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IL NULLA

INDICE

INTRODUZIONE. pag. 5

1. Capitolo: IL VUOTO FISICO pag. 11

2. Capitolo: STÉRESIS pag. 18

3. Capitolo: LA MORTE DI DIO pag. 23

4. Capitolo: IL NICHILISTA pag. 28

5. Capitolo: FIGURE E SIGNIFICATI DEL NULLA pag. 33

6. Capitolo: VACUITÀ pag.40

7. Capitolo: ZEN, L’ARTE DEL NULLA pag. 46

8. Capitolo: YVES KLEIN, LA FORMA, INFINITA INDEFINIZIONE pag. 49

9. Capitolo: GINO DE DOMINICIS, L’OGGETTO VIVENTE PERFETTO pag.58

0. Capitolo: CONCETTO FINALE pag. 64

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INTRODUZIONE.

Il vuoto non è mai completamente vuoto, poiché ribolle di particelle virtuali che compaiono e
scompaiono incessantemente. Questa impermanenza e assenza di un sé sono condizioni
indispensabili alla vita. Queste particelle virtuali spesso appaiono in coppie che si annichilano a
vicenda quasi istantaneamente, perchè senza impermanenza, senza mancanza di un sé, nulla
potrebbe crescere ed evolversi. Dunque, prima di svanire possono avere un’influenza reale
sull’ambiente circostante. Per esempio i fotoni, i quanti di luce, possono saltare dentro e fuori un
vuoto. I fotoni non hanno bisogno di materia per propagarsi. Anzi, la presenza di materia rallenta la
loro corsa: la velocità della luce è infatti massima nel vuoto (300 mila chilometri al secondo),
diminuisce già leggermente nell’atmosfera per scendere addirittura a 200 mila chilometri al
secondo. Ogni particella priva di massa si comporta alla stessa maniera, e trasportano energia che è
considerata equivalente ad una massa, ovvero, l’uno contiene il tutto e il tutto è contenuto nell’uno.
In fisica l'annichilazione è il risultato dell'incontro di una particella subatomica con la
sua antiparticella. Quando ciò avviene entrambe le masse vengono totalmente convertite in energia.
Poiché l'energia e la quantità di moto, o momento, devono essere conservate, l'energia liberata è
utilizzata per creare altre particelle e antiparticelle, tali che la somma della loro energia e momento
siano esattamente uguali a quella delle particelle originarie. L'annichilazione di particelle a bassa
energia (ad esempio un elettrone con un anti-elettrone, o positrone) solitamente produce due o
più fotoni gamma, i quali hanno più probabilità di essere generati poiché hanno massa a
riposo nulla. Secondo l'effetto Casimir dinamico, nello spazio tra due specchi in movimento
reciproco, i fotoni virtuali possono improvvisamente diventare reali, producendo un lampo di luce.
Quando due specchi sono posti l’uno di fronte all’altro, all’esterno degli specchi possono esistere
più fotoni virtuali di quanti ce ne sono nello spazio che li separa, generando una forza
apparentemente misteriosa che tende ad avvicinare gli specchi. La stessa forza che muove sistemi
solari come il nostro all'interno di un vento di particelle di materia oscura. La materia di cui siamo
fatti anche noi, i pianeti e le galassie, tutta insieme fa solamente il 4,9 per cento della materia
dell'Universo. Il 26 per cento circa del cosmo è materia invisibile: non sappiamo di che cosa sia
effettivamente fatta. Il restante 69 per cento circa dell'Universo è "materia oscura". Il fatto che la
materia più diffusa nell'Universo sia "oscura" non significa solo che è invisibile ai nostri occhi o
quasi del tutto sconosciuta: è oscura perché non emette alcun tipo di radiazione elettromagnetica.
Non interagisce né con la materia ordinaria né con se stessa. Non interagendo con la materia
ordinaria, la materia oscura è il primo tipo di elemento che si espande insieme all'Universo e il
primo a formare strutture grazie alla sua stessa forza gravitazionale. La materia oscura forma i primi
filamenti che formano la struttura delle galassie: attorno a questi, attratta dalla loro forza di gravità,
converge la materia ordinaria. È il vuoto di esistenza intrinseca, niente esiste da sé, di per sé. E
l’essere è condizionato dal nulla. Così nasce l’universo, come “esplosione” di tutte le combinazioni
possibili e impossibili. L’universo è dunque il tutto che si contrappone al nulla. Si potrebbe anche
dire che il nulla sia talmente “nulla” da non aver bisogno di definirsi. Ma non è così. Dire solo il
nulla è impossibile, perché se affermiamo “il nulla è…”, qualsiasi predicato mettiamo al posto dei
puntini l’enunciato risulta falso, a meno che non introduciamo l’espressione “niente”. Ma dire che il
nulla è niente non è significativo. Dire di qualcosa che esiste non è analogo a dire di qualcosa che è

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verde, cioè l’esistenza non è un predicato, ma un predicato del secondo ordine. Dire che “Simone
esiste” significa dire “esiste almeno un oggetto fatto così in tali caratteristiche, che si pone dei
problemi della minchia ecc.” Un discorso analogo, ma speculare, vale per il nulla. Ma perché esiste
l’universo piuttosto che il nulla? L’esistenza dello spazio-tempo dovrebbe essere considerata una
forma di “creazione”? La risposta è: avrebbe potuto non esserci nulla piuttosto che qualche cosa.
L’idea che l’esistenza dello schema matematico di un universo non equivale all’esistenza reale di
quell’universo, si definisce “la contingenza ontologica”. La teoria di Hartle-Hawking si accorda
piuttosto bene con questo senso più astratto di “creazione”, perché è una teoria quantistica.
L’essenza della fisica quantistica è l’indeterminazione: la predizione in una teoria quantistica è la
predizione di probabilità più che di certezze. Il formalismo matematico di Hartle-Hawking fornisce
le probabilità che un universo particolare, con una organizzazione particolare della materia, esista in
ciascun momento. Nel predire che c’è una probabilità diversa da zero per un particolare universo, si
afferma che c’è una possibilità ben definita che esso sarà realizzato. Siamo qui di fronte ad
una “realizzazione di possibilità”. Possiamo ipotizzare che il Vuoto è un sistema stabile e
simmetrico che ospita una gigantesca forza di nientità o di vuotità. Trattasi di un sistema a-
dimensionale (secondo alcuni pluridimensionale), un sistema stabile e simmetrico che non ospita il
movimento. L’immobilità del Vuoto sarebbe il risultato di un sistema di forze in tensione in perenne
equilibrio. Il sistema del Vuoto è un sistema abitato da una gigantesca forza di vuotità, una forza in
tensione perenne e stabile che, è paradossale, per esistere, ha bisogno di produrre continuamente
universi instabili e dissimmetrici abitati dalla freccia del tempo. Ora, è anche possibile ipotizzare
che questi infiniti universi non sgorghino dalla sua superficie o dai suoi orli ma che abitino
stabilmente in esso Vuoto. E che nel sistema del Vuoto ritorneranno quando si concluderà il viaggio
dell’entropia del nostro universo. Mi sembra ovvio aggiungere, in epigrafe, che da questa ipotesi
topografica non c’è alcun posto per dio. Dio, infatti, è stato fatto sloggiare dai suoi stabilimenti del
nostro universo. E anche dagli altri universi; gli resta semmai soltanto un Non-luogo dove abitare:
il Sistema a-dimensionale, stabile e infinito del Vuoto. Secondo la tesi del famoso fisico Michio
Taku, dio è una entità che parla matematica e che abita l’Iper-spazio a 10 dimensioni più il tempo in
là. Solo che ancora non abbiamo una matematica in grado di leggere le frasi che dio pronuncia dalla
sua dimora nell’Iperspazio. Il problema dell’autenticità nella nostra epoca si pone come l’orizzonte
decisivo delle filosofie del nuovo esistenzialismo, proprio perché dio sembra aver abbandonato il
nostro piccolo universo e si è ritirato a villeggiare nella sua vasta dimora presso l’Iper-spazio. Sta a
noi e solo a noi, dunque, trovare le chiavi di una esistenza giusta e dignitosa. Dietro a tutte queste
teorie si cela uno studio metafisico. La filosofia naturale fu dominata per quasi due millenni dalle
idee di Aristotele, successivamente reinterpretate dalla Scolastica al fine di renderle compatibili con
i dogmi della fede cristiana. Nella Fisica, Aristotele sostenne che affermare l'esistenza del vuoto -
come aveva fatto Democrito - rappresentava un'infrazione del principio di non contraddizione. Per
Aristotele uno spazio privo di oggetti (cioè vuoto) non corrisponde affatto al niente, ma ha una
propria permanente esistenza. Né il vuoto per Aristotele può essere preso in considerazione in
quanto ente immateriale, dato che la filosofia naturale ha come oggetto solo l'essere in quanto
essere. Aristotele, pur concependo, d'altra parte, l'universo come finito, negò tuttavia risolutamente
che oltre i confini del mondo vi fosse il vuoto. In Aristotele la metafisica si connota come scienza
teoretica del divino proprio in quanto studio della sostanza e, in particolare, delle sostanze prime,
separate e immobili. La metafisica, anche etimologicamente, porta con sé l’idea di una divisione e
di una contrapposizione – cielo/terra, spirito/materia, essere/ente. L’esito di questa prospettiva è
stato il nichilismo, con il suo corrodere i valori e con la trasformazione della realtà in materia

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manipolabile dalla tecnica con fini di dominio. In questo contesto, come diceva Heidegger, è
necessario interrogarsi sul nulla e viverne fino in fondo l’essenza. In una via di mezzo tra
esistenzialismo e nichilismo si pone il Dharma. Secondo gli insegnamenti del Buddha Sakyamuni i
fenomeni non sono dotati di esistenza intrinseca, ma sono "vuoti". Poiché tutte le cose sono
soggette all'intercedere del tempo e niente esiste in modo autonomo, poiché qualcosa come un
tavolo o l’essere umano, per esistere ha bisogno di cause e condizioni che lo rendono tale... dunque
non esiste alcun "tavolo o essere", ma è soltanto una designazione che noi diamo a una cosa che non
esiste di per sé. Da questo ragionamento è facile cadere nella teoria che il tavolo non esiste in
nessun modo e questo è il nichilismo. Essendo nichilista radicale, Nietzsche lo è in modo da
superare il nichilismo stesso. Il nichilismo gli appare come uno stadio intermedio, ovvero un No
alla vita che prepara il grande Sì ad essa, attraverso l’esercizio della volontà di potenza. Nietzsche
distingue tra un nichilismo incompleto, per cui i vecchi valori sono distrutti ma ne subentrano di
nuovi (socialismo, nazionalismo, naturalismo), e un nichilismo completo. Il nichilismo completo è
il nichilismo in senso proprio e può essere passivo o attivo. Il nichilismo passivo è il nichilismo
della debolezza: si limita a prendere atto della decadenza dei valori. Il nichilismo attivo è invece il
nichilismo della forza e si esercita come forza violenta di distruzione. Diventa estremo, se distrugge
ogni residua credenza, estatico, se crea spazio per nuove possibilità e classico, se passa dal
momento distruttivo a quello costruttivo. Nell’ultimo Nietzsche assistiamo ad una radicalizzazione
del prospettivismo, secondo cui non esistono cose o fatti, ma solo le loro interpretazioni. Noi non
possiamo constatare nessun fatto in sé. Anche il soggetto è una costruzione interpretativa. Le
interpretazioni e le verità sono connesse all’istinto di conservazione e alla volontà di potenza, e il
linguaggio è solo un esercito di metafore. Nietzsche mostra come anche la scienza sgorghi da
presupposti extrascientifici, grazie ai quali essa acquista una direzione, un senso, un limite.
In Nietzsche dunque la parola nichilismo designa anche l'essenza della crisi che ha investito la
civiltà europea moderna. Da una visione nichilistica attiva dunque, si cerca di elevare lo spirito,
distruggere per creare; ma lo spirito mentre scardina e distrugge giunge ad un momento in cui è
stanco e debole, questo è un nichilismo negativo che viene superato dal superuomo. Il nichilismo è
inteso come annullamento dalla riduzione della vita a niente. La frase “Dio è morto” è frutto di un
profondo lavoro interiore; infatti Nietzsche propone di cambiare radicalmente il modo di pensare
mettendo in luce il fatto che dietro i “valori” vi si cela qualcosa di diverso di quello che
rappresentano o anche qualcosa di opposto, pertanto occorre rovesciarli. Procedendo su questa
strada egli assume un atteggiamento di ricerca verso l’assoluta verità, che lo porta ad affermare che
tutte le virtù predicate dalla religione cristiana sono pseudo-virtù che portano al rifiuto della vita in
modo radicale. Da qui la famosa frase “Dio è morto” perché Dio non riesce a stimolare l’inventiva
dell’uomo, a guidare la sua vita e a fargli scoprire nuovi valori, ma diviene un ostacolo nei confronti
di qualsiasi rinnovamento. L’affermazione di Nietzsche non è ateismo ma una conclusione
valutativa sul piano storico-culturale che emerge da una diagnosi nichilistica dell’intero decorso
della civiltà greco-ebraico-cristiana.

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- Annichilire: dal latino tardo annihilare, derivazione di nihil, nihilum «niente»,
io annichilisco o annìchilo, tu annichilisci o annìchili. – Ridurre al nulla,
annientare, distruggere. Nel senso figuativo di abbattere, confondere, umiliare
profondamente, togliendo ogni volontà e capacità di reazione.

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1. IL VUOTO FISICO

- Vuoto quantico -

L'energia del vuoto è una quantità di energia presente ovunque nello spazio anche quando privo
di materia, il che rende il vuoto un falso vuoto. Questa energia è legata alle fluttuazioni
quantistiche, che determinano la continua fugace comparsa e annichilazione di particelle e
antiparticelle. L'esistenza di un vuoto privo di energia comporterebbe la possibilità di determinare
simultaneamente posizione e velocità di una particella, contraddicendo il principio
d'indeterminazione. L'energia del vuoto può avere effetti misurabili, tra cui l'emissione spontanea di
luce o raggi gamma, l'effetto Casimir e il Lamb Shift. Si ipotizza inoltre che abbia conseguenze su
scala cosmologica, fornendo una spiegazione dell'energia oscura e determinando, tramite una
pressione negativa, l'accelerazione dell'espansione dell'universo. Il corrente limite superiore
di densità misurato per l'energia del vuoto è 10−9 J per m³, mentre la predizione del modello
standard della cosmologia è di un valore di oltre cento ordini di grandezza più elevato, costituendo
un problema per la teoria. La teoria quantistica dei campi, che descrive le interazioni fra le particelle
elementari in termini di campo, contribuisce alla dimostrazione dell'esistenza di questa energia
identificandola con l'energia di punto zero. Un esempio è l'effetto Casimir: due piastre metalliche
vicine sono sottoposte ad una leggera forza di attrazione dovuta al fatto che l'energia del vuoto è
inferiore nello spazio fra le piastre rispetto a quella all'esterno (vuoto effetto Casimir). Poiché
l'energia potenziale è definita a meno di una costante additiva arbitraria, il valore dell'energia del
vuoto potrebbe essere considerato non importante. Questa importanza nasce se si considera anche
la forza di gravità, determinando conseguenze sull'espansione dell'universo. La quantità di energia
del vuoto può essere descritta come un conteggio delle particelle virtuali che nel vuoto sono
generate e distrutte (fluttuazioni del vuoto). Il concetto di energia del vuoto ha notevoli
implicazioni, prima fra tutte che le fluttuazioni di vuoto generano sempre un
accoppiamento particella-antiparticella. Il fisico Stephen Hawking ha supposto che la creazione di
queste particelle nei pressi di un buco nero ne comporti una sorta di "evaporazione". L'energia netta
dell'universo rimane pari a zero se questi accoppiamenti sono distrutti entro il tempo di Planck. Se
prima di questo annichilimento una delle due particelle è attratta dal buco nero, l'altra è irradiata
nello spazio. Tale perdita si accumula e, nel tempo, potrebbe portare alla scomparsa del buco nero.
La durata di tale processo dipende dalle dimensioni del buco nero, ma si è calcolato che sarebbero
necessari anni perché un buco nero delle dimensioni del Sole si distrugga per "evaporazione". Si
definisce stato di vuoto di un sistema quantistico, o semplicemente vuoto quantistico, lo stato
caratterizzato dal valore minimo dell'energia. In meccanica classica, il concetto di stato di vuoto è
molto meno significativo che in meccanica quantistica perché, classicamente, lo stato di vuoto è
quello di un sistema in cui non siano presenti né particelle né campi. Alternativamente, lo stato di
vuoto classico è quello in cui le particelle che compongono il sistema sono tutte ferme, ovvero
possiedono quantità di moto (o momento) ed energia cinetica nulli. Poiché l'energia potenziale, che
con l'energia cinetica concorre a formare l'energia meccanica totale, è definita a meno di una
costante additiva arbitraria, essa può essere, in particolari condizioni, assunta nulla per questo stato
del sistema; ne deriva che lo stato di vuoto classico coincide con lo stato a energia totale nulla, ove

