazionali. Quando variegate
coalizioni di centro sinistra vinsero le elezioni in nove
regioni su quindici dichiarò che quelle erano state le
“sue” primarie, vale a dire, affermazione che non può
essere in nessun modo corroborata, che erano state
vinte anche grazie al suo nome. La sorda opposizione
della Margherita ad una incoronazione che veniva dai
Democratici di Sinistra e che li snobbava platealmente
lo obbligò, infine, a chiedere vere primarie. Insomma,
non proprio verissime poiché tanto la Margherita
quanto, quel che più conta, i Democratici di Sinistra
(troppi polli nel loro pollaio) rinunciarono a presentare
un loro candidato. La vittoria di Prodi, nonostante le sue
preoccupazioni, non fu mai minimamente in
discussione. Semmai, l’interrogativo era rappresentato
dall’affluenza degli elettori. Un po’ tutti i dirigenti e i
loro giornalisti di riferimento diedero i numeri,
scegliendo di stare molto cauti per prudenza, ma anche
per potere esaltare un eventuale successo numerico che
ci fu. Che non può essere sminuito, ma che non deve
neppure essere magnificato.
La storia, peraltro, non finiva lì. Berlusconi e i quattro
saggi di Lorenzago nel Cadore replicarono a fine
legislatura (dicembre 2005) cambiando la legge
elettorale e producendo una “porcata” nella nobile e
azzeccata valutazione di uno di loro, il ministro leghista
Lord Calderoli. Cancellati i collegi uninominali, fecero la
loro comparsa lunghe liste bloccate, ovvero senza
nessuna possibilità per gli elettori di sovvertire l’ordine
dei candidati. Si stabilirono due soglie di accesso alla
Camera (quattro per cento su scala nazionale) e al
Senato (otto per cento regione per regione). Spuntò
anche un premio di maggioranza alla coalizione
vincente, più contenuto rispetto a quello imposto dalla
Legge del ministro fascista Acerbo, applicata nel 1924,
leggermente differente rispetto a quello della Legge
Truffa, che, applicata e fallita nel 1953, nonostante
recenti tentativi di rivalutazione, truffa effettivamente
era e rimane.
Come Comitato Nazionale Promotore delle Primarie,
di cui sono fin dalla sua nascita Presidente,
segnalammo subito pubblicamente, in un paio di
riunioni e relativi comunicati stampa, due problemi.
Primo problema: le primarie per Prodi si erano svolte
troppo in anticipo rispetto alla data delle elezioni
politiche, fissata per l’aprile del 2006. In assenza di una
intensa e continuata attività sarebbe andato del tutto
perduto qualsiasi essenziale slancio di mobilitazione
popolare. Insomma, l’elettorato delle primarie, invece di
funzionare da volano, si sarebbe seduto oppure sarebbe
arrivato privo di energie alle urne d’aprile. Secondo e
molto più grave problema: non era davvero concepibile
e accettabile che i capipartito e i capicorrente
platealmente e semplicemente nominassero i “loro”
parlamentari. Calcolando, operazione alquanto facile,
grosso modo quanti parlamentari sarebbero stati eletti
nelle varie circoscrizioni, stabilire l’ordine di beccata era
un’operazione che anche un bambino avrebbe potuto
effettuare. In quelle condizioni, era facile prevedere che
nessun candidato avrebbe avuto il minimo interesse e
qualsivoglia incentivo a fare campagna elettorale. I
meglio piazzati, spesso anche paracadutati, già sicuri di
essere eletti, non vedevano ragione alcuna di
impegnarsi nella campagna elettorale. A maggior
ragione, quelli piazzati in fondo alle liste bloccate, non
potevano che ritrarsi da un impegno oneroso destinato
a essere frustrante e frustrato.
Dunque, decidemmo di proporre pubblicamente e poi
con una lettera a Prodi quella che reputavamo essere
una soluzione democratica, efficace, praticabile e che,
incidentalmente, secondo noi, mantiene intatta tutta la
sua validità. Nella lettera inviata al candidato Presidente
del Consiglio, capo della coalizione detta Unione,
Romano Prodi, gli domandammo di suggerire e
agevolare l’indizione in maniera selettiva di elezioni
primarie per la scelta di un numero variabile di
candidati/e al Parlamento. Tutti i posti con il numero
dispari, 1, vale a dire il capolista in ogni circoscrizione,
3, 5, 7, sarebbero comunque stati riservati ai partiti
della coalizione. Qualora in determinate zone esistesse
una o più associazioni in grado di presentare
candidature da loro espresse oppure ritenute
particolarmente valide, se quelle candidature non
venivano accettate, si sarebbero tenute primarie per i
posti 2, 4, 6, 8. Naturalmente, anche ad eventuali
candidati dei partiti era consentito di partecipare alle
primarie.
La nostra proposta suggeriva che quelle primarie per
i parlamentari dovessero tenersi nel periodo più
ravvicinato possibile alla data delle elezioni in modo da
sfruttare una molteplicità di effetti: partecipazione/
mobilitazione, informazione, comunicazione, visibilità.
Aspettammo a lungo la risposta, mentre variamente la
discutevamo in mezzo alla sorda ostilità dei dirigenti dei
partiti, a cominciare da quelli dei più piccoli, tutti
gongolanti grazie alla prospettiva di scegliersi come
parlamentari i loro fedelissimi. Infine, ricevemmo una
brevissima lettera di Prodi, datata 28 febbraio 2006,
che ci comunicava, “Carissimi”, che, purtroppo, non
c’era più il tempo per organizzare le primarie. Infatti.
Ma erano passati tre lunghi mesi da quando avevamo
fatto una proposta alquanto dettagliata. Questo era il
Prodi primarista convinto. Adesso, attendiamo dalla
Zampa che, coerentemente, si impegni nella richiesta di
primarie per i parlamentari, coraggiosamente offrendosi
come utile “case study”. Dopodiché la risicata vittoria
elettorale, nel corso di una campagna nella quale il
candidato Presidente del Consiglio aveva dilapidato un
vantaggio iniziale consistente, fa pensare che, forse, lo
strumento democratico “primarie”, se utilizzato
correttamente e tempestivamente, sarebbe riuscito a
contribuire a un esito alquanto differente.
Grande, invece, e continuativo è stato il contributo di
Romano Prodi al candidato Flavio Delbono che aveva
vinto risicatamente le primarie bolognesi. Prodi
partecipò agli eventi più importanti della sua
campagna: dal lancio ufficiale della candidatura, un
costosissimo convegno organizzato e pagato dalla Lega
delle Cooperative che invitò il Premio Nobel Amartya
Sen, noto anche per la sua profumata professionalità,
all’ultima messa nella chiesa di San Petronio il giorno
stesso delle elezioni! Trovò anche il tempo di
accompagnare il suo candidato al Palazzo del Prefetto di
Bologna in occasione della Festa della Repubblica, 2
giugno 2009. Insomma, mise la sua pesante zampa
senza riserve né, meno che mai, critiche, in tutta la
campagna elettorale. Non so se se ne sia mai pentito.
Quello che è sicuro è che, prima di abbandonare il
sindaco inquisito, lasciò passare troppo tempo. E, alla
fine, dettò il classico comunicato di lode ad un gesto di
responsabilità e di “amore” per la città. In verità, quel
che trapelò fu un amore piuttosto tardivo dal momento
che se le dimissioni del sindaco inquisito fossero
arrivate qualche giorno prima, come tutti nel suo
entourage erano tenuti e obbligati a sapere, Bologna
avrebbe evitato il commissariamento e sarebbe andata
a elezioni già nel marzo del 2010, in contemporanea
alle regionali, risparmiando, oltre al tempo e al denaro,
anche l’umiliazione del commissariamento.

La lezione di un galantuomo, in «l’Unità»


10 marzo 2008

No, Romano Prodi non è, come sostiene Galli


della Loggia sul «Corriere della Sera» quotidiano
che, lo aveva prima esplicitamente endorsed,
appoggiato all’americana, per la penna del suo
stesso Direttore, poi, spesso, fatto acidamente
criticare dai suoi editorialisti, un imbarazzante
nonno che un ingrato centro-sinistra ovvero,
meglio, gli smemorati, non per caso, ex-comunisti,
avrebbero già messo in soffitta, e non
esclusivamente per ragioni elettorali. Non è
neppure un disoccupato, un nonno per tutte le
stagioni e per tutte le cariche, come ha pensato
qualche fantasioso giornalista, a corto di idee,
candidandolo a sindaco di Bologna. La risposta di
Prodi è stata del tutto prevedibilmente negativa, e
la motivazione già allora apprezzabile: dedicare
più tempo ai suoi nipotini. Adesso ne sappiamo di
più, con parole che sembrano venire
dall’Ecclesiaste: c’è un tempo della politica,
nazionale e internazionale e c’è un tempo
dell’impegno altruistico anche fuori dalla politica (e
non necessariamente nelle banche e nei consigli di
amministrazione, peraltro non necessariamente
luoghi riprovevoli). Proprio chi, come me, lo ha
criticato più di una volta, su questo giornale (e
altrove) per le sue concezioni politiche e per le sue
modalità d’azione e di comunicazione, ha non
soltanto il dovere, ma anche il diritto di ricordare,
anche e soprattutto agli immemori smemorati del
centrosinistra italiano, quanto in Parlamento e nel
paese, dobbiamo ai governi guidati da Romano
Prodi e a lui stesso, personalmente.
Senza la sua disponibilità, per due volte il paese
e noi avremmo dovuto subire (sì, è esattamente il
verbo che considero maggiormente appropriato)
governi guidati da Berlusconi e, nel secondo caso,
ovvero nel 2006, avremmo corso il serio rischio di
un abbozzo di regime: dieci possibili anni
consecutivi di governo del centro-destra nonché 60
la loro conquista di tutte le cariche, Presidenza
della Repubblica compresa, e la fuoruscita
dell’Italia dal consesso dell’Europa che conta.
Senza Romano Prodi (e senza l’intelligenza politica
di Beniamino Andreatta) l’avvicinamento fra ex-
democristiani e ex-comunisti e l’esperienza
dell’Ulivo, prodromo del Partito Democratico
sarebbero semplicemente stati impossibili.
Soltanto la pazienza politica e personale di Prodi
unitamente, se si vuole, alla sua tenacia, hanno
permesso la durata e persino la innegabile, perché
testimoniata da cifre e da riconoscimenti
internazionali, opera di risanamento dell’economia
italiana dentro una coalizione altrimenti portata ai
litigi e alle differenziazioni personalistiche al limite
del narcisismo. Aggiungo, particolare nient’affatto
banale, che, quando vado in giro per conferenze,
ma anche quando sono in coda al supermercato,
sento spesso dire che Romano Prodi è una brava
persona, non un esponente della “casta”. Non è
un’affermazione frequente quando il discorso cade
su persone che hanno ricoperto prestigiose cariche
di rappresentanza e di governo. Né si deve
dimenticare che, non soltanto in Italia, sono
rarissime le fuoriuscite dalla politica che non
vengano contrattate e scambiate con qualche altra
visibile carica di potere e altamente remunerativa.
Dovrei forse menzionare il ruolo acquisito dall’ex-
cancelliere tedesco Gerhard Schröder in Gazprom
o quello conferito all’ex-Primo ministro inglese
Tony Blair, inviato speciale in Medio-oriente?
Certamente amareggiato, Romano Prodi esce,
senza cercare rivincite e ricompense, dalla scena
politica italiana, alla quale ha dato molto, e dalla
quale, oltre alle amarezze, ha anche ricevuto
molto. Un giorno, non troppo lontano, dovremmo,
credo, interrogarci su quello che non ha funzionato
nei governi di Prodi o, meglio, nelle alleanze
composite a suo fondamento. Il Partito
Democratico sta tentando una risposta politica
abbastanza coraggiosa: meglio meno, ma meglio
(in termini di compagni di strada e di governi), che
non esaurisce il problema. È una risposta che,
senza sottovalutarne le difficoltà, Prodi
condividerebbe, magari interrogandosi se non
sarebbe stato possibile anche prima tentare
soluzioni coraggiose. La scelta di non ricandidarsi,
di non dare facili armi alle destre, di non cercare
altre cariche, certamente praticabili, costituisce
una lezione non soltanto politica, non soltanto di
stile, ma anche di sostanza che merita rispetto e
apprezzamento. Dovrebbe essere accompagnata,
appena saremo usciti dalla tormenta elettorale, da
un’operazione di verità e da una rivendicazione dei
successi.
Nel decennio di una transizione politico-
costituzionale incompleta, forse sottovalutata da
Prodi (e dai suoi, non sempre all’altezza,
consiglieri) nella sua gravità e nella ricerca di
soluzioni, sono stati i due governi di Romano Prodi
che hanno, prima, portato l’Italia nell’Euro e, poi,
ricondotto l’Italia nei parametri di Maastricht.
Vedremo se i prossimi governi sapranno fare
meglio, mentre Prodi, con il nostro augurio, si
impegnerà non soltanto ad essere un nonno
premuroso, ma anche a diventare un operatore
internazionale in grado di esprimere le sue
capacità e la sua non formale solidarietà.

Scritto il 9 marzo 2008.


