ISBN 978-88-586-4879-7
In copertina:
illustrazione di Ice9 studio
progetto grafico Mucca design
Questo libro parla del buon vivere, e al suo cuore c’è una semplice verità:
quando vi affidate a Madama Libertà la vita si fa più semplice, meno
dispendiosa e molto più divertente. Il mio intento è quello di mostrarvi come
rimuovere le catene forgiate dalla mente e diventare liberi di creare da soli la
vostra vita. Dopo aver terminato il mio ultimo libro, L’ozio come stile di vita,
mi sono reso conto che l’ozio è, per me, praticamente sinonimo di libertà.
Essere oziosi significa vivere liberi. Essere oziosi vuol dire vivere secondo le
nostre regole. Essere oziosi vuol dire riunificare ciò che è stato diviso.
Ho cercato di basarmi su tre princìpi che potessero fondare una filosofia
per la vita quotidiana: libertà, divertimento e responsabilità, oppure anarchia,
medievalismo ed esistenzialismo. È un approccio alla vita altrimenti noto
come: farsi quattro risate e fare ciò che si vuole. Il mondo occidentale ha
lasciato che ci fossero strappati la libertà, il divertimento e la responsabilità; e
li ha rimpiazzati con l’avidità, la competizione, la lotta solitaria per il
predominio, il grigiore, i debiti, il McDonald’s e le multinazionali
farmaceutiche. L’era del consumismo offre molti agi ma ben poche libertà. I
governi, per la loro stessa natura, mettono continuamente a rischio le nostre
libertà civili. La Health and Safety, la commissione nazionale inglese per la
Sanità, è usata come scusa per estendere i poteri del governo.
Mi piace definirmi un anarchico, proprio perché mi dedico alla ricerca della
libertà. Nell’ottica dell’anarchia, i contratti si stipulano tra individui, non tra
cittadino e Stato. L’anarchia si basa sull’idea che gli esseri umani siano
fondamentalmente buoni, e dovrebbero potersi governare da soli; l’ideologia
puritana sostiene invece che l’uomo è intrinsecamente malvagio e, dunque,
dev’essere controllato dalle autorità. Nel Medioevo, nonostante le gerarchie,
ciascuno era libero di organizzare la propria vita. La grande maggioranza delle
catene di cui si parlerà in questo libro non erano ancora state inventate. Ogni
vita era creata da chi la viveva, e ricca di varietà.
Quello che ci serve oggi è una ridefinizione radicale delle relazioni
interumane: una definizione che si basi sui bisogni locali anziché sull’avidità
del capitalismo globale. Le nostre vite sono state sminuzzate in un milione di
piccoli frammenti, e il nostro obiettivo sarà quello di ricondurli a una totalità
armonica. Ad aiutarci non sono soltanto gli esempi del sistema medievale,
degli anarchici, degli esistenzialisti, ma anche una lunga serie di figure
storiche. Porteranno le loro testimonianze Aristotele, san Francesco d’Assisi,
san Tommaso d’Aquino, i romantici, William Cobbett, John Stuart Mill, John
Ruskin, William Morris, Oscar Wilde, coloro che dalle metropoli si sono
trasferiti in campagna, Chesterton, Eric Gill e i distributisti, Bertrand Russell,
Orwell, i situazionisti, gli Yippies, i punk e i radicali degli anni Settanta, come
John Seymour, Ivan Illich e Schumacher. Tutti costoro, in epoche diverse,
hanno promosso un ideale secondo cui la vera libertà è possibile solo nella
cooperazione e non nella competizione. Come vedremo, c’è una lunga
tradizione che rifiuta di vedere il denaro, le proprietà e gli affari come scopo
primario dell’esistenza. L’obiettivo è smettere di chiedere agli altri di fare
ordine nella nostra vita, e fidarci invece della nostra capacità di farlo. Siamo
spiriti liberi. Ci opponiamo alle interferenze altrui e ci rifiutiamo di interferire
con la vita del prossimo.
In questo libro parlerò delle barriere che si frappongono tra noi e la libertà,
e di come possiamo liberarci dall’ansia, dalla paura, dai mutui, dal denaro, dal
senso di colpa, dai debiti, dai governi, dalla noia, dai supermercati, dalle
bollette, dalla malinconia, dal dolore, dalla depressione e dallo spreco. Siamo
stati noi a offrire a questi nemici un ascendente sul nostro spirito, e soltanto
noi possiamo eliminare quella nefasta influenza. È inutile lamentarsi e
aspettare che qualcun altro agisca al posto nostro. Quando ci renderemo conto
che questi vincoli sono, dal primo all’ultimo, «forgiati dalla mente», allora,
ecco! vedremo spalancarsi la porta e schiudersi innanzi a noi il giardino della
libertà.
Il senso della vita è riappropriarsi delle libertà perdute. A scuola e al lavoro
ci persuadiamo a vicenda di non essere liberi né responsabili. Creiamo un
mondo di doveri, obblighi e cose da fare. Dimentichiamo così che la vita
dovrebbe essere vissuta con spontaneità, gioia, amore. In questo libro mi
rivolgerò al passato, in cerca di idee per il futuro. Gli antichi greci guardavano
con nostalgia all’Età dell’Oro, gli antichi romani agli antichi greci, Virgilio e
Ovidio a un idillio bucolico. Gli uomini del Medioevo, a loro volta,
rimpiangevano i greci, e i bei tempi andati in cui la vita era più semplice. Per
la verità, ogni epoca storica si è creata un concetto di «vecchi tempi» in cui la
gente viveva felice e le cose erano più semplici. Rimpiangere un passato
ideale, immaginario, non vuol dire evadere dalla realtà. Al contrario, è un
modo per andare avanti, per decidere quali sono le nostre priorità nella vita. E
se vogliamo cercare idee su come vivere, il passato è un posto molto migliore
del futuro: perché il futuro è pura fantasia, mentre il passato è accaduto
davvero. Il sogno utopistico di un futuro ipertecnologico, in cui le macchine
lavorano al nostro posto, è privo di senso.
Dunque, come si fa a diventare liberi? Be’, che vi piaccia o no, voi siete già
liberi. La vera domanda è se sceglierete di esercitare quella libertà? Al cuore
dell’uomo c’è l’essenza del nulla. Abbiamo creato un universo fatto apposta
per noi. La vita è assurda. Dio è amore. Siamo liberi.
Morte ai supermarket
Impasta il pane
Suona l’ukulele
Apri il salone del villaggio
Ogni azione è futile
Piantala di frignare
Fai musica
Smetti di consumare
Inizia a produrre
Tornatene in campagna
Schiaccia l’usura
Accogli la bellezza
Scegli la povertà
Lunga vita allo scalpello
Ignora lo Stato
Le riforme sono inutili
Anarchy in the UK
Lunga vita alla vanga
Lunga vita al cavallo
Lunga vita alla penna d’oca
Ama il tuo prossimo
Sii creativo
Libera lo spirito
Scava la terra
Produci concime
La vita è assurda
Noi siamo liberi
Sii felice
Bandisci l’ansia: sii spensierato
Allo stato attuale delle cose, sfruttiamo ogni momento libero dal lavoro per
consumare. Lasciamo i cancelli delle fabbriche e andiamo al supermercato a
riversare interamente la nostra paga nel Sistema. Soffriamo di uno strano
sdoppiamento di ruoli sociali: lavoratori e consumatori, oppressi e corteggiati.
Perlomeno nell’Ottocento la gente sapeva di essere niente più che un paio di
mani usate per far funzionare una macchina, e di essere sfruttata in nome del
profitto altrui. Quindi, forse, ribellarsi era più facile. Il contratto parlava
chiaro. Certo, tutti sappiamo che un’agguerrita ideologia di resistenza si
sviluppò tra i lavoratori nell’Ottocento, età di fatica e schiavitù. Oggi, invece,
non appena mettiamo piede fuori dalla fabbrica e ci incamminiamo verso
casa, veniamo avvolti da un turbinio di messaggi pubblicitari. La cultura dei
servizi fa di noi tanti piccoli principi, circondati da cortigiani affettati ansiosi
di accaparrarsi il nostro favore, per strapparci denaro o convincerci a fare
quello che vogliono loro. Ci fanno sentire importanti. Il mondo della
pubblicità pratica le sue arti oscure di seduzione. Nella Società dello
spettacolo (1967), il situazionista Guy Debord, meravigliosamente
spensierato, espresse così il concetto:
Questo operaio improvvisamente lavato dal disprezzo totale che gli è chiaramente
espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si
ritrova ogni giorno al di fuori di essa apparentemente trattato come una persona
grande, con una cortesia premurosa, sotto il travestimento del consumatore. Allora
l’umanesimo della merce prende a proprio carico «gli svaghi e l’umanità» del
lavoratore.
VAI IN BICICLETTA
Lascia che siano altri a lamentarsi della malizia della loro epoca. Quello
che mi secca è la sua meschineria, perché la nostra è un’epoca senza
passione… La mia vita è monotona, monocorde.
SÖREN KIERKEGAARD
Se la scienza contemporanea fosse più sofisticata e più sottile, sono certo che
definirebbe la noia come uno dei killer più spietati del mondo moderno. Lo
scrittore francese Raoul Vaneigem, che appartenne a quella scuola di
scansafatiche anarchici noti come situazionisti, e che fu amico di Guy Debord,
scrisse nel Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni (1967):
«La gente muore di noia». Credo che questa osservazione sia vera in senso
letterale. Il grigiore e la noia non sono solo nemici della gioia di vivere; ne
sono gli assassini. Non mi sorprenderebbe affatto scoprire che sono anche
cancerogeni.
La noia è stata inventata nel 1760. Fu in quell’anno, come scrive il
professor Lars Svendsen nel suo eccellente studio Filosofia della noia (2003),
che la parola boredom (noia) apparve per la prima volta nella lingua inglese.
L’altra grande invenzione dell’epoca fu la Spinning Jenny, il telaio meccanico
che sancì l’avvio della Rivoluzione industriale. In altri termini: la noia sorge
dalla divisione del lavoro e dal passaggio da un lavoro autonomo e gradevole
al ben più noioso e schiavizzante lavoro in fabbrica.
E siamo davvero annoiati. Entrate nelle chat room o sui forum di internet
fra le tre e le cinque del pomeriggio e troverete centinaia di messaggi lasciati
da impiegati d’ufficio, che dicono: «Mi annoio, mi annoio, mi annoio!».
Questi appelli disperati, queste preghiere sofferte recitate da anime
prigioniere, sono come messaggi in bottiglia, gettati nell’etere, nell’oceano del
cyberspazio, nella speranza che qualcuno lì fuori sia in ascolto e che qualcuno
lì fuori possa accorrere in loro aiuto. Le probabilità, naturalmente, sono
scarse.
Di recente ho contribuito alla stesura di un libro intitolato Crap Jobs
[Lavori del cavolo]. Avevamo chiesto ai lettori della nostra rivista, «The
Idler» [L’Ozioso], di inviarci le loro storie di inferno lavorativo, e una delle
cose che più mi hanno colpito è stato il numero di persone che hanno citato la
noia come un aspetto tra i peggiori della vita lavorativa. Queste persone
trovano quasi impossibile sopportare il tedio, e si danno da fare in ogni modo
per superarlo: sabotaggi, violente prese in giro dei colleghi, atti irresponsabili.
Uno dei problemi è che molte professioni moderne richiedono quel minimo di
concentrazione necessaria per non sognare a occhi aperti, ma non abbastanza
per tenere davvero occupata la mente. Un lavoro meccanico potrà allora, per
esempio, essere preferibile a un impiego in un call center. I call center
sembrano fatti apposta per annoiare i propri clienti, e senza dubbio annoiano
a morte chi ci lavora. La paga è bassa e in più c’è la tortura psicologica di non
sapere mai quali atrocità ci riserverà la prossima telefonata.
Un’altra pubblicazione recente del nostro gruppo era intitolata Crap Towns
[Città del cavolo], e anche stavolta mi ha colpito il fatto che l’uniformità delle
città moderne fosse citata spesso come uno dei motivi principali della loro
bruttezza. Qualcosa di orribile è accaduto: le grandi catene di negozi in
franchising hanno invaso il Paese, trasformando quelle che una volta erano
cittadine vivaci, variegate ed esuberanti in altrettanti cloni, tanti centri
commerciali identici l’uno all’altro e popolati di zombi con il portafogli in
mano. Le piccole città inglesi di oggi non sono altro che un gruppo di
appartamenti raccolti attorno a un grande centro commerciale. Ci piange il
cuore quando camminiamo per il corso principale. Da ogni parte ci assalgono
marchi di fabbrica, istituzioni scialbe che hanno preso il posto delle variegate
e divertenti botteghe di una volta: il pizzicagnolo, il pescivendolo, il sarto da
uomo, il panettiere, il fioraio, il ciabattino e il farmacista. La spinta alla
crescita e l’economia di scala hanno messo in fuga lo spirito indipendente. O
quasi. A volte capita di vedere una vecchia bottega vittoriana: la sua bellezza,
eleganza e gioia di vivere risplendono come un arcobaleno. E poi ci sono altri
raggi di speranza: ieri ho visto un cartello, nella cittadina vicino a casa mia,
che mi ha rincuorato. Era nella vetrina di una bottega di riparazioni di
televisori, un’altra area merceologica in via d’estinzione. Diceva: Servizio
all’antica effettuato dal titolare.
Se E.F. Schumacher sosteneva che «Piccolo è bello», potremmo certamente
aggiungere che «Grande è noioso»: sono infatti le dimensioni sproporzionate
delle istituzioni moderne a renderle così impersonali, alienanti e stancanti per
lo spirito. Il McDonald’s è noioso; il ristorante indiano dove mangio di solito
no. Raoul Vaneigem ha scritto, sempre nel Trattato del saper vivere, che la
quantità ha avuto la meglio sulla qualità. Siamo diventati così ossessionati dai
numeri e dalle somme che abbiamo gettato da parte la bellezza e la verità.
Abbiamo sacrificato la vita al profitto. Risultato: noia su larga scala.
Una delle cause principali della noia, a mio avviso, è la scomparsa della
nostra creatività quotidiana. La rivoluzione puritana portò la noia alle masse.
Anche la religione e il cammino alla salvezza divennero noiosi. Nel Medioevo
la religione era piena di sangue, orrore e morte. Le chiese erano centri di
attività economica e di festa, oltre che luoghi di culto. La Chiesa era patrona
delle arti e commissionava opere d’arte agli artigiani locali. A messa si andava
soprattutto per il valore di intrattenimento dei sermoni: erano una forma di
teatro. Nella Firenze medievale, la gente faceva la fila tutta la notte per
ascoltare un predicatore famoso; e al termine della messa la si vedeva uscire
dalla chiesa in lacrime e singhiozzi. Tutto ciò fu spazzato via dai puritani, che
definirono «superstizione» e «idolatria» i metodi della vecchia Chiesa. In altri
termini, fu eliminato tutto il sano divertimento pagano che la Chiesa cattolica
aveva saggiamente conservato.
Anche i politici sono colpevoli di questa monotonia nelle nostre vite. Non
sentiamo i governi diffondere slogan come «Pugno di ferro contro la noia.
Azione decisa contro le radici della noia». Il più tedioso di tutti i governi – e i
governi sono tediosi per natura – fu quello nazista. Marce, file e colonne, la
distruzione dell’individualità, l’imposizione di un ordine burocratico
minuzioso, la sistematica rimozione di qualsiasi cosa minimamente
interessante: in particolare gli ebrei, ma anche gli zingari, i vagabondi, i pigri e
i dissidenti politici. I nazisti adoravano scrivere rapporti, compilare moduli,
catalogare, mantenere ogni cosa pulita e in ordine. I nazisti hanno cercato di
fare le pulizie di primavera su scala mondiale, come i puritani prima di loro,
ed è per questo che dobbiamo resistere alla tentazione del troppo ordine.