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si trascuri l'energia di massa relativistica. La situazione è del tutto differente nella meccanica
quantistica, ove il principio di indeterminazione di Heisenberg vieta la determinazione simultanea
di quantità di moto e posizione di una particella (o equivalentemente di energia e tempo di vita di
uno stato energetico), impedendo che anche la misura dell'energia dello stato di vuoto dia come
risultato un valore nullo, da intendersi come esattamente zero. Poiché in meccanica quantistica le
particelle possono essere descritte come quanti di opportuni campi (per es., fotoni per il campo
elettromagnetico), anche il campo di vuoto può non avere stati a energia nulla. È pertanto
inevitabile definire lo stato di vuoto quantico come quello a energia minima. Nel caso, per es.,
dell'oscillatore armonico, che costituisce un utile paradigma per un grande numero di sistemi fisici,
l'energia corrispondente a un generico stato contenente n quanti di energia alla
frequenza ν vale En=hν(n+1/2), dove h è la costante di Planck. Da questo si deduce che, anche in
assenza di quanti (n=0), al sistema rimane la cosiddetta energia di punto zero, pari a Eo=hν/2. In tale
stato, un oscillatore di massa m si muove attorno all'origine con valore medio di posizione e
momento uguali a zero (⟨x⟩=⟨p⟩=0), come nel caso classico, ma con valore quadratico medio delle
rispettive fluttuazioni pari a Δx=[(n+1/2)h/(4π²mν)]¹/² e Δp=[(n+1/2)hmν]¹/². Poiché tali fluttuazioni
sono ineliminabili, la posizione e il momento dell'oscillatore non sono determinabili con la
precisione assoluta a priori possibile in meccanica classica. Il prodotto ΔxΔp=(n+1/2)ℏ, che per lo
stato di vuoto vale (ΔxΔp)o=ℏ/2, dove ℏ=h/(2π), costituisce il valore di minima indeterminazione e
rappresenta il compromesso tra i valori di energia cinetica e potenziale che minimizza la loro
somma. Nel formalismo della seconda quantizzazione, in cui tutte le particelle sono descritte
mediante campi quantizzati (fermionici per le particelle di materia e bosonici per le particelle di
interazione), un sistema quantistico viene descritto in un opportuno spazio, detto spazio di Fock, in
cui lo stato del sistema fisico è rappresentato dal numero di particelle presenti in ogni stato
accessibile al sistema (S=∣n₁,n₂,n₃,…⟩). Poiché il numero minimo di particelle in ogni stato
accessibile è zero, lo stato di v. q. di un sistema può essere descritto come lo stato di Fock che non
contiene particelle in alcuno stato (S₀=∣0,0,0,…⟩). Tale stato, come abbiamo visto, non ha
necessariamente energia nulla, ma possiede un'energia di punto zero, detta anche fluttuazione di
punto zero del campo, che, nel caso del campo di radiazione elettromagnetica, vale En=hn/2per ogni
modo n del campo. Notiamo che, poiché i modi del campo sono infiniti, tale energia risulta essere
infinitamente grande; tuttavia ciò non costituisce un paradosso in quanto nessuno strumento di
misura è in grado di rivelare una larghezza di banda infinita, per cui l'energia misurata sarà sempre
quella corrispondente a un numero finito di modi. Inoltre, a causa del principio di indeterminazione,
il numero di particelle contenute nello stato di vuoto non è costantemente nullo, ma subisce
fluttuazioni casuali: il v. q. va quindi immaginato come un'entità dinamica, e non statica, ricca di
tutte le particelle che vengono prodotte da fluttuazioni casuali dello stato di vuoto. Non essendo
questi processi direttamente osservabili, essi vengono definiti processi virtuali. La presenza di
particelle virtuali nello stato fondamentale di un sistema ha conseguenze molto profonde sulla
comprensione di molti fenomeni fisici, che appartengono a settori diversi della fisica, spaziando
dalla fisica delle particelle alla fisica dello stato solido; nondimeno apre nuovi problemi tuttora
irrisolti. Una particella posta nel vuoto interagirà con tutte le entità virtuali che la circondano, e
queste interazioni si rifletteranno sulle caratteristiche della particella stessa. Questo fenomeno,
detto autointerazione, è il risultato dell'interazione della particella con lo stato di vuoto che,
modificato, interagisce a sua volta con la particella: il vuoto, cioè, costituisce il mezzo
dell'interazione della particella con se stessa. Il vuoto che circonda una particella carica, per es.,
viene polarizzato schermando la carica centrale e modificandone l'inerzia (e quindi la massa), a cui

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partecipa il moto della nuvola di particelle virtuali correlate con la particella. Il procedimento di
calcolo della carica e della massa della particella 'nuda', cioè in assenza di processi virtuali correlati,
porta a termini infiniti che ne impediscono il calcolo. In elettrodinamica quantistica è possibile
smorzare questi termini mediante opportuni processi detti di rinormalizzazione, ottenendo risultati
in eccezionale accordo con i dati sperimentali. L'indeterminazione nel numero di particelle
contenute nello stato fondamentale dovuta alle fluttuazioni del v. q. ha conseguenze verificabili
sperimentalmente di cui consideriamo qualche esempio. Nell'ambito dell'elettrodinamica
quantistica, le fluttuazioni del campo elettromagnetico di vuoto spiegano, in particolare, la
larghezza naturale delle transizioni atomiche e il Lamb shift dei livelli energetici dell'atomo. Questi
si interpretano come reazione del campo di radiazione del vuoto sull'atomo stesso, nel senso che,
quando un atomo decade radiativamente da un suo stato eccitato, emettendo un fotone, i processi
virtuali determinano un allargamento della riga corrispondente e il piccolo spostamento dei livelli
energetici che costituisce il Lamb shift, misurato nell'atomo di idrogeno per la transizione 2P₁/₂-
2S₁/₂; gli stessi processi sono alla base dell'emissione spontanea presente, per es., nei laser, negli
amplificatori e generatori ottici parametrici e negli attenuatori, emissione che a sua volta origina il
rumore quantistico cui sono sottoposti i sistemi ottici a causa della sua distribuzione casuale nel
tempo. Questi processi sono anche l'origine delle fluttuazioni nella posizione e nel momento degli
atomi intrappolati tramite fasci laser nelle cosiddette melasse ottiche e così via. Tali fenomeni,
legati all'interazione tra la materia e il campo di vuoto, sono manipolabili solo agendo sullo stato di
vuoto del campo, cosa che è stata ottenuta, per es., inserendo atomi eccitati in cavità risonanti di
dimensioni piccole rispetto alle lunghezze d'onda della radiazione coinvolta nelle transizioni
atomiche considerate. In tal modo, in cavità possono essere presenti solo i modi del campo a
frequenza superiore a quella delle transizioni atomiche che hanno una probabilità molto bassa di
interagire con gli atomi presenti. In tali sistemi è stato osservato un drastico allungamento del tempo
di vita, τ, dello stato eccitato, cioè una riduzione del decadimento spontaneo e di conseguenza una
riduzione della larghezza naturale, Γ, della riga di transizione, legata al tempo di decadimento
tramite il principio di indeterminazione di Heisenberg: Γ1/τ. Le fluttuazioni del campo
elettromagnetico di vuoto possono, inoltre, essere amplificate fino a dare origine a un segnale
rilevabile. Ciò avviene, per es., con la generazione parametrica in cristalli non lineari in cui,
partendo da un solo campo elettromagnetico incidente di frequenza ν₁ (detto campo di pompa), si
ottengono in uscita dal cristallo due campi (detti campo di segnale e campo schiavo) a
frequenze ν₂ e ν₃ tali che ν₁=ν₂+ν₃ (relazione che traduce la conservazione dell'energia in
quanto E₁=hν₁ ed E₂₊₃=h(ν₂+ν₃)). Tale processo è interpretabile supponendo che uno dei due campi
risultanti provenga dall'amplificazione di un modo del campo di vuoto con la frequenza richiesta
dalla conservazione dell'energia. Nell'ambito della fisica delle particelle, P.A.M. Dirac ha introdotto
un'interpretazione particolare dello stato di vuoto per poter rendere ragione delle soluzioni a energia
negativa dell'equazione da lui introdotta per generalizzare l'equazione di Schrödinger al caso
relativistico: si definisce stato di vuoto per un campo di fermioni una configurazione dello spazio di
Fock in cui tutti i possibili stati a energia negativa siano occupati ciascuno da un fermione. Per il
principio di esclusione di Pauli, inoltre, è impossibile avere un fermione a energia negativa fuori
dallo stato di vuoto, e quindi osservabile. Tuttavia, se a una particella in uno stato a energia negativa
viene fornita una quantità di energia sufficiente a portarla in uno stato a energia positiva, si
generano una particella osservabile e una lacuna a essa associata nel continuo di energia negativa.
L'interpretazione che viene fornita di tale lacuna è di antiparticella del relativo fermione a energia
positiva. Lo stato di vuoto fermionico ipotizzato da Dirac può essere quindi considerato come

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composto da coppie di fermioni-antifermioni che non vengono evidenziati a meno di alterare lo
stato di vuoto del sistema. Consideriamo, per es., il caso degli elettroni: un elettrone fuori dallo stato
di vuoto può occupare una lacuna (antielettrone, o positrone), passando da uno stato a energia
positiva a uno a energia negativa. Tale fenomeno può essere interpretato come un'annichilazione tra
elettrone e positrone: l'energia liberata nel processo si manifesta sotto forma di fotoni.
Inversamente, possiamo considerare il sistema fisico in cui un fotone di energia elevata 'si
materializza' in una coppia elettrone-antielettrone. Tale fenomeno è interpretabile come interazione
tra il fotone e lo stato di vuoto: il fotone estrae dal vuoto un elettrone lasciandovi una lacuna, cioè
un antielettrone. Sempre in base al principio di indeterminazione di Heisenberg si evince che quanto
più una particella è massiva, tanto più breve è il tempo in cui una fluttuazione dello stato
fondamentale può permetterle di manifestarsi nello stato di vuoto. Particelle aventi massa
generica mpossono esistere solo per un tempo inferiore a τ=h/(mc²), essendo mc²l'energia di massa
relativistica della particella. Si conclude che particelle di massa inferiore sono presenti nello stato di
vuoto sotto forma di entità virtuali per tempi più lunghi, e quindi su distanze maggiori. La presenza
nel vuoto di questi quanti virtuali è stata verificata sperimentalmente in maniera indiretta negli
esperimenti di fisica delle alte energie detti di diffusione profondamente anelastica. Un elettrone
(considerato una particella puntiforme, allo stato attuale delle conoscenze) viene inviato su un
protone allo scopo di studiare in dettaglio la struttura interna di quest'ultimo (composto di tre
quark). A causa della sua elevata energia, l'elettrone è in grado di sondare regioni assai piccole dello
spazio (dell'ordine di λ=ℏ/p, dove il momento p è pari all'impulso scambiato nell'interazione), di
dimensioni più piccole di quella del protone. È quindi possibile che l'elettrone interagisca con un
solo costituente del protone (detto partone). Studiando gli effetti di tali interazioni e confrontando i
dati con accurati modelli teorici si osserva che quanto più è piccola la regione sondata dall'elettrone,
tanto più è grande il numero di particelle osservate nel protone: in altri termini la regione dello
spazio racchiusa nel protone tra i quark (spazio vuoto per definizione) mostra una ricchezza
crescente di particelle virtuali al decrescere della distanza λ.
Alla fine del 1998 si capì, studiando più di 40 supernovae, che la velocità di espansione
dell'universo non rallenta, bensì accelera sensibilmente. Fino ad allora si era ipotizzato che
l'universo, a causa della forza gravitazionale, stesse gradualmente rallentando dopo il Big bang,
eventualmente per poi fermarsi e regredire verso un big crunch. Al contrario, studiando la luce di
queste supernove si poté vedere come la loro distanza risultasse del 10-15% superiore a quella
attesa. L'universo è dunque in accelerazione e la spiegazione più accettata di tale fenomeno risiede
nell'energia del vuoto, che rappresenterebbe un'energia oscura col ruolo di costante cosmologica.

- Il principio di indeterminazione di Heisenberg -

La scienza fatica a credere che il nostro mondo non sia altro che nulla. Nel cammino che stiamo per
percorrere a cavallo della “vecchia” fisica classica e della “nuova” fisica quantistica, però, il nulla
diventa quasi una realtà, assai difficile da confutare. Einstein stesso, molto scettico riguardo alle
teorie qui proposte, non riuscì a provare fino in fondo la fondatezza della sua contrarietà. Se è vero
che il mondo microscopico è indeterminato, allora non possiamo dirci oggettivamente certi di essere
e, forse, siamo il niente, ma crediamo di essere tutto. Le origini del principio di indeterminazione di
Heisenberg sono da ricercare nell’intuizione di De Broglie: la natura ondulatoria della materia. A
provare questo fatto fu l’esperimento Davisson e Gemer. I due sperimentarono che, lanciando

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contro un bersaglio metallico un fascio di elettroni e facendo lo stesso con un fascio di raggi x con
la stessa lunghezza d’onda, si ottenevano due figure di diffrazione molto simili al di là di una
fenditura praticata nel bersaglio, a dimostrare la sostanziale uguaglianza di onde e particelle. Il
concetto può essere riassunto nella relazione λ=h/p=h/mv (dove λ è la lunghezza d’onda, p la
quantità di moto e h è la costante di Planck). Possiamo supporre che la particella sia come un
“pacchetto” di onde che, sistemate su un grafico, disegnano una sinusoide. La particella è
contemporaneamente ogni parte dell’onda. Altrimenti, possiamo determinare un parametro (ΔX)
che tenga conto dell’incertezza della posizione della particella. L’intervallo del numero d’onde o
frequenza dell’onda sarà, invece, ΔK. Dato ΔX · ΔK ≈ 1, si avrà: per definizione del numero
d’onda: K = 2π / λ ossia ΔK = 2π / Δλ; per la relazione di De Broglie: Δλ = h / Δp; ΔK = (2π · Δp)
/ h; e quindi ΔX · (2π · Δp) / h ≈ 1 ovvero ΔX · Δp ≈ h/2π : Teorema di Heisenberg. Significa che
l’incertezza della posizione ΔX è inversamente proporzionale all’incertezza della velocità (o
quantità di moto) Δp, secondo una costante. Questa è data da h, che è la costante di Planck e vale
6.6 · 10-34 J·s: un valore estremamente piccolo, che rende l’incertezza insignificante nel mondo
macroscopico. A livello subatomico, però, l’incertezza si fa più elevata, fino ad arrivare a un limite
di misurabilità, come si può intuire dal Principio di indeterminazione di Heisenberg:
“E’ impossibile stabilire con la massima precisione e nel medesimo istante la posizione e la quantità
di moto di una data particella”.
Il principio è anche valido per Energia e Tempo (e altre variabili non compatibili). Il teorema, in
questo caso, diventa: ΔE · Δt ≈ ħ. (ħ = h/2π, e vale 10-34 J·s).

Il principio di Heisenberg apre il campo a una serie di considerazioni. Ponendo un limite alla
misurabilità e, quindi, all’osservazione della materia, crea un mondo, completamente nuovo, in cui
non è possibile parlare di Fisica Classica, e quindi di informazioni “certe”. Fa crollare il concetto di
traiettoria e di punto materiale e, al loro posto, subentra un nuovo concetto di misura che è la
probabilità di un dato stato o valore del sistema (distribuzione della probabilità). Siamo nella Fisica
quantistica. Qui non ha più senso chiedersi quale sia la traiettoria di una particella, perchè ciò è reso
impossibile dalla stessa interazione con gli strumenti di misurazione. La probabilità è l’unica àncora
di verità: su questa rivoluzione si basa la cossidetta interpretazione di Copenaghen, elaborata da
Neils Bohr e Werner Heisenberg, che afferma quanto sopra. Molte voci dal mondo scientifico si
fanno sentire al proposito. Per Heisenberg “l’immagine scientifica che veniamo a costruirci del
mondo cessa di essere una vera e propria immagine intrinseca della natura”, ovvero come a noi già
appare. Non c’è nessun metodo in grado di predire con massima precisione la variazione delle
variabili non compatibili. Ma Einstein obiettava: “Non credo che Dio abbia scelto di giocare a dadi
con l’Universo” e “Credi davvero che la Luna non sia lì quando la guardi?”, riferendosi
all’indeterminazione che creava al di là del limite di misurabilità il principio di Heisenberg. Per
Bohr e Feynman, invece, “non solo Dio gioca a dadi, ma li lancia dove non possiamo vederli”.
Come determinare, invece, la distribuzione di probabilità? A questo si dedica Schrödinger, vincitore
nel 1933 del Premio Nobel per l’equazione da lui elaborata che stabilisce la probabilità di trovare
l’elettrone in un punto di coordinate xyz dello spazio attorno al nuclo. Essa è data dalla grandezza
funzione d’onda (Φ) che tiene conto del comportamento ondulatorio dell’elettrone. La funzione
d’onda rappresenta uno stato fisico del sistema quantistico in termini di ampiezza di probabilità.
Essa è maggiore vicino al nucleo. Dove la probabilità è vicina allo zero, la particella non c’è; dove
assume valori più consistenti, si crea una regione di spazio di probabile presenza (che è detta
orbitale atomico). Erwin Schrödinger, inoltre, introduce una discussione di stampo scientifico-

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filosofico sull’essenza della materia al di là del limite di osservabilità, ricorrendo al notissimo
paradosso del gatto. L’esperimento mentale è strutturato come segue. Un perfido fisico rinchiude un
gatto, un atomo radioattivo (in un contatore) e una fiala di veleno in una scatola d’acciaio, in modo
che il gatto non abbia possibilità di interferire col funzionamento degli altri elementi. L’atomo
radiattivo, nell’arco di un’ora, potrebbe decadere, ma ciò potrebbe anche non accadere. “Se ciò
succede,” spiega Schrödinger “allora il contatore lo segnala e aziona il relais di un martelletto che
rompe una fiala con del cianuro”. Dopo un’ora esatta, il perfido fisico è pronto a verificare il
risultato del suo crudele esperimento. Prima di aprire la scatola, però, egli non sa se il gatto è vivo o
morto. Si può dire, anzi, che, per il fisico, entrambi gli stati sono probabili al 50%. In termini più
scientifici, Schrödinger afferma: “La funzione dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il
gatto vivo e il gatto morto non sono stati puri, ma miscelati con uguale peso”. Quella che è
un’indeterminazione a livello microscopico (l’atomo radioattivo), a livello macroscopico (il gatto)
diventa un paradosso. Nell’atto di aprire la scatola, che per la meccanica quantistica consiste nella
misurazione, si fa scienza (interpretazione di Copenaghen). In questo momento, dice Shrödinger, “il
sistema compie una scelta”. E’ dunque il caso a scegliere il destino del gatto? A cercare una
soluzione è nel 1957 Everett, con “l’interpretazione dei mondi paralleli”. Lo scienziato dunque,
accetta di constatare tutte le probabilità possibili, vede sia il gatto vivo sia il gatto morto, si può dire
che esistano due Universi paralleli, entrambi reali, entrambi probabili. Ecco, quindi, che entra in
scena il nulla: la realtà che noi viviamo e consideriamo è veramente, oggettivamente reale o esiste
soltanto in funzione nostra? Il nostro modo di ragionare ci conduce a scartare una delle condizioni
probabili del sistema nella scatola, e decidere, per esempio, che il gatto sia morto. Potrebbe essere,
ma a condizione che in un “altro mondo” esso sia vivo. Così, il nostro Universo sarebbe relativo e la
verità assoluta sarebbe unicamente un’indeterminazione indeterminabile. Potremmo dire che
l’indeterminazione è uno stato di caos. E pure l’assenza di determinazione (dinamico, di mutevole):
non è altro che assenza di stato e quindi assenza di realtà.