Capitolo sesto Indice

Incontrarsi, così

Ho sempre pensato, ma l’ho anche scritto, che la


politica consiste soprattutto nel creare, costruire, curare
i rapporti fra le persone, quelle che hanno potere e
quelle che hanno il voto, quelle che desiderano il potere
e quelle che vogliono, democraticamente, toglierglielo,
quelle che sanno prendere le decisioni e quelle che
suggeriscono, variamente, nel loro piccolo, quali
decisioni dovrebbero essere prese, infine, quelle
persone, molte, che subiscono le conseguenze, negative
e positive, delle decisioni. Nel suo significato originale, è
molto importante saperlo e ricordarlo, il sostantivo
greco “politica” è un plurale: “le cose che avvengono
nella città” (polis). Non soltanto sono cose che ci
riguardano come cittadini, ma su quelle cose dovremmo
volere esercitare, ricorrendo ad un ampio repertorio di
strumenti, una qualche influenza e riuscire a farlo. Uno,
ovviamente, non l’unico, degli strumenti da utilizzare in
politica è il dialogo fra persone. Certo, anche se Bologna
è una città relativamente piccola, non è possibile
passeggiare sotto i portici e nell’agorà di piazza
Maggiore parlando con tutti i cittadini. Ma, almeno, ci si
può e ci si deve provare.
A Bologna, molti ricordano quando piazza Maggiore
era un brulicare di capannelli di persone, nient’affatto
esclusivamente anziani e pensionati, che parlavano di
politica. Molti ricordano anche grandi comizi di massa,
straordinario modo di comunicare la linea del partito, di
criticare gli avversari, di misurare le capacità e persino
la personalità dell’oratore. Con l’avvento della
televisione, molti, probabilmente troppi, hanno pensato
che, nella nuova politica, del contatto con le persone si
potesse/si possa fare a meno. Certo, la TV raggiunge
milioni di persone, dappertutto, in qualsiasi momento,
ma come? E quanto lascia in loro di informazione sulla
politica e sui politici? A livello locale, in una comunità
piccola e ancora relativamente, seppur
problematicamente, coesa, come Bologna, quanto può
essere influente la TV e quanto può essere integrata e
contrastata da una seria attività di contatto con le
persone? Senza sentirci troppo velleitari, noi, “Cittadini
per Bologna”, pensammo che, comunque, dovevamo
andare per strada, ai supermercati, alle fermate degli
autobus, davanti ai cancelli di alcune scuole, ai nuovi
uffici comunali. Quanto fruttuoso potesse essere non lo
sapevamo; che fosse politicamente importante, per noi
e per il nostro modo di fare campagna elettorale,
perseguendo anche l’obiettivo di cambiare la politica in
città, ne eravamo assolutamente convinti.
Bologna si è spesso vantata di avere un ricco e vivace
tessuto di associazioni. In linea generale, si può
effettivamente notare che le associazioni bolognesi sono
molte e di vario tipo. Tuttavia, guardando più da vicino,
come ho avuto modo di fare durante la campagna
elettorale, l’elemento che mi è apparso con chiarezza è
che alcune associazioni/organizzazioni sono persino
troppo collegate con il Partito Democratico. Sono
contigue, al limite, per usare un termine antico, ma
ancora pregnante, fiancheggiatrici. Potremmo nobilitare
tutto questo evidenziando come il Partito Comunista
abbia perseguito, con successo, la strategia gramsciana
dell’egemonia. Quello che è restato, dopo la
trasformazione del PCI e la perdita di una forte e vitale
identità, è, a tutti gli effetti, un blocco di potere. Per
quel che attiene al passato, l’ho definito “triangolo
virtuoso”: un grande partito sempre al governo, un
grande sindacato, un ampio movimento cooperativo.
Attraverso la credibilità dei suoi dirigenti e la
competenza dei suoi amministratori, il Partito ha
garantito stabilità politica e offerto prevedibilità dei suoi
comportamenti. Il sindacato sapeva che sarebbe stato
sostenuto nelle sue vertenze con gli industriali i quali, a
loro volta, sapevano, e ricevevano regolarmente
conferma, che il partito manteneva quel che
prometteva. Dunque, era possibile investire e lavorare
in competizione e in concomitanza con le ugualmente
soddisfatte cooperative. Naturalmente, se viene meno
anche uno solo dei tre lati del triangolo, tutto cambia.
Anzi, peggiora.
Superfluo rilevare che, sì, il lato più importante, il
“partito-amministrazione”, si è, prima incrinato, poi
piegato e forse spezzato. Non appare più recuperabile.
Le cooperative, diventate molto professionalizzate,
stanno sul mercato e prendono le distanze. Il sindacato
boccheggia. Gli industriali guardano preoccupati e,
quando possono, operano sui mercati europei e
mondiali. A tutti, però, l’assetto politico cittadino
interessa, non solo come produttori e operatori
economici, ma proprio come cittadini. Non riuscirei a
spiegare altrimenti, se non con l’esistenza di un acuto
sentimento di cittadinanza, di positiva bolognesità,
quanto ho rilevato nei miei incontri e nei miei colloqui.
Ma, naturalmente, non posso neppure tacere la faziosità
e la latitanza, ovvero i mancati inviti e le esclusioni, il
rifiuto aprioristico del dialogo.
Comincio proprio da quelle che credo debbano essere
considerate discriminazioni. Premetto subito che, in
campagna elettorale come a casa propria, ciascuno ha il
diritto di invitare e, ancor più, di non invitare chi vuole.
Per esempio, se la CGIL e la Camera del Lavoro di
Bologna non hanno il minimo interesse per quello che
penso, dico, farei in termini di lavoro e del suo
ambiente cittadino, è logico e giusto che non perdano
tempo con me. A maggior ragione, ha fatto bene Cesare
Melloni, di cui, pure, ricordo una “sparata” contro le
primarie tanto micidiale quanto ignorante di qualsiasi
cosa vogliano e possano essere le primarie, a non
prendermi in nessuna considerazione. Leggermente più
complesso è il discorso che riguarda la CNA poiché
alcuni dirigenti mi conoscono abbastanza bene. Ho
accettato i loro inviti in diverse sedi, in tempi non
sospetti perché non elettorali, esprimendo il mio sincero
apprezzamento per il loro lavoro. Cosicché sono rimasto
molto stupito quando ho saputo che avevano invitato
tre candidati, ma non me. Lo stupore è stato ancora
maggiore quando ho visto un’intera pagina pubblicitaria
a pagamento su «la Repubblica» nella quale la CNA
pubblicizzava le sue proposte e le sue richieste al futuro
governo cittadino ricorrendo all’espediente “più”.
Ricordo qui, ma il lettore potrà vedere tutto
nell’appendice, che avevamo annunciato fin dalla
conferenza stampa di inizio febbraio che il nostro
programma sarebbe stato all’insegna proprio del “più”.
Ad esempio: “Bologna più colta”; “Bologna più bella”;
“Bologna più europea”, per dare anche l’idea che
avremmo costruito tenendo conto di quanto già
esisteva. Questa impostazione non poteva essere
sfuggita agli uffici studi della CNA (la loro pagina è di
fine marzo 2009) poiché la avevamo ribadita in più
occasioni e anche messa su non pochi cartoncini che
distribuivamo in varie iniziative. Insomma, la mia
esclusione dall’incontro con i candidati, ancorché
sgradevole, è comprensibile. Il plagio ci è sembrato un
piccolo, meritato omaggio alla nostra inventiva, ma, in
special modo, un comportamento piuttosto reprensibile.
Non soltanto perché da vent’anni abito a Porta Lame,
anno dopo anno ho partecipato fra la piccola folla di ex-
partigiani e di cittadini, mai fra le autorità sul prato, alla
commemorazione della Battaglia di Porta Lame: 7
novembre 1944. Fra le autorità ho regolarmente visto i
sindaci, Renzo Imbeni, Walter Vitali, Giorgio Guazzaloca
compreso, e, ma non tutte le volte, Sergio Cofferati.
Naturalmente, più spesso che no, ho anche notato l’alta
sorridente figura di Maurizio Cevenini. Personalmente,
ho chiarissimo il nesso storico, politico e morale fra
Resistenza, antifascismo e democrazia. In diverse
occasioni, ho avuto l’opportunità di parlarne e anche di
scriverne, persino su qualche pubblicazione dell’ANPI
bolognese. Insomma, non dovrei essere uno
sconosciuto per il Presidente William Michelini. Quando
ci siamo incrociati alla Certosa, per il 21 aprile, dove
qualcuno stava portando per mano Delbono,
sistematicamente Michelini ha evitato di riconoscermi.
Poi, a fatica, mi ha stretto la mano. Infine, ha fatto
sapere ai miei collaboratori che, no, insomma, non
aveva proprio il tempo di ricevermi. Non ne vedeva la
necessità. Giusto anche questo. Notoriamente, il
candidato del Partito Democratico aveva già dato ampia
prova del suo interesse e del suo apprezzamento per la
Resistenza. Oppure, forse no; ma Michelini non aveva
nessun dubbio e, soprattutto, non voleva che dubbi
venissero instillati fra i suoi iscritti. Che collateralismo ci
sarebbe mai se i partigiani e le loro famiglie si
mettessero anche a sollevare riserve sul candidato
ufficiale del Partito Democratico e a valutare i candidati
sulla base di quello che hanno detto e fatto e che
promettono e argomentano? Qualche mese dopo, a
elezioni celebrate, andai a fare una conferenza sulla
Costituzione, invitato dal Presidente dell’ANPI di
Castelmaggiore il quale mi spiegò, candidamente, e
gliene sono grato, che aveva dovuto piegare molte
resistenze interne alla sua associazione per invitarmi e
sconfiggere molte obiezioni contro la mia presenza.
Alcuni avevano annunciato di boicottare la conferenza.
Altri espressero la loro preferenza per ascoltare, invece
di me, un noto esperto di Costituzione e Resistenza:
l’ancora per poco segretario del Partito Democratico di
Bologna.
Più complessa è la storia di un invito che non venne
mai. Ma, avrei dovuto aspettarmelo? Sono diventato
socio dell’Associazione di cultura e politica “il Mulino”, su
indicazione di Nicola Matteucci, nel 1970. Non è il caso
che ripercorra qui tutti ruoli che ho variamente ricoperto
in questi quarant’anni. Mi limito soltanto a evidenziare
che ho diretto la rivista per quattro anni. Ne sono fiero
e chi vorrà leggere uno qualsiasi di quei fascicoli
bimestrali e confrontarli con uno qualsiasi dei fascicoli
degli ultimi dieci-dodici anni, capirà perché. Ho sempre
pensato che la cultura e la politica possono incrociarsi in
maniera molto feconda, altrimenti, avrei scelto di fare
altro e non di insegnare Scienza politica. Quando venni
eletto senatore, abbandonai ogni incarico e rimasi
“socio di base”. Quando a metà degli anni Novanta mi si
offrì di tornare alla direzione della rivista «il Mulino»,
rifiutai a malincuore poiché consideravo il mio impegno
come Senatore incompatibile con il dirigere in maniera
autorevole la rivista. Cercai sempre di segnare il
territorio del Mulino affinché non venisse invaso, come
certamente non avrebbero voluto i Fondatori, dalla
politica quotidiana. Quando, di recente, il socio Michele
Salvati condusse un suo intervento in Assemblea tutto
all’insegna del “Noi del Partito Democratico…” per
spiegare perché il Mulino, non avendo capito le radici
sociali, economiche e politiche del berlusconismo, ha
perso smalto e incisività, ne rimasi inorridito. Lo dissi.
Risultai in minoranza e venni anche subito redarguito e
zittito.
Ma, perché avrei dovuto ricevere un invito
dall’Associazione “il Mulino”? Forse perché cinque anni
prima, il Comitato Direttivo aveva invitato il candidato
Sergio Cofferati a parlare ai soci? A suo tempo, espressi
in via informale, non essendovi nessuna sede
depositata per parlare di questo, tutta la mia
contrarietà. L’invito a me poteva forse essere
giustificato dal fatto che l’Associazione “il Mulino” si
occupa anche di politica e l’Istituto Cattaneo fa ricerche
di politica, compreso un bel libro proprio sulle elezioni
municipali del 1999 (ma su Bologna ricordo molte altre
importanti pubblicazioni del Cattaneo e dell’Editrice)?
Forse perché un socio dell’Associazione era in lizza in
prima persona nelle elezioni della città in cui è nata e
ha sede l’Associazione stessa? Nel periodo in cui era
stato sindaco Walter Vitali, uno dei fondatori del Mulino,
Luigi Pedrazzi, fu vicesindaco. Però, un conto è essere
cooptati a fare il vicesindaco, un conto molto diverso,
magari soltanto più interessante, è fare una campagna
elettorale per diventare sindaco. La storia politica di
Pedrazzi registra, peraltro, anche una campagna
elettorale, di sicuro la più famosa di quelle svoltesi a
Bologna, nota come Dossetti, lo sfidante, contro Dozza,
il sindaco in carica. Avrebbe, magari, potuto
l’Associazione interessarsi, per esempio, a come e
quanto era cambiata la politica locale e non solo, in
poco più di cinquant’anni. L’Istituto Cattaneo avrebbe
potuto trovare qualche originale interrogativo di ricerca.
Oppure, molto più semplicemente, la rivista «il Mulino»
avrebbe potuto apprezzare un mio articolo, un
resoconto, una riflessione, un intervento, una tavola
rotonda. Infine, ma a nessuno, proprio nessuno dei
soci, è mai venuta la curiosità di sapere perché mi ero
candidato e come è andata?
Non intendo formulare nessuna spiegazione. Mi limito
a constatare che l’Associazione e il suo Comitato
Direttivo sono imbottiti di soci di stretta osservanza PD,
i quali, dunque, vedevano proprio di malocchio la mia
candidatura. Ma, almeno, a elezioni consumate, una
discussione, anche critica, la si sarebbe pure potuta
fare. Sembra proprio di no. Peccato: un’occasione
perduta magari per riflettere su un tema non banale:
“politica e cultura a Bologna”. Temo che l’Associazione
abbia da tempo perduto qualsiasi capacità di
approfondimento e di elaborazione politica. Un guizzo di
vitalità, anche, ripeto, critica, nei confronti della mia
candidatura, sarebbe stato del tutto inaspettato,
addirittura destabilizzante.
Gli altri incontri, tranne uno, furono tutti
programmati, da noi, “Cittadini per Bologna”, richiesti e
accolti con molto favore e gentilezza. Mi riferisco
all’Unione Industriali e al suo, allora Presidente Gaetano
Maccaferri; all’Associazione Nazionale Costruttori Edili
(ANCE) e al suo allora Presidente Marco Buriani,
all’Unione Piccoli Proprietari e Immobiliari (UPPI),
all’Ordine degli Ingegneri e alla Cooperativa Taxisti di
Bologna (COTABO). Prima di passare ai particolari che
mi hanno favorevolmente impressionato, voglio
sottolineare tre importanti e apprezzabili elementi
comuni a questi incontri, pur nella enorme diversità
delle attività svolte dalle cinque associazioni
menzionate. Primo elemento: grande disponibilità ad
ascoltare le mie posizioni e proposte, non soltanto per
cortesia e in modo formale, ma interloquendo e, se
necessario (eccome era necessario!), correggendo e
suggerendo motivatamente scelte alternative. Secondo
elemento comune: una evidente, non ostentata, ma
sicura e elevata, professionalità nel loro settore.
Ciascuna delle associazioni e dei loro rappresentanti
mostrò grande competenza e approfondita conoscenza
dei problemi cittadini nonché notevole capacità di
progettare soluzioni. Terzo elemento comune: certo, le
soluzioni formulate dalle varie associazioni non
potevano non rispecchiare le preferenze e gli interessi
dei soci e dei rispettivi dirigenti, ma, al tempo stesso,
sentivo e capivo che, nelle visioni specifiche, c’era
sempre uno sforzo concreto di prospettare qualcosa che
fosse benefico, utile, efficace per rilanciare la città. In
particolare, il piano traffico formulato dall’Unione
Industriali mi sembrò ottimo e compatibile con molte
delle indicazioni derivanti, per esempio, dall’esperienza
quotidiana e dal buon senso dei taxisti. Quanto
suggerito dall’ANCE poteva utilmente essere messo a
confronto sia con le esigenze dei piccoli proprietari e
degli inquilini sia con quanto avevo appreso dalla
Cooperativa per il Risanamento, anch’essa
operativamente molto concreta. Non che ognuno avesse
ragione, ma un buon sindaco e un buon assessore
dovrebbero sapere individuare i punti di convergenza,
utilizzare le opportunità come delineate da queste
associazioni, sfruttare le eventuali sinergie.
Intelligentemente, molto meglio degli inutili saggi
subito nominati dal sindaco Delbono, e
tempestivamente Stefano Bonaga e Enrico Pettazzoni
hanno proposto all’inizio del 2010 che si svolga
un’Istruttoria Pubblica nella quale chiunque lo voglia
potrà presentare progetti fattibili per migliorare Bologna
e la qualità della vita dei suoi cittadini. Sarebbe utile,
preliminarmente, raccogliere, analizzare, compulsare e
condensare quanto, ed è molto, è già disponibile presso
quelle associazioni. Mi auguro che Bonaga e Pettazzoni
vogliano sollecitare i responsabili a mettere in pubblico i
loro progetti3. Pubblicità e trasparenza, insieme alla
competenza, sono modalità indispensabili per ridare
slancio alla città e per farle riprendere la strada della
crescita.
Sicuramente, lo slancio non verrà dalle attività di due
colossi cittadini con i quali ho avuto gli incontri più
deprimenti. Del dibattito sulla cultura organizzato dalla
Lega delle Cooperative e introdotto dal suo Presidente
Gianpiero Calzolari, al quale non ero del tutto ignoto, ho
già riferito ampiamente. Però, è importante che il
lettore conosca fin d’ora un aspetto centrale. A
conclusione delle presentazioni dei candidati, mentre
l’affabile candidato del PD fuggiva, ovviamente per
adempiere ad altri impegni, poiché diverse persone mi
avvicinavano, mi fermai, anche attratto da alcune
pizzette, una decina di minuti, giusto il tempo utile a
Calzolari per elogiare la mia presentazione,
riconoscendomi abbastanza competenza e originalità in
materia dell’ampio settore della cultura a Bologna.
Tornato a casa verso le 13.30, il mio computer ricevette
un flash di agenzia nel quale il Presidente della Lega
Coop, Calzolari affermava che il progetto migliore per il
rilancio e la riorganizzazione della cultura a Bologna
l’aveva espresso Delbono. Che dire? Rimasi meravigliato
e, come me, forse, anche coloro, giornalisti compresi,
che erano stati presenti al dibattito.
L’ultimo incontro, non in ordine di tempo, ma in
questa sequenza e, soprattutto perché è quello che ho
3 A fine settembre 2010 si sono svolti i primi incontri per un'Istruttoria
pubblica sul welfare a Bologna, per elaborare proposte per il bilancio di
previsione 2011.
fatto più fatica a capire e “assorbire” è stato quello con
il potente Presidente del Consorzio Cooperative
Costruzioni. Quarant’anni di mio insegnamento
all’Università di Bologna non possono non lasciare
tracce. Ma, il Presidente Piero Collina non è una piccola,
trascurabile traccia. Non soltanto è stato in assoluto,
con Angelo Panebianco, uno dei primi quattro-cinque
studenti che hanno frequentato il mio nascente corso di
Scienza Politica, ma, insieme a Panebianco, è stato uno
dei due primi laureati in quella materia sotto la mia
supervisione. Lo ho anche aiutato a scrivere e
pubblicare un articolo derivante dalla sua tesi di laurea
sulla nascente classe politica regionale. Nel 1970 si
erano per l’appunto svolte le prime elezioni regionali.
Ricordo ancora il titolo dell’articolo: Astri nascenti o
stelle cadenti? Ci eravamo, poi, variamente visti,
qualche volta anche alla partita del Bologna.
Condividevamo una visione politica in senso lato
socialista e, come socialista, Collina aveva fatto carriera
nella cooperazione. Il Presidente del CCC mi ricevette,
previo appuntamento, nel suo ufficio all’ultimo piano del
Palazzo della Coop a Borgo Panigale. Il colloquio fu
breve e chiarissimo. Non approvava la mia decisione di
candidarmi con una Lista civica. Non mi avrebbe votato.
Non mi avrebbe dato soldi, che, in verità, neppure
chiesi, perché, affermò, le Coop non davano più soldi ai
candidati. Rischiavo di impedire la vittoria al primo
turno del candidato ufficiale del PD. Avrei fatto meglio a
ritirarmi. Quanto al programma, tutto chiaro: il Civis
doveva essere fatto il più presto possibile. Le
Cooperative Costruzioni avevano già investito una
notevole quantità di denaro; molti mezzi erano stati
comprati da tempo e stavano parcheggiati negli hangar
con il rischio di deperimento e obsolescenza. Si
perdevano un sacco di soldi. Tutto questo, tranne i soldi
che andavano perduti, fu ripetuto con tono fermo e
deciso, che non ammetteva contraddittorio, anche al
suo autista che ci riportava verso il centro, il quale, per
quanto non elettore a Bologna, era sinceramente
interessato a come vedevo la situazione cittadina. Devo
ammettere che il dott. Collina impartì al suo ex-
professore un’ottima, sintetica e pratica lezione su che
cosa è e come si costruisce, si preserva e si prolunga
nel tempo un blocco di potere.
Questo capitoletto non può considerarsi concluso
senza riportare un avvenimento che sembrò destare
scandalo (e qualche riserva anche fra i “Cittadini per
Bologna”): la mia partecipazione alla Convention
organizzata dal candidato Alfredo Cazzola per
presentare il suo programma e la sua “squadra”.
Invitato personalmente per telefono e variamente
“coccolato”, presi la decisione di andare per due motivi,
differenti, ma convergenti. Primo, il candidato Cazzola
era un concorrente accreditato, lui sì che rappresentava
qualcosa di nuovo, anche rispetto a precedenti
candidature civiche collocate nel centro-destra, e, come
si sarebbe poi anche visto, contati i voti, di significativo.
Mi sarebbe comunque stato utile conoscere le sue
proposte e vedere le persone che lavoravano con lui.
Secondo, a me interessa, come persona e come
studioso (allora anche come candidato), la politica. Chi
la fa, come viene fatta, come cambia, per di più in una
città come Bologna, da almeno dieci anni attraversata
da insoddisfazioni diffuse e pulsioni nuove. Dunque, il
candidato civico di sinistra nonché studioso di politica
andò ad assistere alla Convention di Cazzola senza
nessun timore e senza nessuna disponibilità a essere
cooptato. Volevo essere informato in prima persona.
Consideravo Cazzola un concorrente, un avversario
politico, un concittadino, capace di rappresentare quasi
un quarto dell’elettorato di Bologna, non un nemico di
classe. Non ho affatto cambiato idea, e neanche ho
cambiato la mia collocazione politica.
Apriti cielo. Il lettore mi perdonerà questa frase fatta,
ma di fronte all’esplosione di faziosità e di stupidità dei
commenti, ho scoperto una parte piuttosto maligna del
volto di una città che avevo fino ad allora considerato
esemplarmente tollerante anche delle differenze
politiche. Insomma, avevo tradito la sinistra. Avevo
svelato le mie vere intenzioni. Avevo, secondo la
brillante trovata di una sconosciuta esponente della
brillantissima lista civica “Bologna 2014”, perso la
bussola. Per fortuna che ci pensò lei, accuratamente
truccata e profumata, soprattutto, dopo avere
convocato i fotografi dei tre maggiori quotidiani cittadini
(credo che poi la foto sia stata pubblicata, c’era da
aspettarselo, soltanto da «la Repubblica»), a
recapitarmi gioiosa e trafelata una vera bussola. È così
che si fa la nuova politica ovvero, almeno, che la
facevano quelli di “Bologna 2014”. Ma, rimane la
sgradevole sensazione che la faziosità sia oramai
arrivata ovvero, peggio, si sia diffusa anche in una città
che si era, nel corso del tempo, fin troppo vantata, della
qualità del suo confronto politico.
Capitolo settimo Indice

Disinformazia

«Le idee camminano sulle gambe degli uomini» (Mao


Tse-Tung) “e delle donne” (aggiunta mia). Anche le
proposte e i programmi elettorali, le priorità e le
soluzioni ai problemi possono camminare sulle gambe
degli uomini e delle donne. Anzi, è giusto che vengano
affidati agli uomini e alle donne affinché ne parlino, li
spieghino, li confrontino con altre idee di altri uomini e
donne, eventualmente, li integrino, li aggiornino, li
correggano, li cambino. Tutto questo è politica nel senso
migliore della parola. Naturalmente, in una società dalle
molteplici attività, interessi e preferenze, vale a dire,
persino in una città di dimensioni relativamente piccole
come Bologna, la comunicazione politica non può essere
fatta circolare esclusivamente sulle gambe degli uomini
e delle donne. Ha bisogno dei mezzi di comunicazione di
massa, ovvero delle radio, dei giornali, delle televisioni:
tramiti e traditori. Non si spiegherebbe altrimenti la
costante battaglia per l’accesso alla citazione sui
giornali, alla battuta sulle radio, alle comparsate in TV.
Di qui, a livello nazionale, la legge sulla par condicio che
garantisca pari opportunità a tutti i concorrenti. Però, a
livello locale, ognuno fa quel che può, ovvero, molto
spesso, fa quel che può permettersi di pagare. E i
giornalisti, a loro volta, fanno quello che vogliono. Da
quello che fanno e da come lo fanno si misurano non
soltanto la loro imparzialità, ma anche le loro
competenze e la loro professionalità, nonché, ancora di
più, la loro collocazione politica, eventualmente, il loro
“partito preso”.
Naturalmente, i “Cittadini per Bologna” non
disponevano di nessun ufficio stampa con personale
specializzato e portavoce professionisti. Non soltanto
non potevamo permetterceli, ma pensavamo, in
maniera relativamente ingenua, che, da un lato, quel
po’ di notorietà di cui godevo in città fosse sufficiente,
dall’altro che, creando gli eventi e partecipandovi,
saremmo riusciti a comunicare in maniera adeguata i
contenuti della nostra campagna elettorale e delle
nostre proposte programmatiche. Non è andata
esattamente in questo modo. Ce ne siamo accorti
presto, ma cambiare la logica dei mass media, in
special modo quando hanno già scelto una strada, è
molto difficile anche per persone e “politici” molto più
potenti di noi (ci voleva pochissimo a esserlo). Ciò
detto, appare opportuno fare molte distinzioni
concernenti sia il mezzo di comunicazione sia gli
operatori quel mezzo.
Comincerò dalla televisione poiché, naturalmente,
non abbiamo potuto frequentarla quasi mai.
Semplicemente, non avevamo i soldi per comprare il
loro tempo e spazio. Quindi, credo di avere
sostanzialmente fatto un’unica apparizione unitamente
a una fila di aspiranti sindaco più fitta del solito a un
programma specificamente elettorale trasmesso di
mattina pochi giorni prima del primo turno di votazioni
dal TG3 dell’Emilia-Romagna, più, forse, trenta secondi
di “appello al voto”. Sono anche grato a Telecentro e
alla giornalista Antonella Zangaro che mi ha intervistato
almeno un paio di volte con domande intelligenti e utili
affinché gli elettori si formassero un’opinione sul
candidato sindaco e sulle nostre proposte per la città.
Ovviamente e, dal loro punto di vista, giustamente,
viste le mie opinioni in materia di laicità, di bioetica e di
ricerca scientifica, la rete della Curia “è-TV” non mi
degnò di nessunissima attenzione. Come si dice, Amen.
Credo, ma non ho tenuto un’agenda con date e
argomenti, di avere fatto sporadiche apparizioni su Sky
e anche a Omnibus de La7, prima che iniziasse la
campagna elettorale, con miniriferimenti alla possibilità
della mia candidatura e niente più. Dopodiché,
correttamente, iniziò per me un lungo periodo di black-
out. Prima però, all’inizio del febbraio 2009, quando non
soltanto non era ancora cominciato il periodo elettorale,
ma non vi era nessuna certezza che sarei/saremmo
riusciti a raccogliere le firme per la mia candidatura,
venni invitato al programma notturno di Gigi Marzullo,
“Sottovoce”, Rai Uno. Quando il conduttore seppe che il
mio sito mi identificava come possibile candidato a
sindaco di Bologna, nonostante non infrangessimo in
nessun modo la, peraltro non ancora operante, “par
condicio”, apparve letteralmente terrorizzato.
L’intervista, debitamente registrata e, mi dicono,
trasmessa quasi subito, forse la sera stessa o quella
successiva (purtroppo, non l’ho ancora vista e neppure
so se è accessibile), mi provocò nel suo svolgersi
grande ilarità. Il conduttore, che scomparve
velocissimamente dopo la mia ultima riposta, non la
pensava allo stesso modo. Non mi sono rivisto, ma di
tanto in tanto intrattengo l’idea di chiedere il link a
qualcuno. Penso che prima o poi lo farò. L’insegnamento
consiste, però, nella nevrosi che coglie alcuni conduttori
televisivi, mentre altri perforano la par condicio a loro
piacimento.
Il discorso è molto diverso nel caso delle radio. Sono
stato un paio di volte a Punto Radio, intervistato dal
l’ex-assessore Verde, Amorosi, a rispondere anche a
domande del pubblico. Sono stato, se ricordo
correttamente, due volte a Radio Tau, dove l’ottimo
conduttore Paolo Bonazzi, ha fatto opera di utile
informazione intervistando tutti i candidati che
accettarono il suo invito. Curiosamente, non
intervennero Cazzola, Delbono e Guazzaloca. Sono
anche stato ospite una sola volta di Radiocittà Fujiko. Al
proposito è necessario un approfondimento. L’intervista
fu gradevole, con domande intelligenti, di interesse,
suppongo, per gli ascoltatori. Qualche tempo dopo,
all’incirca verso la metà del mese di maggio 2009,
Radio Città Fujiko fece lo scoop. A loro dire, un
ascoltatore scoprì che avevo vinto una borsa di ricerca
per la Columbia University, per essere precisi per
trascorrere quattro mesi (15 gennaio-15 maggio 2010)
all’Italian Academy for Advanced Studies in America. Mi
chiesero conferma che io diedi loro senza nessuna
preoccupazione. Molto “professionalmente”, non vollero
svelare la loro fonte, la gola profonda di New York, ma
si mostrarono alquanto allarmati e scandalizzati. Ma
come, me ne andavo negli Stati Uniti quattro mesi nella
primavera successiva alle elezioni? E, immagino, fosse
questa l’implicazione scandalosa, il mio lavoro di
sindaco? Non c’era proprio nulla di cui scandalizzarsi.
Primo, perché era del tutto ovvio che,
nell’assolutamente ipotetico caso in cui fossi diventato
sindaco, avrei immediatamente rinunciato alla borsa di
New York. Secondo, avrebbero semmai dovuto
complimentarsi con me ed essere molto orgogliosi, in
quanto cittadini di Bologna, che un loro concittadino
ottenesse una prestigiosa borsa di ricerca presso una
delle più importanti Università della Ivy League. Temo
che siano loro sfuggiti entrambi questi elementi. Non li
ho sentiti più. Non ho bisogno di aggiungere che ho
passato quattro splendidi mesi all’Italian Academy di
New York, seguendo il dipanarsi della telenovela
Cracchi-Delbono et al., e mi viene soltanto da sorridere
quando ascolto e leggo i “cosmopoliti” di Bologna che
fanno paragoni, ahiloro, impervi e azzardatissimi, con la
grande città americana, forse impareggiabile,
sicuramente imparagonabile con Bologna.
La storia più intricata e ricca di implicazioni, che chi
vuole potrebbe ancora dipanare, è quella che coinvolge
Radio Città del Capo e il suo direttore, l’Agenzia DIRE e
«la Repubblica». Da molti punti di vista è esemplare
della possibilità di manipolazione delle notizie che può
derivare, ma lo dovremmo sapere tutti, da citazioni
virgolettate che eliminano la frase precedente e quella
successiva che, persino, tolgono qualche parola
strategica nella frase citata e, naturalmente, dal risalto
che si dà a quale frase nonché dalla interpretazione che
viene suggerita. Contro tutto questo, purtroppo, non
esiste difesa possibile, soprattutto quando la potenza di
fuoco dell’avversario politico (e della loro sinergia:
Radio Città del Capo, DIRE e «la Repubblica» facevano,
senza nessun pudore, politica) deriva dalla proprietà del
mezzo e dalla prerogativa di avere comunque l’ultima
parola. Vado per ordine.
Debbo, però, fare una premessa perché, fin dal primo
momento della mia dichiarazione che avrei presentato
una lista civica e sarei stato candidato a sindaco, «la
Repubblica» si lanciò in una furibonda campagna di
sottovalutazione della mia candidatura e di sottile
denigrazione, anche personale. Per quanto abituato agli
aggettivi esagerati e ai verbi “montati” che popolano e
arricchiscono le pagine nazionali di quel quotidiano,
devo dire che, ingenuamente, mi aspettavo un
trattamento diverso, non preferenziale, ma equo, fair.
Tutto sommato, dopo più di vent’anni di collaborazione
alle pagine locali del quotidiano, senza mai una critica
da parte loro, che, anzi, talvolta mi utilizzavano come
fonte attendibile, senza citarmi, segno, credo, di
condivisione, pensavo ingenuamente di essere
abbastanza conosciuto e di avere logicamente e
politicamente diritto ad essere trattato come un
candidato serio, ancorché, comprensibilmente, non
meritevole della stessa quantità di spazio da concedere
ai tre candidati maggiori: Cazzola, Delbono,
Guazzaloca.
Tuttavia, mi limito a un esempio. Era proprio
necessario e convogliava qualche informazione utile
che, con grande raffinatezza, Valerio Varesi mi
attribuisse della “incontinenza scrittoria” dovendo
menzionare un mio capitoletto sul degrado della politica
cittadina scritto per un libro curato da Daniele Corticelli
e mettendolo insieme alla prefazione da me scritta per il
libro di Alberto Mazzuca, Guazzaloca. Una vita in salita?
Non si dovrebbe escludere a priori che persino qualche
lettore di «la Repubblica» fosse interessato a sapere,
più del giudizio sommario di Varesi, il contenuto di quei
testi, sempre supponendo, in maniera ardita che
l’autore dell’articolo li avesse letti.
Ero già rimasto alquanto sgradevolmente sorpreso
quando il direttore in persona si profuse in un
entusiastico editoriale a sostegno della Lista Bologna
2014, secondo lui, la sola “grande novità” della
campagna elettorale in corso. Avrebbe, da un lato,
potuto rilevare che si trattava chiaramente di una “lista
civetta” sponsorizzata dal PD, deliberatamente
orientata, imbottita com’era di docenti universitari, a
strappare voti ai “Cittadini per Bologna” e al candidato
sindaco di quella lista, lui stesso professore
universitario. Da più di un decennio impegnata a livello
nazionale in una necessaria critica del conflitto di
interessi, «la Repubblica» di Bologna avrebbe forse
anche potuto fare a meno di immortalare, foto dopo
foto, il leader di quella lista molto impropriamente
accanto al logo della Fondazione Alma Mater, quasi che
fosse espressione ufficiale dell’Università di Bologna.
Infine, a elezione consumata, Balzanelli avrebbe potuto
commentare anche sullo straordinario flop di Bologna
2014 (novecento inutilissimi voti in tutto) nonostante lo
spazio che il suo giornale le aveva generosamente
concesso. Il resto si chiarì quando, meno di un mese
dopo, il neo-eletto sindaco Delbono nominò Max
Bergami capo di un Comitato di Saggi che avrebbero
dovuto fare proposte per il governo della città: impegno
premiato, “sacrificio” ricompensato. Ma le scelte
strategiche non doveva farle l’amministrazione che
aveva avuto il consenso dei cittadini? Per quale ragione
era preferibile affidarle ad un gruppettino di professori e
di operatori economici? Fortunatamente, le dimissioni
del sindaco hanno travolto anche questa innovazione di
cui non si sentiva, e non si dovrebbe sentire, nessun
bisogno.
Quanto al trattamento riservatomi in campagna
elettorale, la mia prima lamentela è in una e- mail
inviata al direttore, ma da lui non pubblicata,
concernente un paio di articoli di un loro ineffabile
collaboratore saltuario, che si era ritagliato lo spazio del
dialogo con il Cardinale e la Curia, in maniere
sottilmente papista. La riporto per esteso.