La ragione principale per cui così tante persone sono disperatamente
annoiate è che siamo governati da gente noiosa. Gli affaristi, i capitalisti in
cerca del profitto, gli alti sacerdoti del tedio totale hanno in mano le redini
dell’economia. Al governo ci sono i burocrati, i compilatori di moduli. A loro
la noia piace. Essere vivi li riempirebbe di terrore. Ma le cose non sono
sempre state così, e non devono restare così. C’era una volta, non tanto tempo
fa, un mondo in cui le persone noiose erano emarginate perché empie. Nel
Medioevo, soprattutto nei primi secoli, chi era portatore di valori borghesi e
dava troppo valore al denaro era guardato con disprezzo dai guerrieri, dai
preti e dai contadini. «C’è qualcosa di deplorevole nel commercio, qualcosa di
sordido e scandaloso», scrisse il maître-à-penser Tommaso d’Aquino. La
felicità, aggiungeva, va ricercata nella riflessione, non nella distrazione:
Dunque, se la felicità suprema per l’uomo non risiede nelle cose esterne che
chiamiamo i beni della fortuna, né nei beni del corpo, né nei beni dell’anima per la
sua parte sensitiva, né in quella intellettiva secondo l’attività delle virtù morali, né
secondo l’attività delle virtù intellettuali che concernono l’azione, ovvero l’arte e la
prudenza; dobbiamo concludere che la somma felicità per l’uomo risiede nella
contemplazione della verità.
SUONA L’UKULELE
La tirannia delle bollette, ovvero: la semplicità ti farà libero
Malgrado i precedenti solleciti, dai nostri tabulati risulta che non abbiamo ancora ricevuto
il versamento relativo alla Sua bolletta dell’energia elettrica. I dettagli del Suo contratto
saranno ora comunicati all’Ufficio recupero crediti, che invierà un delegato al Suo
domicilio per disconnettere l’allaccio alla rete elettrica, oppure installare un contatore per
il pagamento anticipato.
Lettera all’autore di Steve Hayfield, Direttore, Ufficio gestione delle entrate, Società per
la fornitura dell’energia elettrica (2005)
La West London Magistrates Court ha emesso nei Suoi confronti, il 28.07.2005, un ordine di
addebito per il mancato pagamento della somma di 875 sterline e 40 pence.
Lettera all’Autore dall’Ufficio locale delle Entrate, Hammersmith e Fulham, «Serviamo
la comunità»
Negli ultimi tre mesi, abbiamo individuato 172 evasori nella Sua zona. Nonostante i
numerosi solleciti, constatiamo che il Suo domicilio è ancora privo di licenz. […] Se Lei
sta usando un televisore illegalmente, sussiste ora una possibilità concreta che Lei sia
chiamato in giudizio e multato fino a 1000 sterline.
Lettera all’Autore di Ross McTaggart, Direttore dell’Ufficio per la riscossione del
canone televisivo (2005)
Coltivi la semplicità, Coleridge.
Lettera di Charles Lamb a Coleridge (1796)
Ogni giorno, una valanga di oppressione atterra nelle nostre cassette della
posta. Buste marroni ovunque, stampate in caratteri minacciosi. Finestrelle di
plastica trasparente. Lettere rosse, viola, nere. Richieste di soldi, generalmente
a caratteri cubitali e in colori accesi, per le persone stupide. «Gli ingranaggi
tirannici», come li chiamava Blake, della macchina burocratica continuano a
girare. Se solo potessimo liberarci da tutte queste bollette, pensiamo,
potremmo toglierci questi pesi dalle caviglie e volare ovunque vogliamo.
Il costo già enorme della vita quotidiana aumenta, quando si è pigri come lo
sono io. C’è una tassa sulla disorganizzazione. Quelli tra noi che vogliono
vivere liberi, vivere oziosi, insomma vivere, hanno la tendenza (tendenza
definita «irresponsabile» dalle persone sensate) a ignorare tutte le fatture, le
multe, i solleciti per le tasse, gli estratti conto, le bollette del telefono e, in
generale, l’inesprimibile orrore della zavorra che opprime la vita moderna. Li
mettiamo in un cassetto, proroghiamo il pagamento, rimandiamo e
procrastiniamo. Abbiamo di meglio da fare, per esempio soffiare anelli di
fumo verso il soffitto.
Ma se ritardate il pagamento, le bollette si fanno di colori ancor più
preoccupanti, e il tono diventa più minaccioso a ogni nuovo sollecito. Per
dirla con lo scrittore satirico Ian Vince, le lettere sono scritte «in tono
condiscendente eppure vagamente autoritario». Il linguaggio è svilito,
inelegante, freddo, impersonale, colpevolizzante, e ciò che in realtà significa è:
«Datti una mossa, idiota. Ti stai facendo riconoscere. Tutti gli altri hanno già
pagato. È la gente come te che danneggia tutto il sistema. Datti da fare,
coraggio».
Il modulo per l’annuale dichiarazione dei redditi usa una cadenza simile, tra
il soccorrevole e il minaccioso. Ecco una citazione. Prima c’è il tono gentile,
paterno: «Se ha bisogno d’aiuto, noi siamo qui – on-line, al telefono o di
persona». Ma questa dichiarazione è immediatamente seguita dalla minaccia,
stampata in grassetto: «Se la sua dichiarazione è mendace, Lei rischia di dover
pagare una penale e gli interessi».
La mia tendenza a trascurare il lato finanziario della mia vita mi costringe a
pagare orribili balzelli alla mia banca. Negli ultimi due mesi, per esempio, mi
sono state tolte trecento sterline dal conto corrente per aver superato il limite
di scoperto, in alcuni casi solo per un giorno o due. E questo si aggiunge ai
tassi d’interesse già proibitivi. Ho fatto ricorso contro alcuni di questi
provvedimenti, e a volte ho vinto. Ma ora non ho più voglia di perdere tempo
con queste cose. Scrivere o telefonare, riuscire a mettersi in contatto con un
essere umano anziché una voce pre-registrata, e riuscire a ottenere un
rimborso… sembra un’eventualità remota. Quindi non ci provo neppure.
Semplicemente, prometto a me stesso, senza troppa convinzione, di darmi una
regolata. Una parte di me, presa dal senso di colpa, vede queste penali come la
giusta punizione per la mia trascuratezza. Ma poi leggo sul giornale che la mia
banca quest’anno ha realizzato un profitto di quasi dieci milioni di sterline.
Sembra quindi che la mia indolenza nel pagare i conti faccia loro comodo.
L’altro giorno è suonato il campanello. Era Emma Brown (non è il suo
nome vero) dall’ufficio delle tasse. Insieme ci siamo seduti al tavolo della
cucina. Mi ha spiegato che sono debitore di 1700 sterline, e che se non potevo
pagarle, lei avrebbe dovuto fare il giro della casa, in cerca di mobili e
televisori da requisire. A un certo punto ha usato la parola «pignoramento».
Ora, io non ho idea di cosa significhi «pignoramento», ma so che è una parola
che porta con sé un’aura di minaccia palpabile. Per fortuna mi sono ricordato
che il mio commercialista mi aveva detto che dovevo al fisco solo
cinquecento sterline. Ho controllato l’estratto conto e ho scoperto di avere
ancora cinquecento sterline prima di andare in rosso. Così, la signora Brown
ha accettato un assegno per quella cifra e se n’è andata.
Non avevo compiuto atti criminali deliberati. Ero stato pigro, forse un po’
negligente, magari distratto. Ma mi hanno trattato come un delinquente. E tutti
siamo un po’ disorganizzati, a volte; non siamo robot. I nazisti erano
organizzatissimi. Ed è così che tutti i non-robot nella società sono presi di
mira e multati. Questo processo di autolesionismo raggiunge la massima
evidenza nel caso delle multe per divieto di sosta. Guai all’incauto
automobilista che riparte dal parcheggio con novanta secondi di ritardo!
Dovrà pagare trenta sterline. E se non le paga all’istante, la cifra raddoppia, o
triplica. Una volta ho accumulato quasi mille sterline di multe, perché mi ero
dimenticato di rinnovare il bollino per i residenti. Per farmi ridurre la multa a
cinquecento sterline ho dovuto far visita a una specie di tribunale, la mattina
successiva a una solenne sbronza.
Sì, costoro elevano contravvenzioni. La sola idea di «multa» porta con sé il
concetto di punizione per una malefatta. Non è una semplice transazione
finanziaria, o una forma legalizzata di furto, no: nella multa c’è una
componente morale. Una multa è ciò che le autorità ti infliggono quando hai
fatto qualcosa di male. Dio ti ha punito. Se, per esempio, siete in ritardo con
le tasse, vi multano di cento sterline: ma in nome di quale autorità? Se salite
su un treno senza biglietto, alcune compagnie vi fanno pagare l’intera tratta,
una cifra astronomica. E ovviamente non è mai colpa di nessuno. Il sistema sa
bene come scansare la responsabilità per i propri scandali. Probabilmente in
questo la dimensione delle aziende gioca a loro favore. «Non sono io a dettare
le regole» dicono i nostri oppressori. «Eseguo solo gli ordini.» Questa catena
di potere esiste per farci sentire in colpa se ci arrabbiamo con un semplice
impiegato o con un centralinista, e così renderci impotenti.
Nel Medioevo, le multe erano comminate dalla comunità, dal villaggio, per
punire la trasgressione di certe regole. I registri dei vassalli mostrano che le
infrazioni erano regolarmente punite dalla comunità locale con pene
pecuniarie. «John Aubrey ha provocato disturbo lasciando il suo mucchio di
letame nella strada di Sua Maestà. Multato di uno scellino. Ma graziato perché
povero.» La multa però ti era imposta dai tuoi vicini di casa, e i soldi finivano
dritti nelle casse della comunità, che servivano a finanziare opere
nell’interesse della comunità. Analogamente, nel caso delle corporazioni
professionali, le trasgressioni erano punite, i soldi delle multe erano raccolti e
riutilizzati per organizzare grandi banchetti, elemosine e sussidi di
disoccupazione. Il principio è lo stesso: le multe si riversano nella cassa
comune. Ma le dimensioni sproporzionate delle istituzioni coinvolte hanno
tolto a questa transazione il suo senso di collettività o connessione reciproca.
Ci sentiamo offesi e danneggiati. L’altro giorno ero in un tribunale civile, in
attesa di essere interrogato per un caso di guida senza assicurazione. A un
certo punto entra una giovane coppia. L’uomo apre la porta di una delle aule,
la richiude e grida alla sua ragazza: «C’è di nuovo quella vecchia puttana».
Non ci sentiamo minimamente coinvolti nel corso della giustizia: per molti di
noi, è solo un branco di ficcanasi al potere – le vecchie puttane – che puntano
il dito contro i giovani scapestrati.
Inutile dire che non vale l’inverso. Non c’è modo per noi di imporre multe
alle aziende che ci hanno fregati, cosa che fanno spesso. È un contratto a
senso unico, progettato per favorire il pesce grosso e rapinare il pesce piccolo.
Rubare ai poveri e ai derelitti è molto facile. Come scrive John Ruskin in A
quest’ultimo: «La forma contraria di ruberia, quella del masnadiero – il
derubare, cioè, il ricco perché ricco –, pare che non si presenti altrettanto
frequentemente al pensiero dell’antico mercante: forse perché, essendo cosa
meno vantaggiosa e più pericolosa del derubare il povero, è di rado praticata
da gente che sappia il fatto suo». Davvero. È più facile rubare ai poveri: basta
guardare i prezzi dei supermercati.
Ah, l’ordine! È tutta la vita che cerco di diventare una persona ordinata,
fallendo miseramente. Mi dimentico di ritirare soldi che mi spettano. Mi
dimentico di sollecitare i miei debitori; il risultato è che io perdo e le grandi
aziende vincono. È vero che i numeri sono contro di noi: tu sei da solo a casa,
poeta bohémien, con il computer portatile e il telefono, che cerchi di fare tutto
da solo. Loro, viceversa, dispongono di interi uffici pieni di schiavi di
professione che hanno il compito di liberarsi di te, evitarti e strapparti i soldi
con le minacce. Credo che uno dei problemi sia il fatto che siamo stati educati
a credere nell’idea di un «impiego», una posizione da salariato in cui altri
risolvono per te i tuoi problemi di soldi. Dipendiamo tutti dai nostri datori di
lavoro.
Ci manca quell’atteggiamento mentale del lavoratore indipendente, che è
così importante per chi ricerca attivamente la libertà: l’istinto che ci guida a
prenderci cura di noi stessi. Quando prendiamo la decisione di uscire dal
ritmo dalle-nove-alle-cinque, dobbiamo anche imparare a gestire bene i nostri
soldi.
G.K. Chesterton scrisse un saggio sul legame tra organizzazione ed
efficienza. «Ci hanno ripetuto che organizzazione è sinonimo di efficienza»
scrive. «Sarebbe molto più vero dire che organizzazione è sinonimo di
inefficienza.» Chesterton sostiene che le grandi organizzazioni sono
necessariamente, e per loro natura, inefficienti, a causa delle infinite catene di
esseri umani da cui sono composte. Più è grande l’organizzazione, più sono le
cose che possono andare storte. Un piccolo gruppo è più efficiente, sostiene.
Il metodo più efficiente per produrre un cavolo, per esempio, è coltivarlo da
soli. È più efficiente prendere la legna da un albero del vostro giardino che
non fare affidamento sul petrolio estratto in Arabia Saudita, trasformato in gas
in chissà quale raffineria e poi trasportato in gasdotti attraverso Paesi
politicamente instabili fino a giungere a casa vostra.
La contabilità dovrebbe far parte dell’educazione di ogni persona che
ricerchi la vera libertà. Lo studio condotto da Jenny Uglow sui pionieri
dell’Illuminismo, The Lunar Men (2002), rivela che i figli e le figlie di
grand’uomini come Erasmus Darwin e Joseph Priestley ricevettero
un’istruzione approfondita nel campo della ragioneria. Questo consentì loro di
seguire i propri affari e di affrancarsi dalla dipendenza nei confronti di chi fa
soldi sul caos. Gandhi ha fatto così. So che può sembrare una cosa
estremamente noiosa, ma nelle sue battaglie per la libertà e contro l’autorità
Gandhi trovava utile tenere libri contabili aggiornati. Ma forse voi potete
iniziare con piccole cose, come per esempio mettere nero su bianco, alla fine
della giornata, ogni vostra spesa. È incredibile quanto sia utile questo sistema
per mantenere il controllo della propria situazione.
Il mio amico Dan Kieran usa il pugno di ferro contro i debiti, che vede
come il nemico assoluto. Anche qui, il sistema di addebito diretto su conto
corrente trae profitto dalla pigrizia e dalla disorganizzazione. Il quotidiano
«The Sun» ha recentemente scritto che gli inglesi buttano via cinquecento
milioni di sterline l’anno in addebiti diretti che hanno dimenticato di
cancellare. In altre parole, non riceviamo più il servizio ma continuiamo a
pagarlo. Dan quindi ha deciso di pagare le bollette solo in contanti o con
assegni. Ed è straordinariamente difficile, anche perché le aziende spendono
molte risorse di marketing nel tentativo di convincerci della comodità
dell’addebito diretto, tanto che di primo acchito sembra sciocco pensarla
diversamente: certo gli addebiti diretti semplificano la vita, perché ci tolgono
la fatica di ricevere bollette e scrivere assegni. Ma in realtà, il semplice atto
con cui ci assumiamo la responsabilità delle nostre finanze, tornando al
vecchio metodo di imbustare un assegno e imbucarlo nella cassetta delle
lettere, produce un senso di soddisfazione, la sensazione di avere tutto sotto
controllo. Fa sembrare più reale la transazione. L’addebito diretto fa appello al
tragico fatto che sembriamo preferire la comodità alla responsabilità.
Pagare le bollette non è poi così doloroso, quando finalmente ci diamo da
fare. Mi lascio opprimere dal peso di tutte le bollette, di tutte le cose che devo
fare, tutte le incombenze. Ma poi, quando mi siedo alla scrivania con la mia
pila di scartoffie, mi rendo conto che bastano cinque minuti per mettere tutto
in ordine. Mi sono preoccupato inutilmente, mi dico. La situazione non era
poi così grave.
Un altro consiglio ci arriva da un pescatore e grande ozioso di nome Chris
Yates. Una o due volte al mese, Chris dedica un giorno alla ragioneria:
sospende tutte le altre attività e passa in rassegna bollette, conti e ricevute.
Se l’idea di organizzare le vostre finanze vi riempie di orrore, però, potreste
anche percorrere la strada inversa, quella della disorganizzazione radicale.