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2. STÈRESIS

Uno degli intenti di questa disciplina consiste nello studio dei princìpi primi sotto il
profilo qualitativo, a differenza della matematica che ne studia la quantità, o della fisica che ne
studia l'aspetto naturale. Lo scopo ultimo è quindi la verità in se stessa. Nel tentativo di superare gli
elementi instabili, mutevoli, e accidentali dei fenomeni, la metafisica concentra la propria
attenzione su ciò che considera eterno, stabile, necessario, assoluto, per cercare di cogliere le
strutture fondamentali dell'essere. In quest'ottica, i rapporti tra metafisica e ontologia sono molto
stretti, tanto che sin dall'antichità si è soliti racchiudere il senso della metafisica nell'incessante
ricerca di una risposta alla domanda metafisica fondamentale,
«perché l'essere piuttosto che il nulla?».
Il «vuoto fisico», sarebbe dunque un luogo non composto da atomi e quindi privo di materia
discreta. Almeno fino al XIX sec. la scienza ha rifiutato l’idea che il vuoto fisico potesse realmente
esistere facendo propria una massima tipica della Scolastica: «la natura non fa salti». In realtà
«l’ipotesi quantistica» ha messo in seria questione queste certezze, mostrando la possibilità effettiva
di un «vuoto quantistico».
Nell’Antica Grecia la parola «vuoto», detta «medén», assume una propria importanza con gli
atomisti, i quali «giunsero ad ammettere il non essere, lo spazio vuoto ed infinito, entro cui soltanto
può verificarsi il movimento» degli «atomi», cioè i singoli enti (ciò che è), detti atomi
(«indivisibili») perché «ingenerati, imperituri, immutabili ed indivisibili». Gli atomi erano entità
formali e geometriche la cui conoscenza era possibile grazie all’astrazione mentale che estraeva le
forme dagli oggetti sensibili. La «teoria del vuoto» di stampo atomista venne poi ereditata dagli
epicurei, i quali affermavano che gli atomi avevano un movimento, a causa del loro peso, dall’alto
verso il basso, perpendicolare e con la medesima velocità. Poteva accadere tuttavia che si
verificasse una «declinazione» (in lat. clinamen) che facesse scontrare due o più atomi, i quali una
volta aggregati tra di loro formavano una «mondo». I mondi potevano essere infiniti poiché infiniti
erano gli atomi e lo spazio vuoto in cui si muovono. Il divenire delle cose non implica
l’assorbimento dell’essere nel non essere, in quanto è dato dall’aggregazione e disgregazione di
atomi.
I Greci, e dopo di loro la tradizione latina e cristiana, associavano più di altri il «vuoto» con il «non
essere». Accanto a quella «teoria del vuoto» se ne sviluppò un’altra che non ammetteva l’esistenza
del «non essere» e, soprattutto, confondeva «l’essere di natura verbale» detto «einai» con quello di
«natura sostantiva», «to eon». Capostipite di questo filone di pensiero fu Parmenide che, nel suo
Perì Physeos, mostrò la cosiddetta «Via della Verità» che espone tre verità che influenzeranno
enormemente il pensiero occidentale: l’essere e, il non essere non è; si può pensare solo ciò che è, il
non essere in quanto non è non è pensabile; lo stesso è dire e
pensare, dunque si può dire solo ciò che è. Ammettendo esclusivamente solo l’esistenza dell’essere
si negava la possibilità del movimento (si pensi al «paradosso della freccia» o «dell’Achille piè
veloce» di Zenone) o l’esistenza del tempo. Aderirono fondamentalmente a queste linea di pensiero
sia Platone che Aristotele. Il primo sosteneva l’esistenza delle idee (eidos), ciascuna delle quali è
l’archetipo delle cose sensibili ad essa corrispondente nel mondo sensibile. L’«idea» aveva le
medesime caratteristiche dell’essere parmenideo, ma Platone dovette ammettere nel Sofista che se

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vi è pluralità di idee allora ciascuna idea è diversa dall’altra. Dovette così perlomeno ammettere la
categoria del «diverso» grazie alla quale un’idea «è diversa» dall’altra o se si vuole «non è»
quell’altra. Mentre Platone negava la validità della conoscenza sensibile perché concepita come
conoscenza imperfetta rispetto a quella delle idee, Aristotele nella Fisica si occupa di giustificare
razionalmente il divenire: egli non ammetteva l’esistenza del non essere in sé, ma di «uno stato di
privazione» (stèresis) dal quale poi «il sostrato o la materia indeterminata» si determinava nella
propria «forma» (morphè) specifica. Inoltre, sia Aristotele che Platone negavano in assoluto
l’esistenza del vuoto nelle proprie teorie cosmologiche. La tradizione giudaico-cristiana erediterà
gran parte delle dottrine platoniche ed aristoteliche dell’essere e del non essere: La concezione di
essere parmenideo-platonica si sposa con quella giudeo-cristiana della «creatio ex nihilo». I filosofi
medievali s’impegnano a negare l’esistenza del non essere, e di riflesso del vuoto, in quanto questo
implicherebbe il fatto che Dio, oltre all’essere, avrebbe creato anche il non essere, e ciò pare
paradossale poiché Dio si presenta nelle Scritture come «ciò che è» [Esodo, 3, 12-15]. Agostino, ad
esempio, afferma che termini come «vuoto, nulla, tenebre» denotano esclusivamente una
«mancanza» e sono relativi ad un particolare «stato mentale»: «è come voler vedere le tenebre e
ascoltare il silenzio: queste due cose le conosciamo per mezzo degli occhi e delle orecchie, non però
come essenze, ma come la privazione di determinate essenze» (De civitate Dei, 12, 7). Allo stesso
tempo il passo della Genesi del celebre «fiat lux» [Genesi, 1, 1-5], sta, sì, ad indicare che Dio ha
creato il mondo dal «nulla», ma inteso come «assenza di luce». Prenderà piede anche una teologia
negativa di stampo neoplatonico (si pensi a Pseudo Dionigi), nella quale «Dio» viene in un certo
senso paragonato al «nulla» poiché è impossibile darne una definizione positiva, ma di Esso si può
solo dire «ciò che non è». La «negazione del vuoto» continuò anche in epoca moderna sebbene la
riscoperta del neoepicureismo – si pensi a Gassendi che entrò in polemica con Cartesio – fece
riproporre nuovamente la possibilità dell’esistenza del vuoto. R. Cartesio negherà l’esistenza del
vuoto affermando che anche l’aria è formata da minuscoli corpuscoli (etere) in continuo
movimento. G.W. Leibniz propose la cosiddetta «legge della continuità», per la quale per passare
dal piccolo al grande bisogna passare attraverso infiniti gradi intermedi: «l’impiego di questa legge
è molto importante nella fisica. Essa importa che dal piccolo al grande e dal grande al piccolo si
passa sempre attraverso un termine medio, così nei gradi come nelle parti». Non esistono quindi
atomi, cioè parti indivisibili, né tanto meno esiste il «vuoto»: «infine, è vuoto uno spazio in cui non
si dia nulla di sensibile, per quanto sia pieno di materia creata e sussistente per sé, giacché di solito
non consideriamo che quelle cose che i sensi possono avvertire». I fenomeni pneumatici venivano
spiegati «tramite l’idea di una impossibilità del vuoto in natura, una tendenza della natura a
ostacolare qualsiasi tentativo di creare il vuoto, tendenza suggeriva a sua volta spiegazioni
antropomorfe che attribuivano alla natura un “orrore del vuoto”» (horror vacui). Dal XIX sec. Il
«nulla» ricomincia ad assumere nuovamente un’importanza di tipo logico-linguistico.
Hegel, nella Scienza della logica (1812), fa coincidere «l’essere» col «nulla» a causa della loro
assoluta «indeterminatezza»:
«Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione. Nulla, il puro nulla. È semplice
somiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto. Il puro essere e il
puro nulla sono dunque lo stesso.». Nella «logica booleana» si ammettono solo due valori: 0 e 1,
vuoto e pieno, che sarà fondamentalmente per lo sviluppo dell’elettronica e del sistema binario.
Nella filosofia tedesca il «vuoto» viene a coincidere col «nulla» in senso metaforico all’interno del
nichilismo che predica la caduta di tutti i valori privi di fondamento ultimo o metafisico – si pensi a
Nietzsche: il nulla è appunto il vuoto lasciato dal senso, dal fine, dai valori. Nel Novecento, tuttavia,

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si è assistito alla definitiva separazione tra nulla e vuoto. Il logico Carnap, in una nota polemica
rivolta alla filosofia di Heidegger, critica i presunti filosofi che utilizzano in modo scorretto dal
punto di vista logico e linguistico certi termini, i quali a causa della loro ambiguità posso apparire
«magici o mistici». È il caso della parola «nulla», la quale presa in generale non indica nulla in
quanto non è un sostantivo vero e proprio, bensì un quantificatore e può essere usato solo
relativamente ad un’unità positiva e precisa. Compito della logica è dunque quello di spogliare dei
caratteri mistici il linguaggio. Il «vuoto in sé», «assoluto», cioè «spaziale», è diventato così sempre
più una questione fisica tornata in auge a causa della teoria quantistica.

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- Stèresis – privazione – Concetto impiegato da Aristotele, che nella Metafisica
ne individua le diverse accezioni. È riferito fondamentalmente al divenire, e
indica la mancanza di una forma, rivelata da una sorta di predisposizione ad
acquisirla (Metafisica, XII, 1069 b 33). La privazione (στέρησις) non indica
una‘assenza’, una negazione (ἀπόφασις), ma un tendere, la predisposizione di
un ente al possesso (ἕξις) di ciò di cui è privo: «la negazione non è altro se non
assenza […] invece nel caso della privazione vi è anche un sostrato naturale
che fa da predicato alla privazione stessa».

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3. LA MORTE DI DIO

Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al
mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si
trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?”
disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di
noi? Si è imbarcato? È emigrato?” gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò
in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio?” gridò “ve lo voglio dire!
L’abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come
potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per cancellare
l’intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è
che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno
precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non
stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si
è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne
la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla?
Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è
morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli
assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato
sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci?
Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la
grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di
essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in
virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A
questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi
tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si
spense. “Vengo troppo presto” proseguì “non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è
ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli
uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni
vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è
ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni – eppure son loro che l’hanno
compiuta!” . Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in
diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato,
si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora
queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”

Nietzsche è il pensatore occidentale a cui fa riferimento la più elaborata e carica di conseguenze


riflessioni sulla morte di Dio. Essa si configura, per Nietzsche, come una realtà teorica e storica al
tempo stesso, che non fonda cioè le sue radici solamente su un convincimento ideale e personale del
filosofo, bensì su una vera e propria realtà di fatto, ovvero sulla fine di tutte le illusioni dell'essere
umano, alla quale gli uomini cercano di far fronte creandosi dei sostituti, quali idoli e miti di varia
natura e di varia specie, che diano un senso alla vita ma anche alla morte, in modo che ognuno si

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veda e si senta realmente ricompensato delle proprie fatiche, delle rinunce e degli affanni,
immaginandosi di venire un giorno ripagato e premiato nell'oltre-vita e nell'oltre-mondo, ovvero
nell'aldilà. Essa assume inoltre la portata di un evento epocale e caratterizzante che, oltre ad aver
influito su buona parte del pensiero del filosofo, coincide anche con la perdita di tutte quelle
certezze, che, con la loro crisi, hanno fatto cadere l'umanità stessa nel dubbio e nell'incertezza.
Infatti è il mondo stesso – col suo caos, il suo disordine e la progressiva mancanza di punti fissi che
gettano su tutto l'ombra del relativismo – a giustificare il fatto che Dio non esiste più e che
oggettivamente non può più esistere, una volta presa coscienza dell'ambiente naturale e caotico
dell'esistenza, le cui leggi sono date dal punto di vista dell'uomo e non viceversa.

Di qui la presa di coscienza di Nietzsche, che fa del suo indubitabile ateismo quasi una parola
d'ordine, il quale si configura al tempo stesso anche come denuncia del carattere "alienante" di ogni
professione religiosa, questione a suo tempo già formulata e dibattuta da Feuerbach. Ne La gaia
scienza, la morte di Dio viene annunciata da un uomo folle, che giunge tra gli uomini ad avvisarli di
questo avvenimento così importante, e spingendoli a creare l'oltreuomo – la discussione sulla
validità di superuomo o oltreuomo come traduzioni è ancora aperta – per riempire il vuoto lasciato
da questo avvenimento, causato da tutti gli uomini. Gli uomini, infatti, hanno ucciso Dio, che
rappresenta le certezze assolute che finora avevano mantenuto gli uomini lontano dall'incertezza
propria dell'età moderna. Il folle si accorge però di essere giunto in anticipo: questa notizia non era
ancora arrivata in quei luoghi. Naturalmente questa metafora nasconde molti significati nascosti,
molti concetti molto profondi. Il tema della morte di Dio intesa come eliminazione di una legge
sovrumana sarà trattato anche in Così parlò Zarathustra, rappresentato questa volta dal drago
chiamato "tu devi". Nell'annuncio della morte di Dio, poi, viene esposto già il concetto di
oltreuomo, che deve creare delle leggi proprie per sostituire quelle del Dio oramai morto. Il
concetto di morte di Dio è quindi profondamente connesso a quello di nichilismo. La presa di
coscienza della uccisione di Dio deve portare a ciò che Nietzsche chiama nichilismo attivo, segno
della cresciuta potenza dello spirito.

La morte di Dio è la fine di tutte le illusioni dell’uomo, con le quali egli crea idoli e miti per dare un
senso alla vita e alla morte, ed essere un giorno ricompensato per le proprie fatiche nell’aldilà. La
notizia della morte di Dio assume la portata di un evento epocale e coincide con la caduta di
certezze che in realtà hanno solo ingannato l’uomo. Il mondo stesso giustifica questo evento, perché
Dio non può esistere in questa corruzione. La morte di Dio viene annunciata, ne La gaia scienza, da
un folle che spinge gli uomini a creare il superuomo, per colmare il vuoto causato dall’umanità.
Sono stati gli uomini ad uccidere Dio, ovvero a sopprimere le certezze assolute che li avevano
allontanati dalle insicurezze del periodo moderno. L’uccisione di Dio corrisponde all’eliminazione
di una legge sovrumana, e bisogna creare il superuomo che realizzi le leggi che sostituiscano quelle
di Dio. La morte di Dio è collegata al concetto di nichilismo: una volta presa coscienza
dell’uccisione di Dio, si giunge al nichilismo attivo, che simboleggia la crescita della potenza dello
spirito. L'Uno è una negazione della negazione. Tutte le creature portano in sé una negazione: l'una
nega di essere l'altra. Un angelo nega di essere un altro. Dio, invece, ha una negazione della
negazione; egli è Uno, e nega tutto il resto, perché niente è al di fuori di Dio. Tutte le creature sono
in Dio e sono la sua propria divinità, e questo significa la pienezza. Egli è un Padre della intera
divinità. Dico perciò divinità, perché là niente sgorga, niente viene toccato o pensato. Nel fatto di
negare qualcosa a Dio – ad esempio la bontà, ma in verità non negare nulla a Dio - , dunque nel

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fatto di negare qualcosa a Dio, io concepisco qualcosa che egli non è; e proprio questo deve sparire.
Dio è Uno, è una negazione della negazione. Dio non potrebbe mai generare il suo Figlio unigenito,
se non fosse Uno. Dal fatto che Dio è Uno, egli attinge tutto quello che opera nelle creature e nella
divinità. Io dico più oltre: Dio solo ha l'unità. L'unità è il modo di essere Dio, altrimenti non lo
sarebbe. Tutto quel che è numero, dipende dall'Uno, e l'Uno non dipende da nulla. Regno di Dio e
sapienza e verità sono proprio una sola cosa in Dio, non solo Uno, ma l'Unità. Dio ha tutto quel che
ha nell'Uno e ciò è Uno in lui Ora i maestri lo prendono in quanto Uno, perché l'Uno è Uno più
veramente di ciò che è unito. A ciò che è Uno, è tolta ogni altra cosa; anzi, quel che è tolto è
identico a quel che è aggiunto, per il fatto che implica una mutabilità. E se non è né bontà, né
essere, né verità, né Uno, che cosa è dunque? È il nulla, né questo, né quello.

- Distacco dell'io psicologico -

Per sua esplicita ammissione, come visto, Sartre considerò Meister Eckhart il più puro dei mistici.
La duplicità di natura nell'uomo è interpretata come distinzione tra uomo esteriore e uomo nobile: al
primo appartiene ogni qualità dell'anima e, poiché è costituito di carne, agisce nel mondo fisico
mediante i sensi e le membra; l'altro è quello che, attraverso un cammino di purificazione, si libera
dal contatto col mondo e si scopre nella sua originaria purezza. Da un primo grado, nel quale “si
muove appoggiandosi alle sedie e tenendosi vicino alle pareti e ancora si nutre di latte”, egli giunge
infine al punto nel quale si spoglia completamente di se stesso ed arriva all'oblio della vita effimera
e temporale, raggiungendo la piena pace e beatitudine. Tale distinzione poggia sul concetto cardine
di tutto il pensiero eckhartiano, quello del distacco. Esso rappresenta un'operazione prima
conoscitiva che morale, perché lo “speculativo”, termine che indica questo tipo di mistica, è la
capacità di padroneggiare i contrari liberandosi, attraverso la comprensione, dei contenuti e delle
cose. Nel vuoto del mondo, Dio conduce lo spirito dell'uomo distaccato: “Nel deserto e nell'unità di
se stesso, dove è un puro Uno e scaturisce in se stesso. Questo spirito non ha un perché, se dovesse
avere un perché, anche l'Unità dovrebbe avere il suo perché; questo spirito sta in unità e libertà”. Il
distacco è superiore ad ogni virtù perché, mentre le altre mirano alla creatura, esso ne è distaccato e
va anche oltre l'amore, perché mentre l'amore obbliga l'uomo ad amare Dio, il distacco obbliga Dio
ad amare l'uomo. Il distacco è superiore anche all'umiltà: se può esistere umiltà senza distacco, non
può esistere perfetto distacco senza perfetta umiltà, in quanto è la perfetta umiltà che tende
all'annullamento di sé. Lo spirito distaccato è insensibile alla gioia e alla sofferenza, all'onore, al
danno, al disprezzo, quanto una montagna di piombo ad un vento leggero. L'uomo distaccato si fa
simile a Dio, perché è proprio dal distacco che la divinità trae la sua immutabilità. Immaginando un
paragone con una porta che gira su un cardine, dice Eckhart, l'anta esterna rappresenta l'uomo
esteriore, che agisce in contatto col mondo, mentre il cardine rappresenta l'uomo interiore, che vive
nel distacco e rimane immobile nella sua imperturbabilità. Il distacco è puro perché rappresenta il
culmine del processo di liberazione dell'uomo: esso sta su un puro nulla. Dio attira l'anima a sé, in
modo tale che essa viene ridotta al nulla come fa il sole con l'aurora.