Friday, May 08, 2009 1:58 PM


Subject: Caro Direttore, i tuoi editorialisti, in particolare

quel Gianni De Plato, che i lettori dovrebbero conoscere


anche come compagno di una prominente dirigente del
PD, nonché ex-capogruppo della Margherita in Provincia,
hanno un problema. Ancora adesso non sanno, non hanno
capito, non vogliono rassegnarsi al fatto che sono
candidato anch’io, con tanto di firme, di programma, di
lista di candidature, di sito, e, se ne facciano una ragione,
persino di elettori probabili. Glielo spieghi tu come stanno
le cose? Grazie grazie.
Gianfranco Pasquino
Per completezza di informazione, aggiungo che
editorialisti e giornalisti di «la Repubblica» continuarono
a “dimenticarsi” quasi del tutto della mia presenza in
campagna elettorale, in particolare, nelle ultime quattro
cruciali settimane. E avevano il coraggio di stupirsi
quando incontrandoli causalmente lo facevo loro notare.
Ma l’incidente più grosso e più grossolano arrivò
qualche giorno dopo quando il quotidiano pubblicò in
bella evidenza un articolo nel quale riportava
“virgolettata”, vale a dire come se fosse una mia
affermazione parola per parola, una richiesta che non
avevo fatto e che, per la conoscenza ventennale che
aveva di me, il direttore avrebbe dovuto ritenere
incredibile. Comunque, come minimo, avrebbe dovuto
verificarla con me prima della pubblicazione: regola di
elementare correttezza, in speciale modo, ma
nient’affatto soltanto, nei rapporti fra persone che si
conoscono. Segue il titolo. Prego notare i due verbi:
“detta” e “gela” che condensano il messaggio che «la
Repubblica» ha deciso di convogliare al lettore.
Naturalmente, ad ogni mia affermazione, vera o
inventata, «la Repubblica» si premurava di fare sempre
accompagnare una replica del PD, attività nella quale si
cimentavano un po’ tutti, in special modo, Merighi,
Caronna e Luca Rizzo Nervo, che neanche sapevo chi
era.

Il caso

Il politologo detta le condizioni. Merighi lo gela: “È


rimasto legato alla vecchia politica”
Pasquino: “Intesa sul ballottaggio? Il PD ci offra degli
incarichi”.

Seguì questo scambio emblematico:

Wednesday, May 13, 2009 3:20 PM


Subject: lettera al direttore con richiesta di pubblicazione

Caro Direttore,
non soltanto il suo quotidiano non controlla le notizie, ma
le manipola. Il sottotitolo di un’intervista di cui nessun vostro
giornalista si assume la responsabilità firmandola: “Il PD ci
offra degli incarichi” riporta una assoluta falsità. A totale
smentita di quanto avete scritto, come ho detto al vostro
giornalista Gulotta, che si è ben guardato dal riferirlo, è
disponibile a tutti la registrazione della trasmissione
radiofonica, Radio Città del Capo, martedì, 8.45-9.30.
Gianfranco Pasquino
Balzanelli mi rispose che, invece, era tutto vero e che
lui aveva ascoltato la registrazione dell’intervista
radiofonica. Ecco il seguito, a cominciare dalla mia
lettera successiva a una breve telefonata:

Sent: Wednesday, May 13, 2009 6:35 PM


Subject: i virgolettati non dicono affatto che sono disposto
ad accettare cariche

al contrario. Infatti, come riportato qui sotto: “gli


assessorati non sono per me, io non sono in dirittura d’arrivo
per gli assessorati”. Più sotto “penso che non sia
assolutamente fuori luogo offrire delle cariche a persone.
Questo non significa affatto che sono disponibile ad
accettarle”. Più chiaro e netto di così non si può. Nei non
virgolettati vedo soltanto forzature. Aldo, mi spiace, ma c’è
molta interpretazione, a mio modo di vedere, e tu non puoi
non saperlo, assolutamente forzata. Metti la mia lettera e, se
vuoi, il tuo commento.
Gianfranco

From: Aldo Balzanelli


To: GP
Sent: Wednesday, May 13, 2009 6:19 PM
Subject: da aldo

ho sentito la registrazione, i virgolettati dell’agenzia sono


testuali e non decontestualizzati. aggiungo che a domanda
“se vi offrono degli assessorati siete sensibili?” tu rispondi
che “al di là del sensibile contano le politiche , poi ci sono gli
assessorati. non per me, io non sono in dirittura d’arrivo per
gli assessorati”.

Ed ecco i testi, con le loro piccole, cruciali,


manipolazioni, delle agenzie.

Er) bologna. Pasquino: ballottaggio? mi chiamino per


un ruolo interesse per sport-scuola, ma anche fuori
dall’amministrazione.
(Dire) bologna, 12 mag. - Dopo aver a lungo lanciato
frecciate a flavio delbono, ora il “pericoloso” gianfranco
pasquino detta le condizioni per convergere. Non solo il
politologo non esclude affatto un’intesa per il
ballottaggio, ma durante un’intervista radiofonica su città
del capo apre anche il capitolo di eventuali incarichi per
sé o i suoi se il centrosinistra vincerà elezioni del 6 e 7
giugno. Incarichi non necessariamente
nell’amministrazione, ma eventualmente anche in
aziende partecipate dal comune. “Anzitutto – dice
pasquino – penso che non sia assolutamente fuori luogo
offrire delle cariche a persone. Questo non significa
affatto che sono disponibile ad accettarle”. Però, è il
ragionamento del candidato dei cittadini per bologna, “se
un determinato candidato si è comportato in maniera
adeguata in campagna elettorale, ha delle competenze,
ha dei progetti, delle idee, può benissimo accettare una
carica. All’interno della quale, nell’ambito ovviamente
della coalizione vincente, suggerisce, propone e forse
attua determinate politiche. Credo anche che non sia
sbagliato pensare a cariche non necessariamente
nell’amministrazione. Ci sono molti luoghi dove ci sono
delle possibilità di fare delle cose rilevanti. Quindi si può
anche prendere in considerazione quello”. (Segue)
(Bil/ dire) 18:17 12-05-09

Da ultimo, brilla, per la sua fantasiosa ricostruzione,


in questi casi bastano poche parole fuori posto e pochi
aggettivi apposta, per ottenere l’esito voluto, l’Agenzia
Dire. Ho evidenziato mettendola in corsivo la frase che
non ho mai pronunciato e che DIRE piazza lì, per
fortuna, non virgolettandola.

(Dire) bologna, 12 mag. - Insomma, per quello che


riguarda pasquino, la trattativa può aprirsi. “Ci sono
alcuni punti programmatici sui quali noi pensiamo che, se
attuati o facili da attuare, allora è possibile che il nostro
appoggio possa andare al candidato del centrosinistra”.
Ad esempio, dice, “azzerare tutte le consulenze, evitare
qualsiasi cumulo delle cariche che invece continuano ad
essere allegramente accumulate dagli esponenti del
centrosinistra, evitare qualsiasi conflitto d’interesse”. E
poi testamento biologico e registro delle unioni civili.
Pronto anche ad accettare assessorati, ma “all’interno di
un quadro in cui sia assolutamente chiaro chi è il
responsabile di alcune tematiche”, precisa pasquino. Per
esempio, “abbiamo alcune proposte specifiche su
argomenti importanti. Per esempio, il modo in cui si
tratta con le associazioni sportive locali. Si può discutere
anche su tematiche che riguardano la scuola, che per noi
è una priorità”. Però, precisa il politologo, “non sono in
nessuna dirittura d’arrivo per gli assessorati”.

Concludo questa interessante ricognizione, che ha


dovuto essere estesa per la delicatezza degli argomenti
trattati, con la mia dichiarazione di voto, espressa a
Telecentro. Dissi chiaramente che non avrei votato per
nessun candidato che non desse garanzie di laicità e di
europeismo. Di conseguenza, non ho poi votato per
Delbono. Ma, per il PD, i conti non erano ancora
regolati. Non potendo prendersela con me, non iscritto
al partito e quindi fuori del raggio della sua micidiale
influenza, tre giorni prima di Ferragosto, non si sa bene
chi, non si capisce bene in base a quale norma di quale
regolamento, vennero “cancellati dall’albo degli
elettori”, per un anno, (ma nessuno di loro ha poi
rinnovato la tessera), alcuni di coloro che, come
Riccardo Lenzi e Luca Grosso, avevano fatto campagna
elettorale con me ed erano poi entrati nella lista
“Cittadini per Bologna”. Naturalmente, dato lo stato di
mala organizzazione del partito, altri, ugualmente
“collaborazionisti” e ugualmente candidati, sono sfuggiti
alla pesantissima punizione che avrebbe impedito loro
di fare politica, subalterna, nel PD. Non solo con il
senno di poi, non c’erano problemi ben più importanti?
Regolati i conti con i “Cittadini per Bologna”, con la
vendetta di Ferragosto, qualcuno cominciò anche a fare
i conti in tasca al neo-sindaco del PD.
Nel frattempo, erano giunte al termine, per
esaurimento – che cosa avrei mai potuto scrivere su
quel giornale e con che spirito? – le mie collaborazioni
con «la Repubblica». Nel corso della campagna
elettorale, nelle due o tre occasioni nelle quali il
direttore in persona mi telefonò, gli chiesi se, a
conclusione dell’avventura elettorale, mi avrebbe voluto
ancora come commentatore. La risposta fu
regolarmente e, per me, sorprendentemente,
affermativa. Ma il modo con il quale «la Repubblica »
aveva maltrattato la nostra campagna elettorale e la
mia candidatura aveva lasciato una ferita più che
psicologica non rimarginabile. Naturalmente, non mi
feci vivo per tutto il mese di giugno. Lasciai passare il
ballottaggio e un paio di settimane di raffreddamento.
All’inizio di agosto non mi era arrivata nessuna
telefonata. Non mi era pervenuto nessun cenno. Non
avevo visto nessun segnale di fumo.
Per circa vent’anni avevo scritto un articolo sulla
strage della stazione di Bologna dell’agosto 1980:
responsabilità, reazioni della città, sentenza, segreto di
Stato, e così via. Anche questo dice qualcosa del mio
rapporto con la città. Era un tema non politico, ma
civile, sul quale Balzanelli avrebbe potuto molto
facilmente riannodare i rapporti. Nessuna telefonata.
Quella mattina del 2 agosto andai, come avevo fatto
quasi sempre, alla commemorazione davanti alla
Stazione. Il «Corriere di Bologna» portava in bella
evidenza, al centro della prima pagina, un mio
intervento. Tornato a casa, ecco il resto:
Ore 11.47. Oggetto: da Aldo vedo che sei passato al
corrierino, almeno una telefonata potevi farmela
Risposta Ore 11.54. Oggetto: non sono passato al
corrierino.

Ho chiesto ospitalità e me l’hanno data. Credo che la


telefonata dovevi/dovresti farmela tu.
Gianfranco Pasquino

Non credano i giornalisti di «Repubblica E-R», né,


tantomeno, l’ex-direttore, che io intenda attribuire a
loro una spropositata e ingiustificata influenza sui miei
destini elettorali. Sarebbe un omaggio certamente
immeritato. Li considero responsabili di qualcosa di
molto peggio: un insieme di arroganza senza
professionalità e di manipolazione/distorsione delle
notizie, degli eventi, delle dichiarazioni. Non hanno
informato i loro elettori. Hanno sistematicamente
deformato le informazioni. Ma, forse, non sono soltanto
io a pensarla così dal momento che il direttore
Balzanelli è stato sollevato dal suo incarico e mandato a
Roma proprio come, ovviamente soltanto una fortunata
coincidenza, il segretario bolognese del PD Andrea De
Maria. Auguri di buone passeggiate romane.
Ciò detto e fissato, sono rimasto nel complesso
piuttosto soddisfatto di come i quotidiani cittadini hanno
riportato la nostra campagna elettorale e dello spazio
che mi hanno concesso, quasi tutti loro senza nessun
pregiudizio e con correttezza e equilibrio, non
generosissimi di spazio, ma senza mai mancare la
notizia. Persino, «l’Unità», molto parca, ha evitato
critiche fuori luogo. Nello scarsissimo spazio datomi non
si è impegnata in falsità. Parlerei di benevole
indifferenza. «Il Resto del Carlino», grazie a Rita
Bartolomei che ha costantemente verificato la veridicità
di quello che andava scrivendo e al suo direttore, Pier
Luigi Visci, che mi ha fatto una pregevole intervista, e
«Il Corriere di Bologna», sotto la direzione di Armando
Nanni, hanno svolto il loro compito di quotidiani di
informazione al servizio dei loro lettori. Lo stesso ha
fatto «L’Informazione di Bologna», a dimostrazione che
esistono giornalisti capaci, seri e non faziosi. È proprio a
fronte di questo schieramento di professionalità che i
comportamenti de «la Repubblica» risaltano in maniera
ancora più deplorevole. Purtroppo, coloro che leggevano
soltanto «la Repubblica», si sono fatti un’idea distorta e
sostanzialmente sbagliata sia di quel che ho detto e
fatto sia degli obiettivi che mi proponevo. A questo non
ho modo di porre rimedio se non con le righe che ho
scritto qui e con la mia credibilità personale.
Indice
Capitolo ottavo
Vaste programme