Potreste rimuovere sistematicamente dalla vostra vita tutte le organizzazioni;
sradicarle, gettarle via. Potreste evitare sin dall’inizio di farvi coinvolgere. Il
modo più semplice per liberarsi dalle bollette è disdire tutti i servizi per cui le
pagate. Niente più abbonamento alla tv digitale, niente cellulare, niente
internet, niente macchina. Gandhi, di nuovo lui, raccomandava la vita
semplice a chi perseguiva il cammino della libertà. Per esempio si rese conto
di spendere un sacco di soldi per i servizi di lavanderia. Se fosse riuscito a
limitare il suo bisogno di soldi, rifletté, avrebbe potuto dedicare più tempo al
suo impegno umanitario. Quindi iniziò a fare il bucato da solo. Possiamo
trovare un’analogia con il trasporto pubblico. Invece di sganciare bigliettoni
per l’abbonamento semestrale alla metropolitana, perché non comprarci una
bicicletta e usarla per andare al lavoro?
Negli Stati Uniti, questo modo di pensare ha un nome: il simplicity
movement. Movimento della semplicità: ma che vuol dire semplicità?
Significa autosufficienza. Più bollette paghiamo, più stiamo chiedendo ad altri
di fare cose per noi, cose che in un altro mondo potremmo benissimo fare da
soli. Si vendono a voi, tutti questi commercianti di bollette, con la promessa
di semplificarvi la vita. Ma non è così. Anzi, la rendono più difficile. Ridurre
la vostra dipendenza dai servizi esterni vi regalerà tempo e denaro. Potete
anche produrre da soli l’energia elettrica. È tempo di tornare alle tecnologie
medievali: mulini a vento ed energia idraulica. Raccogliete l’acqua piovana.
Installate pannelli solari. Il vento, l’acqua, la pioggia e il sole sono doni
gratuiti della natura. Perché non approfittarne?
Detta semplicemente: se evitate di consumare i prodotti del sistema, non
dovrete pagarli. Così, risparmierete non solo i soldi che prima spendevate per
tutti quei servizi, ma anche il tempo perduto e lo stress accumulato per via
delle bollette. L’oppressione si allontanerà lentamente dal vostro zerbino. E
non dovrete lavorare così sodo. La vita diventerà più facile e a buon mercato.
A proposito, è affascinante notare quanto Gandhi (che in un certo senso era
l’opposto di un ozioso, perché praticava l’abnegazione) abbia in comune con
gli estremisti della ricerca del piacere, come per esempio Keith Allen, attore
spensierato e uomo sregolato, che vive la sua vita senza alcuno scrupolo di
coscienza, senso di colpa o simili virtù borghesi. Ma è anche un cultore della
vita semplice e del rifiuto del denaro e dell’autorità. Estremisti e moderati
sembrano avere più cose in comune di quanto si pensi. Certo, spesso sono i
cercatori di piacere più estremisti a trasformarsi nei più grandi partigiani
dell’abnegazione. Le popstar che hanno fatto tutto – alcol, droga e il resto – si
mettono a bere acqua tiepida con limone e vanno a dormire alle nove e mezza.
I due percorsi sono strettamente legati. Quanto a me, sono un moderato,
scelgo l’aurea via di mezzo. Non ho alcuna intenzione di smettere di bere e ho
una tendenza all’eccesso, ma ultimamente bevo con moderazione.
Comunque, i bastardi sanno come raggiungervi. Qualche tempo fa ho
partecipato con Keith Allen a un incontro con un editore, a cui Keith tentava
di vendere la sua autobiografia. «E perché lei vorrebbe scrivere questo libro?»
ha chiesto l’editore. «Per via delle tasse» è stata la risposta.
È perfettamente possibile creare una vita priva di complicazioni e di lavoro.
Gli artisti Penny Rimbaud e Gee Vaucher hanno fondato i Crass, la punk band
anarchica degli anni Ottanta. Quarant’anni fa hanno preso in affitto una
baracca fatiscente appena fuori Londra, l’hanno sistemata e hanno riempito il
giardino di fiori, frutta, ortaggi, capanni e gazebi per riposarsi in tutta
tranquillità. Grazie a una politica di apertura al pubblico, che ha assicurato un
flusso continuo di residenti della zona e ospiti desiderosi di aiutare, sono
riusciti a rimettere a nuovo la casa e il parco con poca spesa. L’unione fa la
forza, e in questo caso il potere delle persone ha sostituito il denaro. Vivono
un’esistenza semplice, non hanno bisogno di lavorare, e quindi hanno ettari
ed ettari di spazio mentale per seguire i propri percorsi di vita, per pensare,
leggere, scrivere, parlare, bere, fare arte. Non guadagnano quasi nulla, ma
fanno esattamente ciò che vogliono e questo, secondo me, è un risultato
straordinario. Dimostra che denaro e libertà non sono affatto sinonimi. Gee
mi ha detto: «Credo di non aver mai pagato le tasse in vita mia. Qual è il
reddito minimo per doverle pagare? Cinquemila sterline? Non guadagno una
cifra simile». Non ho mai visto una casa più libera e autosufficiente della sua.
CANCELLA GLI ADDEBITI INDIRETTI
Da’ un calcio alla carriera e alle sue vuote promesse
L’amore del lavoro ben fatto e il gusto della promozione nel lavoro
sono oggi il marchio indelebile dell’insensibilità e della sottomissione
più stupida.
RAOUL VANEIGEM, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni (1967)
Per molti, una volta che hanno un lavoro, non c’è percezione dell’idea di carriera,
delle possibilità di promozione. Gli impieghi sono distribuiti in senso orizzontale, non
verticale: la vita non è percepita come una scalata, né il lavoro è visto come scopo
ultimo dell’esistenza. C’è ancora rispetto per il bravo artigiano. Ma l’uomo seduto
sulla panca vicina non è visto come un concorrente, potenziale o reale […]. Delle
persone «fissate con il lavoro» non c’è da fidarsi.
Da ogni parte ci sentiamo ripetere che vale la pena di far qualcosa solo se c’è
da guadagnarci o se ci renderà famosi. Alle madri sembra che le loro vite
siano prosciugate dalla cura dei figli e dai lavori domestici, e che la maternità
non sia valutata positivamente dai loro pari. Se non hai un lavoro, non sei
nessuno.
La carriera non è che una forma nobilitata di schiavitù. Ed è una proroga
istituzionalizzata, un differimento del paradiso. Abbiamo in testa questa
nozione astratta di carriera, vista come un metro di paragone. A volte ci
compiacciamo dei nostri risultati confrontandoli con il nostro percorso di
carriera autoimposto e immaginario; altre volte ci rammarichiamo dei nostri
risultati scadenti, e le carriere degli altri sembrano più rapide e prestigiose
della nostra. Usiamo la carriera come un bastone per flagellarci. E teniamo gli
occhi fissi sul prossimo gradino della scala.
Ma qual è l’alternativa? Possiamo farcela da soli? Diventare il datore di
lavoro di noi stessi? Il malinconico poeta e critico vittoriano Matthew Arnold
era, come tanti altri della sua generazione, disgustato da come il XIX secolo
aveva elevato il lavoro a fede religiosa. Gli sembrava però che sull’altro
sentiero, quello della libertà, stesse la pazzia. Quelli che seguono sono alcuni
versi di un poema alquanto deprimente, intitolato A Summer Night, in cui
Arnold paragona le due opzioni:
Pazzo o schiavo deve essere l’uomo? Oggi chi cerca la libertà è considerato
pazzo. Con i capelli al vento e il volto attonito, l’avventuriero audace fa presto
a uscir di senno. E certo, la legge delle probabilità sembra cospirare contro chi
cerca la libertà. Potremmo dire: non è necessario essere pazzi per non lavorare
qui, ma aiuta. Pensiamo a Nietzsche, a Kerouac, che tornò a casa dalla madre,
triste e amareggiato. Pensiamo al povero Coleridge, schiavo del laudano,
respinto dal suo vecchio alleato Wordsworth. In effetti, la poesia di Arnold
sembra dire che diventare un pazzo spettinato è la sorte che ti spetta se cerchi
di essere libero. Ahimè, quale tormento, pena eterna, dolore!
È d’aiuto, poi, apprendere che i pazzi di oggi erano gente più che normale
nella società medievale. Nei primi secoli il cristianesimo si era opposto alla
carriera. «Più generalmente v’è nel cristianesimo una tendenza a mettere sotto
accusa ogni negotium, ogni attività secolare, e a privilegiare invece un certo
otium, un ozio che è fiducia nella provvidenza» scrive il medievista Jacques
Le Goff in Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Sì, davvero, gli oziosi
sono più santi di chi si ammazza di fatica. I pigri non lavoravano perché
confidavano che Dio gli avrebbe dato il pane quotidiano. L’Inghilterra
pullulava di frati mendicanti. A differenza degli elisabettiani e dei Tudor, i
medievali amavano l’ozio. I mendicanti disoccupati giocavano un ruolo di
primo piano nella società, in quanto oggetto della carità altrui. Era il paradiso
degli oziosi.
Darsi da fare per la carriera è qualcosa di empio: significa che si è posseduti
da una vanità tale che si osa tentare di prendere in mano il proprio destino. La
pigrizia, d’altro canto, ci sospinge lassù, dove siedono i santi. «La sfiducia dei
contadini nei confronti del mercante e del nobile, della loro sprezzante
arroganza, trova un parallelismo e una giustificazione sul piano ideologico
negli insegnamenti della Chiesa», scrive lo storico Aron Ja Gurevich in un
saggio sul mercante medievale. La carriera, dunque, è un’invenzione dei
protestanti, e un ideale di vita che sarebbe stato impraticabile nella società
medievale cattolica, più fatalista. La vita quotidiana a quel tempo richiedeva
creatività e versatilità. Dio era creativo, quindi il lavoro doveva essere
creativo. Ecco perché le prime forme di lavoro approvate dalla Chiesa sono
state il giardinaggio, impastare il pane e produrre birra. E quando si seguiva il
ritmo delle stagioni, prima che la luce elettrica rendesse tutto più noioso, la
vita era ricca e piena di varietà.
Da un’ottica taoista o esistenzialista, la carriera è un completo spreco di
tempo e di energie. Se ogni azione è futile, se ogni cosa è vanità, se la vita è
assurda, e il mondo è un grande nulla, allora perché non dovremmo
impigrirci e fare quel che ci pare? La carriera si impadronisce di una
potenziale fonte di gioia e la trasforma in dovere, obbligo, quasi penitenza.
Volete davvero che sulla vostra lapide ci sia scritto: «Ha sofferto per tutta la
vita»?
Nell’inelegante linguaggio di oggi, direi che una possibile risposta è il
«multitasking». Bevi e fuma contemporaneamente! Ma, seriamente: può darsi
che voi abbiate una vocazione, un centro di ispirazione nella vostra vita
lavorativa. Nel mio caso, questa vocazione, ovvero il mio dono, se preferite
chiamarlo così, è il giornalismo. Da quando avevo otto anni scrivo articoli e
dirigo riviste. Ma questa vocazione centrale non implica che, per perseguirla,
io debba trascurare ogni altro aspetto dell’attività umana. Mi piace anche
coltivare ortaggi, spargere paglia in terra, allevare galline, intagliare il legno,
sparare a lattine di fagioli col mio fucile ad aria compressa, giocare ai
Pokémon con i miei bambini, suonare l’ukulele. Non faccio queste cose per
soldi, o per la carriera. Le faccio per farle. Tre ore al giorno di lavoro
retribuito sono sufficienti per sbarcare il lunario; il resto della giornata è
dedicato a lavoro non retribuito, o a divertimento non retribuito.
Perché l’autosufficienza e la creatività tornino nelle nostre vite, potremmo
avviare un’attività commerciale da casa, un’azienda a conduzione familiare e
domestica, un’attività creativa nella quale possiamo investire tempo ed energia
quando e come vogliamo, a seconda dei momenti. «Imparate un’arte» dico ai
giovani scrittori che scrivono all’«Idler»: diventate falegnami, fabbri,
giardinieri, tappezzieri; queste attività si sposano benissimo con la vita della
mente. È saggio disprezzare la demagogia oppressiva di chi sostiene che un
tuttofare non sa fare bene niente. No: ci sono un sacco di cose che potete fare.
Potete tagliare la legna e trasportare l’acqua e scrivere poesie. Potete
combinare una piccola azienda agricola con la progettazione di software. C’è
un lettore dell’«Idler» che suona la tuba ma è anche un esperto imbianchino.
Ama entrambe le cose, ed entrambe contribuiscono al suo stipendio. Perché
limitarsi a un settore ristretto?
Una soluzione ben poco utile, proposta dalla società moderna, sarebbe la
terribile ricerca di un «equilibrio tra lavoro e vita». Oh, che orrore! A parte il
fatto che è una frase brutta, strana e volgare, c’è del marcio in questo
concetto, perché implica che il lavoro è una brutta cosa e la vita invece è bella.
Be’, allora rendete bello il lavoro, fate del vostro lavoro un piacere creativo, e
non dovrete preoccuparvi di bilanciare il bene e il male: tutto sarà bene.
L’utopia dell’ozio non soltanto cerca (con i sindacati) di ridurre la quantità di
lavoro spiacevole; intende anche ricondurre lavoro e vita a un’unità armonica.
Le carriere non ci permettono di essere noi stessi fino in fondo. Le carriere
prendono a metro di paragone del successo il denaro e lo status, anziché il
piacere di lavorare e la creatività. «Vocazione», d’altro canto, vuol dire
«chiamata», ed è un’attività che ci dà da vivere e che ci piace fare. Nel mio
caso, la mia vocazione è il giornalismo: ovvero, la comunicazione. La
vocazione di Eric Gill era la scultura, quella di Blake l’incisione, quella di
John Lennon scrivere canzoni, e così via. Che vi sia una vocazione al centro
della vostra vita non significa che voi non dobbiate fare altro. Uno scultore
può benissimo scrivere poesie, pulire la casa, intagliare il legno e togliere le
erbacce dall’orto, oltre a scolpire la pietra. Ma la scultura è il fulcro della sua
vita lavorativa, ed è attraverso la scultura che si guadagna da vivere.
Abbiamo il dovere di guardare nei nostri cuori e scoprire la nostra
vocazione, il nostro dono. Fatto ciò, scopriremo che altre parti della nostra
vita seguiranno naturalmente. Se mettiamo la vocazione al centro delle nostre
vite, anziché il guadagno fine a se stesso, allora vedremo arrivare il denaro.
Secondo quanto scrive Max Weber nell’Etica protestante e lo spirito del
capitalismo, l’ideologia cattolica medievale riguardo al lavoro era: «Ciascuno
si accontenti del suo “sostentamento”, e lasci che gli empi cerchino di
guadagnare».
La vocazione è un’idea comunitaria, è un’esperienza di generosità, mentre
la carriera è un modo egoistico e competitivo di lavorare. La vocazione è
stabile e piana, mentre la carriera è un’erta salita, che tende all’infinito. Se
pensiamo al lavoro come a una vocazione, possiamo lavorare con tranquillità
e serenità.
Una nozione di lavoro estremamente positiva mi è stata presentata
dall’artista Joe Rush. Negli anni Ottanta, Joe fu tra i fondatori di un collettivo
artistico di rinnegati chiamato Mutoid Waste Company, la cui vocazione era
creare sculture fantastiche con pezzi di ferro trovati in giro. Prendevano una
vecchia automobile e la trasformavano in qualcosa di magico e meraviglioso,
un insetto gigante o un dinosauro, un teschio o un uccello. Vivevano come
frati mendicanti, in giro per i festival e alloggiando in case occupate
abusivamente in tutta Europa. Il loro messaggio era semplice: «Siate creativi».
Joe è convinto che tutti nasciamo con un dono, e che spetta a noi scoprire
qual è, e poi esplorarlo. «Tutti avete talento, tutti avete ricevuto un dono… E
se c’è qualcuno là fuori che è geloso di voi, vuol dire che non ha ancora
scoperto qual è il suo dono.»
E come fare a trovare il nostro dono, la nostra vocazione? La risposta è
semplice: non fare nulla, più a lungo possibile. Come i giardinieri saggi
dicono che la cosa migliore da fare con un nuovo giardino è non toccarlo per
un anno, per capire cosa cresce dove, e solo allora disegnare il proprio unico,
utile e bellissimo giardino; così io consiglio di prendervi qualche mese per
riflettere, o anche un anno se potete. Per la maggior parte del tempo siamo
troppo occupati per fare un passo indietro e riflettere su cosa ci piacerebbe
davvero fare. Create tempo per voi stessi, e le cose si faranno più chiare. E
soprattutto, smettete di sforzarvi. La carriera si basa sul concetto di sforzo. Gli
spiriti liberi sono quelli che hanno smesso di sforzarsi e hanno deciso di
lasciar accadere le cose.