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- Ha cucito gli occhi chiusi perché ha paura di vedere
cerca di dirmi quello che ho messo dentro di me,
ha le risposte per facilitare la mia curiosità,
sognava un dio e l’ha chiamato cristianesimo
Il vostro Dio è morto e nessuno si preoccupa
Se c'è un inferno ci vediamo lì,
fletté i muscoli per mantenere il suo gregge
di pecore in linea
ha creato un virus che potrebbe uccidere tutti i
suini nel suo perfetto regno di assassini,
la sofferenza e il dolore
richieste devozione, atrocità fatte in suo nome
Il vostro Dio è morto e nessuno si preoccupa
Se c'è un inferno ci vediamo lì
vostro Dio è morto e nessuno si preoccupa
Se c'è un inferno ci vediamo lì
che brucia con il tuo Dio con umiltà
Vuoi morire per questo?

“Nine inch nails – heresy”

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4. IL NICHILISTA

«Bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danza». (F. Nietzsche)

«No, i fatti proprio non esistono, bensì esistono solo interpretazioni».


Contro le affermazioni del positivismo Nietzsche replica che nessun fatto “in sé” è constatabile;
sono constatabili solo fatti interpretati. È, questo, un principio che acquista sempre più credito
nella filosofia contemporanea, sia lungo la direzione che porta all’esistenzialismo e a Heidegger, sia
lungo la direzione che conduce al pragmatismo e al neopositivismo. Si può dire che sia
stato Nietzsche a formulare per primo questo principio col rigore più profondo. Di fronte al mondo,
rileva Nietzsche, noi ci troviamo come di fronte a «Un testo misterioso e non ancora decifrato», il
cui senso si rivela ma insieme si complica sempre più nella molteplicità infinita delle
interpretazioni. Ciò che è constatato non è un insieme di “fatti”, ma un “testo misterioso” che viene
interpretato nei modi più diversi e contrastanti – anche se esistono interpretazioni consolidate e
dominanti, che fanno credere nell’esistenza di un senso oggettivo del mondo, ossia nell’esistenza di
un mondo di “fatti”. A fronte di tutto questo, dunque, il mondo è irriducibilmente
una interpretazione e mai un “fatto”. Ad esercitare una notevole influenza sul pensiero
di Nietzsche fu la lettura de “Il Mondo come Volontà e Rappresentazione” di Arthur Schopenhauer,
avvenuta a Lipsia. In quel capolavoro Schopenhauer afferma che il mondo si caratterizza per una
immagine palese che noi tutti vediamo, “Il velo di Maya”: fatto di forme, colori, individui e
ragionamenti. Tutto questo è superficie, se scavassimo al disotto, se approfondissimo lo sguardo
vedremmo solo un magma indistinto, dove non esiste un principio di ragione, dove gli individui
sono inseparati, dove tutto è soltanto forza, caos, confusione e nulla. Il nichilismo europeo dunque,
è l’esito di un itinerario metafisico dualista, platonico-cristiano, che ha caratterizzato il pensiero
occidentale.
Nietzsche è senza ombra di dubbio uno dei più grandi filosofi mai esistiti, di esso potremmo dire
che ha chiuso un’epoca, la ‘modernità’. Quella che si definisce modernità emette il suo primo
vagito nel XVI secolo con Montaigne e poi Pascal, dopo il Rinascimento, e si chiude agli albori del
XX secolo proprio con il filosofo che divenne folle. Nietzsche non si è reso protagonista di nuove
scoperte, non elaborò sistemi filosofici nuovi in campo ontologico o epistemologico; la sua
importanza risiede in primo luogo nell’etica ed in secondo luogo nella sua acuta critica storica.
Studioso della cultura greca, in particolar modo dei filosofi presocratici, Nietzsche attinse
ispirazione dunque dalle opere di Arthur Schopenhauer e dalla musica di Richard Wagner. Ne “La
Nascita della Tragedia” Nietzsche avanzò non solo un ipotesi relativa alle origini del teatro tragico
dei greci, ma ritrovò nelle tragedie di Eschilo e di Sofocle l’espressione dello spirito‘dionisiaco’
(dio Dioniso). Questo sentimento tragico della vita sarebbe poi stato soffocato, secondo Nietzsche,
dall’avvento di un atteggiamento razionalistico, il cui primo interprete fu Socrate.
Con Socrate comincerebbe la decadenza della cultura occidentale.

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- La Volontà di Potenza -

Nietzsche identifica la “Volontà di Potenza” con l’intima essenza dell’essere. La volontà di potenza
si identifica con la vita stessa, intesa come forza espansiva. La molla fondamentale della vita non
sono gli impulsi autoconservatori o la ricerca del piacere, ma la spinta all’autoaffermazione. La
volontà di potenza trova la sua espressione più alta nel “superuomo“. Non va intesa, la volontà di
cui parla Nietzsche, semplicemente come volontà di dominio o di sopraffazione, ma come volontà
che tende continuamente a potenziarsi e accrescersi, in un rapporto dinamico nei confronti
della vita. «La vita è urto di forze, di energie contrastanti, di intenzioni antinomiche. Il principio
vitale che sta al centro di tutte le cose è un principio irrazionale e cieco, cui dobbiamo rassegnarci
accettando le cose così come capitano».

- L’Eterno Ritorno -

L’ “Eterno Ritorno” per Nietzsche è il rifiuto della linearità della esistenza e, contemporaneamente,
l’affermazione della circolarità del tempo: «Tutto va e tutto torna indietro eternamente». La linearità
del tempo è stata propugnata dal Cristianesimo, il quale ci insegna che tutto ciò che esiste va
immaginato come una linea retta, la quale ha avuto un inizio con la Creazione e avrà una fine (la
fine dei tempi) con il Giudizio Universale.
L’esistenza senza un inizio e senza una fine, poiché tutto tornerà eternamente, è il nucleo
dell’eterno ritorno. L’eterno ritorno, è il sì che il mondo dice a se stesso, la volontà cosmica di
riaffermarsi e di essere se stessa, quindi l’espressione cosmica di quello spirito dionisiaco che esalta
e benedice la vita. Il mondo, dice Nietzsche, si afferma da sé, anche nella sua uniformità che rimane
la stessa nel corso degli anni, si benedice da sé, perché è ciò che deve eternamente ritornare, perché
è il divenire che non conosce sazietà né disgusto né fatica.
In letteratura la teoria dell’eterno ritorno fa capolino nell’ “Insostenibile Leggerezza dell’Essere”
(1982) di Milan Kundera. L’esordio di questo romanzo è imperniato su una riflessione relativa alla
teoria nietzscheana:
«L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi
nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che
anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito? Se ogni
secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all’eternità come
Gesù Cristo alla croce. È un’idea terribile. Ecco perché Nietzsche chiamava l’idea dell’eterno
ritorno il fardello più pesante. Se l’eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su
questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza».

- Il Superuomo -

«L’uomo è un qualcosa che deve essere superato. Il Superuomo è il senso della terra… L’uomo è
una corda tesa tra la bestia e il superuomo, una corda sull’abisso».

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Il Superuomo è l’incarnazione dei valori vitali che Nietzschecontrappone ai valori tradizionali ed è
considerato da Nietzsche come il filosofo creatore dei valori, dominatore e legislatore che egli
contrappone agli “operai della filosofia”, coloro comunemente considerati filosofi. La concezione
nietzschiana non ha nessun preciso significato politico; è tuttavia servita di pretesto al razzismo ed
alle concezioni antidemocratiche della politica. Con il termine Superuomo Nietzsche non indica per
nulla un esemplare particolarmente perfetto dell’uomo attuale. Né intende una specie di uomini che
metta da parte ciò che è umano ed eriga a legge il puro arbitrio e a regola una sorta di furia titanica.
Il Superuomo è invece, prendendo il termine esattamente alla lettera, quell’uomo che va oltre
l’uomo così com’è stato e com’è, soltanto per portare finalmente l’uomo attuale in quella sua
essenza che ancora gli manca e stabilirlo in essa.

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- «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una
volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo,
ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente
piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa
sequenza e successione –e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i
rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza
viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!».

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5. FIGURE E SIGNIFICATI DEL NULLA

- Nel pensiero di Heidegger -

Porre la questione ‘nulla’ come parametro per misurare la verità e l’attualità di una filosofia rimane
uno dei maggiori contributi di Heidegger al pensiero contemporaneo: la carica eversiva di questa
posizione non si lascia pacificamente neutralizzare e rimane una permanente fonte di contestazione
all’ontologia occidentale, alla sua propensione a privilegiare le dimensioni del pieno, della
presenza, del positivo, mortificando quelle contrarie del vuoto, dell’assenza, del negativo. La
tradizione metafisica ha perlopiù condannato e disprezzato il nulla. Già dal modo in cui Parmenide
istituisce il senso dell’essere proprio in virtù della sua irriducibile opposizione al nulla, si
intravedono i lineamenti di un modo di pensare che tende a valorizzare il positivo a scapito del
negativo, improntando gli sviluppi futuri del pensiero filosofico. Anche Platone, con il parricidio
operato nel Sofista, attraverso la distinzione del non-essere relativo e del non-essere assoluto, mette
in discussione solo parzialmente la positivizzazione ontologica compiuta dall’eleatismo: infatti, egli
non solo non riesce a portare a compimento il ricongiungimento dell’essere con il nulla, ma finisce
per estendere il dominio della presenza e riportare sotto la sua egida anche le prerogative del mondo
sensibile, della molteplicità e del mutamento. Se nella filosofia greca, il nulla è ricondotto alla
mancanza di forma che contraddistingue la materia, con l’avvento del cristianesimo e del suo
orizzonte creazionisitico, il nihil indica l’assenza totale dell’ente al cospetto del Dio onnipotente. In
entrambi i casi, il nulla coincide con la privazione, senza che ne venga messa a frutto la potenzialità
speculativa. Anche nella filosofia moderna e contemporanea la posizione marginale assegnata al
nulla rimane immodificata: sintomatica la formulazione leibniziana del principio di ragione, che
considera il nulla come più semplice rispetto al qualcosa, dunque non meritevole di essere indagato
e interrogato metafisicamente. E altrettanto indicativa risulta, due secoli dopo, l’operazione di
Bergson, la cui sottile decostruzione dell’idea del nulla in quanto pseudo-concetto si rivela debitrice
della storia dell’ontologia occidentale. Per trovare una parziale alternativa a questo sistematico
deprezzamento del nulla, occorre rivolgersi ad autori come Plotino o Meister Eckhart, sebbene
neppure il neoplatonismo o la mistica speculativa ripudino la metafisica della presenza e il trionfo
del positivo, anzi li esasperino a tal punto da utilizzare la via negationis come l’estrema risorsa del
pensiero per denotare nel modo meno inadeguato possibile l’infinità, l’autosufficienza, l’eccedenza
del divino rispetto all’ente, all’oggettività, al mondo delle determinazioni. È in relazione a questa
complessa vicenda storico-filosofica che la posizione di Heidegger sul nulla mostra il suo profilo
innovativo: la sua ontologia dell’assenza affranca il pensiero dall’idea fallimentare che il senso
dell’essere si istituisca in virtù della sua opposizione al nulla, riconciliandolo con le dimensioni
della negatività, della finitezza, della temporalità. Nella filosofia heideggeriana si possono
individuare figure e significati diversi del nulla: l’uso del plurale deriva dalla convinzione di chi
scrive che non esista la concezione heideggeriana del nulla, bensì una pluralità di configurazioni
che, solo forzatamente e con un atto di astrazione, possono essere ricondotte a identità.
Heidegger ritiene che esso si possa incontrare nell’esperienza dell’angoscia (che non è semplice
paura di un ente determinato) nella quale veniamo assaliti da un senso di spaesamento che ci lascia
sospesi; «tutte le cose e noi stessi sprofondiamo in una sorta di indifferenza non nel senso che le
cose si dileguino, ma nel senso che proprio nel loro allontanarsi le cose si rivolgono a noi non

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rimane nessun sostegno. L’angoscia rivela il Niente». Ma il Niente è radicalmente, assolutamente
diverso dall’ente: esso «si svela nell’angoscia, ma non come ente. L’angoscia non è un cogliere il
Niente. Tuttavia il niente si manifesta in essa». Esso ci viene incontro insieme all’ente nella sua
totalità, che nell’angoscia si dilegua. L’angoscia è altresì caratterizzata da un indietreggiare «che
certo non è più un fuggire, bensì una quiete incantata». L’angoscia permette di esperire la negazione
dell’ente nella sua totalità. Per chiarire il significato del termine «Niente» leggiamo un dialogo che
Heidegger ebbe con il monaco buddhista, Maha Mani. Heidegger chiese al suo interlocutore cosa
fosse per gli orientali l’essenza della meditazione. Il monaco rispose semplicemente: «Raccogliersi
quanto più l’uomo, senza sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più disfa se stesso. L’‘io’ si estingue.
Alla fine, vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza.
Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena realizzazione». Heidegger comprese e disse:
«Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto». Il Niente non sembra, dunque,
essere nihil absolutum: diremo piuttosto che è una realtà che delimita (in senso non spaziale né
temporale) il mondo; non si trova né nel mondo né al di fuori di esso. «Il Niente non rimane
l’opposto indeterminato dell’ente, ma si svela come appartenente all’essere dell’ente». Di più: «Il
Niente come altro dall’ente è il velo dell’essere». Noi non possiamo concepire il nihil absolutum:
l’unico Niente che ci è dato concepire è la maschera dell’essere, l’essere stesso, che permette di
sussistere e contemporaneamente delimita l’ente. Si potrebbero azzardare parallelismi tra il pensiero
di Heidegger e le tradizioni orientali, tra il suo essere-Niente e il brahman nirguna,
l’Incondizionato, l’Assoluto delle dottrine indù, che si trova al di fuori di ogni determinazione, al di
là degli stessi essere e non-essere; e così la condizione del Buddha, va detto tuttavia che da questo
punto di vista Heidegger è limitato dalla sua visione dell’essere come radicalmente altro dall’ente,
secondo il suo ben noto argomento della «differenza ontologica» (mentre nella metafisica
occidentale l’essere verrebbe erroneamente trattato come se fosse un ente). La brama di scopi turba
la chiarezza del timore, pronto all’angoscia, dello spirito di sacrificio che si è creduto capace della
vicinanza all’indistruttibile», concetto estremamente simile per non dire identico a quanto espresso
nella Bhagavadgītā, la parte centrale del celebre poema Mahābhārata. Così si rivolge Kṛṣṇa,
Avatāra (manifestazione terrena) del dio Viṣṇu al guerriero Arjuna, sul campo di battaglia di
Kurukshetra: «Fiore tra gli Uomini, colui che non può essere turbato da queste cose, chi rimane
calmo ed equanime nel dolore e nel piacere, lui solo è degno di ottenere l’immortalità. L’Uno che
pervade tutte le cose è imperituro. Nessuno ha potere di distruggere lo Spirito Immutabile». Dopo il
tramonto della metafisica e del nichilismo, le cose appaiono esistenzialmente, cioè alla luce
dell’esserci, il cui modo di essere non è quello delle cose ma consiste nell’esistere.