L’espressione “vaste programme”, usata con tono


elegantemente sarcastico dal Generale de Gaulle,
serviva a liquidare i progetti pretenziosi e utopistici da
qualunque parte venissero. Era un richiamo alla realtà
delle cose e alla loro realizzabilità che, curiosamente,
veniva da un uomo che non soltanto aveva voluto, ma
aveva saputo cambiare, più volte e profondamente, la
realtà. Non intrattengo in nessun modo, con buona pace
di coloro che mi hanno accusato di presidenzialismo,
come se fosse chi sa quale gravissima malattia, l’idea di
svolgere un ruolo simile a quello di De Gaulle. Sarebbe,
più che assurdo, ridicolo. Ma, certamente, ho pensato
che era giunto il momento di tentare di cambiare
almeno un pochino la realtà bolognese e che ero
fiducioso che ci saremmo, in piccola, ma significativa
parte, anche riusciti. Infatti, fra le varie illusioni che ho
coltivato prima, durante e, persino, incrollabilmente,
dopo la campagna elettorale, c’era quella di riuscire a
svolgere un’operazione pedagogica. La pedagogia fa
parte del bagaglio professionale dei buoni professori.
Oppure è una deviazione professionale? Ma anche i
partiti e gli uomini politici possono, e talvolta
debbono/dovrebbero, cercare di educare i loro
sostenitori e i loro elettori. E, i migliori fra i politici, che
diventano statisti, ci riescono. Bisogna sapere calibrare
gli insegnamenti, a seconda dei pubblici e degli uditori.
Bisogna anche, in quanto uomini e donne impegnate in
politica, sapere, con pochissime variazioni, essere
efficacemente ripetitivi, battere sullo stesso tasto. La
ripetitività, che sarebbe un vizio (e una noia) da parte
dei professori ai quali spetta, invece, tentare di essere
originali e creativi, è indispensabile in politica affinché il
messaggio raggiunga più persone possibile, più volte, e
le convinca.
Quei sei lunghi mesi di campagna elettorale per
l’elezione del sindaco di Bologna rischiavano, fin
dall’inizio, di essere colmati da mediocri gossip (mancò,
infatti, ancorché serpeggiante, il più rilevante) e da
cosiddetti scoop piuttosto che da confronti anche aspri
fra le possibili soluzioni da dare ai problemi della città e
fra le diverse interpretazioni del ruolo che deve svolgere
un sindaco. Nel mio girovagare negli ambienti nei quali
mi invitavano, ho notato immediatamente che la
richiesta più pressante non riguardava quasi mai la
predisposizione di un programma particolarmente
dettagliato, ma piuttosto le modalità con le quali
vengono individuate sia le priorità che le soluzioni e, in
non limitata misura, la credibilità, autorevolezza e
competenza di chi avrebbe dovuto tradurre il
programma in decisioni politiche, in atti concretamente
operativi. Esisteva un desiderio abbastanza diffuso: la
richiesta di un sindaco dotato di stile, autorevolezza,
rappresentatività, certamente, tutte qualità da
sottoporre a verifica.
Gli interrogativi di fondo non riguardavano soltanto
che cosa fare (le liste della spesa sono, con un minimo
di esperienza, relativamente facili da stilare), ma come
e quando farlo. Molti, un po’ meno a sinistra, dove
regge ancora il mito del Programma esaustivo, sul quale
si affannano tecnici e intellettuali, vorrebbero sentire e
leggere poche chiare parole su quanto deve e può
essere fatto rapidamente e con quali costi e vantaggi.
Molti altri, questa volta con chiara prevalenza degli
elettori già orientati a sinistra, vorrebbero, non soltanto
essere consultati, ma essere chiamati a partecipare
all’individuazione delle priorità e alla elaborazione delle
soluzioni. Esiste la consapevolezza che soluzioni non
improvvisate e non calate dall’alto, ma effettivamente
partecipate, risulterebbero anche più facili da attuare e,
eventualmente, preso atto della loro inadeguatezza,
anche più facilmente rivisitabili e migliorabili. Anche alla
luce della non positiva esperienza dell’amministrazione
Cofferati, tutta impregnata dalla granitica
autoreferenzialità del sindaco, il primo insegnamento
consisteva, quindi, nella necessità di ricercare modalità
di coinvolgimento attivo, fattivo, decisivo di una
cittadinanza che si pensa dotata di molte competenze
diffuse.
Nessun sindaco può essere competente su tutte le
tematiche del governo locale. Se lo fosse, potrebbe
permettersi il lusso di fare a meno, con grande
risparmio di tempo e di denaro pubblico, di nominare
assessori e di assumere costosi consulenti. Al contrario,
una delle qualità più importanti di un sindaco consiste
proprio nel sapersi circondare di assessori competenti e
intelligenti, nient’affatto ossequiosi, con prestigio nelle
rispettive comunità professionali, che sappiano
consigliarlo, ma anche contraddirlo, in maniera
documentata e convincente. Bravo allora sarà non il
sindaco che manifesta piglio decisionista e autoritario,
salvo poi tornare sulle sue decisioni senza neppure
riconoscere gli errori, dai quali potrebbe imparare
molto, ma quel sindaco che, dopo essersi consultato
con i suoi assessori e collaboratori, decide la strada da
seguire, coordina l’attività di coloro che lavorano ai
progetti, sa assumersi le responsabilità. Ecco la ragione
principale per la quale deve essere il sindaco, in piena
autonomia, a scegliere gli assessori e, eventualmente, a
sostituirli, magari spiegando quali obiettivi, diversi o
nuovi, intende perseguire con quelle sostituzioni.
Questa era la prima “lezione” o, se si preferisce,
insegnamento che, in vari modi, ho cercato di fare
circolare sia come critica al passato sia come apertura e
impegno sul futuro.
Il compito più nobile, più complesso e più gratificante
di un sindaco, dovunque, non soltanto a Bologna, non
soltanto in Italia, consiste nel rappresentare sia la
cittadinanza, anche coloro che non lo hanno votato e
continuerebbero a non votarlo, sia un’idea di città,
formulata nel corso della campagna elettorale e, quindi,
sottoposta all’elettorato, basata certamente sulla
tradizione di quella città, ma proiettata in un futuro
plausibile, che può essere costruito anche seguendo
linee innovative. Non è affatto detto che esista un’unica,
non controversa, idea di città, ma proprio per questo mi
pareva (continuo, peraltro, a pensarla allo stesso modo)
che i candidati avessero il dovere politico e, se posso
esagerare, etico, tralasciando le minuzie
programmatiche che rischiano di frammentare la
cittadinanza in gruppuscoli che poi chiederanno il conto,
di cercare di delineare la visione della città che
desiderano. Gli aspiranti sindaco debbono anche
garantire che, con il loro eventuale prestigio,
autorevolezza, credibilità, sapranno tenere fede alla
promessa, vale a dire, rappresentare nelle scelte
amministrative e nel profilo politico la visione che hanno
enunciato, elaborato, proposto e che, in parte, deve
essere già nota all’elettorato e coerente con la loro
rispettiva storia professionale e politica. Di tutto questo,
invischiati i vari candidati in polemiche piccine, per
quanto non irrilevanti, poiché rivelatrici di conoscenze e
di stili nient’affatto entusiasmanti, si è purtroppo, visto
poco.
Il mio tentativo era indirizzato, da un lato, a portare il
dibattito politico ad un più elevato livello; dall’altro, a
mettere in evidenza l’importanza dello stile
amministrativo e della visione politica, di governo e di
rappresentanza, che i candidati dovevano offrire e che i
mezzi di comunicazione e le varie associazioni dovevano
esigere, esplorare e, eventualmente, criticare. Non
abbiamo mai pensato che, neppure il migliore dei
candidati a sindaco, ma anche a qualsiasi altra carica
elettiva monocratica importante, potesse avere un
programma preconfezionato e perfetto, da offrire in
maniera inattaccabile e non perfezionabile, chiavi in
mano e subito applicabile all’elettorato bolognese.
Continuo a essere convinto che non sia possibile
scrivere, o fare scrivere da fabbriche e fabbrichette,
nessun programma in grado di cambiare Bologna
dall’alto e da cima a fondo, come, probabilmente,
sarebbe necessario, avendo la città abbondantemente
esaurito la sua spinta propulsiva. Qui, è nuovamente
appropriato il riferimento ironico di De Gaulle al vaste
programme, spesso tanto vasto quanto vago. Feticcio di
cartapesta, abbiamo spesso pensato e qualche volta
anche detto, noi, alquanto infastiditi da tutte le richieste
che mettevano al primo posto “il programma, il
programma”, come se gli elettori leggessero e votassero
i programmi senza tenere conto né delle loro esistenti
preferenze politiche, spesso nient’affatto oscillanti e
vacillanti, né di chi lo presentasse, quel programma.
Come se alcuni elettori non fossero per nulla interessati
a sapere come era stato formulato quel programma e
non guardassero anche alla credibilità di chi lo
proponeva e se avrebbe poi saputo attuarlo, con quale
grado di competenza, con quali spazio di autonomia,
anche dal suo partito, di certo dai vari gruppi di
interesse (i “poteri forti”, Curia compresa) e con quali
modalità.
Non erano soltanto domande che ci facevamo. Erano
anche prospettive o, se si preferisce, insegnamenti che
volevamo portare alla cittadinanza. Certamente, i
“Cittadini per Bologna”, proprio perché vivevano nella
loro città da anni e ci lavoravano, possedevano delle
idee sia su quello, molto, che non funziona, sia quello,
moltissimo, che è non soltanto doveroso, ma possibile e
indispensabile fare. Peraltro, tutti noi eravamo
consapevoli dei nostri limiti di conoscenze, anche
tecniche, ma, soprattutto eravamo, e continuiamo ad
essere, convinti che preparare un programma non è
un’operazione tecnica (altrimenti, perché non mettere
coerentemente in pratica lo slogan “tutto il potere ai
tecnocrati”?, tentazione ricorrente, ma di minima
importanza nella situazione bolognese), quanto, di gran
lunga, un’operazione altamente politica e, persino,
corposamente democratica. Insomma, nessuno staff di
esperti può elaborare un programma esauriente e
efficace che sia più di un libro dei sogni e che sia
qualcosa di diverso da un, pure interessante e utile,
catalogo di bisogni.
Fin dall’inizio, ovvero dalle prime dichiarazioni
pubbliche su che tipo di città avremmo voluto,
sottolineammo che, anzitutto, eravamo totalmente
disponibili ad ascoltare quanto i cittadini bolognesi
avrebbero voluto sottoporci; e, in secondo luogo, che
avremmo, naturalmente parlato molto volentieri con
tutte le associazioni di categoria e con tutte le
associazioni di cittadini. Fermo restando che la sintesi
sarebbe ovviamente spettata a noi. Tuttavia, doveva
essere chiaro che anche il migliore dei programmi si
incontra e si scontra con una realtà che cambia. Anzi,
proprio se è un buon programma, alcuni dei suoi punti
intervengono sulla realtà e la cambiano. Dunque,
l’interlocuzione costante, frequente e regolata con la
cittadinanza in tutte le forme che riuscissimo a
immaginare era una componente importante e integrale
della nostra visione. Aggiungemmo, pertanto, che una
nostra priorità sarebbe consistita nella riforma dello
Statuto e del Regolamento comunale per costruire
canali specifici di partecipazione continuativa e
facilmente attivabile e, con riferimento al
funzionamento del Consiglio comunale, affinché, in
forme e modi da inventare, le associazioni fossero
effettivamente in grado di interloquire con gli eletti,
rappresentanti e governanti. Nient’affatto da ultimo,
giungemmo a suggerire che sarebbe stato opportuno
ricorrere al “bilancio partecipato”, vale a dire consentire
ai cittadini bolognesi e alle loro associazioni di formulare
proposte per utilizzare al meglio una quota, all’incirca
del 15-20 per cento, del bilancio, per opere e attività da
loro indicate e motivate. Era questo un terreno sul
quale, da un lato, l’Assessore al Bilancio della Regione
Emilia-Romagna avrebbe dovuto sentirsi a suo agio;
dall’altro, l’imprenditore Cazzola avrebbe potuto dire
molto.
Evidentemente, mancò a noi la forza per imporre
entrambe le tematiche sull’agenda politico-elettorale.
Riflettendo, oggi, però, sono giunto a una conclusione
leggermente, ma significativamente, diversa.
Inevitabilmente, l’imprenditore Cazzola, abituato a
prendere decisioni e ad assumersene la responsabilità,
ragionava in un’altra ottica, certo, non partecipativa,
ma non necessariamente non-democratica. Ottenuto il
mandato avrebbe governato secondo il programma che
aveva sottoposto agli elettori i quali, dopo cinque anni,
avrebbero avuto l’opportunità di premiarlo, con la
rielezione, oppure di punirlo, sconfiggendolo. Quanto al
candidato del PD, personalmente, non elaborava nulla,
mentre il Partito che lo candidava, pur fregiandosi
dell’aggettivo “democratico”, aveva nella componente
maggioritaria della sua fatiscente cultura politica, la
prevalenza di una concezione di “democrazia guidata”,
compresa la convinzione che il partito, concreto e
effettivo rappresentante del suo elettorato, deve
“guidare” il sindaco, anche imponendogli priorità e
modalità di attuazione.
Quanto ai punti programmatici, decidemmo di
esordire affrontando i due temi più caldi del dibattito
allora in corso: la sicurezza, la partecipazione e
l’urbanistica, per meglio intenderci, l’organizzazione
della città e la mobilità. Nel diffuso disinteresse degli
organi di stampa cittadini, la prima riunione venne
aperta dal professore di Sociologia Marzio Barbagli, la
seconda sulla democrazia deliberativa, introdotta dal
professor Rudolf Lewanski e la terza, coordinata
dall’arch. Carmela Riccardi, che ci avrebbe poi
abbandonati, dall’ing. Ivan Cicconi e dall’arch. Pierluigi
Cervellati. Nel frattempo, il tema della sicurezza in città
sembra passato quasi del tutto in secondo piano,
mentre quello della mobilità e del traffico, con la
costruzione del Civis, ha oramai preso una certa
direzione. Ma le esigenze che ponemmo allora mi
sembrano ancora valide e inevase. Anche se il paragone
con il passato tiene soltanto in una certa misura, una
città è più sicura, come lo fu Bologna fino all’incirca ad
una ventina di anni fa, quando, per dirla molto
schematicamente tutti i suoi cittadini se ne curano (qui
sta il vero significato dell’espressione “amare Bologna”)
e operano per mantenerla coesa, pulita e vivibile. Oltre,
naturalmente, al ricorso alla legge e all’utilizzo delle
forze dell’ordine, magari, come abbiamo sempre
sostenuto, con poliziotti di quartiere e presenza in
strada anche dopo le ore 20, la sicurezza viene meglio
garantita da chi manifesta grande considerazione per
l’arredo urbano complessivo della città. Non sono in
grado di dire se la consapevolezza dei nessi fra lo stato
della città e la sicurezza dei cittadini sia cresciuta. Ho
visto foto di un neo-sindaco con tanto di elmetto giallo
in testa, assolutamente poco a suo agio nel lavoro del
tutto temporaneo di eliminazione dei graffiti, e di un
vice-sindaco a spalare la neve, lavoro certo più consono
alla sua preparazione. Poi, entrambi ci hanno,
fortunatamente, dovuto lasciare, ma il loro lascito non è
stato, ancora fortunatamente, cospicuo: qualche foto
sui giornali, ma niente più. E a togliere i graffiti
provvedono il Commissario di governo e i commercianti.
Per quel che riguarda le soluzioni, abbiamo sostenuto
che è vero che la sicurezza non è né di destra né di
sinistra. È di tutti i cittadini, dei loro rappresentanti e
dei loro governanti. Ma abbiamo anche cercato di fare
passare l’idea che le risposte alla sicurezza possono
effettivamente e concretamente essere di sinistra e di
destra. Anche se troppo spesso la sinistra si dimostra
inutilmente e erroneamente permissiva, la sua risposta
dovrebbe consistere nell’applicazione rigorosa e non
allarmistica delle leggi esistenti accompagnata da
misure che conducano all’educazione alla convivenza
civile. La destra fa, invece, un uso propagandistico della
paura per l’insicurezza personale al fine di giustificare
misure che sono spesso prevalentemente repressive e
che non possono condurre a nessun miglioramento
duraturo. In campagna elettorale, ho talvolta citato una
slogan ad effetto dei laburisti di Tony Blair: “duri con il
crimine, duri con le cause sociali del crimine”. Fermo
restando che questo slogan deve poi essere tradotto in
azioni concrete su entrambi i versanti, vale a dire,
“crimine e cause sociali”, continua a sembrarmi un buon
inizio poiché impone alla sinistra di non nascondere la
testa nella sabbia, ma di riconoscere e affrontare il
problema. Una cittadinanza insicura non soltanto non
riuscirà a “perseguire la sua felicità”, ma sarà anche
meno attiva, meno partecipante, meno democratica.
Qui, inserisco quella che non è una digressione, ma
una integrazione del discorso “città pulita e sicura”. Fra
le nostre idee e i nostri suggerimenti stava anche quello
di fare “adottare” dai commercianti qualche tratto di
strada o intere strade occupandosi direttamente del loro
decoro, con evidenti vantaggi di ricaduta per i clienti
certamente attratti da luoghi puliti e più accoglienti, e di
affidare giardini e parchi ad associazioni cittadine
interessate all’ambiente. Contavamo anche sullo spirito
di emulazione: cercare di rendere la nostra erba molto
più verde di quella del vicino! Naturalmente, tutto
questo fa appello a un senso di partecipazione che
abbiamo riscontrato essere significativamente inferiore
all’immagine fin troppo positiva che la città continua ad
avere di se stessa. Non sembra un’immagine
aggiornata. Ma sia l’emulazione sia la partecipazione
possono essere incoraggiate e stimolate da
un’amministrazione comunale intelligente e credibile.
Quanto al traffico, ai trasporti, alla mobilità,
all’urbanistica, la nostra posizione era che bisognasse,
anzitutto, formulare una idea di città. In secondo luogo,
che questa idea di città non potesse essere rinchiusa
dentro le mura di Bologna, ma che, in terzo luogo, si
proiettasse come città metropolitana. Tutti accogliemmo
con favore la disponibilità di Beatrice Draghetti,
Presidente della Provincia, direttamente toccata dalla
eventuale transizione alla città metropolitana, di
operare in tal senso collaborando attivamente anche
fino alla sua scomparsa. A prescindere da qualsiasi altra
considerazione, continuiamo a ritenere che i problemi
del traffico e dei trasporti sono risolvibili soltanto
nell’ambito della città metropolitana, la quale continua a
fare le sue incursioni carsiche, un po’ alla superficie un
po’ sotto il dibattito, nient’affatto entusiasmante, ma
senza riuscire a fare concreti e risolutivi passi avanti.
Nel nostro programma stava anche un punto solo
apparentemente poco importante: “Bologna più laica”.
Ovviamente, si può essere credenti e laici così come,
anche a Bologna, ci sono molti non-credenti che sono
tutt’altro che laici. Sono piuttosto fondamentalisti,
collocati a sinistra, settari e faziosi. Avevamo anche
ripetutamente sottolineato che Bologna non era mai
salita sul treno dell’Europa, a eccezione dei molti
imprenditori capaci di competere sui mercati esteri, non
soltanto delocalizzando, e i molti studenti bravi, curiosi,
ambiziosi e intraprendenti che, grazie al programma
Erasmus, circolano sul territorio europeo “dal
Manzanarre al Reno”, ma arrivando spesso anche fino al
Tamigi e oltre.
Anche grazie alle imminenti elezioni europee, da
tenersi in concomitanza con il primo turno delle elezioni
comunali, e alla condivisione di molte battaglie e molti
valori, decidemmo di organizzare una rischiosissima
iniziativa pubblica in piazza Maggiore, un dibattito fra
Marco Pannella e me. Discutemmo un po’ di tutto (è
mai possibile, con il leader dei Radicali, concentrarsi
esclusivamente su due o tre argomenti?): dall’Europa al
testamento biologico dalla Costituzione italiana alla
ricerca scientifica sulle staminali sotto gli occhi di San
Petronio che, lui sì tollerante, ci osservava
benevolmente dalla sua basilica. Grande sarebbe poi
stata la delusione, dopo diverse altre iniziative comuni
di volantinaggio, quando nello stesso giorno a Bologna
la lista europea dei Radicali ottenne il 5,08 per cento
(11.518 voti) e la lista comunale “Cittadini per Bologna”
si trovò appena all’1,96 per cento (4.448 voti). Radicali,
radicali, su chi avete fatto convergere i vostri voti
comunali?
Anche la seconda manifestazione in piazza Maggiore,
seguita nuovamente da 500-600 persone, si collocava
perfettamente dentro la nostra prospettiva
programmatica complessiva. Mentre il candidato del PD
e i suoi sponsor facevano persino fatica a pronunciare la
parola “sinistra”, organizzammo un dibattito sulla
politica e sull’informazione, moderato da Silvia Truzzi,
con l’ex-Direttore de «l’Unità»” Antonio Padellaro.
Sostituito da parecchi mesi attraverso una congiura di
palazzo alla direzione dell’Unità, Padellaro stava
organizzando il lancio di un nuovo quotidiano di sinistra:
«Il Fatto Quotidiano» che, grazie alla sua informazione
non addomesticata e ai suoi editoriali acuminati sta
avendo grande e meritato successo. L’occasione
consentì di discutere ottimamente tanto della debolezza
e subalternità culturale della sinistra italiana quanto
della sua provata incapacità di utilizzare i mass media
e, più in generale, della sua incomprensione delle
modalità con le quali ricostruire una politica di sinistra,
incidentalmente, magari trovando, anche a Bologna,
qualche candidatura di sinistra. Si può.
In definitiva, che cosa siamo riusciti a fare in materia
di visione della città e di formulazione di punti
programmatici? Credo che abbiamo messo a
disposizione in special modo una proposta di metodo:
indicare la priorità del problema, suggerire alcune linee
di soluzione, sollecitare la cittadinanza e le associazioni,
discuterne secondo regole precise e in piena
trasparenza, assumere la responsabilità delle decisioni,
garantirne la riformabilità. Abbiamo tentato
un’operazione pedagogica ambiziosa, caratterizzata da
ottimismo democratico, ovvero fiducia nei cittadini, nel
popolo sovrano, meglio se interessato, informato e
partecipante, ma al quale vanno comunque predisposte
e offerte tutte le opportunità possibili di informazione e
di partecipazione. Su questo terreno si misura davvero
il senso civico, non soltanto dei cittadini, ma anche dei
rappresentanti e dei governanti. Questo, non resta che
concluderne con l’autorevolezza di De Gaulle, era
effettivamente un vaste programme. Non ce ne siamo
affatto pentiti. Tutto rimane a disposizione. Anche noi
siamo disponibili, ma, per carità, non si scriva che
“cerchiamo posti”. Cerchiamo esclusivamente di mettere
a frutto, con soddisfazione nostra e di altri cittadini, il
senso civico che ci ha motivati e abbondantemente
sostenuti nella missione che si è rivelata, almeno
temporaneamente, impossibile: cambiare la cultura
politica di un’ampia parte della città di Bologna. Però,
non è affatto finita.
Indice
Capitolo nono
Bilancio e commiato

In questo piccolo libro, sono stato costretto ad


affrontare una varietà di temi, complicati e delicati. Per
lo più, i fenomeni politici sono molto complessi, difficili
da dipanare, impossibili da isolare, come si fa con altri
tipi di ricerche, in laboratorio. Soprattutto, nessuna
campagna elettorale è qualcosa che possa essere
analizzato in laboratorio. Si sviluppa, giorno per giorno,
in maniera raramente prevedibile. Non può essere
controllata che in minima parte dagli attori, da coloro
che vi sono coinvolti, ma neppure dagli osservatori
esterni. Produce situazioni nuove e sorprendenti, alcune
delle quali, ma nient’affatto tutte, sono riconducibili alla
storia della città, del suo governo, dei suoi partiti, delle
sue associazioni e, naturalmente, delle persone che la
frequentano e la vivono. Ho, per l’appunto, cercato di
collocare l’esperienza della mia campagna elettorale
nella storia, nella politica, nella società bolognese che
conoscevo. Giunto alla conclusione, non soltanto è
opportuno, ma è anche certamente doveroso che io
proceda ad un bilancio equilibrato, sicuramente
nient’affatto distaccato, dell’insieme delle azioni, delle
proposte, delle realizzazioni riguardanti lo sforzo fatto.
Debbo farlo, naturalmente, mettendo a confronto gli
obiettivi che abbiamo perseguito con i risultati,
ovviamente anche quelli negativi, che abbiamo
conseguito. Procedendo in questo modo, mi auguro di
riuscire anche a fornire elementi per valutare lo stato
attuale della politica cittadina.
Partecipando alle elezioni bolognesi, il primo obiettivo
che volevamo perseguire era di quello di dare un
contributo significativo al cambiamento della politica
locale. Poiché parte notevolissima di questa politica
dipende, fin troppo e da fin troppo tempo, dalle
modalità con le quali il più grande partito bolognese,
attualmente il Partito Democratico, interpreta il suo
ruolo, seleziona i suoi dirigenti e le sue candidature,
attua le sue politiche e intesse le sue alleanze sociali,
economiche e, da ultimo, amministrative,
indirettamente, volevamo incidere su alcuni almeno di
questi procedimenti all’interno del PD. Abbiamo visto
come i dirigenti hanno difeso con le unghie e con i
denti, con l’arroganza e con l’indifferenza, ma anche
con la furbizia e la manipolazione, i loro confini e i
procedimenti dei loro arcana imperii. Con il senno di poi
potremmo anche interrogarci se, tutto sommato, non
saremmo riusciti ad esercitare maggiore influenza
accettando di partecipare, seppur in maniera
chiaramente subalterna e perdente, alle primarie. Il
punto è delicato, ed è rimasto controverso anche
nell’ambito dei “Cittadini per Bologna”. Da un lato,
avremmo certamente ottenuto di parlare agli iscritti del
PD, pur nella consapevolezza che la maggioranza di loro
non era affatto predisposta favorevolmente nei miei
confronti e molti sarebbero stati richiamati all’ordine,
come era già avvenuto nella fase raccolta firme per le
primarie, dai persino troppo attivi Presidenti dei circoli e
dei loro collaboratori.
Questo la dice lunga sul superamento del centralismo
democratico ad opera del conformismo acritico e del
carrierismo cinico. Non mi pare un passo avanti.
Dall’altro, però, saremmo stati poi ridotti al silenzio.
Infatti, non avevo forse sempre teorizzato che le
primarie si fanno fra gentiluomini e gentildonne che,
tutti/e, una volta sconfitti/e, riversano lealmente il loro
appoggio sulla candidatura vincente affinché conquisti
la carica in gioco? Di conseguenza, non avremmo avuto
nessuna opportunità di parlare di politica con i molti
elettori di sinistra, ovvero semplicemente non
inquadrati e interessati, insoddisfatti non soltanto della
politica nazionale, ma ancora di più della qualità della
politica locale. Cosicché il farsi ingabbiare in primarie
pilotate e blindate avrebbe reso sostanzialmente
impossibile qualsiasi operazione di pedagogia politica.
Inoltre, ma questo sono in grado di rilevarlo e di dirlo
soltanto adesso, ex-post facto, la sconfitta nelle
primarie mi avrebbe impedito di parlare fruttuosamente
di politica e di programmi, di priorità e di soluzioni con
le associazioni economiche e professionali cittadine,
oggi la vera fonte di ricchezza, non soltanto monetaria,
di Bologna.
I risultati di una campagna elettorale sono,
naturalmente e anzitutto, misurabili con i numeri.
Sicuramente, quattromila quattrocento quarantotto
(4.448) elettori sono un seguito insoddisfacente. Potrei
aggiungere, unicamente per, tutt’altro che magra,
consolazione che molte persone incontrandomi, in
seguito, nei luoghi più diversi si sono rammaricate di
non avermi votato, aggiungendo che avevo ragione.
Tuttavia, quei numeri elettorali hanno avuto due
conseguenze che reputo importanti e positive. La prima
l’ho già sottolineata. Quei voti hanno impedito al
candidato del PD di vincere al primo turno e hanno
consentito allo sfidante Cazzola di scoperchiare il vaso
di Pandora della varietà di traffici, più o meno illeciti,
ma sicuramente deplorevoli, dell’allora candidato
Delbono. La natura e la dimensione di quei traffici
saranno accertate dalla magistratura. Fin d’ora sono,
però, emersi legami e tentativi di copertura tutt’altro
che consoni a una certa idea di etica in politica che un
grande partito dovrebbe intrattenere e fare valere in
particolare nei confronti dei suoi candidati, dei suoi
amministratori e dei suoi dirigenti. Quanto alla seconda
conseguenza, la sconfitta, che mi auguravo, del gruppo
dirigente del Partito Democratico, essa è effettivamente
avvenuta. Qui vengono meno i numeri e si stagliano
altissimi e concretissimi i fatti. Li ripeto. Il segretario
provinciale ha dovuto andarsene a Roma. Il vigilante di
Delbono è stato costretto al silenzio. Il nuovo segretario
provinciale, Raffaele Donini, sembra di una pasta
chiaramente migliore dei suoi due (l’altro è Salvatore
Caronna) predecessori. Sul punto che interessa gli
iscritti e gli elettori del Partito Democratico, vale a dire
primarie aperte e competitive, ha preso una posizione,
molto limpida e coerente. Tutti i candidati del Partito
Democratico che lo vorranno, una volta raccolte le firme
a sostegno, saranno ammessi a concorrere; non vi sarà
nessun candidato sostenuto dal partito in quanto tale.
Insomma, qualcosa di positivo si va muovendo nel
Partito Democratico di Bologna. Che sia, tanto
indirettamente quanto si vuole, anche merito dei
“Cittadini per Bologna”?
L’inevitabile e meritato commissariamento della città,
la cui responsabilità va attribuita al sindaco breve e al
suo non troppo ristretto circolo di sponsor e di
sostenitori, ha creato un ampio spazio per una
discussione politica pubblica, libera e disincantata.
Purtroppo, non sembra affatto che né nel centro-destra,
già in partenza non molto innovativo e da qualche mese
in preda a convulsioni di provenienza nazionale
destinate a durare, né nella variegata area di sinistra
emergano visioni originali della Bologna che è
desiderabile. Sulla cosiddetta intellighenzia bolognese,
quasi tutta beata nella sua autoreferenzialità, ma poi
pronta a convergere sul candidato ufficiale del partito,
ho già detto, Ma, meglio di me, dicono sempre le loro
dichiarazioni mai seguite da azioni e meno che mai da
innovazioni. Da qualche parte deve essere finita la
Guerra Fredda, ma a Bologna fa, di tanto in tanto, la
sua comparsa, secondo l’intellighenzia, non un
avversario politico da sconfiggere con le idee, ma un
nemico da demonizzare e esorcizzare con la
conseguenza che chi parla con il nemico è certamente,
a tutti gli effetti, un traditore.
Personalmente, miravo anche a offrire alla città
un’alternativa, non soltanto di contenuti politici, ma di
stile. Chi avesse voglia di sfogliare le dichiarazioni
sparate a ripetizione dalle sedi del PD, di Italia dei Valori
e di Sinistra e Libertà, vedrebbe che, in primo luogo,
un’alternativa di stile è assolutamente necessaria; in
secondo luogo, che l’alternativa non può assolutamente
venire da quelle sedi e da alcuni di quei personaggi, non
soltanto di genere maschile. A Bologna, la politica
dell’insulto era nota e praticata già almeno diversi anni
prima che, nell’agosto 2010, la scoprissero e
amplificassero i quotidiani nazionali.
L’elemento e la considerazione più problematica
riguardano la società civile bolognese. Raramente una
società civile è migliore della classe politica che
esprime. In generale, le classi politiche rappresentano
adeguatamente, nel bene e nel male, in positivo e in
negativo, le loro rispettive società civili. Ed è per questa
fedeltà di rappresentanza che, spesso, si parla della
politica come “specchio” della società. Paradossalmente,
quanto più fedele è la rappresentanza politica tanto più
difficile sarà il cambiamento politico (e sociale) poiché la
politica si appiattisce sulle preferenze e sui desideri
della sua società. Qualche volta, emergono classi
politiche più avanzate e innovative delle loro società.
Allora, assistiamo a fasi di trasformazioni importanti, di
fervore progettuale, di vero e proprio progresso.
Secondo alcuni, è stata proprio questa la situazione di
Bologna dall’inizio degli anni Cinquanta, sindaco il
comunista Dozza, fino alla fine degli anni Sessanta,
sindaco il comunista Fanti. Una classe di politici e di
amministratori eccellenti, alcuni dei quali sono ancora
vivi, che, sfruttando intelligentemente la sfida di
Dossetti nel 1956, condusse la nient’affatto avanzata
società bolognese e la sua città a livelli di assoluta
eccellenza.
In seguito, subentrò una lunga fase di compiacenza
che ebbe la fortuna di reggersi sulle conquiste e sugli
allori del recente passato. Mentre infuria (mica vero) la
critica alla personalizzazione della politica, pochi si
rendono conto che è stato soprattutto il Partito
Comunista a personalizzare alla grande la sua politica,
non soltanto con l’esaltazione del ruolo del suo
segretario, il Migliore, ma con la celebrazione proprio
della persona dei suoi sindaci e, ovviamente, delle loro
qualità di “stare in mezzo al popolo”, in Emilia Romagna
e a Bologna persino più che altrove. Unicamente serie
carenze di cultura politica e istituzionale possono oggi
trascurare, sottovalutare e, peggio, sminuire
l’importanza che ha la personalità di un sindaco eletto
direttamente dai suoi concittadini, il quale li deve, non
soltanto governare, ma anche rappresentare, essendo
lui con la sua carica il volto visibile della sua città.
Espresso dai suoi elettori, lui è però, se capisce
qualcosa di amministrazione e di politica, davvero
sindaco di tutti.
È quando la personalizzazione è un prodotto effimero
e superficiale di una popolarità acquisita non attraverso
i rapporti fra persone, ma con la esposizione ai mass
media che gonfiano alcuni elementi, ma che possono
anche sgonfiarli senza riferimento a nessun parametro
politico e/o democratico, che se ne vedono gli effetti
deteriori. Con candidati dalla personalità discutibile,
scialba, “sgodevole4”, come si dice in città, è chiaro che
la personalizzazione si ribalta in negativo e la
rappresentanza/rappresentatività perde tutta la sua
importanza, anche emotiva, simpatetica. Sottilmente,
questo procedimento al ribasso induce scetticismo e
produce insoddisfazione. Proprio agli scettici e agli
insoddisfatti, che temevamo sarebbero stati anche
tentati dal rifugiarsi nell’astensionismo, volevamo offrire
un’alternativa praticabile. Difficile dire quanto ci siamo
riusciti; probabilmente, non molto, anche per un motivo
che, inizialmente, non avevamo percepito.
Da qualche tempo, Bologna è entrata nella fase che
Marx definirebbe di “falsa coscienza”. Crede di essere
qualcosa di ammirabile e non riesce neppure a prendere
adeguata consapevolezza dei suoi problemi, dei suoi
ritardi, delle sue incapacità. Nella campagna elettorale,
volevo segnalare anche questo divario fra le credenze
del e sul passato e le tristi realtà quotidiane.
Nonostante la sua insoddisfazione, l’elettorato
bolognese, in special modo, quello di sinistra, ha
preferito pensare che i problemi e i ritardi non erano
affatto strutturali, ma congiunturali, essenzialmente
dovuti alla mancanza di visione di Guazzaloca e
all’immobilismo (nonché mancanza di “amore” per la
città) di Cofferati. Chi avesse guardato al quinquennio
precedente la vittoria di Guazzaloca, avrebbe subito
capito che i germi si erano già manifestati e che la loro
proliferazione aveva aperto la strada abilmente e
tempestivamente imboccata da Guazzaloca nella sua
vittoriosa campagna elettorale. Sulle debolezze
strutturali ho fatto il punto in un recente articolo
pubblicato sul «Corriere di Bologna » che metto in
appendice a questa conclusione.