* Romanzo allegorico di John Bunyan (1678), testo fondante del puritanesimo inglese, il
Pilgrim’s Progress narra l’ascesa del pellegrino Christian dalla “città della distruzione” (la
terra) alla città celeste di Zion. (N.d.T.)
Fuga dalla città
Scappare dalla metropoli è uno dei grandi sogni romantici. Dalle Bucoliche di
Virgilio ai poeti del Romanticismo, e oggi nelle canzoni pop e folk, è evidente
che tutti aneliamo alla pace e che tutti stiamo cercando di rientrare nel
Giardino dell’Amore. La visione pastorale è ben viva nelle canzoni di Peter
Doherty, con le sue parole su Albione e l’Arcadia e i canti dei pastori. In
compagnia di buoni amici, davanti a buon cibo e a un bel panorama, fuori
dalla frenesia e dalla folla della città, lontani dai treni della metropolitana, dal
pendolarismo, dalle bombe, dalla pubblicità, potremmo essere felici.
Wordsworth e Coleridge scrissero la loro rivoluzionaria raccolta poetica,
Ballate liriche (1798), rifugiandosi in campagna: Coleridge a Nether Stowey
nei Quantocks, Inghilterra occidentale; e Wordsworth e Dorothy nella vicina
Alfoxden House. Lì furono raggiunti, per qualche tempo, dal radicale John
Thelwall, e i tre erano guardati con sospetto dagli abitanti del luogo e dallo
stesso governo, che mandò una spia (più tardi ribattezzata «Spy Nozy»* da
Coleridge in Biographia Literaria, 1817) perché li controllasse. Ecco come
Thelwall descrive quei pochi mesi nelle sue Righe scritte a Bridgewater
(1797):
Ah! Che io possa, in qualche valle boscosa
costruire la mia povera culla; e possa rivelarsi serena,
mio Samuel! Accanto a te, che io possa spesso
con te trattenermi in dolce conversazione, amico più caro!
Amato da tempo già prima di conoscerti;
giacché affinità di spirito
univano, pur nella distanza, le nostre anime congeniali…
E dolce sarebbe,
terminata la fatica, lo studio e
l’impegno letterario,
sederci sotto i nostri pergolati
nella gioviale stagione estiva; o quando, cupo,
il vento d’inverno ha spazzato via le fronde ombrose,
attorno al focolare, insieme e in allegria
condividere le frugali vivande, e la ciotola
scintillante di bevanda fatta in casa – al nostro fianco
la tua Sara, e la mia Susan, e magari,
il pensieroso affittuario di Alfoxden, e la fanciulla
dagli occhi ardenti che, con amore fraterno,
mitiga la sua solitudine.
Ogni volta che gli uomini hanno provato a immaginare una vita perfetta hanno
immaginato un luogo in cui gli uomini arano e seminano e raccolgono, non un posto in
cui grandi ruote girano e vomitano fumo […]. Noi intendiamo preservare un antico
ideale di vita. Ovunque le sue usanze saranno diffuse, lì troverete la canzone popolare,
la favola, il proverbio, le maniere gentili che vengono dalla cultura di un tempo […].
Dobbiamo vivere così da far valere tra la nostra gente quel nobile ideale di vita.
Il sogno di William Morris non era diverso:
Sembra che cercare di migliorare le cose non sia affare di nessuno – e non è neppure il
mio, vedete, anche se mi lamento – ma immaginate che la gente vivesse in piccole
comunità tra giardini e prati in fiore, così che per trovarsi in campagna bastassero
cinque minuti a piedi, e non avesse bisogno di quasi nulla, quasi nessun mobile per
esempio, e niente servitù, e studiasse la (difficile) arte del godersi la vita, e scoprisse
cosa vuole davvero: credo allora che si potrebbe sperare che la civiltà fosse davvero
cominciata.
Negli anni Settanta, John Seymour ebbe grande successo con il suo manuale
che insegnava a vivere dei proventi della terra, intitolato Self-Sufficiency.
Come prima di lui Cottage Economy di William Cobbett, anche il libro di
Seymour è un esercizio di vera e propria filosofia e non solo una guida
pratica. Come il libro di Cobbett, anche questo è pervaso dal suo spirito
sanguigno, indipendente ed eccentrico, ma rigogliosamente sano. Nel caso di
Seymour, la decisione di vivere di ciò che coltivava e sfuggire al moderno
sistema industriale fu presa per motivi pragmatici e non ideologici. Nel suo
libro The Fat of the Land (1961), racconta della ricerca di un modo
economico per vivere con la sua famiglia, così da poter lavorare meno (faceva
il giornalista indipendente). Andarsene dalla città, però, e vivere in campagna,
può essere faticoso. L’isolamento rurale può sembrare romantico, ma la vita è
più facile quando amici e vicini di casa sono a portata di mano. Abbiamo
bisogno degli altri. In Self-Sufficiency Seymour, come Yeats e Morris, sogna
una società rurale:
Sono convinto che, se mezza dozzina di famiglie decidessero di diventare
parzialmente autosufficienti, si stabilissero a poche miglia di distanza gli uni dagli
altri, e sapessero bene quello che fanno, potrebbero vivere molto bene. Ogni famiglia
eserciterebbe un’arte o un mestiere o una professione, i cui prodotti venderebbe al
resto del mondo. Ciascuna famiglia coltiverebbe o produrrebbe un certo numero di
beni o di oggetti che potrebbe usare ma anche scambiare con le altre famiglie in
cambio di altri oggetti. Nessuno si annoierebbe nell’esercitare il suo mestiere o la
sua arte, perché non dovrebbero farlo per l’intera giornata: ci sarebbero molti altri
lavori da fare ogni giorno. Questa parziale specializzazione offrirebbe loro del tempo
libero: probabilmente più di quanto ne è concesso allo schiavo salariato delle città,
dopo il tempo sprecato in treno per andare e tornare dalla fabbrica o dall’ufficio.
Nella Firenze del Duecento c’erano sette corporazioni principali, dette Arti
Maggiori, e quattordici Minori. C’erano l’Arte dei Giudici e dei Notai, l’Arte
dei Mercanti o di Calimala, l’Arte del Cambio, l’Arte della Lana, l’Arte della
Seta o di Por Santa Maria, l’Arte dei Medici e Speziali, l’Arte dei Vaiai e
Pellicciai; e poi le Arti Minori: Beccai, Calzolai, Fabbri, Maestri di Pietra e
Legname, Linaioli e Rigattieri, Vinattieri, Albergatori, Oliandoli e Pizzicagnoli,
Cuoiai e Galigai, Corazzai e Spadai, Correggiai, Legnaioli, Chiavaioli, Fornai.
Tutti vivevano insieme e più o meno in armonia in una sorta di Stato
anarchico, con i capi delle Arti che si alternavano al governo della città per
periodi di due mesi.
Potremmo ricreare oggi città di questo tipo? Non dovremmo rendere
obbligatoria la lettura del Mutuo appoggio per tutti gli architetti e gli
urbanisti? Certo, dobbiamo trovare una città di cinquantamila persone,
cinquantamila persone in cerca di libertà. Poi dobbiamo alzare un muro di
cinta tutto intorno, dichiararci Repubblica indipendente e andare avanti per
conto nostro. Per Kropotkin le città medievali erano la prova del fatto che,
lasciati a noi stessi, possiamo organizzarci molto meglio di qualsiasi governo.
Come dice il montanaro viaggiatore, punk e skateboarder William Elliot
Whitmore: «In realtà, tutti condividiamo questi ideali, e il cittadino medio è
una brava persona; sono i governi che mandano tutto a puttane». Il
movimento delle città medievali mostra anche che uno stato di cose in cui
l’autorità e la competizione sono i princìpi fondanti non è l’unico possibile,
come sostengono i filosofi della domenica.
Quello che mi piacerebbe vedere, e quello che realmente esisteva
nell’Inghilterra medievale, è un Paese fatto di piccole federazioni autonome,
di città, villaggi, comuni e borghi. L’idea stessa di un’organizzazione
centralizzata è assurda perché non considera le differenze tra le varie aree del
Paese: diversi modi di vedere la vita, culture diverse, lingue diverse, usi e
costumi, climi, persino differenze nell’abbigliamento. Centralizzazione è
sinonimo di uniformità, e uniformità vuol dire noia, e noia vuol dire morte
(vedi capitolo 2). Immaginate di colonizzare un villaggio o una cittadina con i
vostri amici, e di creare una società libera tutta vostra.
Mi domando che sorta di mutamento o di crisi potrebbe condurre a un
nuovo Occidente e a un nuovo modo di pensare. Negli anni Settanta, i
pensatori alternativi parlavano in toni quasi speranzosi di una crisi del
petrolio; ma il petrolio zampilla ancora dalla Terra. Quando finirà?
Personalmente vedrei con favore una crisi del petrolio, perché potrebbe
fornirci un’occasione per tornare al legno come fonte energetica: il legno,
perennemente rinnovabile; il legno, che è raccolto, non estratto nelle miniere
(un’altra idea che non mi dispiace è recuperare il cavallo come mezzo di
trasporto e spostarsi da una nazione all’altra per nave). Con l’aumento del
prezzo del petrolio, è aumentata la richiesta di produzione locale di energia, e
le aziende produttrici di pannelli solari, pompe di calore e pile a combustibile
fanno ottimi affari. Tecnologie medievali come la ruota ad acqua o il mulino a
vento stanno tornando di moda. Stiamo iniziando a capire che nozioni come
quella di energia rinnovabile, lungi dall’essere pazzie, sono semplicemente
buone idee. E molto più economiche di un’inefficiente compagnia elettrica.
Immagino che produrre da soli l’energia elettrica dia una sensazione simile a
quella che si prova mangiando ortaggi coltivati da noi: un piacevole senso di
soddisfazione e liberazione, almeno in parte, dalla dipendenza nei confronti di
un sistema centralizzato di distribuzione. I pannelli solari sono l’anarchia in
azione.
Ora, è anche possibile crearsi una vita di campagna in città, se per «vita di
campagna» si intende, secondo il gergo odierno, una vita sostenibile. Il mio
amico Graham Burnett, che vive in città, mi ha fatto conoscere il movimento
della Permacultura. È un approccio alla vita che ha avuto origine in Australia,
per opera di un uomo di nome Bill Mollison. L’idea alla base della
Permacultura è quella di vivere senza sfruttare la Terra e gli altri uomini, in
sintonia con la natura, in armonia con la propria vita quotidiana e l’ambiente,
e senza lavorare troppo. Davvero, la Permacultura è l’ozio per eccellenza. La
rivista «Permaculture», per esempio, è piena di articoli su persone che hanno
trasformato il loro giardino nei sobborghi in vere e proprie foreste di alberi da
frutto; o gente di città che produce tutte le verdure che mangia nel suo piccolo
orto demaniale in affitto. È un approccio pratico alla vita, perché non
pretende che ci trasferiamo in un’azienda agricola del Galles e diventiamo
autosufficienti. Ci mostra invece che si può essere liberi anche in città. Per
esempio potete affittare un orto demaniale. Potete coltivare frutta sul
davanzale. Sostituire il vostro prato borghese con cespugli di lamponi, mirtilli
e uva spina, alberi di pesco e peri. L’altro aspetto affascinante di questa
filosofia è che preferisce la riflessione all’azione. Dopo la creazione di un
sistema, l’orto in Permacultura continuerà a produrre frutti copiosi senza
bisogno di cure costanti. La Permacultura si oppone fermamente alla fatica,
perché affannarsi troppo vuol dire interferire con la natura. Dunque, è la
scelta ideale per gli oziosi. La consiglio caldamente.
Tutto ciò che dobbiamo fare per rigenerare le nostre città è spargere semi in
giro. Quando fate una passeggiata, portatevi dietro dei semi: papavero,
bietola, rucola. Metteteli tra le erbacce negli spiazzi urbani incolti. E state a
vedere cosa succede.
Ancora John Seymour:
Riesco a immaginare, un giorno nel futuro, una società altamente sofisticata, in cui
alcuni vivono in città dalle dimensioni umane, altri sparsi in una campagna ben curata,
tutti interdipendenti eppure per certi versi indipendenti, con le città che aiutano le
campagne e viceversa. Non sarebbe una società molto meccanizzata o industrializzata,
ma una società in cui le vere arti del vivere civile sono esercitate ai massimi livelli, in
cui la letteratura, la musica, il teatro, le arti visive, l’artigianato che conduce alla bella
vita, sono praticate e apprezzate da tutti. Tutto ciò non sarebbe un «tornare indietro»,
qualunque cosa significhi. Sarebbe, se vogliamo pensare in termini di progresso
ideale, un «andare avanti» verso un’età dell’oro. L’Atene di Pericle non era un brutto
posto, a parte qualche schiavo. Se trovassimo un modo per ottenere lo stesso risultato
senza schiavi, avremmo ottenuto qualcosa di grande valore.
Questi per me sono valori positivi, e sono proprio quelli più danneggiati dalla
«mediocrizzazione» della società. Hoggart parla anche di un lodevole
atteggiamento improntato al carpe diem, che è in contrasto con l’altro
atteggiamento, quello del «sacrifica l’oggi al domani», dei piani pensionistici,
tipico delle classi medie (ritratte brillantemente nella canzone She’s Leaving
Home dei Beatles):
[…] in generale, la natura immediata e presente della vita operaia incoraggia il
godimento immediato del piacere, dissuade dal pianificare in vista di obiettivi futuri
o alla luce di ideali. «La vita non è rose e fiori» pensano; ma «Al domani ci si
penserà domani»: così la classe operaia è da tempo la culla dell’esistenzialismo
ottimista […]. Al piacere si dà grande importanza, si rammenderanno le lenzuola
anziché comprarne di nuove, ma si metterà da parte il denaro necessario per bere e
fumare […].
Sì, sì, sì! Basta che ci siano i soldi per la birra e le sigarette di oggi, e al
domani ci penseremo domani. Preferirei avere lenzuola strappate e una
dispensa piena di birra che essere astemio e avere un corredo completo.
Adoro questo modo di affidarsi alla Provvidenza. E i progetti per il futuro?
Be’, conosciamo tutti la barzelletta ebrea: Come si fa a far ridere Dio? Parlagli
dei tuoi progetti.
Quindi smettiamola con la guerra di classe e passiamo all’armonia di classe,
integrità di classe, rispetto di classe, pace di classe. Abbiamo classe ma non
facciamo parte di una classe. Possiamo aiutarci a vicenda e imparare gli uni
dagli altri. E a me la gente delle classi alte, in generale, piace. Mi piace la
tradizione aristocratica semplicemente perché tanti aristocratici sono
antiborghesi. Non gli piace lavorare, o almeno, non gli piace ciò che il lavoro
è diventato. Sanno ancora essere eccentrici e diversi. Si sentono superiori alle
persone che sono costrette a lavorare, e quanto a loro, si abbandonano
all’indolenza – nobile attività, come spero di aver dimostrato in altra sede –
ma sono anche impegnati nella beneficenza, nel lavoro per la comunità, nel
patronato delle arti; aprono al pubblico i loro palazzi, organizzano festival e
sono ospitali e affascinanti: tutti ruoli molto importanti in una società libera.
Non sono minimamente invidioso delle loro ville e dei loro soldi, perché so
che quelle case e quei soldi sono una gran seccatura. Sono grato agli
aristocratici perché si prendono cura dei palazzi e dei giardini e, se mi è
concesso di far loro visita ogni tanto, allora benissimo.
Ma il nostro risentimento ci rende difficile fuggire. Il risentimento può
costituire una barriera per la libertà. Ogni volta che parlo in pubblico dei
benefici effetti del non lavorare, qualcuno nel pubblico domanda, più o meno
gentilmente, da quale classe sociale provengo e se ho una rendita fissa.