- L’analisi dell’esistenza -

Questo termine sottolinea come l’ente definito dal suo essere aperto alle cose, l’esserci, non ha a sua
volta il significato di una cosa, né in generale alcun significato: il prefisso “ex” in ex-sistenza
significa proprio ciò che è esterno e estraneo a tutte le cose. Inoltre, se è tipico delle cose essere
identiche a se stesse e trovarsi all’interno dei propri confini (la pietra come la pietra, lo scudo come
lo scudo), mentre esistere non ha nulla a che vedere con “essere se stessi”, ma al contrario con non
essere se stessi e proprio per questo essere aperto a tutte le altre cose e avere la possibilità di essere
altro. In verità solo l’uomo esiste in quest’ ultimo senso, già che le cose non possono uscire dai
propri confini (la pietra non può cessare di essere pietra con i propri mezzi) e perciò di essere si può

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dire soltanto che sono non che esistono. Decisivo per il corso dell’indagine è comprendere che in
ogni modo il fatto di essere esemplare e privilegiato non passa dal fatto di essere “umano”, il che è
pura determinazione ontica ma dipende dal fatto che l’essere umano esiste. Questa determinazione
non procede da una caratteristica visibile, affrontabile in modo teorico, in quanto non c’è
significato: l’esistenza non è un tema ontologico tra altri, bensì ciò che precede ogni trattazione di
questo tipo. A questo si riferisce Heidegger quando parla di “pre-ontologico”, il che costituisce
paradossalmente l’unica tematica propriamente ontologica. La filosofia di Heidegger trova in questo
ritrovamento pre-ontologico iniziale, l’esistenza, la sua prima determinazione. Il rapporto
ontologico moderno tra la coscienza o il soggetto che si oppone ad un oggetto (che è il mondo)
viene sospeso. Nella prospettiva pre-ontologica tanto il soggetto come l'oggetto sono enti cui
corrispondono in quanto tali determinate caratteristiche che li rendono incompatibili con l'essere
tale come abbiamo cominciato a comprenderlo a partire dall'esistenza. Solo a partire dal proprio
esistere si potrà comprendere che cosa si intende per soggetto, ragione o coscienza. In questa
maniera è chiaro che una volta per tutte che l'indagine ontologica non è né epistemologica, né etica,
né politica, né psicologica bensì esistenziale tout-court. Si occuperà di come appare e ha luogo
l'essere, di fatto l'essere delle cose, che lo fa in maniera esistenziale. Per questo il risultato
dell'analisi non offrirà nemmeno un significato dell’esserci, ma al contrario mostrerà che non ha
significato, che è la condizione affinché possa essere considerato semplicemente come essere. Di
conseguenza da un punto di vista metodologico l'analisi può muovere soltanto da come appare
l’esserci, sospendendo qualunque significato pregresso che rappresenterà sempre una barriera. Il
primo risultato evidenzierà come l’esistenza risulti inseparabile dal mondo: non è che il mondo
appaia da una parte e l’esserci dall'altra. Esserci significa proprio essere nel mondo. Di conseguenza
il mondo non può essere compreso come un oggetto indipendente che si pone di fronte a un
soggetto, bensì in maniera esistenziale. Pertanto il metodo non potrà procedere per categorie
(facendo appello determinazioni concettuali come se il mondo fosse una sostanza oggettiva dotata
di significato), ma per mezzo di esistenziali, cioè di descrizioni come ha luogo l’esserci. Questa
differenza tra categorie ed esistenziali segna un punto di non ritorno nella filosofia di Heidegger:
l’abbandono delle categorie logiche e grammaticali come inservibili fini della comprensione pre-
ontologica dell'essere, proprio perché tale comprensione non è mai neutrale né si può fare
dell'esterno di ciò che si vuole conoscere. In effetti l’esserci che comprende è già determinato da
quello che vuole comprendere, cioè dall’essere, in una sorta di circolo da cui risulta impossibile
uscire da un punto di vista fenomenologico. In un'ottica filosofica, è possibile solo descrivere quello
che c'è sapendo che questa descrizione è segnata da ciò che si pretende di descrivere. In definitiva,
esistere significa anche in maniera comprensiva abitare questo circolo, il quale, lungi dal
rappresentare una limitazione, costituisce la condizione per scoprire che cos'è l'essere, cioè come
appare. L'analisi esistenziale è sempre fenomenologica: si tratta di scoprire. Ed esistenzialmente
(fenomenologicamente) che si scopre come tra il mondo e il pensiero non ci sia opposizione, bensì
unità originaria: in quell’ essere irrilevante delle cose precedente a qualsiasi tematizzazione, proprio
quando mi limito a farne uso senza interrogarmi in maniera riflessiva sul loro essere, la scarpa che
indosso, il martello con cui picchio il chiodo, l'automobile che guido, le cose appaiono già
comprese in anticipo. Quando cammino con le scarpe, così come quando le indosso al mattino per
uscire di casa, non penso prima di queste operazioni, ma mi limito a eseguirle in quanto la
situazione è già interpretata: prima di pensare le cose poste di fronte a me, le utilizzo in modo che è
in questo uso che ne scopro l’essere, benché non lo metta a tema. Per essere più precisi, scopro le
cose per il mero fatto che non le tematizzo. Come dirà Heidegger, le cose si trovano sottomano,

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accanto a me, ma non opposte teoricamente a me. La distinzione tra scoprire e pensare in maniera
riflessiva è il presupposto di una distinzione metodologica centrale, quella tra interpretare ed
enunciare: il mondo è già interpretato quando uso le, cose che è nel momento preciso in cui tra me e
il mondo non c'è opposizione. Per contro, come abbiamo visto, quando il rapporto tra me le cose si
interrompe, quando cioè mi si rompe la scarpa, è la cosa già inutile che appare di fronte a me come
oggetto. In un certo modo questo presuppone una rottura con il mio mondo interpretato, che passò a
considerare in maniera riflessiva. Dalla descrizione di questi due modalità di apparire delle cose,
sottomano e davanti a me, si deduce la priorità del primo: esistere consiste nell'aver già compreso il
mondo circostante; le cose sono già interpretate e comprese prima che intervenga qualunque
riflessione. L'avventura ontologica diventa esistenziale, il che vuol dire che la questione dell'essere
si decide prima della coscienza e della conoscenza. L’analisi esistenziale sarà di conseguenza
un'analisi di tutto ciò che risulta rilevante a monte di qualsiasi categoria concettuale e si riferisce
alle condizioni di esistenza. Questo carattere condizionale rinvia in primo luogo alla propria
esistenza, che può decidere di stare aperta all'essere, accettando nella condizione ontologica (in
definitiva, il suo spossessamento), o al contrario rimanere al riparo di un significato in cui trovare
un'identità. Si tratta dunque di una scelta inscritta nell'ambiguità stessa dell'esistenza, che può
apparire autentica o inautentica a seconda che decida a favore dell'esistenza stessa e del suo
carattere aperto all'essere o, al contrario, la eluda reinterpretandosi come significato e sostanza. In
ogni caso la stessa condizione di apparire come una cosa ed essere compresa per mezzo di categorie
non è solo una possibilità inerente all'esistenza, benesì ciò che la definisce fattualmente: ci troviamo
sempre in modo inautentico in una determinata situazione. Non si tratta dunque di una scelta
cosciente di fronte a due alternative oggettive ed equivalenti: l'opzione per l'esistenza non ha una
sfera e un contenuto propri; appare solo come sospensione e distanze rispetto a quella inautenticità
in cui già da sempre si sta. Questa scelta asimmetrica, di gran lunga anteriore a qualunque decisione
morale, evidenzia tutta l'incertezza e anche la limitatezza dell'esistenza, estranea a qualsiasi
principio superiore che prescriva quello che si deve fare o come si può conoscere. Esistenzialmente,
l'uomo non si trova in una posizione da cui possa avvistare le sue possibilità per scegliere la più
adeguata, bensì nel cuore scuro dove si forma la questione stessa della scelta, la quale non giungerà
da nessun al di là in cui abita la verità, ma che emergerà dal qui più prossimo, sempre condizionato
dal fatto di trovarsi già sempre in un luogo, in uno stato d'animo concreto, comprendendo che da lì
si aprono e parlando della sua situazione. L’analisi reinterpretare la situazione ontica (trovarsi,
comprendere e parlare) alla luce di tre caratteri ontologici: la fatticità, che rinvia al fatto di essere
già sempre una situazione; l’esistenzialità, la quale esprime di poter-essere che si apre sempre
davanti a me all'interno di determinate possibilità che mi obbligano a scegliere; e la deiezione, che
rimanda alla mia situazione gettata in un presente sequestrato da tutto ciò che succede intorno.
L'analisi non da però come risultato un fenomeno che è definito da tre categorie, bensì che riscatta
tre condizioni elementari, non regolate nei gerarchizzate, le quali descrivono come si manifesta
l’esserci. L’analisi intende le tre condizioni come una struttura retta da un significato che di per sé
non significa nulla in quanto rimanda solo alla dipendenza indecifrabile della descrizione
esistenziale come unità. Rifacendosi all'antico mito di Cura, Heidegger chiamerà cura (sorge)
questa struttura tripartita. Ma se l'analisi ambisce a essere realmente fenomenologica, non basterà
dare un nome a questa struttura e attribuirle un concetto (l'unità), bisognerà indicare come si
presentata tale unità, la quale non potrà farlo con un concetto bensì con un preciso stato d'animo che
l'angoscia. A differenza della pura paura, questa non ci invade quando ci scontriamo con qualcosa
di concreto, per esempio un pericolo, ma emerge proprio nel non confrontarsi con nulla di

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particolare, quando questa unità esistenziale si fa presente, mostrando contemporaneamente questo
nulla in tutta la sua potenza. È l'angoscia infatti che ci fa vedere l'inconsistenza dell'esistenza, la
quale è caratterizzata dal non essere nulla di particolare, ma nello stesso tempo ci presenta il mondo
nella sua totalità e non come questa o quella cosa specifica. L'angoscia è angosciata proprio
dell'esistenza, che non offre protezione né rifugio alcuno, ma solo una costante “poter essere” che
obbliga a scegliere a ogni passo. Inizialmente il mondo appare dunque come un orizzonte di
possibilità equivalenti e vuote. Nell'angoscia mondo e nulla appaiono esistenzialmente legati:
l’esserci si angoscia del proprio esistere segnato dall’anticipazione necessaria per stare nel mondo
in mezzo alle cose. In realtà, l'angoscia non è angosciata per qualcosa, bensì per il nulla. Ma che
cos'è questo nulla? In primis bisognerebbe rispondere: l'esistenza stessa, che non ha casa e consiste
in un permanente stare fuori, “ex”, esposta alle intemperie. In questo momento, alla fine della prima
sezione c'è corrispondenza tra ognuna delle tre condizioni ontologiche che definiscono la struttura
dell’esserci (fatticità, esistenzialità e deiezione) e tre caratteri di natura temporale: la fatticità è un
essere-già-in; l’esistenzialità è anticipare se stessi, essere avanti-a-sé; la deiezione essere presso.
Così la struttura della cura è definita come: <<avanti-a-sé/essere-già-in/in quanto essere presso le
cose>>.

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- eṡistènza s. f. [dal lat. tardo exsistentia, der. di exsistĕre «esistere»]. "Esistenza"
etimologicamente significa stare da, perché deriva dal composto latino ēx + sistentia, che
vuol dire avere l'essere da un altro, esterno a sé. L'esistenza infatti non ha l'essere in
proprio, ma esiste solo in quanto è subordinata ad un essere superiore.

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6. VACUITÀ

“La vacuità è ciò che ci permette di aprire gli occhi per vedere direttamente che cos’è l’essere.
[…] Dobbiamo assumerci la responsabilità dei risultati di ciò che abbiamo fatto, ma l’obiettivo
finale è quello di non farci ossessionare dal risultato, che sia buono, cattivo o neutro. È questo che
chiamiamo vacuità. Questo è il significato principale della vacuità.”
“Ritorno al silenzio di Dainin Katagiri”

Il nichilismo europeo è, per l’appunto, l’esito di un itinerario metafisico dualista, platonico-


cristiano, che ha caratterizzato il pensiero occidentale. Il Buddhismo, invece, è caratterizzato da una
visione advaya, non duale. Non a caso, la śūnyatā buddhista è tradotta come vuoto, vacuità. Il
termine “nulla” non si addice per le implicazioni logiche e metafisiche che porta con sé. È la
negazione dell’essere, il lato oscuro dell’essere cui si contrappone. Nel Buddhismo non vi è
contrapposizione, ma coappartenenza. La forma è vuoto ed il vuoto è forma, come recita
la Prajñāpāramitā. In Occidente, il nulla è stato declinato in una infinità di modalità differenti.
Tuttavia, non si è mai liberato delle delle sue valenze negative e metafisiche. La metafisica, anche
etimologicamente, porta con sé l’idea di una divisione e di una contrapposizione – cielo/terra,
spirito/materia, essere/ente. L’esito di questa prospettiva è stato il nichilismo, con il suo corrodere i
valori e con la trasformazione della realtà in materia manipolabile dalla tecnica con fini di dominio.
In questo contesto, come diceva Heidegger, è necessario interrogarsi sul nulla e viverne fino in
fondo l’essenza. È anche necessario porsi in un’ottica unitaria, che riporti il mistero all’interno della
realtà.
Vacuità vuol dire vuoto. Vuoto di esistenza intrinseca. Niente esiste da sè, di per sè.
“Sorrise e levò lo sguardo a una foglia di pippala stagliata contro il cielo azzurro, la cui punta
ondeggiava verso di lui come se lo chiamasse. Osservandola in profondità, Gautama vi distinse
chiaramente la presenza del sole e delle stelle, perché senza sole e senza stelle quella foglia non
sarebbe mai esistita. E vide la terra, il tempo, lo spazio: tutti presenti nella foglia. In verità, in quel
momento preciso, l’universo intero si manifestava nella foglia. La realtà della foglia era un miracolo
stupefacente. Vide che è l’esistenza di tutte le cose a rendere possibile l’esistenza di ciascuna cosa.
L’uno contiene il tutto e il tutto è contenuto nell’uno. La foglia e il suo corpo erano una cosa sola.
Nessuno dei due possedeva un sé permanente e separato, nessuno dei due poteva esistere
indipendentemente dal resto dell’universo.
Vedendo la natura interdipendente di tutte le cose, Siddhartha ne vide perciò la natura vuota: tutte le
cose sono vuote di un sé separato e isolato. Comprese che la chiave della liberazione sta nei due
principi dell’interdipendenza e del non sé. Illuminando i fiumi delle percezioni, Siddhartha
comprese che l’impermanenza e l’assenza di un sé sono le condizioni indispensabili alla vita. Senza
impermanenza, senza mancanza di un sé, nulla potrebbe crescere ed evolversi. Se un chicco di riso
non avesse la natura dell’impermanenza e del non sé, non potrebbe trasformarsi in una piantina. Se
le nuvole non fossero prive di un sé e impermanenti , non potrebbero trasformarsi in pioggia. Senza
natura impermanente e priva di un sé, un bambino non potrebbe diventare un adulto. Quindi
accettare la vita significa accettare l’impermanenza e l’assenza di un sé. La causa della sofferenza è
la falsa nozione della permanenza di un sé separato. Vedendo ciò, Siddhartha giunse alla

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comprensione che non c’è nascita né morte, né creazione né distruzione, né uno né molti, né dentro
né fuori, né grande né piccolo, né puro né impuro. Sono tutte false distinzioni create dall’intelletto.
Penetrando nella natura vuota delle cose, le barriere mentali vengono scavalcate e ci si libera dal
ciclo della sofferenza.” (Buddhacarita, III, 22 – poema di Ashvaghosa del I sec. d.C.). La vacuità
(śunyātā) è la categoria fondamentale dei Prajñāpāramitā Sūtra e della filosofia di Nāgārjuna. Nelle
dottrine del Buddhismo dei Nikāya, che precedettero l'opera di Nāgārjuna e che rifiutavano la
canonicità dei Prajñāpāramitā sūtra, è presente l'idea della coproduzione condizionata, per la quale
nessun fenomeno (dharma) ha una esistenza in sé (anātman), in quanto ogni fenomeno nasce solo in
relazione ad altri fenomeni che lo hanno preceduto: esiste A solo in quanto è esistito un non-A.
Questa realtà dei fenomeni posta su un piano temporale di impermanenza (anitya) conservava, per
le scuole del Buddhismo dei Nikāya (anche se con delle differenze fondamentali ad esempio tra i
Vibhajyavāda e i Sarvāstivāda) una stabilità temporale immediata ovvero una identità precisa. Tutti
i fenomeni (dharma) erano quindi privi di identità, erano vuoti di identità. Tutti i dharma, secondo
la lettura dell'insegnamenti del Buddha da parte di Nāgārjuna, sono vuoti: poiché nessun fenomeno
possiede una natura indipendente, si può dire che tutto ciò che esiste è vuoto. L'esperienza della
vacuità è la via che porta alla liberazione. Ma la vacuità non può essere conosciuta con il pensiero
ordinario (o convenzionale) che tratta dei fenomeni come se fossero indipendenti e stabili, dotati di
natura immutabile e certa. «Poiché vi è questo, quello viene a esistere. Dall'apparire di questo viene
quello; se questo è assente, quello non è; cessato quello, questo cessa» Samyutta-nikaya.
Una mattina ti svegli con una sensazione di vuoto che non sai spiegare e più nulla ti sembra degno
di importanza. E’ difficile conviverci perché, da occidentale, non sei abituato a fare spazio, ti è più
congeniale riempire. Temi di essere diventato nichilista, cinico, insensibile, mascheri la sensazione
concentrandoti sulle incombenze quotidiane. Eppure rimane lì, dentro di te, a tratti si manifesta, la
scacci via, ritorna. Passano i giorni e ti accorgi che non è momentanea. La vacuità è entrata nella tua
vita, fedele compagna. Perché? La vita scorre e ciò che prima faticava a decollare, come per magia
inizia a dare frutti. L’assenza di attaccamento ai risultati, la mancanza di aspettative favorita da quel
senso di vuoto, anziché bloccare il tuo progresso gli danno un’accelerata. La vacuità è
normalmente associata al non-senso, al vuoto, all’inutilità, al nichilismo. Il dizionario la descrive
come “caratteristica di ciò che è vuoto”, “mancanza di contenuti logici, di valori morali”. Sentirsi
vacui, secondo la concezione occidentale, è spiacevole perché il vuoto è destabilizzante. Eppure la
vacuità è elemento centrale della dottrina Buddista che in essa riconosce una fonte di liberazione
anziché una forma di nichilismoLiberazione progressiva dall’egocentrismo. La vacuità indicata dal
Buddha è la famosa via di mezzo, che riconosce un’esistenza intrinseca a tutti i fenomeni. Il
concetto di vacuità ha iniziato a incuriosirmi quando è entrato di soppiatto nella mia vita. Dopo una
fase di malinconia e sottile cinismo caratterizzata dall’assenza di stimoli, la creatività ha preso
l’impennata facendomi partorire idee originali, che si sono rivelate inaspettatamente buone e
costruttive. Idee nate in modo spontaneo su cui non nutrivo alcuna particolare aspettativa e che
forse, proprio per questo, sono sbocciate più rapidamente di altre. La sensazione è che fosse la
vacuità a orientarmi. Di lì a breve ho scoperto che per il Buddismo la vacuità è molto importante.
“La cosa importante è non farci prendere dall’ossessione o dalla fissazione per i risultati che
vediamo, sentiamo e sperimentiamo. Tutti i risultati, buoni, cattivi o neutri, vanno accettati fino in
fondo. Non dobbiamo fare altro che seminare buoni semi giorno dopo giorno, senza lasciarne
traccia, senza creare alcun attaccamento” “nella terminologia Sanscrita il termine Vacuità si
esprime con SHUNYA, che letteralmente significano Vuoto e Vuotezza. Abbiamo però visto che

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questo Vuoto si riferisce esclusivamente alla caratteristica ‘vuota’ dello spazio che quindi, proprio
per questa ragione, può accogliere in sé la ‘piena’ possibilità della manifestazione”.
Quindi la vacuità, grazie al vuoto, libera spazio per la manifestazione delle possibilità. E’ un “vuoto
riempibile”. Altro che nichilismo! SHUNYATA non comporta l’eliminazione totale dell’Io,
l’annichilimento, e non è “qualcosa”. “Vacuità”, continua liberamente servo, “sta a indicare
l’inconoscibile condizione di PRIMA dell’esistenza, cioè lo stato vuoto, il quale nella sua realtà,
rimane sempre simile a se stesso, anche quando, e se, verrà riempito da cose esistenti.”