4 Vedi il Dizionario Bolognese di Ariafritta.it


È assolutamente evidente che chi davvero intende
cambiare la città non deve semplicemente proporsi di
trovare una candidatura vincente. Deve mirare molto
più in alto e molto più avanti. Il compito consiste nel
ricostruire un nuovo senso civico. Come stanno le cose
è difficile che questo senso civico possa essere il
prodotto di un partito senza identità, ma con molti
carrieristi e carrieriste. La tentazione di pensare, come
forse farebbe Max Weber, alla comparsa di un grande
predicatore politico, è forte. Ma questa non è la sede
per formulare futuribili. La mia esperienza mi consente
di mettere in rilievo quanto abbiamo visto. Quanto
conosco della scienza politica mi suggerisce che il
cambiamento sarà difficile e tutt’altro che rapido.
Purtroppo, al momento, non vedo neppure i primi segni
di un risveglio.
Il cartoncino con il quale lanciammo l’Associazione
“Cittadini per Bologna” e la mia candidatura a sindaco
portava due frasi: «A Bologna servono le tue idee e un
tuo contributo» (avremmo dovuto aggiungere, anche
finanziario!) e «se l’aria che tira non è buona non
bisogna adeguarsi, bisogna cambiare l’aria». Ecco, a
Bologna l’aria non è ancora cambiata. La presa di
coscienza della gravità di quello che è accaduto non è
ancora sufficientemente diffusa. So che ha ragione Max
Weber. Il vero politico è colui che non si lascia abbattere
da una sconfitta, ma è subito pronto a ricominciare. Per
quel che mi riguarda, non adesso, non qui.

Il varco dell’inciviltà, in «Corriere di Bologna»


12 giugno 2010

Democrazia, anche quella, preziosa, nelle città, non è


mai soltanto scelta, a opera degli elettori, dei candidati
dei partiti per ottenere rappresentanza e governo. È
anche partecipazione dei cittadini, ovvero controllo,
protesta e proposta, ma soprattutto esercizio di senso
civico. Una città che viene commissariata dovrebbe,
anzitutto, interrogarsi sulla qualità della classe politica
espressione del suo elettorato. Poi, chiedersi quanto
conta l’opinione pubblica. Infine, riflettere sull’esistenza
e sulla qualità del senso civico dei suoi cittadini.
Dopodiché, ciascuno ha non soltanto il diritto, ma il
dovere di provare l’umiliazione che gli spetta. La
presenza di un Commissario è il segnale che parte della
democrazia è venuta meno, ma anche che a Bologna il
senso civico latita(va) da tempo. Annamaria Cancellieri
non è la causa di una democrazia che non c’è, ma
l’effetto del fallimento della democrazia, poca, dei partiti
bolognesi e, in larga misura, anche dei loro elettorati.
Eppure, molti, non soltanto sulle loro “barche”,
continuano a raccontarsi la favola di una città che non
esiste più da almeno vent’anni. E insistono a fare
proposte che, peggio che sbagliate, sono
semplicemente, nella città che esiste, irrealizzabili.
Vado in giro, parlo con le persone, prendo l’autobus,
mi guardo intorno. Vedo, come tutti, una città sporca e
poco civile, che non è affatto accogliente e ospitale, che
non considera gli studenti una “risorsa” (magari
venissero considerati “persone” con doveri e diritti), che
non si impegna affatto a rendere la vita insieme
migliore per tutti. Al contrario, gli studenti, soprattutto,
quelli fuori sede (anche quelli che vengono da Rimini e
da Reggio Emilia? Oppure soltanto i fuori sede
meridionali?) sarebbero i responsabili del degrado,
unitamente agli immigrati, soprattutto quelli di colore,
anche se, dicono alcuni, pochi, bolognesi, sono
essenziali per l’economia cittadina. In doppia fila,
parcheggiano gli stranieri? Le cacche sono di cani che
vengono da Marte? Le cicche, spesso ancora fumanti, le
buttano soltanto quelli che vengono occasionalmente a
Bologna? La signora sovrappeso e in pelliccia che
guidava uno scooter contromano sotto i portici di via
Lame e che, alla mia esclamazione: “ma signora!”, mi
ha risposto con un vaffa, non era bolognese? La verità è
che sono i comportamenti tutt’altro che civici dei
bolognesi che hanno aperto gli spazi all’incivismo altrui.
Il Commissario riuscirà a fare della buona e
indispensabile amministrazione. Ma chi vuole che
Bologna torni ad essere una città civile, non
necessariamente un modello, dovrebbe cominciare a
ripensare ai troppi luoghi comuni, oramai solo falsa
coscienza, della città di un tempo che fu. Dovrebbe
evitare i paragoni con New York, Londra e Parigi.
Dovrebbe, da un lato, dare quotidiani esempi personali
di senso civico; dall’altro, dire, scrivere, chiedere che le
prossime autorità comunali, a cominciare dal sindaco
(dalle candidature a sindaco), promettano e si
impegnino ad essere anche autorevoli predicatori di
senso civico. Allora, forse, Bologna avrà qualche
possibilità di ridiventare gradevole e ammirata.

In modi diversi, poiché tutti avevamo i nostri impegni


quotidiani, e con gradazione diversa di impegno, sono lieto di
ricordare che hanno lavorato per la Associazione e la Lista
“Cittadini per Bologna”, in rigoroso ordine alfabetico: Federica
Baraldi, Marcello Bruni, Fabrizia Calda, Corrado Crepuscoli,
Francesco Delli Santi, Isabella Filippi, Luca Grosso, Nino Iorfino,
Riccardo Lenzi, Daniela Mennichelli, Ornella Napolitano, Paolo
Orioli, Alfonso Principe, Tiziana Sonia Spelta, Giacomo Todaro,
Simona Tonna, Elisa Traldi. Pochi, ma davvero buoni. A loro il
mio ringraziamento sincero.
Indice

APPENDICE
Programma dei “Cittadini per Bologna”

Amministrare Bologna
Premessa
Bologna più veloce
Servizio Ferroviario Metropolitano
Tram
La metropolitana è superata
People mover
Civis
Parcheggi pubblici di interscambio
Parcheggi privati
Merci
Viabilità ciclabile
Mobilità pedonale
Car sharing
Riduzione velocità veicoli
Rimozione discontinuità viabilità
Verifica esenzioni circolazione e parcheggio
Passante nord
Sirio e Rita
Prevenire la domanda di mobilità
Bologna più energica
Fonti rinnovabili
Efficienza energetica
Sviluppo aree verdi
Rifiuti
Utilizzo acqua piovana
Prodotti ortofrutticoli
Bologna più bella
Bologna più vostra
Bologna più ricca
Bologna costituisce un insediamento ideale per le attività economiche
Creazione di un tavolo permanente di confronto Comune – Associazioni
imprenditoriali – Università
Bologna più sicura
Bologna più giusta
La politica della Casa per tutti
L’integrazione sociale ed economica dei cittadini stranieri
Bologna più dotta
Bologna più artistica
Bologna più sportiva
Bologna più etica
Bologna più europea
Non finisce qui
ASSOCIAZIONE “CITTADINI PER BOLOGNA”
PROGRAMMA DI MANDATO (2009-2014)
PER LE DONNE E GLI UOMINI DI BOLOGNA
PER UNA BOLOGNA MIGLIORE

Alle cittadine e ai cittadini di Bologna

Amministrare Bologna Torna al


Programma

Una città di medie dimensioni, ma di grandi tradizioni,


ricca di attività e abitata da cittadini esigenti, non è un
compito facile. Chi vuole adempiere con successo a questo
compito può riuscirci soltanto operando insieme a chi a
Bologna vive e lavora, a chi, come i suoi cittadini, vuole
renderla migliore, più bella, più sicura, più giusta. Nessun
sindaco ha la bacchetta magica, ma i bravi sindaci sanno che
possono coordinare e guidare le attività della loro città verso
obiettivi condivisi, costruendo consenso. Sanno anche che le
risorse sono poche e le aspettative sono, giustamente,
molte. Un bravo sindaco è colui che non si mette
semplicemente al servizio dei cittadini, ma li sollecita a
partecipare e crea le condizioni per una loro partecipazione
incisiva. Si scopriranno così i problemi più sentiti e più
pressanti e si individueranno sia le soluzioni praticabili a quei
problemi sia le modalità con le quali attuarle. Un bravo
candidato sa che, per quanto bello e esaustivo possa essere
il suo programma elettorale, nessuno è in grado di prevedere
quello che può succedere in un mandato che dura cinque
anni. Sa anche che le scelte fatte e non fatte hanno
conseguenze in tutte le attività cittadine. Dunque, deve
essere consapevole che sarà costretto ad aggiustamenti, ad
adattamenti, persino a trasformazioni, al momento
imprevedibili. Questo è il riformismo: riuscire a riformare,
con il consenso, le riforme pensate e attuate. Il bravo
sindaco si circonderà di assessori competenti che sapranno
aiutarlo e criticarlo e che godranno di grande autonomia
nell’esercizio dei loro compiti. Per la scelta degli assessori
chiederemo a tutti gli interessati di mandare il loro
curriculum e di spiegare perché sono disponibili a dedicare
cinque anni della loro attività professionale a governare
Bologna e quali obiettivi intendono perseguire. Un bravo
sindaco sa che non è sufficiente decidere e comandare. Sa
che è assolutamente importante seguire l’attuazione di
quanto è stato deciso. Pertanto, in totale discontinuità con i
comportamenti dell’amministrazione uscente, il sindaco,
consapevole che ogni atto amministrativo sia per la parte
della gestione corrente sia per gli investimenti, può essere
realizzato esclusivamente grazie all’impegno dei dipendenti
pubblici, farà ampio affidamento su di loro. Li coinvolgerà nei
procedimenti, ne valorizzerà la professionalità. I dipendenti
comunali sono sicuramente in grado di contribuire al buon
governo della città e al benessere dei cittadini, e sono
assolutamente disponibili a svolgere i loro compiti con
efficienza e efficacia. La valorizzazione del loro lavoro e delle
loro competenze consentirà anche di azzerare le consulenze
e di liberare risorse per scopi più importanti, di welfare e di
giustizia sociale.
Un sindaco bravo non deve ripetere, come un pappagallo,
quasi per convincersi, che sarà al servizio della città. Deve,
invece, essere una persona ambiziosa che cercherà di
operare in maniera responsabile e apprezzata, senza
produrre conflitti e tensioni, perché vuole lasciare la città più
gradevole, più vivibile, più felice di come l’ha trovata. Questa
è, comunque, la mia ambizione e questa è la ragione per la
quale mi sono candidato a fare il sindaco per il quinquennio
dal 2009 al 2014. Quanto segue sono i punti programmatici
che la Associazione “Cittadini per Bologna” ha formulato e ha
il piacere di sottoporre al voto delle cittadine e dei cittadini di
Bologna. Questo è un programma in corso d’opera, in
progress e davvero progressista. Cambierà, migliorerà,
diventerà più ricco e più bello perché i cittadini bolognesi vi
contribuiranno e perché noi impareremo.

Gianfranco Pasquino

Premessa Torna al
Programma

La maggior parte dei problemi sociali, economici, di


mobilità e di sicurezza di Bologna, e dei comuni limitrofi, non
trovano una soluzione soddisfacente se non vengono
affrontati in una prospettiva politica nuova che abbia come
obiettivo la ricerca di nuovi modelli per il vivere urbano.
Se analizziamo Bologna oggi ci rendiamo conto che, al di
là degli oggettivi problemi legati alla mobilità ed alla
sicurezza, emerge una generale insoddisfazione per la qualità
della vita. Il ricordo normalmente va agli anni in cui la città
era vissuta da tutti ed era un piacere intrattenersi nelle
strade di Bologna perché ricche di cultura, di emozioni e di
relazioni. Ma cosa è successo nel corso degli anni? Come mai
quel clima caldo, vitale e coinvolgente si è perso?
Noi riteniamo che questo sia avvenuto fondamentalmente
per due motivi. Il primo è che Bologna, come altre realtà
italiane, ha ceduto lentamente a dinamiche economiche che
hanno portato a svuotare la città, di persone e di attività,
favorendo forme puramente speculative. Il secondo motivo è
“la città diffusa”. Basandosi sul principio che l’automobile
garantiva mobilità per tutti si sono create aree di territorio
con funzioni nettamente distinte, aree commerciali, aree
residenziali e per il tempo libero. A distanze sempre
maggiori.
Questi due fattori sono alla base di diversi fenomeni che di
fatto impoveriscono il vivere urbano, ad esempio: la
speculazione immobiliare centrata sulle esigenze di alloggio
degli studenti, la fuga delle attività artigianali non più
possibili in un contesto urbano sempre più costoso, la
chiusura di molte attività culturali, le preferenze urbanistiche
per centri dedicati ed esterni alla città, l’incremento del
traffico dovuto ad una maggiore esigenza di mobilità.
L’impoverimento del tessuto urbano di fatto comporta anche
una caduta del presidio umano che, invece, favorisce forme
di solidarietà e di controllo indotto. In un contesto urbano
vissuto le persone si conoscono e si crea una rete di relazioni
virtuose, oltre che per la qualità della vita, anche per la
sicurezza dei cittadini. Laddove le persone si conoscono e c’è
una rete, esiste un maggiore controllo e quindi un naturale
deterrente verso le forme di devianza e di degrado.
Se osserviamo oggi il centro ci rendiamo conto che è
diventato un luogo di passaggio. Ogni giorno ci sono persone
che arrivano in centro e quelle che vi abitano sono
impegnate in spostamenti verso l’esterno per soddisfare le
proprie esigenze. Ne consegue che il territorio non è più
vissuto, è un luogo che non appartiene più a nessuno. Se
questa è la situazione in centro, l’esterno della città non è
migliore in quanto l’espansione verso la periferia è avvenuta,
appunto, seguendo logiche di insediamento diffuso.
Cosa fare? Proviamo a ragionare in una nuova ottica. Se
perseguiamo la ricerca di nuovi modelli del vivere urbano
faremo discendere, quasi in automatico, molte risposte ai
singoli problemi. La politica non deve più affrontare i
problemi in maniera isolata ma deve inquadrarli in un
contesto più ampio che abbia come finalità la creazione di un
ambiente più vivibile, meno inquinato, meno rumoroso e con
servizi ed offerta di attività più diffuse. Da un approccio del
genere derivano senza dubbio anche nuovi impulsi per settori
economici alternativi a quelli tradizionali, settori capaci di
essere nuova forza trainante per continuare un percorso di
crescita economica. Questo lo si ottiene solo se si adotta una
visione integrata e sostenibile di sviluppo. È su questi
obiettivi che bisogna orientare la bussola di ogni intervento
che si farà sulla città nella consapevolezza che qualsiasi tema
costituisce un piccolo tassello di uno scenario di maggiore
vivibilità da offrire ai cittadini.

Bologna più veloce Torna al


Programma

Una città di medie dimensioni, ma con importanti attività,


come l’Università, la Fiera, l’Aeroporto, attira una traffico
intenso e notevole di persone e merci. A Bologna la mobilità
è un problema irrisolto. È necessario agire in maniera
organica e virtuosa migliorando il servizio pubblico in una
direzione sostenibile per l’ambiente e, allo stesso, tempo
prevenendo e riducendo l’esigenza di mobilità. Il piano della
mobilità deve guardare al territorio metropolitano
garantendo intermodalità sia per le persone che per le merci.

Il piano che vogliamo offrire alla città si struttura sui


seguenti punti:

1. Servizio Ferroviario Metropolitano (SFM)


Tutti ne parlano (soprattutto la Provincia), ma le risorse
per il servizio, per il materiale rotabile e per il personale li
mette solo la Regione. Alcuni Comuni almeno hanno preso in
carico la pulizia delle stazioni e fermate. Bologna no, si
vedano le condizioni della fermata di Casteldebole e dei suoi
parcheggi. Per la linea per Budrio la Regione e la Provincia
hanno avallato un piano del Comune per l’interramento a
binario unico anche se sarebbe stato possibile avere il doppio
binario e quindi una maggiore versatilità; pertanto la
capacità della tratta resterà limitata. Il Comune deve
contribuire anche ai servizi, ed attivare subito la fermata
“Aeroporto”.
Dobbiamo sviluppare ed investire quanto più possibile sul
servizio SFM che costituirà l’ossatura fondamentale del
trasporto pubblico dell’area metropolitana.

2. Tram
A partire dagli anni Sessanta molte città europee e quasi
tutte le italiane hanno seguito logiche di sviluppo della
mobilità basate solo sull’automobile. Da allora si sono
soppresse le reti tranviarie, si sono impoverite quelle
ferroviarie e si è investito solo sulla rete stradale con il
risultato che oggi, in Italia, il 90% delle persone e delle
merci viaggia con mezzi privati. Questa tendenza in Europa
si è arrestata e si sono finalmente riscoperte le potenzialità
del trasporto su ferro. In oltre 20 città europee a partire dal
1985 si è ripristinata la rete tramviaria: Nantes, Grenoble,
Rouen, Valenciennes, Montpellier, Parigi, Bordeaux, Orleans,
Lione, Marsiglia, Nizza, Strasburgo, Mulhouse, Croydon,
Nottingham, Birmingham, Sheffield, Manchester, Atene,
Heilbronn, Saarbrücken, Messina, Sassari, Cagliari, Bergamo,
Alicante, Barcellona, Bilbao, Valencia.
Il tram è un mezzo capillare sul territorio, modulare,
veloce, intermodale e capace di soddisfare le esigenze di
spostamento di persone ed anche di merci. È inoltre un
mezzo economico che può essere installato (re-installato nel
caso di Bologna) con tempistiche rapide e con basso impatto
architettonico.
A Bologna esistono 4 direttrici dove il tram può
ricominciare a circolare con successo, eseguendo i lavori
scaglionati nel tempo:
1. Corticella-Stazione-Indipendenza-S. Stefano-Murri-
San Ruffillo (parte linea 27 e parte 13);
2. (Casalecchio-) Andrea Costa-S. Isaia-Indipendenza-
Stazione-Fiera-Pilastro (circa linea 20);
3. Casteldebole-Barca-Battindarno-E. Ponente-S. Felice-
Bassi-E. Levante-S. Lazzaro (linea 19);
4. B. Panigale-E. Ponente-Saffi-S. Felice-Bassi-Mazzini-
Longo-Ponticella (parte linee 13 e 27).
Può sembrare un piano fantasioso, ma non lo è, è molto
ambizioso. Costruendo metà linea per volta ogni due anni si
inaugura un tratto. Dopo il secondo tratto in esercizio ci sarà
la gara dei quartieri e dei comuni limitrofi per avere un
prolungamento. Ovunque è successo così.

3. La metropolitana è superata
Nessun cantiere italiano è stato aperto meno di 8 anni,
con le strade e le piazze completamente occupate salvo
piccole striscioline laterali. Non ci si illuda che la “talpa” entri
da una parte, esca dall’altra e le stazioni si costruiscano in
una notte. I costi non sono inferiori a 100 milioni €/km.
Anche a Torino, dove erano partiti molto veloci adesso il
prolungamento per Rivoli è fermo con le stazioni al grezzo ed
allagate da circa 5 metri di acqua. Linee lunghe meno di 12
km spesso trasportano pochissime persone.
Le stazioni della metropolitana non possono essere
capillari come le fermate del tram: quando parliamo di
spostamenti dobbiamo pensare alla durata del viaggio da
porta a porta. Raggiungere la fermata, andare nel
sottosuolo, alla stazione di arrivo uscire dal sottosuolo e
raggiungere l’obiettivo di viaggio: se sommiamo questi tempi
al tempo del tragitto ci rendiamo conto che su percorsi non
lunghi la metropolitana non ha alcun vantaggio. Nel caso
della nostra città teniamo presente che il 75% degli
spostamenti avviene entro i 5 km: il tram è più veloce.
Per l’efficacia è evidente che se si sceglie questo mezzo
come primario non possiamo pensare di creare solo una linea
e mezza, dovremmo realizzare una vera e propria rete
altrimenti parte della mobilità resterebbe comunque delegata
ai mezzi di superficie.
Per la sicurezza degli utenti, la metropolitana è
svantaggiata per due motivi. Si crea un’estensione del
territorio urbano: in superficie esiste un problema di
sicurezza che potrebbe ripresentarsi amplificato nella nuova
zona urbana? E soprattutto facendo viaggiare le persone in
sotterranea eliminiamo un presidio dalla superficie: i
viaggiatori. Come sarà la città di sera quando tutti viaggiano
nel sottosuolo? Il risultato della rete metropolitana è che
sarà necessario, come è ben evidente in altre città, un
maggiore investimento in attività di controllo sia per la
superficie più sguarnita che per la nuova zona sotterranea.

4. People mover
Avere tutte le infrastrutture di trasporto possibili ed
immaginabili non solo crea notevoli costi per la costruzione,
ma rischia una esplosione dei costi di esercizio. L’aggiunta di
“rotture di carico” è deleteria per il Trasporto Pubblico. Se si
vuole un collegamento forte dell’aeroporto, è sufficiente
mandarci il tram, se lo si vuole fortissimo, è la linea
ferroviaria di forza (sia TAV che gli Interregionali) che deve
passare dentro l’aerostazione, come a Zurigo e Francoforte.
Anche se la gara è appena stata aggiudicata, dato che i
lavori non sono ancora iniziati, nulla vieta di rinunciarvi (con
modeste penali).