L’implicazione sottaciuta è che «è facile per te parlare di ozio». Spiego loro
che non ho, né ho mai avuto, una rendita, e che i soldi che uso per vivere
sono il risultato dei miei sforzi nel mercato del lavoro. Ma è davvero qualcosa
di cui vantarsi? E le idee di qualcuno che ha una rendita privata valgono meno
di quelle degli altri? Dalle classi alte provengono alcune delle più grandi e
rivoluzionarie idee della storia: Lord Byron, Marx ed Engels, William Morris,
Bertrand Russell – tutti ricconi che si atteggiano a bohémien. Il risentimento
altrui («Ah, fai presto a parlare tu»), la sensazione che per tutti gli altri la vita
sia un pochino più facile che per noi, è il primo ostacolo da superare nella
nostra ricerca della libertà.
Pur essendo un nemico dell’oppressione e dello sfruttamento, non sono
affatto a favore della rimozione di ogni barriera di classe. Se lo facessimo
resteremmo con un’orribile meritocrazia di stampo protestante, come quella
che c’è in America, dove, come Tom Wolfe mostra in modo magistrale nel
Falò delle vanità, non c’è scusa per non essere Signori dell’Universo. A dirla
tutta, l’uguaglianza è qualcosa di insensato. Dove tutti sono uguali e hanno
pari opportunità, il fallimento non è giustificabile. Un sistema di classe,
invece, offre una scusa prefabbricata per il fatto di godersi la vita invece di
lavorare; sempre che ci sia davvero bisogno di una scusa. E se non ti piace la
classe cui appartieni, spostati. Un contadino è riuscito a diventare papa.
Appartenere a una classe diversa non vuol dire essere inferiori a qualcun
altro: io sono ben felice di essere in una classe diversa rispetto ad altre
persone, ma non per questo mi sento inferiore rispetto alle classi alte, o
superiore rispetto alla classe operaia.
È straordinariamente facile sfuggire al vostro background sociale,
qualunque esso sia: è sufficiente rifiutare ciò che ci offre il mondo
convenzionale e prefabbricato, e inventarvi un mondo tutto vostro. Così,
incontrerete compagni che la pensano come voi, e sono legati a voi
spiritualmente anziché per diritto di nascita. È inutile lamentarsi della sorte che
vi è toccata. Sì, orribili ingiustizie sono state perpetrate ai vostri danni e ai
danni di quelli come voi, ma per sfuggire alle catene di queste ingiustizie, e
prevenirne la ripetizione, non serve lamentarsi dei torti subiti in passato:
bisogna piuttosto dimostrare superiorità e sforzarsi di vivere bene. La bohème
è una strada praticabile per liberarsi dalle restrizioni imposte dalle proprie
origini: ciascuna classe, a modo suo, può essere considerata limitante rispetto
alle nostre libertà. E nei circoli bohémien si mescolano lord e ladri, ubriachi,
poeti e musicisti, tutta gente che è riuscita a liberarsi dalle catene che ci legano
(se noi glielo permettiamo).
Il problema non è che le persone sono diverse, ma che non rispettano la
differenza. È qui il problema dei governi che promettono di dar vita a una
società senza classi; quello che intendono davvero è una società in cui siamo
tutti uguali: tutti robot, androidi stakanovisti, automi, come Charlie Chaplin in
Tempi moderni. La società che hanno in mente è forgiata su quest’immagine
tetra, grigia, noiosa, pavida.
Le differenze tra le classi aggiungono colore alle nostre vite. Cavalieri,
guerrieri e vescovi hanno lasciato opere stupende in giro per il mondo, per la
nostra delizia: castelli, giardini, cattedrali. I bambini sembrano nutrire una
passione innata per i re e le regine e le storie degli antichi cavalieri. Re Artù
era un aristocratico, non un burocrate sovietico. La monarchia sa anche essere
divertente. Robert Burton, nel suo brillante manuale di auto-aiuto seicentesco,
nonché corposo ammasso di chiacchiere, l’Anatomia della malinconia,
delinea la sua personale visione utopica, nella quale le barriere di classe sono
mantenute per la semplice ragione che rendono la vita più divertente, più
varia e colorata. Burton attacca la Repubblica di Platone definendola
«noiosa»:
La comunità delineata da Platone è per molti versi empia, assurda e ridicola.
Distrugge ogni splendore e magnificenza. Io voglio invece diversi ordini, gradi di
nobiltà ereditaria, che non penalizzino tuttavia i fratelli più giovani, ma anzi
garantiscano loro una pensione, oppure insegnino loro un mestiere, qualche vocazione
onesta, mettendoli così in grado di guadagnarsi da vivere… La mia forma di governo
sarà la monarchia.
SII BOHÉMIEN
Togliti l’orologio
Buttate via le sveglie, scrivevo nel mio libro precedente L’ozio come stile di
vita. Ora vi chiedo di gettare anche i vostri orologi da polso. Per qualche
oscuro motivo, tutti vogliono un orologio di gran marca. Ma non è curioso
che quello che è di fatto un simbolo di schiavitù sia diventato uno status
symbol? Indossare un orologio comunica agli altri che vi siete sottomessi ai
ritmi industriali moderni. Indossare un orologio molto costoso indica che siete
orgogliosi di esservi sottomessi. Si tratta, letteralmente, di un paio di manette
d’oro zecchino. Le sbarre della gabbia sono a ventiquattro carati.
Sappiamo, dalle parole dello storico E.P. Thompson e di Jay Griffiths,
autrice di Pip Pip. A Sideways Look At Time [Uno sguardo obliquo al tempo],
che la moderna concezione del tempo è sorta assieme all’economia di
consumo. Un tempo, prima che qualcuno pensasse a organizzare e
standardizzare le procedure lavorative, nei monasteri era il suono delle
campane a strutturare i ritmi quotidiani della preghiera, dello studio e del
giardinaggio. In seguito, le campane furono usate in tutta l’Europa occidentale
per annunciare le assemblee locali. Quando sentivano la campana, uomini e
donne dovevano posare gli strumenti di lavoro, lasciare i campi e andare in
città per l’assemblea. Presto gli orologi fecero la loro comparsa sul mercato,
allo scopo di imporre una qualche uniformità ai ritmi di lavoro. Ma il tempo
era ancora una realtà locale e pubblica. Non era la stessa ora in tutti i luoghi.
L’orologio di ogni città indicava un’ora diversa, ma ogni membro di quella
comunità condivideva la percezione del tempo. In un certo senso, con
l’orologio pubblico, il tempo diventava libero. Libero nel senso che non
occorreva legarsi un orologio al polso per sapere che ore fossero, dato che ce
n’era uno a disposizione di tutti. Ed era libero perché era riservato alla
comunità.
È anche vero però che, già nel Trecento, possiamo vedere i primi segnali di
quello che Jacques Le Goff chiama «il tempo del mercante», la colonizzazione
del tempo allo scopo di far soldi meglio e più in fretta:
Domanda: può un mercante, in una transazione, richiedere una cifra più alta a chi non
può saldare il conto subito, rispetto a chi può? La risposta è no, perché se lo facesse
venderebbe il tempo, e commetterebbe usura vendendo ciò che non è suo.
L’ammiraglio aveva fatto issare molto in alto il bersaglio, perché, dopo sua maestà il
re Pere e il signore di Maiorca, era il più abile lanciatore fra tutti i cavalieri di
Spagna; e suo cognato Lord Berenguer d’Etenca era altrettanto bravo. Io stesso ho
veduto entrambi effettuare un lancio, ma senza dubbio re Pere e il re di Maiorca sono i
più straordinari che io abbia mai visto mirare al taulat. Entrambi erano soliti lanciare
tre freccette e un’arancia; e l’ultima freccetta era grande come una lancia saracena del
tipo corto; le prime due mancavano sempre il bersaglio, perché per quanto esso fosse
posizionato in alto, le frecce erano scagliate molto più su; la terza invece colpiva la
tavola. Dopo di ciò, l’ammiraglio ordinò che si preparasse un bersaglio tondo; e i suoi
marinai approntarono due navi corazzate, quelle dalla chiglia piatta che si usano per
risalire i fiumi. Sulle barche si svolgevano battaglie a colpi di arance: se n’erano fatte
spedire l’equivalente di oltre cinquanta alberi dal regno di Valencia […]. Le
celebrazioni si protrassero per oltre due settimane, durante le quali non vi fu uomo a
Saragozza che facesse altro se non cantare, giocare o divertirsi.
Pur non essendo esattamente un puritano, Enrico VIII, con il suo saccheggio
dei monasteri e la rottura con Roma, si rivelò molto in sintonia con il nascente
puritanesimo. Tra il 1500 e il 1760, la fazione puritana in Inghilterra – la gente
seria, contraria al divertimento, gran lavoratori, fautori dell’abnegazione,
cancellatori del Natale, pellegrini solitari, distruttori dell’albero della cuccagna,
parlamentari, nemici della gioia e della spontaneità – vide crescere la sua
influenza fino a conquistare l’intera nazione attraverso la Rivoluzione
industriale e la privatizzazione delle terre. Odiavano la pompa magna, lo
sfarzo, l’oro e l’incenso; il fatto dunque che le chiese fossero state spogliate di
ogni decorazione si adattava perfettamente ai loro austeri gusti. E poi l’intero
progetto si ritorse contro di loro, perché il passo logico successivo al
protestantesimo è l’ateismo: chi me lo fa fare di credere in Dio?
Tuttavia, rimase vivo il ricordo del modo di vita comunistico che aveva
preceduto la Riforma; e da quando è iniziata la nuova via, non abbiamo
smesso di ribellarci e di sognare un’alternativa più umana. È affascinante
notare come sia accaduto qualcosa di simile nella civiltà Maya del Messico,
più o meno nello stesso periodo. Secondo l’archeologo J. Eric S. Thompson, i
Maya, proprio come i medievali, credevano che «nessuno deve faticare per
ottenere più della sua equa razione, perché il di più sarebbe ottenuto a spese
del vicino; e per un Maya il prossimo è molto importante». Questa società fu,
naturalmente, distrutta dai conquistadores. Thompson cita il libro Maya di
Chilam Balam di Chumayel: «Prima che venissero tra noi gli uomini potenti e
gli spagnoli non esisteva avidità di guadagno, non si spargeva il sangue
dell’amico, non si aggravava la miseria del povero, non si privava nessuno
del cibo…». Qui ebbe inizio, dice, lo sforzo individuale.
Uno dei primi seri tentativi di protesta contro il nuovo ordine che si stava
affermando in Europa fu quello dei Diggers [scavatori] del 1649, che
coltivavano il terreno pubblico. Il loro leader, John Winstanley, mercante di
grano fallito, sosteneva che tutti dovessero «lavorare insieme e mangiare il
pane insieme». Si ribellavano alle politiche di privatizzazione della terra
promosse dai Tudor, che avevano tolto ai villaggi le terre comuni, costruendo
steccati e riempiendo i campi di pecore. I Diggers, secondo un rapporto del
tribunale, progettavano di:
[…] scavare e arare e zappare la terra, e raccoglierne i frutti […]. Intendono
riportare la Creazione alla sua condizione primigenia. Come Dio aveva promesso di
rendere fertile la terra sterile, così essi si ripromettevano di tornare a godere dei
frutti della terra, distribuendoli ai poveri e ai bisognosi, di dar da mangiare agli
affamati e vestire gli ignudi.
Il braccio destro di Winstanley, John Everard, disse che «il tempo della
salvezza era vicino, e Dio avrebbe condotto il suo popolo alla liberazione da
questa schiavitù, ripristinando la loro libertà di godere i frutti e i benefici della
terra». I Diggers furono all’origine di una delle prime rivolte contro il nuovo
ordine protestante che stava lentamente infettando la vecchia Inghilterra. Le
cose, naturalmente, peggiorarono sensibilmente in seguito agli Enclosure Acts
che si susseguirono a partire dal 1760, il cui scopo era cacciare la popolazione
dalla campagna e forzarne il trasferimento in città, per usarla come
manodopera a basso costo nelle nuove fabbriche. Una popolazione rurale di
grande varietà, che disponeva di molti terreni comuni usati come pascoli e per
raccogliere legna da ardere, fu gradualmente sostituita da un’arida campagna
popolata solo da pecore. Le pecore presero letteralmente il posto degli uomini,
perché rendevano di più; questo processo fu condotto con la massima
brutalità nelle Highlands scozzesi, dove proprietari terrieri ambiziosi
cacciarono i contadini dai loro poderi e li lasciarono a morir di fame,
spingendo molti a tentare il tutto per tutto emigrando in America.
Il Seicento vide anche l’affermazione del movimento anarchico dei Ranters.
Nei Fanatici dell’Apocalisse, Norman Cohn mostra che i Ranters raccolsero
l’eredità spirituale delle sette del Libero Spirito, o Amalriciani, che erano
fiorite in tutta Europa tra l’XI e il XIII secolo. Come quelle sette, i Ranters
sostenevano che il puro di cuore non potesse compiere il male; dunque, anche
se avesse avuto un rapporto carnale con la propria sorella sull’altare di una
chiesa, non avrebbe peccato. I Ranters si opponevano al lavoro: erano
convinti che ogni cosa dovesse essere messa in comune, che le definizioni di
peccato non fossero realtà assolute ma semplici miti, creati dagli uomini per
soggiogarsi a vicenda. Erano gli esistenzialisti dell’epoca, convinti che nulla
avesse valore intrinseco e che ogni significato fosse una creazione dell’uomo.
Il predicatore itinerante Laurence Clarkson (1615-1667) parlò dei Ranters
nella sua biografia (1650). La sua filosofia è relativista all’estremo; sembra di
leggere Nietzsche:
Tutte le cose create da Dio erano buone, quindi nulla era cattivo se non perché
giudicato tale dagli uomini. Compresi che non esistevano il furto, la truffa e la
menzogna se non quando l’uomo le definiva così; perché se gli uomini non avessero
introdotto in questo mondo la proprietà, il Mio e il Tuo, non ci sarebbero stati furto,
truffa né menzogna.
La nazione inglese è pronta a rinunciare alla politica come arma, e a volgersi invece
alla cooperazione industriale basata su princìpi di libertà, anarchia e comunismo […].
Siamo nelle fasi finali di una civiltà corrotta. Un concetto errato della vita, la fiducia
nell’egoismo come legge di condotta necessaria, ha posto fine a ogni nostra possibilità
di percepire con chiarezza la verità spirituale, e ci ha consegnati nelle mani dei più
drammatici errori del materialismo.
* Starbucks è una celebre catena di caffetterie fast-food diffusa negli Stati Uniti e in gran
parte d’Europa. (N.d.T.)
Scappa dai debiti
Oggi, però, l’impulso caritatevole è stato cooptato dalle grandi aziende che
sfruttano i poveri con astrusi progetti di inserimento nel mercato del lavoro.
La beneficenza è una bella cosa, ma i regimi capitalistici spremono la nostra
natura caritatevole. Lavorare per un ente benefico è una buona mossa, oggi,
per chi vuol fare carriera, guadagnare un sacco di soldi e intanto mostrarsi al
mondo come una persona buona. Gli aiuti ai poveri e le misure anti-debiti
costano care: chi paga ha sempre il coltello dalla parte del manico. I Paesi
occidentali cancellano parte del debito dei Paesi africani, ma in cambio
chiedono a quei Paesi di occidentalizzarsi, che di solito significa lasciare che
gli sfruttatori prendano possesso della terra e trasformino un’economia rurale
perfettamente autosufficiente in una urbana, basata sui salari, industriale. Il
giornale satirico «Whitestones» ha scritto una parodia della canzone Feed the
World [Date da mangiare al mondo] del Live Aid, intitolandola Milk the
World [Mungete il mondo]. Il testo dice: «Soldi giù per il tombino, le banche
svizzere traboccano». Oggi, per qualcuno, la beneficenza è solo un modo per
aprire nuovi mercati esteri per le esportazioni. E la beneficenza fatta dalle
istituzioni è in grado di rovinare le piccole imprese locali e la loro varietà. In
Zambia, per esempio, le industrie locali di abbigliamento sono state
completamente distrutte quando dal Regno Unito sono arrivate tonnellate di
abiti di seconda mano a basso prezzo, venduti dai cittadini britannici per
beneficenza.
Il debito sembra ridurci in schiavitù, ma quando vi renderete conto che in
realtà non esiste, sarete liberi: come potete infatti farvi schiavizzare dal
prodotto dell’immaginazione di qualcun altro? Infischiatevene degli usurai,
perché mai dovrebbe importarvene di loro? Andranno comunque all’inferno!
Sogghignate delle loro lettere minacciose, ridete delle loro esili figurine sugli
schermi, sghignazzate pensando alle vite noiose che conducono e alla
dannazione che li attende!