- La vacuità, l’Io e la compassione -

La vacuità, nello Zen, aiuta a comprendere che, essendo tutti i fenomeni interdipendenti, l’Io non
può essere indipendente da tutto, come appare in una prospettiva egocentrica, ma è prodotto di tante
altre cose, esiste in una rete di relazioni in continuo cambiamento. L’egocentrismo risulta pertanto
illusorio per quanto appaia solido, inducendoci a difenderlo strenuamente poiché inconsapevoli
dell’inesistenza di un sé intrinseco.
In “Cos’è la vacuità” di Bernie Glassman si legge:

“nella prima parte del nostro studio comprendiamo come tutti i fenomeni non sono che vacuità, non
sono che l’Unico Corpo. Dio, fiori, alberi, letame, insetti, vermi e farfalle sono l’Unico Corpo.
Avendo visto tutto come l’Unico Corpo, lo consideriamo poi come l’insieme delle differenze, ed è
questa la seconda parte dello studio. Nella terza parte, comprendiamo la relazione: vacuità e
differenze si equivalgono. Quando vediamo che la forma è vuota e la diversità è unità, quando
comprendiamo veramente cosa significhi, conseguiamo prajna. Ma ricordate che, se ne abbia
coscienza o no, siamo essenzialmente prajna. Siamo tutte le cose, ma dobbiamo realizzarlo,
dobbiamo farne esperienza.[…] Quando capiamo chiaramente che la vacuità è forma, che l’unità è
tutte le forme, realizziamo la compassione. Ogni fenomeno nella vita è unità, ogni fenomeno nella
vita è me. La compassione implica che non siamo più attaccati al mondo del Nirvana. […]” .

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- Vacuità: dal latino vacuĭtas -atis, derivazione di vacuus «vuoto» – Il fatto, la
condizione di essere vuoto. Nel senso figurativo di mancanza di consistenza,
povertà assoluta di capacità intellettuale e di contenuti: basta che parli per
mostrare la vacuità della sua mente; discorsi di una vacuità impressionante.

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- Concetto di "vacuità":

io non sono i miei pensieri , le mie emozioni, le percezioni dei miei sensi e le mie
esperienze. Io non sono il contenuto della mia vita. Io sono la Vita. Io sono lo spazio
nel quale tutte le cose avvengono. Io sono la consapevolezza. Io sono l'Adesso. IO
SONO...

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7. ZEN, L’ARTE DEL NULLA

Siamo tutti nichilisti, diceva Dostoevskij. Oggi non sembrano più esserci dubbi. Quel che resta delle
nostre credenze o utopie galleggia sopra una convinzione profonda: che nulla sia veramente degno
di essere creduto. Sogniamo sapendo di sognare, chiosava Nietzsche. Il nichilismo viene da lontano.
Non è certo il prodotto del disincanto moderno e della razionalità tecnologica: semmai si potrebbe
sostenere il contrario. Esso appare come un'ombra che accompagna la riflessione filosofica fin dalle
origini. Come pensare l'essere se non in rapporto al nulla? E se il nulla gli è coessenziale, come
salvare l'essere da questo abbraccio mortale? Illusioni e seduzioni Neppure si può dire che, su tale
questione, oriente e occidente seguano vie davvero alternative. Secondo un radicato luogo comune
l'occidente avrebbe orrore del nulla. L' oriente, invece, se ne lascerebbe tranquillamente sedurre.
Donde atteggiamenti fondamentalmente diversi. In occidente da sempre il pensiero eleva argini, via
via più incerti, di fronte alla minaccia di quella potenza negativa e distruttiva e va disperatamente
alla ricerca di qualche assoluto che vi si sottragga. In oriente prevale invece il fiducioso abbandono
al non essere, vissuto come una liberazione, ed è ammirato il passo leggero di chi vive la vita come
fosse gioco, illusione, brillio di immagini. Ma, anche se le cose stessero così, potremmo obiettare
che in realtà si tratta di risposte solo apparentemente diverse alla stessa fede: la fede tipicamente
nichilistica che tutto è destinato a dissolversi e a dileguare. Senonché le cose non stanno così. Non è
vero che oriente e occidente rappresentano due strategie nichilistiche di segno opposto, l'una
segnata da angoscia, l'altra improntata al corteggiamento. O comunque non è questo l'aspetto
decisivo. Ben più sottili e forti nessi collegano quelle che a torto sono considerate visioni del mondo
in totale contrasto. Una conferma ci viene da due libretti pubblicati dal Melangolo. Del primo è
autore Shinichi Hisamatsu, figura eminente del buddismo Zen, filosofo attento alla tradizione
occidentale, protagonista negli anni Cinquanta di incontri ormai storici con pensatori del calibro di
Martin Buber, Carl Gustav Jung e Martin Heidegger. A sua volta del secondo è autore Charles de
Bovelles, umanista francese vissuto tra Quattro e Cinquecento, filosofo e teologo, noto come
Bovillo. Ma prima di vedere che cosa abbiano in comune queste due opere e quali prospettive
schiudano sia pure da mondi tanto lontani, rendiamo giustizia al tentativo di Hisamatsu volto a
definire il nulla della cultura buddistica in opposizione al nulla della mistica cristiana. Secondo
Hisamatsu il nulla di cui parla lo Zen non è un concetto metafisico, bensì una funzione etica, cioè
una sorta di movimento dello spirito che converte nel profondo: dalla volontà di dominio all'
accettazione della realtà così com' è. Fino alla pace, fino alla "quiete del cuore". Ed è il cuore, per
l'appunto, il luogo del nulla. Il nulla non ci sta di fronte, né in figura di abisso che tutto inghiotte né
in immagine di madre che tutto accoglie. Piuttosto il nulla è in noi. Dimora nell' immota, divina
profondità che è il cuore, dove la distinzione di interno ed esterno, io e tu, reale e immaginario, vero
e falso, bene e male non ha più ragion d' essere. Perciò il nulla non può essere oggettivato e
proiettato fuori di noi, quasi fosse una realtà negativa cui si giunge in una fuga senza fine da questo
e da quello. E non può essere neppure pensato al modo in cui la teologia dialettica, da una parte, e la
mistica, dall' altra, hanno pensato Dio, come l'assoluto che si mostra nell' annientamento del finito.
L' insegnamento Zen è diverso. Alla sua base non c'è, come nella teologia dialettica o nella mistica,
l'idea che il nulla sia più reale del reale, ma al contrario la consapevolezza che irreale è la realtà
stessa. Non, dunque, iperrealismo religioso. Ma derealizzazione, alleggerimento, invenzione ludica.
La verità non dev'essere cercata in lontani mari nebbiosi. E neppure nella negazione dell'essere. Ma
nell' essere che semplicemente è, senza fondamento, gratuito. Come la vita. Un maestro ha detto:
"Se vuoi andare, allora va', se vuoi fermarti, siediti". A questo, in fondo, si riduce tutta la dottrina, il

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"samadhi", il risveglio alla verità che non dice se non la liberazione dal principio di realtà e dunque
apre al "gioco che compie miracoli". Distacco da tutto Già, ma è interessante come per illustrare la
sua tesi il filosofo giapponese si avvicini pericolosamente a quella mistica occidentale da cui ha
preso le distanze. Intanto egli osserva che per il buddhismo Zen essenziale è il distacco da tutto:
anche dal bene e dal vero. L' illuminato e anzi il risvegliato è colui che si attiene alla situazione,
"senza odio e senza amore, senza prendere e lasciare", né al nascere e al trapassare, se ne sta
"tranquillo, calmo, lieto e in pace". L' insegnamento che s' incontra anche in un maestro della
mistica occidentale come Eckhart, il quale diceva che bisognava pregar Dio che ci liberi da Dio. Il
regno di Dio è il regno della libertà interiore. Che è la divinità nascosta in noi, la sola degna di
essere cercata, poiché tutto il resto non è che ingannevole proiezione del desiderio, sogno a occhi
aperti, paradiso artificiale. Il nulla è il cuore, dice il discepolo di Buddha. Il cuore è Dio, dice il
mistico medievale. Dio è il nulla, dicono entrambi, intendendo con questo il fondamento stesso
della libertà. Il nulla è il principio che "libera" l'essere da se stesso e lo apre al possibile e al
divenire. Oriente e occidente sembrano dunque incontrarsi sul piano di un'affermazione
sconcertante e "temeraria": Dio è il nulla.

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8. YVES KLEIN, LA FORMA, INFINITA INDEFINIZIONE

Pensavate che per comprendere l’arte fosse necessario servirsi di occhi per vedere e di orecchi per
ascoltare? Magari qualche volta anche di mani per sfiorare la materia? Niente di più sbagliato, nel
senso che, a saperla cogliere, c’è una logica in questa follia. Per comprenderla facciamo un passo
indietro e domandiamoci due cose: intanto che cosa è diventata l’arte e poi per quale ragione il nulla
può essere considerato opera d’arte. Parrà strano, ma l’arte è sempre stata e sempre sarà la stessa
cosa, anche se i rivolgimenti delle avanguardie e l’arte contemporanea ci hanno costretto a ripensare
la sua identità in chiave filosofica e ontologica. Non è allora un caso che i filosofi siano tornati a
interrogarsi con sempre maggiore insistenza sulle questioni che appartengono all’ambito della
definizione di “opera d’arte”.
La filosofia, dicevamo, ci mostra che, al di là di tutte le apparenze, le opere sono sempre lo stesso
tipo di cosa; poi, certo, alcune sono belle, altre bruttissime, talune imitano la realtà e ci stupiscono
per la bravura del loro artefice, altre ne disvelano tratti sorprendenti, altre ancora, ci fanno
arrovellare intorno a una qualche idea, magari al concetto di “assenza”. Qualcuno penserà, anche
quella è arte? Ebbene sì, anche questa è arte, visibilissima, e addirittura queste opere sono lo stesso
tipo di cosa di un quadro di Giotto. Nel 1958 Yves Klein ne Il vuoto aveva avuto una intuizione
simile. Propone infatti come opera l’assenza totale di manufatti in una galleria vuota. Decide di
rappresentare il vuoto. L’operazione non è semplice da realizzare: si tratta di dare un’espressione
semantica al vuoto, di mostrarlo e, nel farlo, di fargli dire tutto quello che deve e che può dire.
Ci avete mai pensato? Il vuoto non è sempre solo nulla, assenza totale, non essere in quanto
negazione dell’essere. In tantissime circostanze esso è traccia di qualcosa che non c’è perché non
c’è più o non c’è mai stato, ma che pure vorremmo ci fosse o sentiamo che ci dovrebbe essere. Quel
vuoto mostra una mancanza proprio perché è traccia di una mancata presenza e quella mancanza ci
dice un’infinità di cose. È un vuoto ricco di una semantica incompleta il cui completamento è
lasciato molto opportunamente agli spettatori. E ci viene in mente quanto avesse ragione Walter
Benjamin a considerare nel processo di trasfigurazione di alcuni oggetti la grandiosa potenza
dell’aura espressa dall’arte. Solo che quell’aura non si è persa, come pensava Benjamin, ma è tutta
lì, ripristinata da quell’assenza, ricreata dall’artista.
Da quello spazio vuoto mancano cose, oggetti, opere o forme, mancano parole, mentre è affollato di
sguardi. Le parole ci mancano spessissimo, migliaia di volte ci sono mancate anche dove gli occhi
non mancavano di vedere. Spesso mancano perché sono faticose, perché significano ricerca di
chiarezza, la volontà di esprimere una forma, e il pericolo che quella forma venga poi frustrata,
fraintesa, offesa da chi riceve le nostre parole. E allora uno spazio scegliamo di lasciarlo bianco, di
annichilirlo e di buttarlo via.

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- Yves Klein il problema della rappresentazione: l'Immagine e il Colore -

«Mi meravigliava d'altra parte, perché sempre più, davanti a qualsiasi quadro, figurativo o no,
provavo la sensazione che le linee e tutte le loro conseguenze, contorni, forme, prospettiva,
composizione, costituissero per l'appunto le sbarre di una finestra di prigione. In lontananza, nel
colore, la vita, la libertà e io davanti al quadro, mi sentivo in prigione. Ed è, penso, a causa di questa
stessa sensazione di imprigionamento che Van Gogh ha esclamato: “Vorrei essere liberato da non
so quale orribile gabbia!”.
E più tardi: “Il pittore del futuro sarà un colorista come non se ne sono mai ancora visti”. Ho fatto
dunque a poco a poco la conoscenza dell'immateriale attraverso il colore». Così si esprime Yves
Klein durante la conferenza da lui tenuta a Parigi, alla Sorbona, il 3 giugno 1959, con una manciata
di parole che rappresentano il manifesto dell'inizio folgorante della propria rivoluzione artistica.
Nelle parole precedentemente citate l'artista francese parla delle motivazioni profonde che l'hanno
spinto verso una nuova idea di arte, che hanno mosso il suo animo verso la ricerca di un
cambiamento: Yves è ribelle, come lo era lo stesso Vincent Van Gogh, e non può far altro che
sentirsi imprigionato, in un'arte e una società carcerarie. Un'arte che insiste su forme, linee,
demarcazioni, territorialità fisse e inscalfibili. Seguendo una prolifica generazione di artisti egli
afferma l'effettiva predominanza del colore. Il problema del colore e della sua prevalenza è
certamente una questione di capitale importanza, che segna profondamente la storia dell'arte: non è,
o almeno sembra, possibile creare senza usare il colore. Esso è abitante dello spazio e strumento
necessario del pittore, che si trova costretto a conviverci, in un rapporto di amore e odio. Il colore è
tiranno: rappresenta per il pittore l'unica possibilità per rappresentare e allo stesso tempo si
interpone come un ostacolo tra l'artista e la propria idea. Nel XXI secolo non si può non ammettere
il reale rapporto necessario tra forma e contenuto: l'arte è intuizione-espressione, due facce della
stessa medaglia che coesistono e non possono sussistere da sole. “L'arte non è aggiunta di una
forma ad un contenuto ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto
spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione.”. Risulta dunque evidente
come il Colore di un'opera esista già nell'idea, nell'intuizione, dell'opera, in quanto parte
fondamentale della rappresentazione. La dicotomia tra forma e contenuto è un'illusione, il colore e
la sua stesura sono già di per sé un contenuto: se la forma è una infinita indefinizione di blu, il
contenuto sarà effettivamente l'infinito indefinito, arte senza più linee. Durante uno dei suoi viaggi
in Italia Yves si trova a visitare ad Assisi la basilica di San Francesco e rimane estasiato dal blu
degli affreschi di Giotto. Così blu, così monocromi, così eterni, egli osserva in essi una intenzione
autenticamente monocroma, seppur probabilmente inconsapevole. Un’atra delle principali fonti di
ispirazione di Klein è Eugene Delacroix, definito dal pittore nizzardo “il campione del colore”.
Klein pone Delacroix come iniziatore della pittura lirica contemporanea e la lettura del diario del
pittore romantico segnerà tutta la sua carriera, influenzando ad esempio la nascita dell'arte-azione
immateriale, idea artistica che si fonda sulla volontà di poter lasciare un segno di momenti di vita
vissuta come espressione della vita artistica dell'artista, che è innanzitutto performance. Parlando di
ventesimo secolo sono due i principali autori, citati anche da Klein a più riprese, ad aver affrontato
il problema del rapporto tra forma e organizzazione del colore. Se Piet Mondrian si è maggiormente
concentrato nella schematizzazione del colore e dello spazio, ordinato secondo linee ordinate,
seppur dopo aver attraversato una prima fase pittorica da colorista puro e ribelle, il vero innovativo