5. Civis
Ormai ce lo abbiamo, dobbiamo farne un buon uso. Far
passare il Civis in strada Maggiore e via San Vitale non è
necessariamente “devastante”, perché sono larghi e lunghi
come gli attuali autobus, ma se ne può e se ne deve
discutere con i cittadini cercando anche alternative. Se con il
loro passaggio avremo una corrispondente riduzione di
autobus, avremo migliorato la situazione almeno da un punto
di vista ambientale. Possiamo invece rinunciare ad alcuni
sottoprodotti nocivi, come il cambio di tensione della rete
filoviaria da 600 a 750 V, che costa oltre 10 milioni di Euro e
non porta nessun vantaggio. Possiamo pensare di rivedere e
migliorare il percorso facendolo proseguire verso le zone
occidentali della città.

6. Parcheggi pubblici di interscambio


Al fine di alleviare la pressione veicolare in area cittadina
è fondamentale sviluppare un sistema di interscambi,
lontano dal centro, che possa essere integrato con SFM e
Tram. Le aree di parcheggio da utilizzare, già costruite, sono
quelle della Fiera e del Giuriolo. Area da potenziare è quella
di via Tanari. Da non sviluppare l’area Staveco (se non per i
residenti in zona) poiché accrescerebbe la pressione di
vetture sul centro.

7. Parcheggi privati
Al fine di ridurre il consumo del territorio e destinare
quanto più possibile la superficie urbana al trasporto
sostenibile si passerà ad una più accurata gestione della
sosta a pagamento (sulle direttrici del TPL pagano tutti,
anche i residenti) ed un rilascio dei permessi per entrare in
centro più selettivi, per evitare l’affitto dei garage ai non
residenti. Una preziosa opportunità per il centro è oggi
costituita dalla dismissione di aree demaniali ex militari, è
necessario rivedere i progetti ad oggi abbozzati al fine di
destinare le risorse necessarie in questa direzione.

8. Merci
Per il trasporto merci in centro si sviluppa un piano,
“BolognaMerci”, che preveda la razionalizzazione della
distribuzione. Si prevede un raggruppamento delle merci in
area opportuna esterna al centro (sull’esempio del Cityporto
di Padova). Il servizio sull’ultimo miglio viene realizzato
grazie a vetture elettriche o a basso impatto ambientale.
Al fine di agevolare le attività commerciali in Centro,
stante le attuali limitazioni al traffico, il Comune promuove
un servizio, “ComuneConsegna”, su prenotazione, con veicoli
a bassa emissione capaci di trasportare colli ingombranti dal
negozio richiedente sino ad un parcheggio di interscambio ad
uso dell’utente privato finale.
Una volta realizzata la rete tranviaria, sviluppo del “Cargo
Tram”, su esempio di quanto fatto a Dresda, Zurigo, Vienna.

9. Viabilità ciclabile
La bicicletta è uno dei tasselli che contribuiscono a creare
un ambiente meno inquinato, meno rumoroso e più virtuoso
da un punto di vista energetico. La bicicletta può superare il
20% degli spostamenti, rispetto al 5% odierno, se si procede
nelle seguenti direzioni:
a. Sviluppo rete ciclabile:
- Consolidamento intermodalità (con SFM e tram);
regolamentazione particolare del Centro Storico (biciclette
contromano).
- Individuazione linee di flusso dirette centro-periferia
- Consolidamento e collegamento piste ciclabili percorribili
a 20km/h.
- Integrazione rete ciclabile bolognese con la provincia.
- Riduzione conflitti con i pedoni.
b. Sicurezza:
- Azione di traffic calming (aree 30 km/h) utilizzando le
intersezioni e gli attraversamenti pedonali e ciclabili
rialzati su esempio di Cattolica (RN).
- Revisione segnaletica ed adozione modelli FIAB per
rotonde ed attraversamenti.

c. Servizi e promozione:
- Diffusione bike sharing (con bici più versatili di quelle
attuali, pesanti e poco maneggevoli).
- Incremento rastrelliere.
- Promozione utilizzo bici attraverso campagne mirate
- Creazione di incentivi per la rottamazione delle vecchie
biciclette.
- Creazione parcheggi custoditi automatici sotterranei. Si
utilizzano i sottopassaggi abbandonati in centro oltre a
parcheggi ad hoc creati in zone strategiche quali la
stazione.

10. Mobilità pedonale


La mobilità pedonale deve essere garantita e protetta in
tutta la città, con priorità per le zone prossime alle fermate
delle linee di TPL. La sosta selvaggia sarà repressa con il
massimo impegno e, laddove necessario, i marciapiedi e le
altre aree pedonali saranno protetti con fittoni. Lungo le
strade prive di marciapiede si provvederà con un piano
straordinario. I cantieri dovranno sempre garantire il
passaggio pedonale.

11. Car sharing


Il Car sharing deve essere più capillare sul territorio
(muovendosi dal centro verso la periferia) e deve
sperimentare la possibilità di costituire parchi di vetture
elettriche plug in.

12. Riduzione velocità veicoli


Necessario ridurre la velocità delle vetture nelle zone di
traffico promiscuo al fine di eliminare le situazioni di pericolo
per la mobilità ciclopedonale. È altresì importante ridurre la
velocità al fine di migliorare la qualità acustica dell’ambiente
ed ottenere, al contempo, una riduzione delle emissioni. È
ipotizzabile una riduzione della velocità con le seguenti
attività:
- il Comune, di intesa con le imprese motoristiche
presenti sul territorio, verifica la possibilità di sviluppare
uno strumento (in aftermarket) che sia capace di regolare
automaticamente la velocità della vettura in funzione di
un segnale inviato dall’esterno. L’intero centro
costituirebbe una zona con velocità limitata a 30 km/h e,
su ogni strada, in ingresso nella zona limite, si installa un
dispositivo che setta in automatico il valore di velocità
della vettura. In uscita dal centro il sistema setta il nuovo
valore di velocità limite o azzera il limite stesso e può
essere esteso per tutta l’area urbana con limite 50 km/h.
Si sperimenta dapprima sul parco pubblico e, se efficace,
lo si estende come obbligo a tutti i veicoli che hanno il
permesso di entrare in centro storico.
- Si incrementano i controlli da parte delle forze
dell’ordine sul rispetto della velocità.

13. Rimozione discontinuità viabilità


La rimozione delle discontinuità di percorso è necessaria
se vogliamo ottenere la riduzione delle aree congestionate ed
ottenere una riduzione delle emissioni. A tal fine si può agire
nelle seguenti direzioni:
- si risolvono per mezzo di rotonde criticità quali quella
dell’incrocio Prati di Caprara o di piazza XX settembre; la
viabilità in zona stazione può essere risolta con sottopassi
pedonali (il 90% dei viaggiatori è già “sotto”), al posto
del sottopasso stradale;
- si provvede alla sistemazione dei nodi stradali di
Casalecchio e Rastignano e della Trasversale di Pianura
con soluzioni “soft”, soprattutto per Casalecchio;
- si verifica la reale necessità di costruire ulteriori ponti
sul Reno in concomitanza con la realizzazione delle linee
tranviarie.

14. Verifica esenzioni circolazione e parcheggio


È a tutti evidente che le aree della ZTL sono
quotidianamente attraversate da traffico intensissimo. Al fine
di agire positivamente sulla qualità dell’ambiente si valutano
le seguenti azioni:
- verifica dei permessi di accesso al centro storico;
- il permesso di accesso al centro in mancanza di
residenza in area, anche se proprietari di un box auto,
viene sottoposto a fasce orarie (no ore di punta 7.30-9.30
e 17.00-19.00);
- si intensificano i controlli sull’uso di alcuni tipi di
permessi, per ridurne gli abusi.

15. Passante nord


Allo stato attuale costerebbe oltre 2 miliardi di Euro.
Siamo sicuri che “unificare” Autostrada e Tangenziale
mettendo alla fine delle autostrade delle barriere con
Telepass e regalandolo a tutti gli automobilisti non
costerebbe meno? La congestione è dovuta quasi solo ad
alcune importanti Fiere ed alle uscite non ancora adeguate.
Teniamo inoltre presente che, visto lo sviluppo della rete
ferroviaria e le ormai evidenti esigenze di spostare le merci
su ferro, andremo verso una certa riduzione del traffico
veicolare. Perché allora non destinare risorse in altre
direzioni più sostenibili per l’ambiente?

16. Sirio e Rita


Si prosegue con lo sviluppo dei sistemi di controllo degli
accessi. Introduzione di un “Sirietto” per sorvegliare le piste
ciclabili spesso usate da motociclisti.

17. Prevenire la domanda di mobilità


Se vogliamo ridurre la domanda di mobilità e, al
contempo, sviluppare un diversa modalità del vivere urbano,
dobbiamo tornare agli usi promiscui. Bisogna, in altri termini,
integrare nello stesso quartiere funzioni residenziali,
commerciali, terziarie e ricreative, raggiungibili con mezzi
alternativi all’auto. Se seguiamo uno schema del genere oltre
a ridurre la richiesta di mobilità generiamo di pari passo una
crescita della vivibilità delle diverse aree della città,
particolarmente di quelle periferiche.
Gli strumenti per prevenire la domanda di mobilità
sono:
- Aree urbane car free
Sull’esempio di altre esperienze europee (vedi ad
esempio il dossier di Legambiente sulla costruzione di
città senz’auto), si provvede all’istituzione sulle aree
dimesse demaniali o private, di zone abitative car-free ed
energeticamente autosufficienti. Le abitazioni e le attività
dell’area saranno ad impatto zero. Gli edifici saranno tutti
in classe energetica A, interamente autosufficienti dal
punto di vista energetico. Nell’area sarà limitato l’accesso
a a motoveicoli o autoveicoli. Lo sviluppo e la
realizzazione delle aree a impatto zero avviene a costo
zero per il Comune attraverso bandi di concorso pubblici.
- Integrazione di quartiere
Il comune, quartiere per quartiere, coinvolgendo i
cittadini, individua quali sono le principali assenze di
funzioni nell’area e struttura un piano di crescita e
promozione dei singoli servizi o attività.
Bologna più energica Torna al
Programma

Il miglioramento dell’ambiente cittadino, oltre ad essere


una necessità per la salute di tutti, costituisce anche una
importante potenzialità economica. Uno dei primi
provvedimenti è la corretta utilizzazione dell’energia,
indispensabile per rispondere a diverse e sentite esigenze
quali:
- distaccarsi quanto più possibile dalle fonti fossili;
- creare un ambiente cittadino meno inquinato;
- incentivazione di settori economici dal forte potenziale
di crescita;
- sperimentare modi di vita non centrati sull’esigenza di
mobilità legata all’automobile.
La pianificazione energetica del comune deve guardare al
medio periodo ponendosi come obiettivo minimo il
raggiungimento, entro il 2020, dello scenario 20-20-20: 20%
riduzione delle emissioni di CO2, 20% di produzione
energetica da fonti rinnovabili, 20% incremento
dell’efficienza energetica. Di pari passo il Comune seguirà
una strategia per favorire, nel lungo periodo, la completa
indipendenza dalle fonti fossili.
Nell’ambito del programma di riqualificazione
dell’ambiente rivestono un ruolo importante anche azioni
mirate allo sviluppo delle aree verdi, alla promozione della
raccolta differenziata, al risparmio dell’acqua potabile ed alla
qualità dei prodotti ortofrutticoli.
Il raggiungimento degli obiettivi è possibile strutturando,
oltre alle azioni sulla mobilità previste nell’area Bologna più
veloce, attività sulle seguenti aree:

1. Fonti rinnovabili
Per fonte energetica rinnovabile si intende una qualunque
delle seguenti: solare termico, solare fotovoltaico, eolico,
idroelettrico, geotermico, biomasse, biogas:

Diffusione delle fonti rinnovabili e riduzione emissioni CO2


È fondamentale promuovere l’uso delle rinnovabili
nell’edilizia, sia sul nuovo che sull’esistente attraverso le
seguenti azioni:
- il Comune di Bologna effettua un censimento dei tetti
degli edifici ad uso industriale e Commerciale destinati a
costituire il “Condominio Solare Bolognese”;
- si richiede, per tutti i nuovi edifici, di installare in loco
una potenza elettrica da rinnovabile pari alla taglia del
contatore elettrico richiesto. Qualora l’installazione in loco
non fosse attuabile si impone l’acquisto di energia da
fonte rinnovabile presso il “Condominio Solare Bolognese”
o altra sede sita nel Comune di Bologna;
- si richiede, per tutti i nuovi edifici, di installare in loco
una potenza solare termica da rinnovabile pari alla
potenza richiesta per la produzione di acqua calda
sanitaria;
- si richiede per gli edifici che prevedono il rifacimento
dell’impianto di riscaldamento di installare potenza
termica proveniente per almeno il 50% da gruppo
cogenerativo. Se non possibile, il 100% della potenza
termica dovrà essere ricavato da generatori a
condensazione;
- di intesa con le associazioni di categoria si istituisce
un registro degli operatori delle rinnovabili;
- diventa un atto libero e senza oneri comunali realizzare
un impianto domestico. L’impianto dovrà essere eseguito
da personale autorizzato e si ha il solo obbligo di
comunicazione al Comune di Bologna dell’avvenuta
realizzazione.
- si chiariscono attraverso il RUE le procedure di
approvazione degli impianti da fonti rinnovabili,
eliminando tutti gli impedimenti, anche per gli edifici
“classificati”.
- si incentiva la realizzazione degli impianti di
microteleriscaldamento di potenza termica non superiore
a 50 kW.

Formazione, promozione e ricerca


Il Comune di Bologna, di intesa con la Provincia, la
Regione, con le associazioni di categoria ed enti di
formazione, effettua le seguenti attività:
- promuove, in accordo con Università e Scuole
Superiori, l’istituzione della figura di “Tecnico delle
Energie Rinnovabili”;
- istituisce un monitoraggio e promuove un
coordinamento delle attività di ricerca sulle fonti
rinnovabili presenti del territorio provinciale;
- istituisce fondi di ricerca tematici per lo sviluppo delle
rinnovabili;
- individua incentivi allo sviluppo delle attività industriali
legate alle rinnovabili;
- effettua attività di sensibilizzazione al tema energetico
in tutte le scuole medie e superiori presenti sul territorio
bolognese;
- effettua campagne di sensibilizzazione al tema
energetico all’interno del comune.

2. Efficienza energetica
Il comune adotta una politica di efficienza energetica che
riguarda sia l’edilizia industriale ed abitativa (pubblica e
privata) che l’illuminazione pubblica.
- si istituisce il Registro Energetico Comunale degli
edifici;
- si introduce, come obbligo, la certificazione energetica
degli edifici nuovi e si richiede per obbligo la certificazione
energetica degli appartamenti o edifici esistenti all’atto
della compravendita o della stipula di un contratto di
locazione;
- si introduce una tassa comunale energetica in funzione
delle classi di merito con valore pari a zero per la classe A
(per le classi si utilizza quanto definito da CasaClima). La
tassa entra in vigore al momento della presentazione del
primo certificato (atto di compravendita o locazione);
- il Comune definisce un piano di dettaglio che preveda
il passaggio della illuminazione pubblica a led;
- si effettua una revisione delle modalità operative dei
sistemi di riscaldamento e teleriscaldamento pubblici
- nella definizione dei fabbisogni luminosi il Comune di
Bologna concerta l’azione di intesa con le associazioni che
hanno competenza in tema di inquinamento luminoso.

3. Sviluppo aree verdi


Il ricorso al verde costituisce un’opportunità per abbellire
la città, per ridurre l’impatto della CO2 e per migliorare il
microclima dell’area mitigando i picchi di temperatura estivi.
Consente inoltre un ombreggiamento per controllare
l’irraggiamento solare diretto sugli edifici e sulle superfici
circostanti durante le diverse ore del giorno. Al fine di
promuovere la diffusione delle arre verdi si effettuano le
seguenti azioni:
- si elabora un piano per la riforestazione urbana;
- si verificano le percentuali di verde assegnate nelle
aree demaniali ex militari;
- le alberature infestanti presenti su area pubblica
vengono sostituite essenze autoctone;
- si incentiva la sostituzione delle alberature infestanti
su area privata con altre meno nocive.

4. Rifiuti
Il Comune diffonderà quanto più possibile la raccolta
differenziata avviando la raccolta porta a porta. L’obiettivo è
quello di ridurre quanto più possibile la percentuale di utilizzo
dei termovalorizzatori. Il Comune presenterà un piano che
incentiva tutte le attività artigianali e industriali indirizzate
verso il recupero e la raccolta differenziata.

5. Utilizzo acqua piovana


Negli edifici di nuova costruzione, nei PRU e nelle
ristrutturazioni di interi stabili deve essere obbligatorio il
riutilizzo dell’acqua piovana delle coperture per:
- innaffiamento giardini ed aree verdi;
- usi non potabili condominiali (lavaggio automobili,
pulizia cortili);
- usi non potabili privati (WC, lavatrice);
- negli edifici esistenti si applicano incentivi per il
medesimo scopo.

6. Prodotti ortofrutticoli
Il Comune si impegna a promuovere produzioni e
distribuzioni di prodotti a km zero. Si impegna altresì a
verificare in maniera oggettiva la qualità dei prodotti
distribuiti nelle mense pubbliche, particolarmente in quelle
scolastiche.
Bologna più bella Torna al
Programma

La bellezza di una città è certamente fatta dai suoi edifici


artistici e dai suoi monumenti, e Bologna ne ha molti. È fatta
anche dalle sue strade e dalle sue piazze, e Bologna non
teme confronti. Infine, è fatta dal suo arredo urbano, ovvero
dallo stato di conservazione degli edifici tutti e dalla pulizia
delle strade e delle piazze. Qui sta il punto dolorosamente
debole della situazione attuale. Bologna è una città tenuta
male, sporca, in degrado. Insieme alla sicurezza e al traffico,
le pessime condizioni fisiche sono l’elemento che preoccupa
maggiormente i suoi abitanti.
Bisogna restituire a Bologna la sua bellezza attraverso
interventi e comportamenti coerenti. Facendo leva su Hera e
sulle cooperative di servizi e di manutenzione, bisognerà
procedere alla messa in ordine di tutta la città. Un maggiore
controllo dei territori scoraggerà e, all’evenienza, consentirà
di individuare e punire coloro che devastano
sistematicamente alcune zone della città e i suoi edifici.
Sarebbe bello che i cittadini, come succede in altre città del
mondo, “adottassero” una strada, una piazza, un giardino,
un edificio, ad esempio, una scuola e si impegnassero a
mantenerli puliti e scintillanti, in una sana emulazione. Tocca
anche a noi, cittadini di Bologna, impedire l’azione dei
vandali, e fare tornare la città bella come è stata fino a
qualche tempo fa.
Noi pensiamo che un piano per restituire una città più
bella ai suo cittadini possa essere strutturato sui seguenti
punti:
- restyling degli edifici fatiscenti;
- manutenzione costante dell’arredo urbano;
- valorizzazione delle aree verdi e delle colline;
- valorizzazione e ristrutturazione dei corsi d’acqua
bolognesi;
- incremento delle aree gioco per i bambini;
- installazione di fontane e bagni pubblici;
- verifica della possibilità di rendere via Riva Reno
pedonale e fluviale.

Bologna più vostra Torna al


Programma

L’esperienza amministrativa trascorsa e ormai,


fortunatamente, conclusa ha messo in evidenza che il
desiderio di partecipazione dei cittadini al governo della città
può venire facilmente trascurato, ignorato, mortificato.
Talvolta, è possibile che essa sia anche eterodiretta,
manipolata, assoggettata. Quello che, invece, noi ci
proponiamo di fare è esattamente l’opposto: offrire a tutti i
cittadini, le associazioni, i gruppi, che ritengono di avere idee
e proposte politiche in grado di migliorare la nostra
comunità, la possibilità (concreta, garantita e regolata) di
partecipare alle scelte relative al governo del nostro Comune.
La partecipazione che promettiamo, lungi dall’essere
ignorata, non sarà neppure calata dall’alto. La nostra idea è
quella di una partecipazione regolamentata e regolare,
concreta e concretizzabile.

Uno Statuto più democratico. Lo Statuto Comunale di


Bologna elenca, nel Titolo II, alcuni strumenti finalizzati alla
promozione delle più svariate iniziative popolari. Tuttavia, tali
strumenti si sono dimostrati insufficienti e inadeguati per
incanalare le numerose e crescenti richieste di partecipazione
dei singoli individui o delle associazioni nella definizione delle
priorità del governo cittadino. Riteniamo necessario, quindi,
rivedere o migliorare questa parte dello Statuto comunale,
introducendovi strumenti di democrazia diretta e deliberativa
che permettano a tutti i cittadini che lo riterranno utile ed
opportuno di prendere attivamente parte al governo della
città.

Un primo strumento che intendiamo introdurre nello


Statuto è il referendum propositivo, utilizzando il quale,
cittadini o gruppi di cittadini, potranno avanzare le loro
specifiche proposte su alcuni importanti ambiti di intervento
amministrativo. Raccogliendo un adeguato numero di firme,
tutti i cittadini potranno richiedere l’indizione di un
referendum il cui esito risulterà vincolante qualora abbia
presto parte alla votazione almeno il 50% + 1 dell’intero
corpo elettorale (o, in alternativa, il 50% + 1 di tutti coloro
che hanno partecipato alle più recenti elezioni
amministrative). Naturalmente, argomentazioni e soluzioni
simili valgono anche per la necessaria introduzione nel nostro
Statuto del referendum abrogativo.
Un secondo strumento che ci impegniamo ad inserire
nello Statuto è il bilancio partecipativo, prendendo
ispirazione delle principali esperienze note a livello nazionale
e, soprattutto, internazionale. Oltre a dare un rilievo
statutario a questa pratica partecipativa, intendiamo
proporne una regolamentazione chiara e certa, che permetta
ai cittadini interessati di conoscere in anticipo modalità, sedi
e strumenti per far conoscere ed esporre i propri progetti
all’amministrazione comunale, alle associazioni interessate e
tutti gli altri concittadini. Per sfruttarne pienamente le
potenzialità, introdurremo un “Piano del bilancio
partecipativo” prolungato nel tempo e diffuso sul territorio.
Potranno essere indette assemblee pubbliche in ogni
quartiere, all’interno delle quali, con modalità trasparenti ed
aperte i residenti indicheranno e sceglieranno con modalità
democratiche alcuni interventi (di arredo o riqualificazione
urbanistica, relativi a modifiche o miglioramenti sulla
viabilità, ecc.) che, nei limiti delle proprie disponibilità
finanziarie e potestà normative, l’amministrazione comunale
recepirà. L’amministrazione sarà anche obbligata a
prevedere, annualmente, nel bilancio comunale, un proprio
“Piano di investimenti”, all’interno del quale verrà indicata la
cifra (che potremmo fissare in una quota intorno al 20 per
cento dell’intero Piano) da riservare alle opere e agli
investimenti scelti attraverso procedure di bilancio
partecipativo.

I vari strumenti finalizzati alla promozione della


partecipazione non sono adatti indiscriminatamente per ogni
settore del governo cittadino. Per questo motivo, riteniamo
saggio affidare tematiche rilevanti come l’elaborazione dei
piani strutturali, la progettazione di importanti interventi
infrastrutturali, la discussione concernente le politiche sulla
viabilità, sullo sviluppo sostenibile (es. l’Agenda 21),
sull’integrazione o la coesione sociale, ad un precedente ed
informato dibattito deliberativo tra tutti i cittadini, le
associazioni o i gruppi che ne hanno interesse o ne sono
interessati. Per queste e per tematiche simili proponiamo
l’introduzione di procedimenti deliberativi in grado di favorire
la creazione di un consenso vasto sulla formulazione di
determinate politiche pubbliche, migliorandone al contempo
la qualità.
Introdurremo una “Norma sulla Partecipazione
all’elaborazione delle politiche comunali”, in linea con quanto
avvenuto in altri contesti italiani, primo fra tutti il caso della
Regione Toscana, che ha elaborato (e finanziato) una simile
normativa. Considerata anche la natura innovativa e
sperimentale di tale norma, riteniamo opportuno prefissarne
una scadenza, prevedendo che, alla conclusione dei primi
cinque anni del mandato governativo, la norma decada
automaticamente. La norma provvederà a redigere una
normativa generale che regolamenti: le modalità di
attivazione dei processi deliberativi, i componenti da
coinvolgere obbligatoriamente, i sistemi interni cui giungere
alle decisioni, le sedi dedicate alle fasi dibattimentali e
decisionali, le forme di pubblicizzazione degli incontri e degli
esiti. Focus groups, giurie di cittadini, assemblee cittadine,
dibattiti pubblici, sondaggi deliberativi saranno perciò alcune
delle forme di partecipazione utilizzabili a partire dalle linee
guida dettate dalla nostra “Norma sulla Partecipazione”.
Infine, sulla promozione e sul controllo di questo tipo di
partecipazione, così come su di una corretta interpretazione
della normativa, sarà chiamata a vigilare una Autorità
Garante di assoluta e comprovata indipendenza ed
esperienza che avrà anche il compito di suggerire le modalità
tecniche di organizzazione e di svolgimento delle pratiche
deliberative, tenendo in considerazione le esigenze
finanziarie e le differenti tipologie di tematiche sottoposte a
deliberazione.
Poiché riteniamo che la partecipazione sia un diritto dei
cittadini e che una comunità composta da cittadini attivi,
informati ed influenti sia una risorsa necessaria per
migliorare le tante qualità della città, elaboreremo una
“Carta dei diritti di partecipazione dei cittadini bolognesi” che
verrà estesamente resa nota all’intera cittadinanza e
rappresenterà una garanzia inalienabile per tutti quei
cittadini bolognesi che riterranno di avere soluzioni da
avanzare per il miglioramento di Bologna e vorranno farlo nel
modo più influente, decisivo e partecipato possibile.