Ecco qui. Credo che la parola «inferiorità» descriva bene i fronzoli del
consumismo. Lavorare sodo per produrre oggetti inutili, e farne l’unico scopo
della vita: è questa la follia del desiderio. Se riuscite a eliminare il desiderio di
possedere quei gingilli, allora, molto semplicemente, non avrete bisogno di
lavorare così sodo; sarete dunque in larga misura più liberi di quanto non
foste prima. Per non dir nulla del grande sfruttamento di esseri umani che
serve a produrre quei fronzoli (che Godwin definisce «limitare moltitudini di
uomini in maniera deplorevole») nelle fabbriche e nei mulini, e ancor oggi nei
nostri supermercati e grandi magazzini. Questo ci dà un’ulteriore spinta a
superare la brama di possesso che indirizziamo verso pezzi di spazzatura di
vario genere, auto migliori o case più belle. Il processo di miglioramento,
invidia e desiderio è oggetto di satira molto ben riuscita in un episodio dei
«Simpson», in cui vediamo Marge intenta a leggere una rivista intitolata «Case
migliori. Della tua». Un trucco semplice per chi cerca la libertà è smettere di
comprare le riviste patinate, che ci fanno sentire male e spendere soldi.
Se riusciamo a tagliare nella categoria che Godwin mette al quarto posto, le
gratificazioni che possono essere acquistate solo a prezzo del duro lavoro, le
nostre vite possono diventare molto più ricche. Le prime tre cose buone sono:
la sussistenza, cioè cibo, acqua e un tetto sulla testa; «il progresso intellettuale
e morale», che per me significa libri e amici (gli amici sono gratis, e i libri si
possono comprare per due soldi o prendere in prestito in biblioteca, o dagli
amici); e le gratificazioni a poco prezzo, che per me significano birra e
tabacco. Quindi, in poche parole: se avete dove vivere, soldi abbastanza per
comprare o produrre buon cibo, amici, libri, alcol e sigarette in quantità,
quanto brutta può mai essere la vita? Sono queste le cose davvero importanti.
Tutto il resto sono decorazioni, distrazioni, vanità, ostentazione. Ma in qualche
modo, la quarta categoria ha preso il sopravvento sulle altre nelle nostre
menti. È ora di smetterla!
Questo atteggiamento antimaterialista è realizzabile con qualsiasi stipendio.
Abbiamo bisogno di fregarcene. Come mi piace la gente che se ne frega,
quegli spiriti liberi, con gli occhi vispi. Non quelli che sono crudeli ed egoisti,
ma quelli che sono semplicemente liberi dalle preoccupazioni, letteralmente s-
pensierati. Ho un amico che guadagna milioni, e un altro che guadagna meno
di cinquemila sterline l’anno, ma hanno molto più in comune tra loro che con
molte altre persone che stanno, diciamo, nel mezzo, appunto perché entrambi
sono lontani dal materialismo. Quando vai a far loro visita ti danno il loro
vestito migliore e svuotano le cantine per te. «Alcuni ripongono la loro fiducia
non in Dio ma nelle vanità» scriveva Tommaso d’Aquino. «E quali sono
queste vanità? Sono beni temporali, ricchezze, onore e cose simili, e in verità
ogni cosa è vana, ogni uomo vivente.» Ma ciò che conta non è possedere quei
beni, quanto piuttosto l’atteggiamento che teniamo nei loro confronti.
Tommaso dice anche chiaramente che l’ascetismo non è necessario per
salvarsi l’anima: «L’astinenza nel bere e nel mangiare non è un fattore
imprescindibile ai fini della salvezza: il regno di Dio non è cibo e bevande
[…]. I santi apostoli comprendevano bene che il regno di Dio non consiste
nel bere e nel mangiare, ma nell’accettazione di entrambi, poiché essi non
sono rallegrati dall’abbondanza, né afflitti dal bisogno».
In altri termini: prendetevela comoda. Ancora una volta, san Tommaso è
molto vicino agli esistenzialisti e ai taoisti. È una filosofia del distacco.
Raccomanda di trattare con la stessa indifferenza sia l’abbondanza sia il
bisogno. Nel mio caso, la mia famiglia e io siamo stati obbligati a rinunciare al
consumismo a causa di una povertà involontaria che si è protratta per due
anni. Prima di allora, guadagnavo un bel po’ di soldi come consulente per
grandi aziende, facendo attività promozionale ed editoriale. All’improvviso, il
mio stipendio si è ridotto a un ottavo della cifra precedente. Ho smesso di
leggere i giornali, ho quasi smesso di guardare la tv e sono andato a vivere
fuori città. Facendo economie e tagliando sulle spese inutili, ci siamo resi
conto di essere meno esposti di prima ai falsi richiami del consumismo.
Smettere di leggere giornali e riviste è stato in parte un modo per spendere
meno, ma ha avuto anche il felice risultato di non esporci a un milione di
tentazioni. La cosa strana è che l’esperienza è stata gratificante e divertente.
Non l’abbiamo vissuto come un sacrificio. Bandire la tv è stata una buona
mossa. È reclamizzata come un servizio, ma in realtà è contemporaneamente
un mezzo per spaventarci, distrarci da noi stessi con l’intrattenimento,
venderci prodotti di cui non abbiamo bisogno e farci credere nel denaro come
una sorta di religione. Guardare la televisione può anche farci sentire inutili:
vediamo gli esperti che fanno le cose anziché farle noi stessi. È molto meglio,
come ha detto Bertrand Russell, fare qualcosa male che guardare un altro farla
bene. I protestanti che attaccavano la superstizione e la magia medievale non
si sarebbero mai sognati un oggetto così magico, così potente e così
destabilizzante come la televisione.
Naturalmente il desiderio, o «la caccia all’oro», esisteva già ben prima che
fosse inventato il capitalismo su larga scala. Nell’Anatomia della malinconia,
Burton racconta di quando Ippocrate trovò Democrito seduto su una pietra,
intento a leggere un libro e a sezionare animali, alla ricerca, diceva, «della
causa della follia e della malinconia»:
Ippocrate ne lodò il lavoro ammirando la sua serenità e il suo modo di trascorrere il
tempo. «E tu – chiese Democrito – perché non lo trovi il tempo?» «Perché – replicò
Ippocrate – me lo impediscono affari domestici, di cui è necessario che ci
occupiamo, per noi, per i vicini, e per gli amici, come questioni di denaro, malattie,
errori e morti che capitano ogni giorno; ci sono inoltre la moglie, i figli, i servi, e
simili affari che ci privano del tempo.» A queste parole Democrito rise a lungo
(mentre i suoi amici e la gente di Abdera stavano a guardare piangendo e lamentando
la sua follia). Ippocrate gli chiese perché rideva. Egli rispose: «Per le vanità e le
frivolezze del nostro tempo, nel vedere gli uomini così lontani da ogni azione virtuosa
andare in cerca dell’oro e non porre nessun limite alla propria ambizione; darsi
infinite pene per una gloria di breve durata e per trovare favore presso gli uomini;
scavare nel terreno miniere tanto profonde per cercare l’oro e molte volte non trovare
niente, perdendo così la vita e le proprie sostanze […]. Essi danno molta importanza
a cose prive di significato, considerando parte integrante del proprio tesoro statue,
quadri e simili beni mobili, comprati a caro prezzo, lavorati con tanta abilità che
manca loro solo la parola, e tuttavia odiano le persone che parlano con loro […].
Quando un cinghiale ha sete, beve quello di cui ha bisogno e non di più, e quando la
sua pancia è piena, smette di mangiare, gli uomini invece sono smodati in entrambe le
cose; come per la sensualità: gli animali desiderano i rapporti sessuali in determinati
momenti, gli uomini sempre, rovinandosi così la salute […]».
Fare grandi progetti per estrarre l’oro dalle miniere e poi non trovare nulla è
una metafora perfetta per descrivere il desiderio e l’attività nella nostra epoca.
Burton suggerisce di «tenere sotto controllo i desideri» come una tappa nel
cammino verso la libertà. Davvero, i pazzi sono schiavi:
Questo è il paradosso di Cicerone, «gli uomini saggi sono liberi, mentre gli stolti
sono schiavi». Libertà è poter vivere secondo le proprie leggi, come noi stessi
vogliamo. Chi ha questa libertà?
Chi è libero?
È saggio colui che può dominare la propria volontà,
che è costante e coraggioso con se stesso,
che non si lascia intimorire né dalla povertà né dalla morte né dai legami
e, giusto e retto, frena i propri desideri e disprezza gli onori.
BUTTA VIA LA TV
* Canto del Beato, canto sacro popolare e amato tra gli induisti. (N.d.T.)
Sfuggi alla morsa della paura
Vivo in una zona piuttosto isolata, vicino al mare. Quando percorro in auto le
strette strade nei dintorni di casa, quindi, mi imbatto in molti turisti. Quando
accosto per lasciarli passare, guardo se mi rivolgono un cenno di
ringraziamento. C’è una cosa che mi colpisce di questi turisti, tutti di mezz’età
o anziani, bianchi e borghesi, ed è la loro paura. Non ti guardano negli occhi,
si aggrappano al volante e fissano un punto della strada di fronte a loro. Non
è maleducazione, è solo che sembrano terrorizzati dal fatto di essere vivi:
troppo impauriti per rivolgermi un sorriso o un cenno della mano. Quando
vanno a fare un picnic, sistemano le sedie di plastica vicino al bagagliaio
dell’auto, perché hanno paura di allontanarsi anche solo di pochi passi dalla
loro coperta di Linus a motore. Nervosi come leprotti, si spostano da una zona
protetta all’altra. Per gli atterriti abitanti della periferia, la campagna è
diventata un fornitore di paesaggi.
Quanto più divertente doveva essere la vita ai tempi in cui si girava a
cavallo, si chiacchierava con gli estranei, ci si affacciava dai cancelli, si
saltavano gli steccati, si cantava con gioia, si era tutt’uno con la natura, i suoi
animali e il suo tempo. Thomas Hardy provava una gran nostalgia per quei
tempi felici, quando l’uomo non era ancora spaventato e sottomesso. Nella
Brughiera, lamentava che lo sguardo preoccupato fosse ormai divenuto la
norma: «La visione della vita, come d’una cosa a cui bisogna rassegnarsi, –
sostituitasi al gusto di vivere, così intenso nelle civiltà primitive – finirà col
permeare di sé così totalmente la struttura delle razze più progredite, che il
riflesso di questa visione sul volto umano dovrà essere accettato come nuovo
punto di partenza per l’arte».
Stare in sella a un cavallo anziché in un’auto dà una sensazione di libertà
quasi palpabile. Le automobili sono bozzoli. E poi – e questo riveste grande
importanza per me – il cavallo offre al suo padrone la possibilità di fingersi
un cavaliere medievale. Anche se ho un aspetto abbastanza ridicolo quando
sono a cavallo, con un casco da ciclista e le galosce di gomma, in sella a un
pony non lontano da un cavallo shire,* riesco lo stesso a immaginarmi nei
panni di un trovatore, Thomas IX de Martinhoe, alla ricerca della sua dama e
pronto per una serata di musica e risate al castello più vicino, buona
compagnia, cigni e gru arrosto, vino speziato e un bel fuoco vivo.
La pubblicità delle automobili mescola il concetto di «eccitante» con quello
di «sicuro»: la libertà on the road e la promessa di un caldo utero materno.
Ma le auto sono uno dei più mortiferi aspetti della vita moderna, responsabili
della morte di 3500 persone all’anno nel solo Regno Unito. Dieci persone al
giorno: molte più di quante ne uccida la droga, il terrorismo, l’Aids o il
crimine. In tutto il mondo, gli incidenti stradali sono la nona causa di morte
(la guerra è al ventunesimo posto, la violenza al diciassettesimo). Le cose a cui
ci aggrappiamo per proteggerci dalla vita sono le stesse che ci uccideranno,
con tutta probabilità. Di recente ho avuto alcuni incidenti e mi sono ritrovato
senza macchina; allora, invece di guidare per cinque miglia fino alla città più
vicina, sono andato a piedi. Che piacere, che divertimento è stato! Molto
meno pericolo, molta più gioia rispetto all’automobile, piena di piccoli terrori.
Oggi ci sembra normale guidare per quattro ore in uno stato di continua
tensione e paura, ma è una cosa folle. Come molti dei problemi di cui parlo in
questo libro, anche la paura fa molto comodo alla società, perché è funzionale
ai suoi ordinati meccanismi. Una popolazione docile, perché terrificata
dall’autorità in tutte le sue forme (supermercato, banca, scuola, capoufficio) e
degli altri esseri umani, sarà più portata a lasciarsi guidare da oggetti e
istituzioni che le offrano sicurezza, solidità e significato. Se avete paura,
difficilmente farete scoppiare una rivolta; probabilmente lavorerete sodo e
spenderete molto. La paura ci spinge a osservare la vita, anziché viverla.
Siamo spettatori, non attori. Preferiamo guardare una soap opera che viverla.
Anzi: quando incontriamo un gruppo di persone vivaci e attive, qualcuno dirà
«Sembra di essere in una soap opera!». Costoro dimenticano che le soap
dovrebbero imitare la vita vera (a parte il dettaglio che nelle soap opera
nessuno guarda mai le soap opera). Come la tv, le auto tengono la vita a
debita distanza, come qualcosa da guardare e non da vivere: la vista dal
divano, lo scorcio di panorama intravisto dal parabrezza.
E a ogni nuova bomba, a ogni titolo a nove colonne sui tassi di criminalità
in ascesa, a ogni sciopero e ogni calamità, direttori e azionisti delle grandi
compagnie di assicurazioni si fregheranno le mani. La paura genera buoni
profitti. Con la paura si controllano le persone. È il timore della punizione che
tiene zitti gli scolari e semplifica il lavoro dell’insegnante. È la paura di essere
licenziati che tiene zitti gli impiegati scontenti. La paura ci aiuta anche a
svolgere il nostro ruolo di consumatori. È la paura che proviamo nei
confronti della nostra stessa vita a farci spendere soldi nei centri commerciali
e a farci digitare il numero della nostra carta di credito su un sito internet. È la
paura a impedirci di fuggire, è la paura che ci impedisce, come lo impediva al
grande capo Bromden in Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey, di
strappar via il pannello di controllo dalla corsia dell’infermiera Ratched,
buttarlo fuori dalla finestra e scavalcare le recinzioni per fuggire nella prateria,
fuggire dentro noi stessi. È molto più facile mettersi in fila con gli altri e
prendere le pillole. Potremmo chiederci da dove provenga la paura: è innata,
oppure è un prodotto culturale? È suscitata in noi da un condizionamento
esterno, oppure esiste qualcosa di naturalmente spaventoso nel cuore
dell’uomo? Tra le fonti di paura c’è senz’altro il sistema educativo. I bambini
piccoli non hanno paura di niente, sono anarchici imperiosi, e servono
quindici anni di duro lavoro da parte degli educatori per inculcare in loro la
docilità, così che non si lamentino troppo quando si ritrovano annoiati dietro
una scrivania. Educare è un po’ come potare: interferisce con lo sviluppo
spontaneo dell’albero, in favore di una forma che torni utile alla società
commerciale. L’educazione di massa nacque quando, verso la fine dell’età
vittoriana, sorse il bisogno di un gran numero di impiegati da collocare nei
settori in espansione come banche e assicurazioni: il mondo abitato da Tony
Hancock nel film The Rebel. Oggi la «Cosa», come la chiamava Cobbett, o il
«Gruppo», come lo definiva Ken Kesey, richiede che noi siamo in grado
perlomeno di digitare il nostro codice pin in una macchina, e per riuscirci
abbiamo bisogno di un livello minimo di alfabetizzazione e abilità aritmetiche.
Quindi ci insegnano a usare una tastiera e un mouse e a far la spesa al
supermercato; ma non ci insegnano a goderci la vita, a viverla con gioia e
senza paura.
L’ostacolo forse più grande alla conquista della libertà è la nostra paura
della libertà. Forse ricorderete quella scena magistrale di Qualcuno volò sul
nido del cuculo in cui McMurphy si rende conto d’un tratto che metà delle
persone ricoverate nel manicomio sono lì per scelta:
«Mi state contando balle!»