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precursore di Yves Klein è Kazimir Severinovič Malevič. Il pittore russo ha condotto l'arte
contemporanea all'esasperazione della forma, incarnando magistralmente la crisi del post-moderno,
creando figure costituite soltanto da puro colore perse nello spazio della tela. L'arte di Malevič è
ben distante, seppur non graficamente, al concetto kleiniano di dematerializzazione dell'arte, il
problema sono gli oggetti che rimangono persistenti sulla tela. La rivoluzione non era ancora stata
elaborata, nonostante colore e non colore dominassero la tela: il problema fondamentale è che nelle
composizioni suprematiste il colore è oggetto della rappresentazione e non protagonista totale che si
fonde col suo autore in modo idealistico e completo. Se Kazimir Malevič si è spinto fino
all'esasperazione della forma, Yves Klein, si è spinto fino all'esasperazione del colore e persino più
in là ancora, sino all'immaterializzazione del quadro”. Pittore che, con la sua opera, si avvicina
molto al problema in cui era incappato l'artista russo, è il surrealista Joan Mirò. Analizzando nel
particolare i suoi dipinti Bleu I, Bleu II e Bleu III (di cui è importante notare la caratteristica blu del
titolo e degli sfondi dei quadri) emerge chiaro e definito nuovamente il problema dell'oggetto della
rappresentazione, dell'impossibilità di rappresentare un'immagine senza un'immagine tangibile di
qualche tipo. In Bleu III (1961) la libertà dell'allucinazione inventa un sistema di segni: l'oggetto, il
segno, è ridotto al minimo possibile, una linea e due punti posti contro la potenza immanente di un
blu indefinito. La materia ha ancora potere e i segni sono gli ambasciatori dei significati. È
emblematica l'espressione di Mirò “l'inizio è immediato, è la materia a decidere”. Paradossalmente,
le loro rimangono due arti inconciliabili. Lasciando a Klein l'ultima parola su questa diatriba, egli è
inequivocabile: «Sono il pittore dello spazio. Non sono un astrattista, ma un realista. Per dipingere
lo spazio ho il dovere di recarmi sul posto, nello spazio stesso». Una mente geniale che si divincola
da ogni contestualizzazione cronologica, ovvero il già precedentemente citato Vincent Willem Van
Gogh. Per il pittore olandese non aveva importanza la materia, la causa fondamentale di tutto
doveva essere il delirio, la ribellione, l'idea e la turbolenza. Il colore prende potere e i segni, i
simboli, contano poco. “La pittura lineare pura mi rendeva pazzo, Van Gogh dipingeva, non linee o
forme, ma cose della natura inerte come in piene convulsioni, Van Gogh, il suicidato dalla società”.
Si ritrova nell'artista olandese una fusione tra artista, vita e quadro che difficilmente è riscontrabile
nella storia dell'arte. Una cosa è fondamentale: l'arte non è comunicazione, linguaggio. Lo dicono
chiaramente, tutti gli artisti citati, l'arte è ribellione, atto di resistenza alla mortalità, gesto di sfida,
rappresentazione della natura esterna e interna al soggetto dipingente, che si fonde con l'oggetto
dipinto. “È un fatto spirituale”. Nei modi e nel genio è impossibile non riscontrare molte analogie
tra van Gogh e Klein. Ed è proprio all'artista francese che siamo finalmente arrivati. Le
caratteristiche della sua arte, di cui abbiamo già ampiamente parlato, sono appunto la liberazione
dalla prigionia e il raggiungimento dell'assoluto immateriale. Yves racconta «quando ero ragazzo
feci un sogno ad occhi aperti in cui firmavo il confine della volta celeste. Quel giorno iniziai ad
odiare gli uccelli che volavano nel cielo perché cercavano di bucare la mia opera più importante e
più bella. L'evento segnò l'inizio della mia carriera come pittore». È immediatamente chiaro il
dialogo a distanza che si trova qui a tessersi tra Klein, Marcel Duchamp e Piero Manzoni: l'artista
che firmando crea l'opera d'arte. È la genesi di una carriera visionaria. Firmare la volta celeste non è
solo il simbolo dell'appropriazione della natura, della fusione tra natura e artista, ma è soprattutto
l'atto d'amore verso il blu. “Il materialismo è nemico della libertà”. Klein dipingerà monocromi per
anni, cercando nella stesura del colore totale una risposta alla sua ricerca di indefinibile, e giungerà
finalmente solo nel 1956 a creare "la più perfetta espressione del blu", a creare il suo colore,
l'International Klein Blue. Klein è esso stesso il suo blu. Nel 1957 è appena entrato nella sua epoca
blu. Per Klein il blu è l'unione tra cielo e mare, “quanto c'è di più astratto nella natura tangibile e

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visibile” - “Nello spazio dell'aria blu sentiamo che il mondo è permeabile alla fantasticheria più
indeterminata”. Egli trae grande ispirazione dalla lettura di Gaston Bachelard e ama citarne una
frase: “Prima, non c'è nulla, poi c'è un nulla profondo, poi una profondità blu”. La tela, conquistata
dal suo colore, non offre un punto fisso in cui guardare e lo spettatore si trova dinanzi ad essa
spaesato e avvolto, dalla profondità dell'immateriale. Yves Klein si rende conto però di non potersi
fermare al monocromo, lui vuole raggiungere l'immateriale totale, il vuoto: vuole crearlo.
D'altronde, come creare qualcosa di immateriale con il materiale colore? Il problema della
rappresentazione è dare vita ad una immagine. Il merito dell'artista francese è certamente quello di
aver dato pieno potere al colore ed aver dimostrato come sia possibile creare immagine,
rappresentazione, arte, senza l'uso della linea. L'esasperazione del colore continua comunque a
creare un'opera d'arte, e in quanto arte la sua condizione necessaria è quella di esistere, e dunque
esistere nella materia, proprio perché non esiste opera artistica allo stadio dell'inespresso. Dipingere
una tela di un unico ipnotico blu costringe l'artista a fare i conti con la materia e con i problemi
dell'espressione artistica. Diventa quasi ridicola la critica di chi sostiene che quella di Klein non sia
arte: è proprio il fatto che sia ancora arte, perlomeno arte classica, a rendere complicato e
apparentemente irraggiungibile l'arduo obiettivo del pittore di liberarsi della materia. Anche Klein
stesso è cosciente dei propri limiti, necessita di una trasformazione, e annuncia la sua rivoluzione:
«Lo schermo tangibile del blu sulla tela impedisce la visione dell'orizzonte». Occorre raggiungere
l'atto, oltre la mera rappresentazione, una sfida mai tentata prima. Creare da zero un nuovo
orizzonte, più immateriale, più intangibile, più vuoto.

- Creare il vuoto, una sfida tra artista, arte e materia -

Yves Klein, nel mezzo del suo cammino artistico, cominciò ad amare l'idea. L'idea su tutto, che
sovrastasse anche il concreto. Ma in quanto idea essa necessitava di un'espressione, nonostante
fosse la fantasia di uno spazio vuoto. C'era bisogno di creare l'ambiente nel quale l'opera si sarebbe
trovata. Una sfida paradossale, di nuovo: rappresentare la non materia attraverso la materia, ma ora
con un nuovo alleato, lo spazio. Nell'aprile del 1958, a Parigi, nella galleria Iris Clert, si tenne
quella che è probabilmente la sua più celebre e affermata mostra: “Epoca Pneumatica, la sensibilità
pittorica immateriale allo stato materia prima”, meglio conosciuta come “Le Vide” (Il Vuoto). Klein
prese in prestito un'intera galleria d'arte e in qualche giorno la dipinse semplicemente di bianco.
Ogni oggetto fu rimosso, e al posto della galleria che esisteva precedentemente ora si trovava
semplicemente un bianco eterno e impalpabile. Il Bianco e lo Spazio governavano da soli, e l'uomo
si perdeva, camminando all'interno dell'opera d'arte. Ma quale opera d'arte di preciso? Le pareti? La
stanza? No, al contrario, l'opera stessa era lo spazio creato dal vuoto che si trovava nella stanza.
Klein aveva pensato al Vuoto e l'aveva creato nella materia, almeno in linea teorica. La mostra
lasciò gli spettatori sgomenti, entusiasti, frustrati e muti. Certamente l'artista aveva raggiunto
l'obiettivo di dare forma ad una idea astratta, ma si era realmente liberato dalla prigione della
rappresentazione?
Il vuoto, l'immateriale, hanno la peculiare caratteristica di non esistere nel mondo e la loro presenza
è possibile solo con lo sforzo dell'immaginazione umana. Ma l'immaginazione basta a dare vita
reale a ciò che sarebbe altrimenti irreale? Le risposte sono con tutta probabilità irraggiungibili, ma
la domanda fondamentale da porci è però: l'arte crea mondo o rappresentazione del mondo? Perché
se l'arte creasse mondo allora il vuoto sarebbe possibile. Se considerassimo l'arte come la rivalsa

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dell'uomo su Dio, la sua possibilità unica di dare forma ai propri sentimenti in un atto di creazione
che esterna, allora anche l'espressione artistica del vuoto potrebbe essere una porzione di spazio che
potrebbe essere chiamata autenticamente Vuoto. Occorre solo, per spettatore e artista, accettare
l'assurdo dell'arte, e accettare che l'assurdo fa parte della vita. Applicare dunque la sospensione
dell'incredulità alla materia stessa, un problema grande quanto l'accettare la non esistenza del
soggetto. E allora Klein diverrebbe il primo uomo nello spazio, lo spazio autentico: lo Spazio creato
intenzionalmente, per essere un vuoto immateriale. D'altro canto non possiamo, in qualità di uomini
razionali e materiali, evitare di riflettere a come sia contraddittorio dare vita ad un vuoto partendo
da una stanza materiale e del palpabile colore bianco.
D'altronde Klein nei termini che utilizza per descrivere ciò che fa è estremamente coerente e tanto
preciso da creare una tautologia artistica praticamente inattaccabile. L'artista aveva previsto le
critiche che gli si sarebbero potute muovere e si era armato contro il disprezzo attraverso i discorsi e
le parole proprie dell'uomo di genio che conosce pienamente ciò che sta compiendo. Klein parla di
immaginazione e di sensibilità, poco gli importa il fatto che creare il vuoto sia un atto di creazione
di un artificio artistico ingannatore che illude lo spettatore. L'opera d'arte per lui deve proseguire
oltre queste inutili contraddizioni formali. Se, come abbiamo detto prima, l'arte è forma e contenuto,
e i due termini sono inseparabili e si influenzano l'un l'altro, allora il contenuto del vuoto deve
corrispondere necessariamente ad una forma inesistente, immateriale. Ma di nuovo, se si guarda alla
forma si vedrà una stanza colorata di bianco, al di là del significato di tale significante, e unendo
forma e contenuto si otterrà semplicemente una stanza bianca senza nulla al suo interno, non il
concetto astratto di vuoto. È sicuramente vero che questo cinismo e una tale puntigliosità
nell'analizzare un'opera la svilisce e abbatte la magia, ma la pretesa di Klein, l'ambizione di creare
l'immateriale dell'arte, è un progetto di importanza storica immensa e la volontà di superare l'arte si
scontra irrimediabilmente con le tecniche e le forme dell'arte tradizionale. Esiste invece la tendenza
a sradicare l'opera dal suo contesto vitale originario, separandola dal proprio retroterra, per fruirne il
puro valore estetico. Niente di più sbagliato dunque. E l'esempio principe di tutto ciò è il museo,
che strappa l'arte e la ripone in un contesto atemporale, rendendola eternamente ferma e
contrastando il movimento che l'opera d'arte richiede per la propria produzione e che si trova insito
in essa. Klein non si distacca mai completamente dal mercato, non ha motivo di farlo del resto, ma
comprende profondamente tutto ciò. Sono sicuramente notevoli a questo proposito i suoi lavori
prodotti all'aria aperta con gli elementi della natura, che fondono ancora di più arte e mondo, ma è
proprio a questo proposito che la mostra dell'aprile del '58 risulta innovativa e visionaria. Klein
prende una galleria d'arte e, letteralmente, la smonta. Elimina gli oggetti, le pareti, il concetto stesso
di mostra. Abbatte il museo: lo spettatore. Varca la soglia e si ritrova spaesato nell'opera d'arte,
nulla intorno a sé e nessuna figura da osservare sino al termine dell'orizzonte del bianco profondo
dei muri impalpabili. L'arte è già lì, non necessita di essere osservata perché l'osservatore ci si trova
catapultato dentro, ed essendo un'opera concettuale, che fa dell'idea il suo tutto essa è costantemente
collegata all'animo dell'artista. L'atemporalità stessa cessa di essere un problema con la scomparsa
del tempo dell'opera. Perché tutto questo conta così tanto più del già ben geniale dipinto eseguito
utilizzando la caduta della pioggia sulla tela? Perché Klein agisce al cuore dell'istituzione ed è la
forma istituzionalizzata dell'arte quella che fa più chiasso quando viene infranta. Al di là delle
critiche, “La sensibilità pittorica immateriale allo stato materia prima” è prima di tutto un atto di
coraggio. Passiamo ora oltre, per giungere al marzo del 1959, quando Yves Klein avrà l'occasione
di poter esporre alla mostra collettiva “Vision in Motion / Motion in Vision” organizzata da Pol
Bury e André Balthazar all' Hessenhuis di Anversa. Queste sono le parole che lui stesso utilizza per

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raccontare tale esperienza, durante la sua conferenza alla Sorbona di due mesi più tardi: «Al
momento dell'inaugurazione, nello spazio a me riservato, invece di mettervi un quadro o un
qualsiasi altro oggetto tangibile e visibile, pronuncio ad alta voce davanti al pubblico queste parole
prese a prestito da Gaston Bachelard: “Prima, non c'è nulla, poi c'è un nulla profondo, poi una
profondità blu”. L'organizzatore belga della mostra mi chiede allora dove sia la mia opera.
Rispondo: “Qui, qui dove sto parlando in questo momento vi sembrerà forse che io stia tentando
l'impossibile, che mi stia precipitando verso qualcosa d'inumano”» e conclude trionfalmente:
«Avrei potuto fare dei gesti simbolici, No! Quelle poche parole che avevo pronunciato erano già
troppe». Si tratta di un'esibizione unica, arrogante e geniale. Klein sottolinea il fatto che egli
avrebbe potuto compiere un gesto simbolico, come dipingere con un pennello asciutto le pareti, ma
tutto ciò non è necessario: era finalmente giunto a qualcosa di nuovo e diverso dall'opera d'arte pura
e tradizionale. Costituire l'immateriale era possibile soltanto compiendo un passo in più, osando
andare oltre non soltanto a linee e forme, ma agli stessi pennelli, alla tela, alle pareti. L'opera che
Klein espose quel giorno era il semplice uso della parola. Il concetto espresso dall'artista, che si
trasforma in rivelatore in tempo reale della propria espressione, contemporaneamente opera e
artefice, avvolgeva lo spettatore nel tempo di un istante. Le parole fluiscono e danno vita al
concetto, che viene recepito e costruito direttamente nella mente dell'osservatore/ascoltatore; non
c'è più bisogno del simbolo tangibile, intagliato nella materia. Con questa esibizione l'artista ha
finalmente fatto il passo decisivo verso il proprio fine. “Voglio superare l'arte – superare la
sensibilità – superare la vita – voglio raggiungere il vuoto”. Ha compiuto l'atto di creazione di
qualcosa mai visto prima, che si interpone tra arte e vita, e che paradossalmente sembra superare
tutto ciò. È probabilmente giunto all'atto più simile all'atto di creazione del Vuoto che un uomo
possa pensare. Proprio colui che aveva auspicato «l'uomo abiterà lo spazio con la forza terribile ma
pacifica della sensibilità» è riuscito per primo, almeno nell'arte, a superare anche l'antica sensibilità,
producendone una nuova. Ma, se come abbiamo affermato, l'arte fa tutt'uno con la vita, dobbiamo
ammettere che effettivamente il vuoto è venuto ora a crearsi anche nella realtà che ci circonda,
evento intangibile ma esperibile concettualmente. Perché il vuoto kleiniano non è il nulla, ma un
preciso stato immateriale. Il concetto fondamentale a cui dobbiamo riferirci diventa
l'immaginazione. Per Yves “Immaginare è lanciarsi verso una nuova vita”: superare le forme
precedenti non è possibile se non rinunciando al passato, lanciandosi e rinascendo. È come se
l'artista stesso ci dicesse, citando le prime pagine de “La Luna e i Falò” di Cesare Pavese, che
«Dove son nato non lo so» e poi ancora, sembra andare oltre, sino ad affermare:

«Muoio ogni attimo e rinasco nuovo e senza ricordi, rinasco arte, artista, nell'immateriale».

- Il popolo che manca: Paul Klee e Martin Heidegger -

Rifacendoci ad un testo di Gilles Deleuze: «Che rapporto c'è fra la lotta umana e l'opera d'arte? Il
rapporto più stretto e, secondo me, più misterioso. Proprio ciò che Paul Klee intendeva dire quando
diceva: “Sapete, il popolo manca”. Il popolo manca e allo stesso tempo non manca. Il popolo manca
vuol dire che questa affinità fondamentale tra l'opera d'arte e un popolo che non esiste non è ancora
chiara e non lo sarà mai. Non c'è opera d'arte che non faccia appello ad un popolo che non esiste
ancora». Come definito appunto da Klee stesso, è presente uno strettissimo legame tra popolo,
artista e opere d'arte: l'atto di resistenza si mette necessariamente in dialogo con l'essere umano, in

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quanto è l'uomo ad attribuire il valore all'arte e l'uomo si struttura sempre nella forma di un popolo.
Il popolo manca perché l'arte è sempre un passo avanti, l'artista è in qualche modo veggente sino dal
momento in cui l'arte pittorica ha cessato di essere mera rappresentazione e ha cominciato a portare
con sé effettivamente l'espressione del proprio autore. È avvenuta, con l'arte d'avanguardia, una
svolta epocale nella storia: se il popolo è sempre mancato, in un certo senso, ora si venivano a
creare le condizioni per un'azione di creazione di popolo e di linguaggio, molto similmente a ciò
che Martin Heidegger diceva nei confronti della poesia. Il popolo che non esiste ancora a cui fa
riferimento la nuova opera d'arte viene creato in concomitanza con l'atto di creazione artistica. Il
filosofo tedesco, grande esaltatore della poesia e grande studioso delle opere di Hölderlin, sosteneva
infatti che “i poeti forniscono ad un popolo la sua identità e istituiscono usanze e costumi” e dare
identità ad un popolo che precedentemente non ne aveva una significa di fatto crearla, praticamente
dal nulla. E ancora: «La poesia è il linguaggio originario di un popolo. La poesia è il fondamento
che regge la storia». Dunque l'arte non esprime un'epoca, ma la plasma: quando ci mettono davanti
al problema della mancanza del popolo. L'errore evidente e principale di Heidegger fu però
appunto, al di là delle motivazioni di origine ideologica che mossero le sue riflessioni e vanno
considerate, quello di limitare il suo pensiero alla poesia. Se infatti esso è un discorso quasi
totalmente veritiero nel momento in cui si osserva l'arte antica, medievale e moderna, appena si
approda a valutare l'arte contemporanea e soprattutto le arti concettuali e le avanguardie, è evidente
come costantemente siano gli artisti i principali fautori del progresso, coloro che anticipano e
influenzano il popolo. E ciò è ancor più vero quando parliamo di Yves Klein. Fu proprio lui, nel
Chelsea Hotel Manifesto, a cantare con audacia il potere dell'uomo e dell'arte: «La sensibilità
dell'uomo è onnipotente sulla realtà immateriale. La sua sensibilità può anche leggere nella
memoria della natura, che si tratti di passato, di presente o di futuro! Questa è la nostra autentica
capacità di azione extra-dimensionale. E, ce n'è bisogno, ecco qualche prova di ciò che affermo:
Dante, nella Divina Commedia, ha descritto con precisione assoluta quel che nessun viaggiatore del
suo tempo avrebbe ragionevolmente potuto scoprire, la costellazione, invisibile dall'emisfero nord,
conosciuta sotto il nome di Croce del Sud». E, ancora, in un breve scritto chiamato “Cattura del
Vuoto” egli fece riferimento al suo rapporto col popolo, in quantità di avanguardista: l'artista
doveva creare la condizione di mancanza della folla, doveva trovarsi solo, per poter preparare un
nuovo mondo al popolo del futuro. Nella sua esperienza di cattura del vuoto, un'intera città, o
meglio un'intera nazione, doveva rinchiudersi in casa per due ore, lasciando allo Spazio la vista di
un luogo immenso senza esseri umani. In un contesto surreale di silenzio e desolazione, l'artista
doveva essere spinto fuori dalla propria casa, per poter esperire in solitudine la cattura del vuoto
stesso, e tale esperienza sarebbe stata soltanto il primo passo verso una consapevolezza nuova dello
spazio.