In democrazia, chi comanda e deve continuare a


comandare è il popolo. Anche quando elegge i propri
rappresentanti nelle cariche istituzionali e questi
rappresentanti, a loro volta, nominano degli esperti, dei
consulenti, dei garanti, ecc., per condurre alcune, specifiche,
funzioni amministrative, gli elettori devono continuare ad
essere sovrani. Il popolo è chiamato a valutare l’operato di
chi, per conto suo e perseguendo il suo unico interesse,
decide sul presente e sul futuro della propria vita. Gli elettori
riusciranno a valutare cosa i loro rappresentanti hanno fatto,
non fatto o malfatto nelle azioni pubbliche qualora sia
presente un rapporto di totale ed incondizionata trasparenza
tra rappresentanti e rappresentati. Nel XXI secolo, la
trasparenza è possibile e fortemente incentivata dalle
tecnologie, in particolare da un utilizzo accorto e intelligente
di internet e dei numerosi strumenti disponibili di governo e
di democrazia elettronica.
Per favorire il rapporto di chiarezza e trasparenza tra
elettori ed eletti, tra i bolognesi ed i rappresentanti
istituzionali dei bolognesi, predisporremo due utili strumenti,
pensati con la precisa intenzione di rendere qualsiasi
rapporto o provvedimento politico assolutamente visibile.
Il primo intervento riguarda il miglioramento della Rete
Civica Virtuale (Iperbole), che permetta ad ogni cittadino di
accedere direttamente, dalla propria abitazione, a tutte le
informazioni sul governo cittadino. Ogni bolognese avrà,
dunque, la possibilità di prendere visione di ogni decisione,
delibera o di ogni altro atto discusso, presentato od
implementato dalla Giunta o dal Consiglio comunale. Inoltre,
la Rete Civica diventerà un servizio non soltanto informativo
per tutti i bolognesi, ma, soprattutto, uno strumento
operativo grazie al quale i cittadini, adeguatamente
informati, otterranno direttamente, certificati, pareri,
ricevute di pagamento e altre pratiche di loro interesse.
Un secondo strumento che introdurremo sarà l’Anagrafe
pubblica degli amministratori bolognesi (APAB). Attraverso
questo elemento, intendiamo innanzitutto rendere
assolutamente trasparenti alcune caratteristiche di rilievo
pubblico di tutti coloro che, direttamente o meno, svolgono
un’attività istituzionale o paraistituzionale in Comune o per
suo conto. L’anagrafe conterrà le informazioni sui redditi,
sulle proprietà mobiliari o immobiliari, sui ruoli o le funzioni
svolte, sulle varie cariche possedute attualmente e in
passato, di tutti gli eletti al Consiglio comunale, dei
componenti della Giunta e, anche, di coloro che verranno
nominati ad amministrare le aziende dei servizi pubblici locali
o delle società “partecipate” (municipalizzate).
Con questo strumento, oltre ad incrementare la
trasparenza nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati,
intendiamo inoltre prevenire l’insorgenza di quei fenomeni,
nocivi per un corretto ed imparziale funzionamento della
democrazia, legati alla presenza di conflitti di interessi, tra
salvaguardia del bene pubblico e perseguimento
dell’interesse privato.
Una città nella quale i cittadini partecipano tutte le volte
che lo desiderano, controllano, suggeriscono e criticano, sarà
sicuramente una città meglio governata.

Una Pubblica Amministrazione più efficiente. Se


l’amministrazione di una città deve essere un servizio per i
cittadini, la buona amministrazione, deve essere sempre più
sinonimo di un buon servizio, efficace ed efficiente, per tutti i
bolognesi. Migliorare la nostra qualità amministrativa
significa, innanzitutto, rendere più snello, trasparente,
efficiente ed economico il funzionamento della struttura
organizzativa interna al comune. Per questa ragione,
introdurremo le seguenti modifiche o riforme nei
comportamenti e nelle organizzazioni pubbliche cittadine:
- una riforma del decentramento che attribuisca ai
Consigli di Quartiere il potere esclusivo di decidere su
tutte le materie che non richiedano, al fine di perseguire
maggiori livelli di efficienza ed efficacia, un
coordinamento comunale;
- il rafforzamento del senso di appartenenza dei
dipendenti comunali motivandoli sempre più a svolgere il
ruolo, importante e gratificante, di “civil servants”. È
necessario, quindi, riscoprire e rivalorizzare quel senso di
appartenenza alla comunità che faceva dei dipendenti
comunali un imprescindibile elemento costitutivo di quella
Bologna ammirata in Italia e nel mondo, anche
ripensando il ruolo di un sindacato interno spesso
corporativo e poco lungimirante;
- una vera autonomia organizzativa degli Enti locali. Ci
impegneremo perché il Comune di Bologna sia tra i
promotori di una costante ed influente pressione degli
Enti locali nei confronti del Governo nazionale, al fine di
impedire l’approvazione di ulteriori norme che finiscano
per comprimere l’autonomia locale e mortificare le
esigenze dei territori;
- l’esternalizzazione dei servizi solo quando è
conveniente. A Bologna nessuno a tutt’oggi è in grado di
dire se, quando si è fatta la scelta di appaltare servizi
prima gestiti direttamente o di smantellare le
municipalizzate per affidare i servizi a S.p.A. A
partecipazione pubblica (vedi in questo caso HERA e ATC,
ma anche, nel primo caso, servizi minori, per quanto non
meno rilevanti, quali l’assistenza agli anziani affidata a
cooperative sociali), si sono confrontati i costi delle
gestioni “tradizionali” con quelli evidenziati da rigorosi
studi di fattibilità sulle gestioni esternalizzate;
- il mantenimento dei servizi pubblici sotto il controllo
dell’amministrazione pubblica locale, a prescindere dalle
modalità con cui vengono gestiti. Questo controllo deve
essere tanto più efficace quanto più i servizi vengono
appaltati a soggetti privati o a Società partecipate dal
Comune. L’attività di controllo va rafforzata applicando
specifiche metodologie di monitoraggio.

Bologna più ricca Torna al


Programma

Sappiamo che la ricchezza non si misura soltanto con la


disponibilità di denaro. Sappiamo anche che la produzione di
ricchezza monetaria serve a soddisfare esigenze, a garantire
opportunità, a ridurre le diseguaglianze.
1. Bologna costituisce un insediamento ideale per le
attività economiche:
- Interconnessione nazionale ed internazionale:
autostrade, ferrovia, aeroporto, collegamenti ferroviari
con Milano (1 ora) e Roma (2 ore), aerei (max 2/3 ore
per qualunque destinazione europea).
- Capitale umano: un’università (la prima italiana
nel mondo) in grado di fornire risorse competenti in ogni
ramo dello scibile.
- Servizi: fiera, interporto, tessuto imprenditoriale
e camera di commercio aperta a scambi internazionali,
prossimo incubatore tecnologico nella ex manifattura
tabacchi.
- Clima e servizi sociali: da migliorare ma sicuramente
interessanti nel panorama italiano.

Con l’attuazione dell’Area Metropolitana, e con un’adeguata


campagna di marketing internazionale, si dovrà raggiungere
una massa critica in grado di aumentare l’appeal nei
confronti di società ed enti internazionali.

2. Creazione di un tavolo permanente di confronto


Comune – Associazioni imprenditoriali – Università.

Commercio, Degrado, Viabilità e Micro-criminalità


Il commercio a Bologna viene interpretato dagli
operatori come un unico problema connesso al sistema della
viabilità e della micro-criminalità. La vivibilità delle aree
tanto centrali quanto esterne non può prescindere da queste
questioni ma alla base bisogna prevedere una presenza
continuativa sul territorio sia di operatori economici che di
consumatori.
Occorre, in altri termini:
- favorire l’insediamento di attività – fisse o mobili – in
grado di creare attrazione. Potrebbero essere nuove
“gallerie commerciali”, nuovi parcheggi pubblici che
favoriscano dei percorsi pressoché obbligati,
tensostrutture volte ad ospitare attività culturali-
commerciali-teatrali, ecc.
- coinvolgere il settore mobilità e l’ATC, valutando nuove
idee sull’agibilità, su Sirio e la sosta, sull’incentivazione al
mezzo elettrico, il car-pooling, la creazione di ulteriori
zone a traffico limitato, la regolamentazione
carico/scarico merci, ecc.
- coinvolgere i teatri, i cinema ed i luoghi di spettacolo,
l’Università, gli antiquari ed i galleristi, i commercianti per
sistematizzare in un calendario gli eventi culturali e
sociali;
- individuare per ciascun “rione” commerciale della città,
in collaborazione con le Associazioni di categoria, di un
referente che funga da coordinatore per le attività
sopraelencate, e di un tavolo di concertazione con il
comune, in modo da sperimentare nuove proposte per
garantire vivibilità e piacevolezza dell’abitare.

Il Turismo
Il turismo a Bologna non è divenuto un settore strategico
e i consistenti incrementi, percentuali ma non assoluti, nel
numero di presenze negli anni passati sono da ricondurre alla
pressoché assente strategia delle politiche economiche
cittadine.
Occorre, invece, pianificare a sistema le opportunità
turistiche del territorio, coinvolgendo l’Università, sia come
punto di eccellenza della cultura, sia come entità da far
visitare per affrontare nuove politiche di attrazione.
Occorre potenziare il Sistema Turistico Locale nella logica
che ciascun sistema, da solo, non è sufficiente a determinare
presenze consistenti, ma che se messe a sistema,
permettono di competere con altri sistemi turistici. Occorre
ad esempio:
- pensare ad uno specifico assessorato al turismo;
- proporre Bologna come scenario architettonico di eventi
artistici e culturali;
- curare un accordo con la regione per una proposta di
sistema museale in rete con altre città d’arte regionali e
studiare un percorso treno/bus che colleghi in modo
permanente le eccellenze di questa rete;
- proporre un accordo con le associazioni degli albergatori
per pacchetti tutto compreso, soprattutto in occasione di
eventi fieristici, che comprendano visite e tour artistici e
rappresentazioni teatrali.

Le Società Partecipate
- maggior controllo sulle “mission” delle società
partecipate e sulla loro gestione;
- trasparenza degli emolumenti corrisposti a vario titolo ai
vertici aziendali;
- divieto di cumulo di incarichi nelle società controllate/
partecipate dal comune, salvo deroghe esplicitamente
giustificate;
- tentare, attraverso l’accordo con gli altri soci pubblici, di
ridurre le partecipazioni pubbliche ad un livello di
minoranza “qualificata” che permetta di monitorare e
mantenere il perseguimento dell’interesse pubblico senza
coinvolgimenti e influenze sulla gestione;
- gestire in modo dinamico le partecipazioni reinvestendo
quelle dismesse in nuovi stimoli per l’economia locale.

Bologna più sicura Torna al


Programma

La sicurezza non è un optional. Non è neppure


semplicemente un affare di numeri, con i reati che spesso
aumentano, qualche volta diminuiscono, anno dopo anno. È
anche un problema di percezione dai parte dei cittadini che si
sentono, per l’appunto, insicuri. In Emilia-Romagna 25
persone su cento hanno dichiarato di provare insicurezza
paura, le donne due volte più degli uomini. È un problema al
quale il Sindaco si impegna a dare una risposta creando le
condizioni per prevenire i reati e per rendere la vita dei suoi
concittadini più sicura. Ovunque, uno dei compiti più
importanti dei governi consiste proprio nel garantire
sicurezza ai cittadini e nel tutelare l’ordine pubblico. È vero
che la sicurezza non è né di destra né di sinistra,
Certamente, è di tutti. Ma è anche vero che le risposte al
problema possono effettivamente essere di destra o di
sinistra. La risposta di destra, proclami, repressione e ronde,
non soltanto non ci piace. Non funziona. La risposta di
sinistra, almeno della sinistra come la concepiamo noi, è,
anzitutto, l’applicazione della legge, la certezza della pena,
l’ordine ristabilito e mantenuto dalla polizia locale e dagli altri
corpi, nel rispetto dei diritti dei cittadini, ovviamente, in
particolare, di quelli che non delinquono. Noi crediamo che
sia compito del governo locale con gli strumenti di cui
dispone offrire protezione ai suoi cittadini. Certamente, le
associazioni di cittadini possono a loro volta contribuire
all’ordine pubblico curandosi dei loro spazi di competenza,
ma non vediamo l’esigenza di fare ricorso alle ronde.
Crediamo che una migliore illuminazione dei luoghi a rischio
e la presenza sul territorio di telecamere che diano anche
l’allarme contribuiranno a scoraggiare i potenziali criminali.
Riteniamo necessario attivare un numero telefonico di pronto
soccorso per ogni evenienza. Pensiamo che la polizia
municipale debba organizzarsi per essere presente e
circolante sul territorio cittadino nell’arco dell’intera giornata.
Opereremo affinché si giunga ad un efficace coordinamento
di tutte le forze dell’ordine. Non intendiamo criminalizzare a
priori nessuno. Sappiamo, però, dai dati inconfutabili che
alcuni reati, come rapine, borseggi, furti negli appartamenti,
vengono commessi in maniera sproporzionata da due gruppi
sociali: gli immigrati e gli studenti. Sono i due gruppi che,
per ragioni d’età e di mancata integrazione, ovunque
compaiono nelle statistiche come quelli più a rischio di
commettere reati. Pertanto, unitamente alle misure di
prevenzione e di sanzione che possono essere attuate dal
Comune, promuoveremo misure di integrazione degli
studenti e degli immigrati. Spazi abitativi che non siano
ghetti; apertura delle biblioteche e di luoghi di studio fino a
tardi; decentramento degli esercizi pubblici, bar e pubs che
rendano più allegre e vivibili anche le periferie;
responsabilizzazione delle associazioni degli studenti e degli
immigrati. Crediamo che sia indispensabile operare anche
sulle cause sociali del crimine, favorendo l’integrazione, ma
non possiamo e non dobbiamo chiudere gli occhi sulla
situazione attuale. La percezione dell’insicurezza diminuirà
perché il governo cittadino saprà intervenire sulle cause
dell’insicurezza prevenendo i crimini, scoraggiando e facendo
perseguire i criminali, favorendo maggiore controllo sociale e
migliore integrazione.

Bologna più giusta Torna al


Programma

La povertà in Italia rimane una grave questione sociale e


Bologna, famosa per l’efficienza della sua rete di servizi
sociali e strutture sanitarie, anche se in misura minore dal
resto d’Italia, non è esente da questo fenomeno. Infatti, i
poveri, i soggetti a rischio di povertà e la condizione di
disagio a Bologna sono in aumento e i servizi specifici offerti
sono fortemente in crisi.
I senza fissa dimora e i senza reddito possono essere
calcolati, attualmente, in circa 1.000 persone; gli anziani soli
(29.248, di questi 22.900 sono donne, in aumento) corrono il
rischio di diventare invisibili per il fenomeno
dell’emarginazione (per esclusione o per auto-esclusione); le
famiglie, primo e a volte unico vero ammortizzatore sociale,
sono le più colpite dal declino economico e dal processo di
impoverimento; gli immigrati regolari, (circa 78.000), fanno
fatica ad integrarsi; i cassaintegrati (attualmente 15.000) e i
precari, sono una categoria destinata ad aumentare.
Nel sottolineare la carenza di interventi preventivi lungo il
percorso che porta alla povertà le Criticità più evidenti sono:
a) La politica della Casa per tutti. Non si può
combattere la povertà senza partire dal diritto alla casa. Se
non hai un tetto, non c’è welfare o rete di servizi che ti possa
aiutare davvero. Non si può parlare di benessere o di
coesione sociale senza partire dalle politiche abitative.
Occorre modificare l’approccio culturale all’abitare
promuovendo il diritto alla casa non come bene di
investimento privato ma come bene d’uso. Su questo punto
noi ci impegniamo a:
- promuovere il diritto ad una casa in affitto a prezzi
sostenibili per tutte quei nuclei familiari che hanno
difficoltà ad affrontare il libero mercato della
compravendita e della locazione di alloggi;
- costituire un “Fondo sociale affitti”;
- recuperare, oltre alle caserme, le case e le scuole
abbandonate e con un eventuale piccolo sforzo di
ripristino igienico-sanitarie dei locali malmessi far fronte
all’emergenza abitativa con una gestione più trasparente
nell’assegnazione delle case popolari;
- mettere a disposizione tutti gli appartamenti di
proprietà pubblica da affidare in autogestione con
l’assistenza del Comune per il Gruppo Appartamento
Uomini Adulti, possibilità che viene già offerta a Bologna
in modo insufficiente;
- estendere agli altri Comuni della Provincia il previsto
Piano straordinario di edilizia destinata all’affitto, da
realizzarsi con il contributo determinante dei Privati e
della Cooperazione.

b) L’integrazione sociale ed economica dei cittadini


stranieri, già resa difficoltosa dalla Bossi-Fini per il costante
rischio di un ritorno alla condizione di irregolarità, vincolando
la durata del permesso alla durata del contratto di lavoro,
trova ulteriori difficoltà nell’ancora lontana inclusione
culturale di quegli italiani che si sentono minacciati dal
diverso. Molti giovani studenti immigrati, inoltre, giunti a
maggiore età e quindi non più tutelati e non ancora
lavoratori, corrono il rischio di essere espulsi dall’Italia, dove
magari sono nati e cresciuti. I ricongiungimenti familiari, la
nascita e la socializzazione dei figli dei migranti, e il nuovo
fenomeno di giovani immigrati minorenni che arrivano da soli
devono indurre un incremento dei rapporti tra gli immigrati e
le istituzioni della società ricevente, producendo un processo
che porterà l’immigrato ad essere membro e soggetto attivo
della città, un cittadino in tutti i sensi anche
indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti e
rappresentano un punto di svolta dei rapporti interetnici,
obbligando a prendere coscienza di una trasformazione
irreversibile nella geografia umana e sociale di Bologna.
A questo scopo la Consulta Comunale degli stranieri e
degli apolidi è un importante strumento di dialogo con le
comunità degli stranieri residenti, per coinvolgerli sui temi
collettivi, per conoscere e capire meglio le loro esigenze e
per sostenere insieme lo sviluppo solidale della nostra
società. Accanto all’inclusione sociale ed economica
dell’immigrato non è meno importante l’inclusione “culturale”
di quegli italiani che si sentono minacciati dal “diverso”.
Infine, proponiamo la creazione di un Osservatorio
formato dalle istituzioni e da rappresentanti delle
Associazioni volontaristiche per meglio evidenziare gli strati
sociali poveri o in fase di forte disagio economico. Con
sportelli sociali più funzionali e presenti in ogni quartiere si
potrà ampliare e migliorare l’offerta dei servizi sanitari e
sociali e aumentare i contributi alle famiglie con 3 o più figli
e/o anziani fragili, disabili. L’aumento degli immigrati rende
necessario un incremento dell’attività di mediazione.
Facilitare l’introduzione del Microcredito che potrebbe dare
una risposta ad alcune forme di povertà, ai problemi di
liquidità delle famiglie a basso reddito e alla disoccupazione
giovanile. Carcerati: Alla luce del decentramento in atto, i
Quartieri potrebbero organizzare un pacchetto di lavori
socialmente utili da affidare, ad esempio, a Cooperative
(come la Cooperativa Sociale Verso Casa) che da diversi anni
si occupano del reinserimento lavorativo di ex carcerati o
carcerati. Altra possibilità di reinserimento è il cosiddetto
“Progetto Papillon” nato tre anni fa tramite borse lavoro
concesse a carcerati di lunga durata impiegati
prevalentemente nella consegna di pasti a domicilio e nei
Centri diurni.

Bologna più dotta Torna al


Programma

Non c’è altra città in Italia che possa fregiarsi


legittimamente del titolo “dotta”. L’Università di Bologna è un
grande luogo di concentrazione, di produzione e di diffusione
di sapere. La cultura è centrale, non soltanto per la fama di
Bologna, ma anche per il suo benessere attuale e per la sua
prosperità futura. È indispensabile che fra Comune e Ateneo
si attivi un interscambio di idee e di proposte attraverso le
quali potrà emergere un circolo virtuoso che coinvolgendo le
competenze dei docenti e dei responsabili di molte istituzioni
culturali, quali il MaMBo, il Lumière, il Teatro Comunale, il
Teatro Duse, L’Arena del sole, solo per citarne alcune (arte,
film, musica e spettacolo) utilizzino al meglio tutto quanto
farà di Bologna una città ancora più dotta. Tra le priorità
della nostra città in questo momento mettiamo non solo
l’università, ma la scuola tutta. Pensiamo alla Bologna del
futuro, ad un Comune in cui l’educazione e l’istruzione dei
giovani e siano una priorità, un Comune che abbia il coraggio
di investire in un processo di cambiamento, di miglioramento
qualitativo, per favorire progetti anche audaci di scuole
nuove, per una città con la quale le istituzioni scolastiche si
debbono confrontare in modo paritetico, senza sudditanza,
per costruire un’alleanza culturale fortissima. Il rapporto tra
Scuola ed Ente locale non si può ridurre a semplici richieste
di finanziamenti. Occorre costruire una profonda dialettica
tra istanze sociali, nuovi bisogni materiali e culturali, stili di
vita, diritti e doveri di cittadinanza – rappresentati dagli Enti
locali – e la professionalità pedagogica, metodologica,
didattica, la capacità di produrre e trasmettere cultura,
propri dei professionisti della scuola che debbono essere
valorizzati e non mortificati.