Nessuno dice niente. McMurphy va avanti e indietro lungo la panca, passandosi le
dita tra i capelli folti. Arriva fino in fondo alla fila, poi torna indietro all’estremità
opposta, accanto all’apparecchio dei raggi X. L’apparecchio sembra sibilare e
sputargli addosso.
«Tu, Billy… tu devi essere affidato, Cristo santo!»
Billy ci volta le spalle, ha il mento appoggiato sullo schermo nero ed è in punta di
piedi. «No» dice, come se stesse parlando all’apparecchio.
«Ma allora perché? Perché? Sei ancora giovane! Dovresti andartene in giro su una
decappottabile, a caccia di gonnelle. Tutto questo…» sposta di nuovo la mano
circolarmente intorno a sé «… perché sopporti tutto questo?»
Billy non dice niente e McMurphy passa da lui ad altri due pazienti.
«Ditemi perché. Vi lagnate, borbottate per settimane di seguito, dicendo che non
sopportate questo posto, che non sopportate l’infermiera, che non la potete soffrire, e
non siete affidati. Posso capirlo, nel caso di alcuni di quei vecchi in corsia. Sono
matti. Ma voi, non dico che voi siate precisamente persone normali, ma non siete
neppure pazzi.»
I due non gli rispondono. Lui si porta davanti a Sefelt.
«E tu, Sefelt? Tu non hai niente, a parte gli attacchi. Diavolo, avevo uno zio che
veniva preso da convulsioni due volte peggiori delle tue, e per giunta aveva visioni
ispirate dal diavolo ma non per questo andò a rinchiudersi in un manicomio. Potresti
vivere fuori di qui se soltanto avessi il coraggio…»
«Ma certo!» È la voce di Billy, il quale ha voltato le spalle allo schermo e la cui
faccia è striata di lacrime. «Ma certo!» egli torna a urlare. «Se ne avessimo il
coraggio! Io potrei uscire anche ooggi, se avessi coraggio. Mia m-madre è una buona
amica di M miss Ratched, e potrei farmi firmare il m-modulo ed essere dimesso
questo stesso pomeriggio, se avessi coraggio!»
Noi non siamo che tanti Billy Bibbit spaventati, tanti Harding e Sefelt,
rinchiusi, autoincarcerati, sempre pronti a lamentarsi ma troppo impauriti per
fare alcunché. Per dirla con le parole di quei geni musicali dei Suicidal
Tendencies, siamo «Istituzionalizzati», e le istituzioni sono una delle peggiori
invenzioni degli ultimi 250 anni. Lo scemo non vive più nel villaggio; ora è
rinchiuso in un manicomio.
Ci siamo tarpati le ali da soli. Possiamo ancora avere scatti d’ira a scuola,
come John Lennon quando, in Working Class Hero, accusa il sistema
educativo di imbottirci di paure per fare di noi tanti piccoli schiavi che non
hanno il coraggio di guardare al di là del parapetto. Ma in realtà, forse è
proprio per questo che, pur odiando la guerra, ritengo che i soldati siano
uomini di qualità migliore della media. Hanno visto cose orribili, hanno
sofferto, hanno affrontato la paura, e ora possono camminare a testa alta nel
mondo, senza temere la fame e gli stenti. Sono autosufficienti e dotati di
spirito comunitario.
È la nostra innata stupidità a renderci pavidi. Non bastiamo a noi stessi,
quindi ci affidiamo agli altri, dipendiamo da loro, e questo ci terrorizza. È dai
tempi della Riforma protestante che siamo più o meno soli in questo mondo,
che sappiamo di non poterci fidare di nessuno e che dovremmo soffrire in
silenzio. Una situazione ben diversa dalla «fratellanza tra gli uomini» che
regnava prima del Cinquecento, quando eravamo tutti sulla stessa barca.
Dobbiamo anche fare i conti con la relazione tra l’ego e la paura, tra la paura e
l’orgoglio. Non proviamo nemmeno a fare certe cose, per paura di farle male.
Quindi finiamo per non fare nulla. Facciamo come Withnail nel bel film di
Bruce Robinson Shakespeare a colazione: «Non voglio fare il sostituto di
Constantin» grida orgoglioso dalla cabina telefonica rossa al suo agente a
Londra «voglio la parte di primo attore!».
Personalmente preferisco l’idea esistenzialista, rendersi conto che ogni cosa
è assurda, che non c’è una cosa migliore di un’altra in assoluto. La vita è il
nulla, quindi ognuno può e deve costruire la sua vita, e godersela. Tutto è
vanità, finzione, condizionamento, autocreazione, ogni cosa è «forgiata dalla
mente». L’essere e il nulla di Sartre è una lettura difficile, ma ricca di brani
affascinanti e, benché astratta, la filosofia alla base del libro è pratica. Non mi
sembra lontanissima dalla rassegnazione tipica del taoismo, o dal
cristianesimo fatalista di Tommaso d’Aquino, che insegna a credere nella
Provvidenza senza prendersi la briga di sforzarsi oltremodo. Quando
Tommaso cita il versetto biblico «Ogni cosa è vanità», è come se dicesse: «La
vita è assurda». Le corse frenetiche, sudare per ottenere ciò che una volta si
chiamava «onore e ricchezze», e oggi si chiama «avanzamento di carriera»: è
tutto una gran perdita di tempo. La vita terrena è un imbroglio. Vanità vuol
dire assurdità: entrambe mere creazioni della mente umana, del tutto prive di
significato. Molto meglio, allora, crearci da soli la nostra vita. Tutte e tre
queste posizioni filosofiche, d’altronde, sono unite nell’opposizione a ogni
forma di schiavitù, sottomissione e sfruttamento.
Ecco perché, anche se Tolstoj e Gandhi sono convincenti quando parlano di
guerra e nonviolenza, trovo utili le metafore belliche per descrivere la vita.
C’è qualcosa di profondamente nobile nell’antico guerriero senza macchia né
paura, che si batte per un bene più elevato che non salvarsi la pelle.
È per questo che gli antichi portavano come esempio l’otium e il bellum
come sentieri altrettanto nobili, contrapponendoli al sentiero borghese del
lavoro e degli affari, dagli orizzonti assai limitati. Per dirla in modo più
semplice: agli intellettuali e ai guerrieri, agli oratores e ai bellatores,
l’infermiera Ratched non è riuscita a tagliare le palle. Ma intellettuali e
guerrieri sono ormai praticamente estinti, o fungono solo da diversivo.
L’esercito dice che gli si chiede di fare «un lavoro», e si limita a eseguire gli
ordini.
Allora, strappate via il pannello di controllo e scaraventatelo fuori dalla
finestra. Dobbiamo alzare la voce, sorridere, salutare le persone. Diciamo
addio ai brividi di terrore, a quell’orribile sensazione della domenica sera,
l’angoscia che ci assale prima di una riunione, la stretta allo stomaco quando
riceviamo una lettera dall’ufficio delle tasse. Non abbiate paura di loro! I
mittenti di quelle lettere sono coniglietti spauriti, piccoli Billy Bibbit chiusi in
uffici angusti e bui, che guardano fuori dalla finestra, persi in fantasie
erotiche, terrorizzati all’idea di perdere il lavoro. In realtà non esistono!
Stamattina ho ricevuto un mandato di comparizione per guida senza
assicurazione. La mia prima reazione è stata di terrore e indignazione. Poi ho
deciso di riderci su. Sarà un’avventura e, anche se mi ritirano la patente, poco
male. Sto cercando di usare meno l’auto. Ciascuno di noi spende cinquemila
sterline l’anno per mantenere l’automobile, e con quei soldi si comprano un
sacco di biglietti del treno e corse in taxi. Prego, accomodatevi! Appenderò al
muro il mandato, lo mostrerò agli ospiti. Il vostro mandato mi fa ridere! Chi
se ne importa?
Che ne è della paura nella mia utopia pre-cinquecentesca? Be’, le paure che
abbiamo analizzato in questo capitolo erano sconosciute, perché non c’erano
governi né istituzioni analoghe a quelle con cui abbiamo a che fare oggi. A
quei tempi, però, la paura era un elemento centrale della vita, ma era la paura
di Dio, il timore di non essere salvati. Era un timore ben diverso dai terrori
paralizzanti e invalidanti che viviamo oggi. Nel Medioevo, la paura poteva
essere una forza positiva. Per Tommaso d’Aquino era una qualità astratta,
utile alla salvezza: «Colui che non ha paura non può essere salvato […]. Il
timore di Dio è il primo passo verso la saggezza».
Qui san Tommaso presenta la paura come una forza creativa, anziché
distruttiva. La paura non era un motivo sufficiente per sottrarsi alla vita, come
facciamo noi, che cerchiamo conforto nello shopping e nella tv. La paura è
una forma di umiltà. Tommaso sembra dire: riconoscete di aver paura, giocate
con la paura, usatela. Ai tempi della vecchia e lieta Inghilterra, la paura era
qualcosa con cui lottare, occhi brillanti, archi di splendente oro. Non abbiate
paura della paura! Saltate su quel cavallo!
Oggi la politica è solo un modo per elevarsi nel mondo. Gli uomini si
gettano in politica con questo unico scopo, e la loro condotta dipende
interamente da questo.
SAMUEL JOHNSON, CIT. IN BOSWELL, Vita di Samuel Johnson (1775)
Sono un anarchico.
PIERRE-JOSEPH PROUDHON (1848)
[…] anche se l’assenza di governo significasse realmente anarchia nel senso negativo
della parola – e non è assolutamente così – anche allora, il disordine anarchico non
sarebbe peggiore della situazione a cui i governi hanno già condotto i loro popoli, e a
cui li stanno conducendo.
C’è del marcio nel cuore dei governi: ed è la semplice conseguenza del potere
come modo per far carriera. Vi pagano per stare al potere. E poi ci sono i taxi
gratis, le cene nei ristoranti eleganti, e scrivono di voi sui giornali. La politica
è il reality show delle persone noiose. Il fatto che ogni politico tenti di far
carriera, guadagnare di più e salire nella scala gerarchica non dovrebbe
testimoniare dell’assurdità di tutto il sistema? Se invece i cosiddetti
«rappresentanti del popolo» fossero anonimi e non retribuiti, forse ci
fideremmo più facilmente di loro. Non troppi anni fa, in effetti, i parlamentari
non erano retribuiti. A quell’epoca la politica non era così tragicamente
professionalizzata. Questo non esclude, certo, che molti politici abbiano le
migliori intenzioni, ma i benintenzionati possono fare più guai di chi si
trattiene dall’interferire. Senza dubbio, i puritani erano in buona fede quando
proibirono di festeggiare il Natale.
La politica non è l’arte di governare un Paese; è l’arte di persuadere la gente
che per governare il Paese è necessario un gruppo di politici stipendiati. E in
quest’arte oscura, i nostri leader sono abili e capaci. Per restare al potere
devono farci credere di essere i nostri salvatori, e che non potremmo gestire
nulla senza di loro. In altre parole: a loro basta convincerci che siamo stupidi
e bisognosi d’aiuto. Ed è per ottenere questo risultato che lavorano così
duramente. Lo scopo è raggiunto principalmente attraverso una costante
attenzione dei mass media. Ogni giornale, ogni giornale radio, ogni
telegiornale, ogni sito web: tutti pieni di notizie sulla politica di partito. È una
quantità di pubblicità gratis che il pr di un’azienda privata può solo sognare.
Tutti questi comunicati stampa non fanno che venderci l’idea della necessità e
inevitabilità del governo. E lo fanno bene: molti Primi ministri sarebbero
ottimi venditori di auto usate, anzi penso che parecchi di loro potrebbero
vendervi del crack, e intanto convincervi che state facendo del bene
all’economia e alla vostra salute. Le campagne morali come la cosiddetta
«guerra alla droga» sono condotte con l’unico scopo di convincerci che i
politici hanno un qualche senso del bene e del male. La reazione tipica di
fronte all’olocausto è «Mai più». Abbiamo anche un Holocaust Day, un
«giorno della memoria» la cui funzione ufficiale è prevenire il ripetersi di quel
male. Congratulandoci con noi stessi perché non mandiamo più gli ebrei nei
campi di concentramento e nelle camere a gas, evitiamo di fare i conti con la
realtà del fatto che mandiamo altra gente a morire e ridursi in schiavitù in altro
modo, oggi, proprio qui, proprio ora.
E poi c’è il grande spettacolo delle elezioni. Ogni cinque anni circa, il
popolo, più o meno ignorato dai politici fin dalla precedente tornata elettorale,
improvvisamente è bombardato con il messaggio che «votare è molto
importante». In un’assurda sceneggiata, i leader di partito appaiono in
televisione e rispondono a domande poste da esponenti della «gente
normale». Questo programma televisivo, trasmesso per un’ora ogni cinque
anni, dovrebbe servire a convincere lo spettatore che viviamo in una
democrazia. Si distribuiscono volantini, giovani candidati pieni di entusiasmo
(aspiranti politici in carriera) bussano alla nostra porta e promettono che
rimedieranno ai guai combinati dall’attuale governo. I giornali sono pieni di
congetture e resoconti sulla campagna elettorale. Suppongo che per i primi
minuti la cosa possa essere divertente. L’errore è pensare che abbia la minima
importanza per le nostre vite di ogni giorno. L’elezione ci sarà, la febbre calerà
e le cose torneranno com’erano prima; il partito vincitore farà ciò che vuole, e
si giustificherà dicendo di essere stato eletto dal popolo.
Chi crede in questo tipo di democrazia parlamentare ci crede solo quando
vince il partito per cui vota. Se così non fosse, costoro sarebbero soddisfatti
di qualsiasi risultato: perché se davvero pensiamo che il voto di maggioranza
sia quello giusto, dovremmo cambiare schieramento politico a seconda di chi
prende la maggioranza in ogni elezione. Invece, succede che l’elettore dei
conservatori si lamenta quando vincono i laburisti, e resta fedele ai
conservatori. I liberal americani si oppongono a Bush e sono in favore della
democrazia. Ma se ti opponi a Bush, di fatto sei antidemocratico. Non si
rendono conto che la colpa non è tanto di Bush quanto dell’intero sistema. Se
credete nella democrazia, non dovreste lamentarvi quando il partito che ha
preso più voti va al governo.
Lo spirito misero del Parlamento si diffonde sino agli estremi confini del
regno. I burocrati, la triste brigata della Health and Safety, ha tentacoli
ovunque. Di recente ho provato a organizzare un ballo in un edificio pubblico
della mia zona. Niente di complicato, penserete. Invece no. Dopo aver
compilato pile di moduli per la licenza di «Pubblico Intrattenimento», che ci
avrebbe permesso di far ballare ottanta persone con un violino e una
fisarmonica, alla fine mi sono arreso, perché prima di ottenere la licenza
avremmo dovuto spendere 1400 sterline per installare un impianto elettrico
d’emergenza, e tutto ciò per l’Health and Safety. Una grande azienda potrebbe
permettersi di spendere 1400 sterline, ma i nostri risparmi, frutto di tornei di
whist e gare di ballo, non sarebbero bastati. Quindi ho deciso di organizzare
comunque la festa, ma privatamente. Ho spedito inviti a tutti gli abitanti della
zona e a tutti i nostri amici. Il giorno della festa, abbiamo chiesto a tutti un
contributo di cinque sterline per pagare i musicisti, gli Alabama 3 (in versione
acustica) e Louis Eliot. Ognuno ha portato qualcosa da bere. Victoria ha
preparato un enorme prosciutto e abbiamo offerto panini. La festa è iniziata
all’ora del tè, e l’abbiamo chiamata «ballo del tè», così che gli ospiti potessero
portare i bambini. La festa è durata dalle quattro alle otto e mezzo. Tutti hanno
bevuto in abbondanza, la stanza era piena di fumo, abbiamo ballato, e tutti,
fattori, hippie, vicini e amici si sono divertiti molto. Abbiamo anche raccolto
un po’ di soldi, che sono tornati nella cassa comune del villaggio. Avrei potuto
scoraggiarmi e lasciar perdere, e sarebbe stato un diretto risultato della recente
legislazione governativa, che toglie potere alle amministrazioni locali, impone
le stesse regole all’intero Paese e rende molto, molto difficile organizzare una
festa. E la beffa è che paghiamo a questo governo tra un quarto e la metà di
quello che guadagniamo, in cambio del privilegio di essere trattati con
condiscendenza e comandati a bacchetta. Siamo obbligati per legge a spendere
cifre altissime in tasse così che i 650 parlamentari inglesi possano dare sfogo
alla loro vanità e al loro orgoglio sfrenato. Persino il contadino medievale,
proverbialmente sfruttato, non era tenuto a versare alla comunità più del 10
per cento di quel che guadagnava e produceva. Se già quello gli pesava, come
si sarebbe sentito se lo avessero obbligato a pagare il quaranta per cento? E
nei giorni che precedettero l’avvento dell’esercito permanente e del debito
pubblico, non c’era un sistema di tassazione centralizzato. Le decime erano
versate direttamente nella cassa comune locale, anziché essere succhiate da
Londra e sprecate per stipendiare orde di perditempo, salvo poi tornare al
vostro villaggio ridotte a quattro soldi. In passato, le tendenze puritane del
Parlamento erano controbilanciate in parte dalla monarchia, a cui piaceva
divertirsi. Ora, purtroppo, la monarchia ha perso qualsiasi potere, e il vecchio
sistema re-Parlamento è stato rimpiazzato dal governo delle persone noiose, la
tediocrazia. Sono felice quando il principe Carlo si lascia sfuggire un’opinione
un po’ pazza. Si oppone al consenso borghese, e ha il coraggio di esprimere
punti di vista che si discostano dal pensare comune.