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- Una Breve Riflessione -

È curioso dunque vedere come alcuni artisti, anziché difendere strenuamente l'unicità del proprio
lavoro con il ritorno alla tradizione pittorica, la quale richiede al pittore una straordinaria abilità
innata, si siano concentrati su un tipo di pittura concettuale, che esprimesse le loro idee attraverso
opere d'arte di estrema semplicità realizzativa. Semplici da realizzare tecnicamente ma di estrema
complessità nell'elaborazione mentale. È evidente infatti come i monocromi di Klein siano opere
non soltanto riproducibili grazie alla fotografia ma facilmente riproducibili da chiunque sotto forma
di tela materiale e colore: l'importanza della novità è spostata sul fatto che semplicemente nessuno
avesse pensato a realizzare un quadro di quel tipo prima dell'artista. Un artista che ha seguito una
via estremamente vicina a quella di Yves Klein è il giapponese Jiro Yoshihara (1905 – 1972).
Probabilmente il vero corrispondente di Klein per l'arte contemporanea nipponica. Nella sua serie di
Work realizzati intorno 1964, egli dipinge sfondi di un intenso arancione, spezzati soltanto da un
chiaro e definito cerchio giallo che campeggia al centro della tela. Il tema trattato è quello del
cerchio come finestra sul mondo e Yoshihara dipingerà per quasi tutta la vita opere il cui soggetto
sarà semplicemente il cerchio.
Il cerchio è libertà, vuoto, unità ed infinito: il punto più vicino a Klein raggiunto dall'arte del
Novecento. Il cerchio che domina sullo sfondo monocromatico collega la tradizione Zen con la
novità della contemporaneità, creando una rappresentazione che al contempo con la propria
presenza dà vita ad una finestra sull'immateriale e sull'indefinita infinità avvolgente del colore.
Perché “I colori sono i veri abitanti dello spazio”.

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9. GINO DE DOMINICIS, L’OGGETTO VIVENTE PERFETTO

Morire è solo non essere visto.

Gino de Dominicis è stato un artista straordinario, nel senso dell’altissimo livello della sua opera,
ma anche nel senso della consapevole “eccentricità” rispetto al mondo dell’arte. A qualunque costo
ha sempre pensato, praticato, dimostrato la più alta concezione del ruolo dell’artista. Ha sempre
sostenuto, contro tutto e contro tutti s e occorreva, anche a dispetto di un sistema dell’arte a volte
debole, a volte masochista e disposto ad aprirsi, a ritrarsi e a cedere il passo in ogni direzione la
centralità assoluta dell’arte. In questo senso ha avuto un grande coraggio, il coraggio di essere solo.
Nella pittura l’artista assolutamente credeva e riteneva di avere trovato un linguaggio che fosse alta
espressione di un’opera profondamente unitaria. Sappiamo come De Dominicis controllasse ogni
aspetto e dettaglio relativo al suo lavoro. L’attenzione estrema per ogni minimo particolare. Nella
pittura l’artista assolutamente credeva e riteneva di avere trovato un linguaggio che fosse alta
espressione di un’opera profondamente unitaria. Una “contestazione” all’attuale sistema dell’arte
così radicale senza provocazioni, senza ideologismi, dall’interno dell’opera e dei suoi fondamenti.
Una critica serrata, colpo su colpo. Nessuno come lui ha una fede totale, assoluta, incrollabile nella
centralità dell’opera d’arte.

- Ossimori e omeopatie -

“Il disegno, la pittura, la scultura, non sono forme di espressione tradizionali, m a originarie, quindi
anche del futuro”. È una della frasi di Gino De Dominicis. Nella civiltà sumera l’eroe Gilgamesh è
re, pittore, scultore e architetto. Non è dunque il re guerriero delle culture successive, tra i Sumeri il
re è l’artista. La vera avventura inizia con una mostra nel 1969 nel garage di via Cesare Beccaria a
Roma, sede dell’Attico di Fabio Sargentini, galleria diventata in quegli anni un punto di riferimento.
“Gino con gli oggetti invisibili cambiava le carte in tavola, ai materiali naturali dell’arte povera”
afferma Sargentini, che considera l’invisibilità la vera novità del lavoro di De Dominicis. L’aurea
asta in bilico, intitolata Equilibrio, è libera e sola, sospesa nello spazio: appare come una sorta di
linea generatrice dell’intera opera. Intorno il Cubo invisibile e il Cilindro invisibile: le loro basi,
tracciate a terra disegnano un cerchio e un quadrato e forse questi due solidi sono scelti proprio per
le loro differenti basi e per la dialettica cerchio/quadrato che tornerà nel tentativo di far formare dei
quadrati invece che dei cerchi attorno a un sasso che cade nell’acqua. Un gancio sembra tenere
sospeso un secchio pieno d’acqua, come se l’acqua fosse solida e potesse esser tirata su. Anche un
chiodo, analogia minima dell’asta, è sospeso a una parete. E poi la pietra (Aspettativa di un casuale
movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del
materiale) e l a palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il
rimbalzo. La complessità di questi lavori, pur composti da due semplici elementi, mi sembra
risiedere in un doppio e in un certo senso contraddittorio statuto: da una parte la messa in
trasparenza dell’invisibile movimento, virtuale nella palla, un auspicio nella pietra; dall’altra il
potere del linguaggio dell’arte di fissare l’attimo di immobilità. Il tutto suggellato da un manifesto
funebre con l’annuncio della propria morte. La data, novembre 1969, corrisponde a quella della
mostra. Il suo lavoro è stato erroneamente considerato da alcuni “concettuale”. “Lo scheletro con i
pattini a rotelle”, un’asta in bilico sul dito e il cane al guinzaglio (Il tempo, lo sbaglio, lo spazio).
L’opera associa la mortalità all’impulso al movimento, a correre nello spazio per accorciare il
tempo. Lo scheletro è il fulcro dell’attività muscolare e psicomotoria, nell’animale come nell’essere
umano, ma i pattini di quest’ultimo provano il suo proposito di incrementare l’azione, incidere nel
tempo, con la tecnica. L’asta, proiettata verso l’alto e occupando lo spazio senza movimento, indica
invece una forma d’esistenza prodigiosa e a-temporale. Per De Dominicis lo spazio dell’arte è

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quello della verticalità, lo sbaglio è la volontà di spostarsi orizzontalmente e ancor più il desiderio
di imprimere un’accelerazione attraverso i pattini. “Inutilmente Achille ha calzato i pattini per
vincere il tempo nel tempo e raggiungere il suo antagonista. È precipitato nella dimensione del non
essere, ora il suo scheletro giace a terra nella falsa immobilità della morte. Nella ritrovata
assolutezza del presente, ogni cosa è se stessa, diventa fine e non mezzo”, citando il paradosso di
Zenone. “D’IO” è il gioco di parole (Di me stesso/Dio) che fa da titolo a una mostra impalpabile,
fatta solo di suono, che sembra quasi anticipare molte delle tendenze più recenti il 24 aprile 1971. Si
tratta di una risata forte e prolungata che riecheggia nella galleria vuota: è anche questa un’opera
invisibile. “Nel grande spazio del garage l’eco era potente e il riso si espandeva in una risata
omerica”.

- Lo sguardo dall’interno -

Del 1972 è la sala che provocò un grande scandalo alla Biennale di Venezia con l’opera Seconda
Soluzione d’Immortalità (l’Universo è immobile). L’opera doveva essere a contatto con l’universo.
Poi mi chiede di cercare una persona che deve rappresentare questa seconda soluzione
d’immortalità, un giovane che abbia conservato l’aria di un bambino”. L’immortalità è possibile
bloccando il tempo. Questa è la medesima istanza di altri lavori di De Dominicis, come il gatto
presentato con un cartellino-didascalia “che cosa c’entra la morte?”. Al di là della sottile distinzione
tra immortalità ed eternità quello che interessa l’artista è “la fissità del momento del presente, la
percezione dell’attimo”. La persona prescelta incarna una soluzione d’immortalità. “Non avendo
ricordi, memoria, né percezione del futuro è, ovviamente per paradosso, immortale”. Secondo
Renato Barilli, che aveva invitato l’artista alla Biennale, è “persona che ha superato la ‘cura’ in
senso heideggeriano, specchio di virtù e rappresentazione dell’età dell’innocenza. De Dominicis
aveva alcune idee fisse, capovolgere fatti come il principio di gravità, dare scacco matto al tempo
rovesciando le leggi della fisica, ma poi i modi per visualizzare il concetto potevano variare”.
Andando contro la gravità si va contro la mortalità. Infatti ai due lati opposti della sala, su due
seggiolini posti molto in alto, le figure de Il Giovane e Il Vecchio. La Palla di gomma (caduta da
due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo è un elemento artificiale, ripieno di
aria e allude a un tentativo di volo, la Pietra (aspettativa di un casuale movimento molecolare
generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale) invece è un
elemento naturale legato alla terra in attesa di un movimento ad essa aderente; oltre a questi stava il
Cubo invisibile. È evidente che la sala è un territorio magico dove regna una circolarità dello
sguardo tanto è vero che nella (foto ricordo) appare una spettatrice nell’atto di inforcare un paio di
occhiali. La sala stessa è costruita come interno, situazione non comunicabile. Un teatro della
mente, messo paradossalmente in scena non attraverso i mezzi del teatro, il movimento, la parola, il
testo, ma attraverso quelli delle arti visive. “La seconda soluzione aspira a creare una situazione in
cui tutto è e resta com’è”. Dal fulminante incipit “io penso che le cose non esistono…”, i tre oggetti
passano dallo statuto di “verifiche” a quello di “cose esistenti” entrando nel campo visivo del
fruitore. “Il disegno, la pittura, la scultura, materiali, immobili e mute, sono ontologicamente
l’opposto di tutti gli altri linguaggi artistici”.

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- L’appeso -

“Il disegno, la pittura, la scultura, materiali, immobili e muti, sono ontologicamente l’opposto di
tutti gli altri linguaggi artistici”. È un’altra frase di Gino De Dominicis che marca la differenza e la
specificità dell’arte visiva. L’artista è sempre stato contrario alla “performance” propriamente detta
che considera un linguaggio teatrale e non dell’arte visiva. Le azioni infatti si realizzano nel
movimento e si sviluppano nel tempo. Tranne che in Tentativo di far formare dei quadrati invece
che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua e in Tentativo di volo (1970) che costituiscono
un filmato, considerato tale dall’artista, De Dominicis invece non ha mai usato il movimento. È
stato anzi il primo a usare persone vive ferme. È di nuovo un ossimoro (l’accostamento di fatti di
diversa natura, come le cose e i viventi) a produrre differenza creando un corto circuito visivo. Ma
in fondo il principale ossimoro di De Dominicis consiste nell’aver usato sia il sistema della
presentazione (nelle opere con oggetti e/o persone viventi) che quello della rappresentazione (nella
pittura) alternativamente o anche simultaneamente nello stesso periodo o nella stessa mostra.
“L’arte più antica è quella di oggi. Quella che la precede è più giovane e moderna”.

- In pieno Kali-yuga -

Il Kali-yuga nella filosofia indiana rappresenta un’era calamitosa, prossima al crollo per la totale
perdita di valori. Il fatto che abbia posto come titolo alla sua ultima mostra inaugurata il 30 maggio
1998, sei mesi prima della scomparsa, alla galleria Emilio Mazzoli di Modena in pieno Kali-yuga è
indicativo del pensiero di De Dominicis riguardo a quanto avviene nella realtà e nell’arte intorno a
lui. Fino ad allora esponeva un solo quadri, magari con un oggetto accanto… Invece qui erano circa
quindici quadri ed espose anche i primi quadri volumetrici”. Poiché De Dominicis negli anni
Ottanta lavora a una serie di quadri che in qualche modo coniuga l’opera bidimensionale con quella
tridimensionale. Il quadro acquisisce profondità, si estroflette, combina differenti qualità spaziali. In
un certo senso questo tipo di lavoro è anticipato da pitture molto materiche e quasi in rilievo, come
il piccolo ma denso profilo del 1980. Bonito Oliva descrive così la mostra da Mazzoli: “Ora le
immagini sembrano provenire dal futuro, figure dai nasi aggettanti e dall’occhio centrato talvolta
unicamente, pronto a occupare lo spazio occupato dalla ragione. Improvvisamente queste figure
realizzate a diversa grandezza e colori che vanno dal blu al rosso e al nero, producono un
perturbamento e un imprevedibile corto circuito con il nostro sguardo. Ad esempio, nella figura
viola e gialla su fondo nero di “Con titolo” del 1985, il cono tridimensionale del naso è lungo quasi
quanto la metà dell’intero corpo che, appiattito dalla veste gialla, mancherebbe di spessore o solidità
se non fosse per l’inclinazione del braccio destro che, affondando nella veste in direzione del cuore,
indizia una profondità e forse la straordinaria facoltà di toccare il proprio cuore con le mani”. A
proposito dell’arte sumera André Malraux ha parlato di “naso a becco ereditato dall’uomo-uccello
preistorico”. Agnes Kohlmeyer fa notare che “nasi grandi, presso certe popolazioni, sono segnali di
particolare bellezza”. Il riferimento alla civiltà dei Sumeri è certamente plausibile, ma questo
elemento del naso è soprattutto una forte invenzione formale. Il contenitore diventa una sorta di
piccola architettura abitata da una figura che si fa pittura e scultura al tempo stesso. Le proporzioni
tra le parti e il tutto diventano molto importanti. Eppure la mostra è splendente, armonica e non reca
traccia degli aspetti negativi del Kali-yuga, anzi sembra quasi un antidoto a un’epoca di decadenza.
Vi spicca una bellissima serie di ritratti che con pochi ed essenziali tratti rendono immediatamente
riconoscibile la persona rappresentata e dove le deformazioni operate si fanno immediatamente
bellezza. Accanto a questi volti una delle variazioni sul tema della Sfinge a cui stava in quell’anno
lavorando, una grande veduta rossa e una natura morta in cui l’artista sperimenta l’uso dell’argento.
L’intenzionale ripresa di generi considerati convenzionali nella storia della pittura, come il ritratto o
la natura morta, dimostra come anche questi soggetti, apparentemente tradizionali, possono essere
rigenerati da creazione. La domanda che Nicolas Bourriaud si pone, come ridonare potere alle

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immagini “senza sprofondare nell’ideologia dell’aura, squalificata nell’ epoca della riproducibilità
tecnica?”, trova risposta nell’opera stessa di Gino De Dominicis tesa a ricostituire quell’ineffabile,
irriducibile, irrevocabile aura, ma come soluzione dell’arte al problema, posto dalla moderna
scienza, dell’entropia, la dispersione di quella energia che l’arte invece concentra e accresce nel
dono dell’opera. Gino De Dominicis parla mentre ha davanti a sé un grande quadro con
un’immagine femminile. A questa figura infine si rivolge chiedendole: “È vero?”. E il quadro
vivente risponde: “Sì”.

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- “Penso che le cose non esistano. Un bicchiere, un uomo, una gallina per
esempio, non sono veramente un bicchiere, un uomo, una gallina, sono
soltanto la verifica delle possibilità di esistenza di un bicchiere, di un uomo, di
una gallina. Perché le cose possano esistere bisognerebbe che fossero eterne,
immortali. Solo così cesserebbero di essere unicamente la verifica di certe
possibilità e diverrebbero cose esistenti”.

Gino De Dominicis

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0. Concetto finale -

In realtà il bicchiere, l’uomo e la gallina esistono, ma semplicemente esistono in


maniera condizionata, esattamente come tutte le cose.
Poiché tutte le cose sono soggette all’intercedere del tempo e niente esiste in modo
autonomo, in quanto per esistere il bicchiere, l’uomo e la gallina, hanno bisogno di
cause e condizioni che le rendono tale.
Dunque non esiste alcun bicchiere, nessun uomo e nessuna gallina, ma è soltanto una
designazione che noi diamo a una cosa che non esiste di per sé.
Allora nessun fenomeno ha una esistenza in sé, in quanto ogni fenomeno nasce solo
in relazione ad altri fenomeni che lo hanno preceduto, esiste A solo in quanto è
esistito un non A.
Il termine “nulla” non si addice per le implicazioni logiche e metafisiche che porta di
per sé. È la negazione dell’essere, la forma è vuoto ed il vuoto è forma, il vuoto di
esistenza intrinseca.
Niente esiste da sé, di per sé.
È l’esistenza di tutte le cose a rendere possibile l’esistenza di ciascuna cosa.
L’uno contiene il tutto e il tutto è contenuto nell’uno.
L’impermanenza e l’assenza di un sé sono condizioni indispensabili alla vita, senza
impermanenza, senza mancanza di un sé, nulla potrebbe crescere ed evolversi.
Tutti i dharma nella legge cosmica, secondo Buddha, sono vuoti, poiché nessun
fenomeno possiede una natura indipendente, tutto ciò che esiste è vuoto.
Penetrando nella natura vuota delle cose, le barriere mentali vengono scavalcate e ci
si libera dal ciclo della “sofferenza”.
Nel concetto buddhismo di vacuità:

“io non sono i miei pensieri, le mie emozioni, le percezioni dei miei sensi e le mie
esperienze. Io non sono il contenuto della mia vita. Io sono la vita. Io sono lo spazio
nel quale tutte le cose avvengono. Io sono la consapevolezza. Io sono l’adesso. Io
sono… il nulla”.

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