La scuola
Il sistema educativo bolognese è forte e ben radicato nel
territorio, anche grazie all’impegno degli Enti locali che vi
hanno dedicato risorse umane ed economiche, alla qualità
professionale, pedagogica e didattica dei docenti, alla
considerazione di cui gode la scuola nelle nostre Comunità, ai
rapporti di fiducia ed alla partecipazione attiva delle famiglie.
La generalizzazione della scuola dell’infanzia, l’estensione
del tempo scuola per scelta educativa oltre che per esigenze
sociali, gli alti livelli di scolarizzazione superiore, l’attenzione
alle esigenze occupazionali in particolare femminile, sono
caratteristiche molto note di questo sistema formativo e di
questo territorio, che ha visto nell‘investimento in formazione
e ricerca il volano dello sviluppo economico e sociale. Questo
sistema ha retto con difficoltà, ma con impegno crescente a
fronte di una duplice congiuntura: progressivo incremento
della popolazione scolastica (dal 2004 si registrano 3.000
studenti in più ogni anno scolastico) grazie anche
all’accoglienza di un consistente flusso immigratorio (11 per
cento di alunni stranieri presenti nelle scuole bolognesi di
ogni ordine e grado). Tale investimento assume oggi, a
fronte di una crisi senza precedenti, un rilievo più che mai
strategico anche come sponda per la qualificazione o la
riqualificazione delle lavoratrici e dei lavoratori sospesi o
espulsi dal lavoro. I dati sono preoccupanti: Scuola primaria
2.435 alunni in più, 243 posti in meno; Scuola media 3.091
alunni in più, 688 posti in meno; Scuola secondaria 665 posti
in più, 427 posti in meno.
Il nostro sistema scolastico provinciale non può sostenere
– specie a fronte del consolidato trend di crescita della
popolazione scolastica – il prospettato taglio di circa 1.500
unità di personale docente ed ATA nei prossimi due anni (500
docenti nel solo prossimo anno), aumenta la loro
precarizzazione mentre occorrerebbero invece almeno 250
docenti in più per il prossimo anno scolastico, oltre ad
almeno 40 docenti aggiuntivi per il sostegno agli alunni con
disabilità, a fronte dell’incremento della popolazione
scolastica di 3.000 studenti. A tali tagli non potrà
corrispondere alcun ruolo di supplenza da parte degli Enti
Locali, in considerazione delle loro competenze in materia e
dell’attuale stato delle condizioni della finanza locale.
Intendiamo pertanto metter in campo ogni risorsa sia per
assicurare l’attivazione di tutte le sezioni a tempo pieno ad
oggi esistenti nella scuola dell’infanzia e delle nuove sezioni
richieste dalle famiglie per il prossimo anno scolastico sia
affinché venga accolta la domanda, aggiuntiva, rispetto al
numero attuale delle sezioni a tempo pieno attive in
provincia di Bologna, espressa dalle 3.200 famiglie che
hanno iscritto i propri figli nelle prime classi della scuola
primaria. Soltanto una scuola in piedi, può garantire la vita
stessa e il perpetuarsi della democrazia, che ha bisogno, per
mantenersi, di saperi che circolano, di diversità culturali, di
conoscenze, di senso critico diffuso, di competitività
intellettuale. Lavoreremo dunque per mantenere istituzioni
scolastiche in piedi, con una “spina dorsale”, con insegnanti
che riscoprano il gusto (e i vantaggi) dell’autoformazione,
della valutazione (per se stessi e per i loro studenti) e della
carriera. Solo cosi pensiamo di contribuire alla formazione di
cittadini in grado di conservare la propria identità nazionale e
di rapportarsi alle altre culture, rispettando e riconoscendo il
valore della diversità come fonte di arricchimento.
A questo serve la scuola: ad aiutare le persone a
crescere, e a tenere insieme la comunità sociale. L’istruzione
è un “diritto di cittadinanza”. E a questo non vogliamo e non
dobbiamo rinunciare.

La cultura è qualità sociale e investimento strategico


Accedere alla cultura (qualsiasi siano le sue
manifestazioni: cinema, teatro, musica ecc.) ed al patrimonio
culturale significa partecipare alla vita sociale, migliorare il
nostro benessere, accrescere il nostro capitale umano,
stimolare la nostra progettualità. Le occasioni di consumo
culturale valorizzano il tessuto sociale, la coesione della
nostra comunità, generano fiducia, senso di identità e di
cooperazione.
Noi viviamo nell’era della società della conoscenza, la
competitività dei territori nell’economia moderna è
strettamente connessa alla diffusione della cultura, come
riconosciuto dall’Agenda di Lisbona del 2000 in cui gli Stati
della UE hanno stilato una strategia: trasformare entro il
2010 il sistema europeo nell’economia più competitiva del
mondo che punta sulla conoscenza, sull’innovazione e sulla
creatività. Una buona atmosfera culturale è la chiave per la
produzione di creatività. Un ambiente culturale (educativo o
di comunità) libero, interdisciplinare, multiculturale e
stimolante è il giusto volano per la produzione di creatività e
di talenti o per attrarre e trattenere i cosiddetti cervelli,
fattori strategici per la crescita del territorio.

La cultura rende la città più attraente


Una rete capillare di efficienti strutture culturali (come
scuole, musei, biblioteche, cinema, teatri ecc.) oltre a efficaci
manifestazioni quali festival, rassegne, mostre, tutte capaci
di appoggiare e stimolare l’apprendimento e la scoperta per
tutto l’arco della vita costituiscono un investimento
fondamentale per offrire oltre ad un attraente presente un
futuro prospero al nostro territorio: più persone in giro per
gli spazi e i luoghi della città, più visitatori quindi più
commercio, meno degrado e meno disagio sociale.

Cosa fare
Il sistema culturale bolognese ha enormi potenzialità. È
caratterizzato da forte eterogeneità con istituzioni culturali di
rilievo nazionale (tra tante l’Università, i musei, le
biblioteche, la Gam, la Cineteca, la Fondazione Lirico
Sinfonica- Teatro Comunale, l’Accademia di Belle Arti), con
teatri, festival, imprese della cultura, delle comunicazione,
del cinema, dei contenuti digitali, con organizzatori di eventi
culturali, artisti, scrittori, fumettisti, designer, numerose
associazioni. Inoltre Bologna è riconosciuta dall’Unesco città
della Musica, unica in Italia e seconda in Europa solo a
Siviglia. Ha una significativa presenza di imprese che
operano nella filiera della produzione audiovisuale
cinematografica e televisiva.
Questo sistema è un patrimonio strategico per lo sviluppo
della città, ma già dal 2009 è stato fortemente compromesso
dal cospicuo taglio al Fondo Unico dello Spettacolo e dai tagli
delle sovvenzioni locali e delle erogazioni delle Fondazioni
Bancarie. Il Comune interverrà facendosi promotore di una
azione di coordinamento con gli altri soggetti istituzionali
(Ministero, Regione, Provincia e Fondazioni Bancarie) oltre
che con gli attori del settore per definire un Piano Strutturale
per la Cultura a Bologna.
Questo Piano darà risposte lungo le seguenti linee
programmatiche:
- Cultura come investimento, come leva produttiva
capace di contribuire alla crescita della città e di attrarre
nuove risorse.
- Valorizzazione delle sinergie tra le realtà culturali della
città e della provincia, mettendo in comunicazione il
centro con le periferie, nell’intento di qualificare l’offerta
complessiva e renderla più capillare, eliminando aree di
abbandono.
- Valorizzazione delle istituzioni culturali della loro
capacità progettuale e della loro operatività. Potenziare il
loro dialogo con la società civile in particolare modo con
l’associativismo.
- Favorire il pluralismo dell’offerta culturale costruendo
convenzioni con le istituzioni o con i soggetti che
gestiscono spazi culturali comunali che prevedano il
sostegno all’attività di nuovi soggetti.
- Costruire sinergie con il principale “produttore culturale”
che è l’università per condividere obiettivi e strategie per
valorizzare il ruolo dell’Alma Mater nel tessuto cittadino.
- Progettare e realizzare spazi di auto-produzione aperti
ai giovani, agli artisti ed alle associazioni culturali, che
operino in contatto con i quartieri, nell’intento anche di
riqualificare strutture dimesse ed ottimizzare l’utilizzo
degli spazi cittadini esistenti.
- Potenziare le azioni che utilizzano la cultura come
strumento di inclusione sociale e che permettano uno
scambio interculturale.
- Costruire una politica di pianificazione territoriale che
metta al centro la realizzazione di infrastrutture culturali.
- Creare le condizioni perché Bologna possa competere
per affermarsi come città del cinema e del multimediale.
- Dotarsi di strumenti di commercializzazione e di
promozione nazionale ed internazionale delle produzioni
culturali locali.
- Predisporre uno sportello di assistenza delle nuove
realtà associative o dei giovani artisti.
- Progettare sostegni all’insediamento di imprese che
operino in settori creativi.

Bologna più artistica Torna al


Programma
Bologna è città d’arte e di artisti, grazie alla presenza e
all’attività dell’Accademia di Belle Arti ma anche e soprattutto
ad una tensione culturale, ad un interesse per le cose
dell’arte e per la bellezza che sono elementi strutturali della
sua stessa identità di comunità civile. Ma ormai da troppi
anni, gli artisti sono tenuti da parte, al di fuori delle sedi in
cui vengono prese le decisioni importanti, quelle che segnano
la vita della città e la trasformazione del suo tessuto urbano.
Ognuno vive nel proprio atelier, riferendosi magari a
strutture e situazioni non locali, e senza avere di fatto
rapporti culturalmente significativi con l’amministrazione e
con i concittadini.
Per non disperdere il vivacissimo patrimonio di idee e di
proposte che gli artisti vanno di continuo elaborando e che
potrebbero mettere a disposizione dell’intera collettività, è
dunque necessario coinvolgerli nell’elaborazione del nuovo
volto della città, un volto che potrà nascere soltanto ed
esclusivamente dall’incontro tra cultura di tradizione ed
esigenze dei nuovi abitanti, sia pur portatori di valori
diversissimi.
Gli artisti, per la loro stessa natura, sono tra i primi, tra i
più attenti e disponibili a fiutare il vento del nuovo e ad
accogliere suggerimenti fino ad ieri persino impensabili.
Bisogna dunque invitarli tutti – dal maestro affermato alla
giovane promessa – a portare idee su come dovrà essere
questa “Bologna più bella”, idee non necessariamente
formalizzate (questo sarà compito di altri all’interno della
“macchina comunale”, dai responsabili dell’ufficio tecnico e
del verde pubblico a quelli dei musei cittadini) ma
esteticamente vitali, probabilmente provocatorie e persino
eccessive; ma, in ogni caso, stimolanti e ricche di
potenzialità.
Ogni artista sceglierà liberamente il tema, il linguaggio e
il mezzo della propria proposta, la presenterà sotto forma di
progetto o di immagine in un incontro pubblico che avrà
luogo entro la metà di maggio, e la vedrà spargersi per tutta
la città grazie alle nostre «farfalle», molto più che banale,
scontato materiale elettorale, in quanto veri e propri
«volantini d’autore», «qualcosa che inviti alla riflessione, e
possibilmente all’azione».
Si potrà così coniugare la libertà creativa con il dialogo, il
dibattito con l’intuizione del futuro, in una città che sappia
diventare meno prudente, meno conformista, fors’anche
meno noiosa di quanto non sia stata negli ultimi quindici
anni.

Gli istituti culturali


All’impegno culturale e alle proposte estetiche che
giungono dall’esterno deve corrispondere un miglior
funzionamento del Settore Cultura dell’Amministrazione
comunale.
L’Assessorato alla Cultura deve trasformarsi in luogo
d’incontro per tutte le realtà operanti per la cultura a
Bologna (pubbliche e private, istituti e associazioni, musei,
teatri, gallerie, riviste, ecc.) e deve porsi come loro
interlocutore e mediatore, fino a diventarne il punto di
riferimento, utilizzando come strumento non secondario
anche costanti momenti di coordinamento.
I musei comunali devono tanto acquisire sempre
maggiore autonomia quanto coordinare molto più
strettamente il lavoro, tramite gli incontri periodici presso
all’Assessorato.
La formula dell’Istituzione non funziona. Nata per sveltire
le procedure burocratico-amministrative e per attirare
interlocutori privati, l’Istituzione ha negli anni dimostrato che
questo di fatto non accade: a livello decisionale si sono
piuttosto moltiplicati incarichi e ruoli, con il conseguente,
inevitabile scarico reciproco di responsabilità e il
rallentamento concreto delle procedure; sul piano dei
rapporti con i privati, non si riesce ad attrarre il loro
interesse e non si può contare su contributi sostanziali e
costanti, tanto che l’Istituzione resta a tutti gli effetti un
ufficio comunale con più dirigenti e più passaggi decisionali.
È invece necessario che ogni istituto abbia il proprio,
specifico direttore con un ruolo chiaro e responsabilità certe.
Il direttore dovrebbe venir incaricato dal sindaco su proposta
dell’assessore alla cultura per un periodo, rinnovabile, di
cinque anni. Il conferimento di tale incarico dovrebbe
avvenire entro sei mesi dall’insediamento della Giunta e sulla
base di una proposta di programmazione presentata dai
candidati all’Assessore corredata dalle previsioni di spesa.
Predisporremo spazi di lavoro (atelier, spazi teatrali) e di
soggiorno (foresteria?) per attirare operatori dei diversi
settori culturali (musicisti, attori, artisti, poeti) provenienti da
altre parti d’Italia e d’Europa e garantire loro possibilità di
lavoro a Bologna. Riserveremo particolare attenzione a tutte
le forme di acquisizione di beni culturali, tramite gli strumenti
della donazione, legato testamentario, acquisto, deposito
permanente.
- SI al finanziamento pubblico della cultura perché va
considerata come servizio sociale di grande importanza,
ma solo in presenza di rigorose analisi costi-benefici.
- NO alla cultura dell’effimero, alla “movida con grandi
eventi e grandi sponsor”.
- SI alla cultura come crescita quotidiana, nel lavoro
costante, continuativo e metodologicamente orientato a
una strategia delle politiche culturali che tenda a
rafforzare e qualificare gli istituti esistenti, ma aperti ai
contributi esterni ed alle proposte di altri.

Bologna più sportiva Torna al


Programma

L’attività sportiva porta con sé forti valenze educative e


culturali, alcune delle quali collegate al benessere sociale
(welfare). L’attività sportiva è fatta di componenti
associative, aggreganti, solidaristiche, sociali, ludiche,
turistiche e, nell’ultimo decennio, ha assunto caratteristiche
spontanee di integrazione multiculturale. Non è esagerato
affermare che i valori di una attività sportiva correttamente
praticata contribuiscono a migliorare la qualità della vita.
In materia di sport, l’ente locale ha competenze
specifiche dettate dalla legge regionale del 25 febbraio 2000,
n. 13 “Norme in materia di sport” e per quanto attiene la
gestione degli impianti sportivi integrata dalla legge
nazionale del 27 dicembre 2002, n. 289 “Nuove norme per le
società sportive dilettantistiche” con modalità di affidamento
delle gestioni disciplinate dalla regionale del 6 luglio 2007, n.
11. L’Associazione “Cittadini per Bologna” intende contribuire
alla diffusione dell’associazionismo sportivo nei quartieri e
ridare vita al patto di collaborazione firmato negli ultimi mesi
del mandato dalla giunta Vitali, patto in parte disatteso dalla
giunta Guazzaloca e totalmente disatteso dalla giunta
Cofferati. Sappiamo che i dirigenti che si impegnano nella
gestione delle attività sportiva danno un contributo rilevante
alla città, al buon uso del territorio, persino al controllo
sociale delle tensioni. Il Comune dovrà, dal canto suo,
impegnare risorse per rendere tutti gli impianti a norma e
sicuri per gli utenti, giovani, adulti, anziani.
Al fine di individuare le carenze e gli obiettivi
programmatici, l’Amministrazione comunale organizzerà nei
primi mesi del mandato una “Conferenza cittadina sullo
sport” coinvolgendo tutti gli interessati, senza nessuna
preclusione. Darà poi vita ad una “Consulta comunale dello
sport” affinché chi avrà la delega allo sport possa verificare
periodicamente lo stato di attuazione del programma e
individuare tempestivamente i bisogni emersi. Particolare
attenzione va data alla promozione dello sport fra i giovani.
Avviamento, addestramento, allenamento, agonismo sono
tutte attività alle quali il Comune può contribuire con il suo
sostegno perché lo sport migliora i rapporti personali e
sociali. Naturalmente, la promozione dello sport comincia
dalle scuole poiché in quei contesti è più facile e più
opportuno creare situazioni favorevoli alla pratica sportiva
inserendole nella programmazione didattica. Infine, il
Comune stabilirà rapporti di collaborazione, in forme che
saranno via via individuate, con le Federazioni sportive del
Comitato Olimpico Nazionale Italiano e con le sue
articolazioni provinciali. In una società più colta, più giusta,
più accogliente, lo sport può svolgere la sua parte. Il
Comune lo favorirà adeguatamente.

Bologna più etica Torna al


Programma

I comportamenti di coloro che hanno potere politico e


economico condizionano in maniera significativa la vita di
una città. Dipende anche dallo stile della leadership politica
se i cittadini si impegnano, collaborano, si sentono
soddisfatti, accettano sacrifici, danno il loro essenziale
contributo al governo della loro città. L’ultimo quinquennio è
stato anche dal punto di vista etico-politico assolutamente
deludente. Al tempo stesso, neppure la laicità è stata
tutelata. Vogliamo capovolgere la tendenza con poche,
chiare, verificabili azioni che hanno carattere esemplare.
Vogliamo cambiare la politica cittadina a cominciare dalla
moralità pubblica. Ci impegniamo a:
- formulare e rispettare rigorose regole di incompatibilità
e di non cumulabilità delle cariche;
- svelare e eliminare tutti i conflitti di interessi nell’ambito
delle cariche pubbliche e fra cariche pubbliche e attività
private;
- contenere e ridurre i costi diretti (indennità) e indiretti
(nomine e consulenze) della politica;
- rendere pienamente operativo un registro per le Unioni
Civili e consentire a tutti di stilare il loro Testamento
biologico.

Bologna più Europea Torna al


Programma

La città è comparativamente piccola, ma la sua storia e la


sua statura ne fanno una città europea, riconosciuta come
tale. Non soltanto Bologna è già stata nel 2000 una delle
capitali della cultura europea, ma, ad esempio, il grande
accordo sulle modalità di organizzazione e valutazione delle
Università, il Bologna process, è stato firmato proprio qui nel
1999. Molte delle attività commerciali e industriali della città
e della provincia hanno un indispensabile sbocco europeo (e,
spesso, anche mondiale). Gli imprenditori e gli operatori
economici sanno che la loro capacità di creare benessere e
produrre profitti dipende dalla loro presenza e dal loro
successo sulla scena europea. Già agiscono di conseguenza.
I loro meriti vanno riconosciuti e il Comune deve impegnarsi
a sostenerli nelle loro attività internazionali. Anche
l’Università può contribuire alla vita europea della città.
Dovrà, però, riorganizzarsi per attirare non soltanto più
studenti, che già vengono, ma in piccoli numeri, grazie al
programma Erasmus, a studiare in molte Facoltà, ma anche i
docenti, attraverso scambi che possono essere molto
produttivi. Il comune assume l’obbligo politico di sostenere
tutte queste attività che contribuiscono all’economia, alla
società e alla cultura di Bologna. Il comune metterà a
disposizione un fondo inteso a premiare le migliori iniziative
dei bolognesi sul piano europeo. Su un altro piano
l’Associazione dei Comuni Italiani ha dato vita a Associazioni
di carattere europeo nelle quali proponiamo che il Comune di
Bologna si impegni ad esercitare un ruolo più penetrante e
propositivo. In politica contano non soltanto le azioni, ma
anche i simboli. Proponiamo di intitolare una via cittadina al
più grande europeista italiano: Altiero Spinelli, di cui è da
poco stato celebrato il centesimo anniversario della nascita.
Socio fra i più influenti dell’Associazione “il Mulino”, Spinelli
insegnò anche un paio d’anni al Bologna Center della Johns
Hopkins. Quindi, ebbe un legame con la città, ma quel che
più conta seppe svolgere un ruolo importante affinché l’Italia
facesse parte effettiva e attiva del gruppo di paesi che
operano nella prospettiva di un’Europa federale.

Non finisce qui Torna al


Programma

Abbiamo ancora molto da dire e molto da proporre.


Siamo perfettamente consapevoli che altri problemi
emergeranno e altre tematiche attireranno la vostra e la
nostra attenzione, anche durante la campagna elettorale.
Non abbiamo nessuna difficoltà a farci correggere,
emotivamente, e a migliorare le nostre proposte. Quanto
abbiamo scritto qui indica con chiarezza quali sono le nostre
priorità e quali saranno le nostre linee di intervento. Se e
quando sorgeranno emergenze, le affronteremo con il
metodo che abbiamo delineato: consultando i cittadini,
facendoli esprimere sulle soluzioni, interloquendo con loro,
convinti come siamo che “l’unione fa la forza” e che
riusciremo tutti a vivere meglio a Bologna soltanto stabilendo
un rapporto intenso fra chi ha la responsabilità provvisoria di
governare e coloro che lo hanno eletto, ma desiderano
partecipare all’esercizio del governo della città.

8 maggio 2009
Indice dei nomi
(Per cercare nel documento, digitare CTRL+F, scrivere il nome e premere Invio)

Amato, G. Imbeni, R.
Amorosi, A. Iorfino, N.
Andreatta, B. La Forgia, A.
Andreatta, N. Lazzaroni, L.
Balzanelli, A. Lenzi, R.
Baraldi, F. Lewanski, R.
Barbagli, M. Maccaferri, G.
Bartolomei, R. Marx, K.
Bartolini, S. Marzullo, G.
Bergami, M. Matteucci, N.
Berlusconi, S. Mazzuca, A.
Bersani, P. Melloni, C.
Bertinotti, F. Mennichelli, D.
Bindi, R. Merighi, C.
Blair, T. Merola, V.
Boccia, F. Michelini, W.
Bonaga, S. Naldi, G.G.
Bonazzi, P. Naldi, M.
Bruni, M. Nanni, A.
Buriani, M. Napolitano, O.
Calda, F. Orioli, P.
Calderoli, R. Padellaro, A.
Calzolari, G. Padoa Schioppa, T.
Calzolari, P.U. Panebianco, A.
Cammelli, M. Pannella, M.
Cancellieri, A. Parisi, A.
Caronna, S. Pedrazzi, L.
Casini, P. Pettazzoni, E.
Cazzola, A. Pizzirani, I.
Cervellati, P. Pombeni, P.
Cevenini, M. Principe, A.
Cicconi, I. Prodi, R.
Cofferati, S. Prodi, V.
Collina, P. Ramazza, A.
Corticelli, D. Reverberi, J.
Cracchi, C. Riccardi, C.
Crepuscoli, C. Rizzo Nervo, L.
D’Alema, M. Roversi Monaco, F.
De Gaulle, C. Salvati, M.
De Maria, A. Sen, A.
De Plato, G. Schröder, G.
Delbono, F. Spelta, T.S.
Delli Santi, F. Spinelli, A.
Donini, R. Todaro, G.
Dossetti, G. Tonelli, G.
Dozza, G. Tonna, S.
Draghetti, B. Traldi, E.
Errani, V. Truzzi, S.
Fanti, G. Valbruzzi, M.
Fanti, L. Varesi, V.
Fava, C. Vendola, N.
Filippi, I. Visci, P.
Forlani, A. Vitali, W.
Galli, C. Weber, M.
Galli della Loggia, E. Zampa, S.
Giugni, G. Zamagni, S.
Grilli, M. Zangaro, A.
Grosso, L. Zangheri, R.
Guazzaloca, G. Zani, M.
Candidato
nelle amministrative
2008-2009
a sindaco di Bologna
Gianfranco Pasquino
autorevole professore
di scienza politica
e già parlamentare
per tre legislature
racconta alla soglia
di queste nuove primarie
la sua avventura di sindaco
il degrado brutto fazioso
e amministrativo della città
narrato
nel carattere Simoncini Garamond
su carta Arcoprint
delle Cartiere Fedrigoni
dalla tipografia Sograte
di Città di Castello
per conto di Diabasis
nel dicembre
duemila
dieci
I muri bianchi.
Biblioteca di cultura civile

Guido Calogero, Le regole della democrazia e le ragioni del


socialismo
a cura di Thomas Casadei, postfazione di Norberto Bobbio

Michael Walzer, Il filo della politica. Democrazia, critica sociale,


governo del mondo
a cura di Thomas Casadei

Guido Calogero, La scuola dell’uomo


a cura di Paolo Bagnoli

Il metodo della libertà. Piero Gobetti tra eresia e rivoluzione


di Paolo Bagnoli

Vivere eguali. Dialoghi inediti intorno a Filippo Buonarroti


Alessandro Galante Garrone, Franco Venturi
“Libro bianco su Bologna”. Giuseppe Dossetti e le elezioni
amministrative del 1956
a cura di Gianni Boselli

Per il Bene Comune. Dallo stato del benessere alla società del
benessere
di Bruno Amoroso, prefazione di Johnny Dotti

Autorità. Una questione aperta


a cura di Stefano Biancu, Giuseppe Tognon

Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia


di Vezio De Lucia, prefazione di Alberto Asor Rosa

Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista


a cura di Paola Bonora e Pier Luigi Cervellati

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