Esiste un’alternativa concreta ai governi eletti dal popolo. È quella per cui il
popolo si autogoverna, ovvero gestisce i propri affari senza affidarsi a
un’autorità esterna. L’anarchia, come ho detto, è malvista. Ma in realtà, è un
modo ragionevole e sensato di organizzare la convivenza civile, perché pone
l’accento sull’importanza delle soluzioni a livello locale. Alcuni dei nostri
massimi pensatori, come abbiamo visto, uomini come William Godwin,
Proudhon, Kropotkin, Oscar Wilde, Tolstoj e Gandhi, erano anarchici. Tutti
costoro hanno ben compreso le carenze di un’organizzazione sociale fondata
su un grande governo centrale, e hanno teorizzato alternative basate sulla
libertà individuale e su un sistema federale di autogoverno. Questo ha
funzionato in passato. Dobbiamo incolpare solo la nostra debolezza nel
sottometterci ai governi. Il primo passo è riconoscere che c’è un problema, e
riconoscere, nelle parole di Proudhon, «l’insufficienza del principio di
autorità». L’anarchia è lo spirito creativo che lotta contro lo spirito
sottomesso, e la battaglia deve partire da noi. Dobbiamo riconoscere la nostra
dignità, il nostro potere e la nostra forza creativa, e non permettere che la
pigrizia e il desiderio di comodità ci impediscano di vivere come vogliamo.
Tolstoj la definisce così:
Qualcosa di molto simile è stato realizzato alla fine del Medioevo con il già
citato sistema delle Corporazioni e delle Arti, come hanno mostrato Kropotkin
e altri. Come abbiamo visto, i popoli si sollevarono in tutta Europa, si
liberarono dalla sottomissione ai nobili, crearono associazioni e corporazioni
di mestieri e fondarono le loro città libere. Il XIII secolo vide uno
straordinario movimento popolare, che diede vita in tutto il continente a un
nuovo ideale di libertà; e A.N. Whitehead, filosofo e amico di Bertrand
Russell, nel suo Simbolismo sostiene che questo senso di libertà durò fino al
Seicento:
Per quanto riguarda le libertà individuali, c’era una libertà più diffusa a Londra
nell’anno 1633 […] di quanta ce ne sia oggi in qualsiasi città industriale del mondo. È
impossibile comprendere la storia sociale dei nostri antenati, se dimentichiamo la
rigogliosa libertà che fioriva allora nelle città dell’Inghilterra, delle Fiandre, della
valle del Reno, del Nord Italia. Nel nostro attuale sistema industriale, questo tipo di
libertà si sta perdendo. Questa perdita implica la sparizione di valori infinitamente
preziosi per la vita umana. I diversi usi dei temperamenti individuali non trovano più
soddisfazione in attività serie. Rimangono solo condizioni ferree di impiego e
divertimenti stupidi e volgari.
Il punto è mandare al diavolo i perdigiorno che ci governano e fare tutto ciò che è
fattibile a un livello privato, domestico, casalingo, nelle normali case di città e dei
sobborghi, per contribuire ad abbassare i costi stratosferici dell’energia.
Con l’aiuto del distributismo forse sarà possibile: (1) riprendere il controllo delle
nostre vite dalle mani del grande governo, delle grandi aziende, delle grandi città,
delle grandi scuole e dei grandi network informatici; (2) reimparare come prenderci
cura di noi stessi decentralizzando e umanizzando le nostre vite; e (3) imparare ad
aiutare gli altri a prendersi cura di se stessi così che tutti possiamo diventare meno
dipendenti dalle grandi aziende, dal grande governo, dai grandi mercati.
SMETTI DI VOTARE
Di’ no al senso di colpa e libera il tuo spirito
Nelle nostre teste c’è una specie di libro mastro della coscienza. A ogni piacere
deve corrispondere subito un’abbondante porzione di senso di colpa. Per ogni
atto dello spirito libero che è dentro di noi, lo spirito incatenato ci rimprovera
con il dito alzato e impone una punizione. Quando ci dicono che abbiamo
fatto qualcosa di sbagliato, ci torturiamo con il disprezzo di noi stessi, le
recriminazioni e le promesse di comportarci meglio in futuro. Il senso di
colpa è anche ciò che ci spinge a fare lavori che non ci piacciono. I lettori
dell’«Idler» scrivono per dire che vorrebbero avere più tempo libero dal
lavoro, ma come affrontare il senso di colpa? Star seduti a fare niente, dicono,
li fa sentire colpevoli. Dunque si sentono in dovere di costruirsi un inferno
personale, colpendosi con tridenti e forconi, spronandosi e pungolandosi. Il
senso di colpa non funziona. È un’emozione che non dà forza, ma la toglie. È
negativa, ci trattiene dall’azione. Ho sempre pensato che le risoluzioni dettate
dal senso di colpa fossero straordinariamente inefficaci, per il semplice
motivo che le infrango sempre. E se dobbiamo credere a Nietzsche, il senso di
colpa è la controparte emotiva dei debiti. Quando vi sentite colpevoli, sentite
di dovere qualcosa a qualcuno. E infatti, scrive, la transazione commerciale
può addirittura aver preceduto il sorgere del senso di colpa:
Il sentimento della colpa, della nostra personale obbligazione […] ha avuto […] la sua
origine nel più antico e originario rapporto tra persone che esista, nel rapporto tra
compratore e venditore, creditore e debitore: qui, per la prima volta, si fece innanzi
persona a persona, qui per la prima volta si misurò persona a persona […]. Il
fondamentale concetto morale di colpa (Schuld) ha origine nel concetto del tutto
materiale di debiti (Schulden).
Questa spiegazione dell’origine della colpa suggerisce che non si tratta di uno
stato mentale innato. Inoltre, per Nietzsche, il concetto di colpa emerge
quando tracciamo una distinzione tra intenzione e azione. «Non l’ho fatto
apposta» diciamo. In questo senso, la colpa diventa un’astrazione totale,
perché presuppone che fare e scegliere siano due cose diverse. L’idea di colpa
si basa in ultima analisi sul presupposto che dentro di noi si svolga una lotta
tra due fazioni: nel mio caso, il Tom buono e il Tom cattivo. Il Tom cattivo fa
qualcosa di male, e allora il Tom buono lo fa sentire in colpa. Un bel giorno,
si spera, il Tom buono avrà la meglio sul Tom cattivo. Ma quel giorno non
arriva mai. E la battaglia continua, ma la battaglia indebolisce il nostro spirito,
e questo è uno dei motivi per cui il senso di colpa ci debilita.
È irresponsabile sentirsi in colpa per le azioni compiute in passato, perché
ci spinge a negare la nostra responsabilità per le cose che facciamo oggi.
Quando diciamo «mi sento molto in colpa per questo», vuol dire che
rigettiamo quel lato di noi stessi, qualunque esso sia, che avvertiamo come
responsabile di quell’azione. Di conseguenza, coloro tra noi che soffrono
meno di sensi di colpa – e persone così esistono – sono di fatto le persone più
responsabili: perché se ci si assume la responsabilità delle proprie azioni non
ci si sentirà in colpa per esse. Una conferma del fatto che il senso di colpa non
è innato ma un prodotto della cultura viene dall’esempio dell’infedeltà. Un
uomo che tradisce la sua ragazza potrà sentirsi in colpa. Ma una volta che
abbia lasciato quella ragazza, il senso di colpa svanirà, e anzi l’uomo potrà
provare l’emozione opposta: potrebbe essere contento di sé. È anche ovvio
che i bambini piccoli non avvertono il peso della colpa. La colpa è qualcosa
che impariamo a sentire.
Nelle nostre relazioni sociali intime, così come in quelle con la comunità in
senso lato, le altre persone tentano sempre di far sorgere in noi un senso di
indebitamento. Se vi offrono una cena, siete tenuti a mandare un biglietto di
ringraziamento. Ci scambiamo regali con tutta una serie di regole implicite sul
livello di smancerie in cui il ricevente dovrà profondersi. Ricorrenze come il
Natale diventano una matassa inestricabile di obbligazioni reciproche. Ci
riempiamo così tanto la testa con le cose che dovremmo fare, che rischiamo di
dimenticare le cose che dobbiamo fare. Finiamo così per scrivere lettere
dettate dal puro senso di colpa anziché da un desiderio sincero di esprimere
gratitudine, e questo è senz’altro poco salutare, perché quella lettera diventa il
saldo di un debito e non un’espressione di amore o amicizia. Ci chiedono di
soffrire per i nostri peccati. Nel caso dell’infedeltà, per esempio, la sofferenza
dovrebbe in qualche modo espiare il male compiuto. Strano a dirsi, ma nel
Medioevo al posto del senso di colpa c’erano le multe. I libri contabili delle
case padronali sono pieni di uomini e donne multati per «fornicazione». Ecco
alcuni esempi che provengono da Foxton, nel Cambridgeshire, e risalgono al
Trecento:
Alice Gosse ha fornicato con William Overhawe; multata di 6 scellini.
Asselota, figlia di Alan Asselote, ha fornicato mentre era al servizio dello sceriffo.
Alice Fenner ha fornicato con John Taylor, con il quale non è sposata; si dispone il
sequestro dei beni finché non pagherà la multa.
A quei tempi, anziché soffrire per i propri peccati, bastava pagare una multa
alla cassa comune. Bastava un pagamento per saldare il conto. Allo stesso
modo, gli usurai erano salvati dalla dannazione se prima di morire
restituivano i soldi che avevano estorto. Chiaramente, è accaduto ciò che
diceva Nietzsche: al tributo in denaro per le malefatte si è gradualmente
sostituito un tributo emotivo; le obbligazioni materiali sono antecedenti alla
nascita dei fardelli etici. Ai tempi del cattolicesimo medievale, si pagava la
multa e si andava avanti con la propria vita. Con il puritanesimo invece, il
denaro non era più una ricompensa sufficiente per un atto immorale:
bisognava pagare soffrendo. Né era sufficiente la confessione dei peccati: per
i puritani non era abbastanza. Occorreva diventare una persona migliore. Ora,
invece di ripagare i nostri debiti, siamo costretti, come Christian nel Viaggio
del pellegrino, a portarne sulle spalle il fardello nella nostra eterna ricerca
della perfezione.
Ma Nietzsche insiste: «Domando di nuovo: fino a che punto la sofferenza
può bilanciare i debiti o la colpa?». Che differenza fa? La mia sofferenza non
cambia la vita di nessun altro. È un concetto negativo, non ha alcuno scopo;
non offre un beneficio concreto a nessuno. Come dice Nietzsche, la colpa può
essere sinonimo «del gelido No del disgusto verso la vita» – ed è proprio a
questo che mi fa pensare la campagna del Just Say No.* Facciamo qualcosa di
divertente, e un’altra parte di noi si sente disgustata. Il senso di colpa è un no
rivolto alla vita, e ciò che hanno in comune le persone libere dalla coscienza è
un atteggiamento positivo: afferrare la vita e tenerla stretta, con tutta la sua
stranezza.
Nella maggior parte di noi convivono, ben poco pacificamente, le due
tendenze opposte. Una volta ho chiesto alla mia amica Hannah se aveva
intenzione di andare alla festa di un nostro comune amico, che doveva
svolgersi di lunedì.
«Oh, non lo so proprio» mi ha risposto. «C’è la Regola del Lunedì Sera.»
«La Regola del Lunedì Sera?»
«Sì, dovresti saperlo. La Regola che dice che non si può uscire di lunedì
sera.»
Hannah, sentendosi in colpa per aver ceduto ai piaceri durante il weekend,
si era inventata questa regola come una specie di penitenza per i suoi stravizi.
Si era divisa in due: da un lato lo scaricatore di porto medievale, la Hannah
dedita al «mangia, bevi e sii felice»; dall’altro, la Hannah che lavora sodo e
rinuncia ai piaceri.
Il senso di colpa è un’invenzione dell’uomo. Scegliamo di permettere a noi
stessi di sentirci in colpa; la colpa è l’esito di una scelta. E a volte capita di
fingere sensi di colpa, con un amico o un nemico, per evitare che ci accusino
di disinteresse o indifferenza. Esprimere la colpa sembra la cosa giusta da
fare. «Mi sento molto in colpa per non essere venuto alla tua festa» possiamo
dire. Qui la colpa è resa esplicita. E la risposta che ci auguriamo, molto
spesso, arriverà in modo automatico: «Oh, non preoccuparti, nessun
problema». Il nostro senso di colpa è servito a pagare il debito. Quindi ora
siamo autorizzati a non sentirci più in colpa. La colpa è anche un modo che
usiamo per comunicare agli altri che siamo persone coscienziose. «Mi sento
molto in colpa per essermi ubriacato ieri sera» diciamo, anche se in realtà non
ci sentiamo in colpa nemmeno un po’, o perlomeno potremmo scegliere di
non sentirci in colpa. Quando qualcuno mi dice «ieri sera ho bevuto troppo»,
rispondo sempre: «Io ho bevuto esattamente la giusta quantità».
Alcune persone sono libere dai sensi di colpa. Sono rare, ma esistono, e
quello che hanno in comune è un approccio nietzscheano, un dire sì alla vita,
e il fatto di non avere una coscienza, il che li rende in grado di fare
esattamente ciò che vogliono. Il mio amico, il compianto Gavin Hills, non era
afflitto da sensi di colpa e non si sentiva mai in debito con gli altri. Questo
non significava però che si comportasse in modo immorale o sconsiderato.
Anzi, era un gentiluomo modello quando si trattava di far del bene (non nel
senso che fosse un ficcanaso, ma perché faceva accadere cose buone). Si
prendeva cura delle persone in difficoltà, di chi aveva smarrito la strada, ma
di loro non parlava mai: i suoi amici lo scoprirono solo dopo la sua morte.
Anche l’attore Keith Allen, spirito libero e amante dei piaceri, è privo di sensi
di colpa: fa ciò che vuole, e quindi non ha mai patito il risentimento. Gavin e
Keith sono tutt’altro che irresponsabili: esemplificano anche un atteggiamento
di responsabilità radicale, nel loro rifiuto di sottomettersi al senso di colpa,
perché da un certo punto di vista il senso di colpa è una scappatoia. C’è qui
qualcosa di meravigliosamente eroico e liberatorio, nel rifiuto della colpa.
Come scriveva Hazlitt a proposito del grande libertino e poeta John Wilmot,
conte di Rochester, «il suo disprezzo per tutto ciò che gli altri rispettano sfiora
il sublime». Semplicemente, Wilmot rifiutava la saggezza convenzionale e la
realtà borghese.
Questo modo di vivere, liberi dai lacci della coscienza, ha una lunga
tradizione. Nell’antica Grecia e a Roma ne troviamo molti esempi, e poi c’è il
caso delle strane sette eretiche europee che si ribellavano contro i sensi di
colpa e la buona coscienza perché li vedevano come un mezzo di controllo e
non come impulsi innati. Era il caso, per esempio, dei Sufi, come ricorda
Norman Cohn nel suo I fanatici dell’Apocalisse (1957):
Intorno alla fine del XII secolo, in diverse città spagnole tra cui Siviglia, fu attiva la
fratellanza mistica dei Musulmani. Queste persone, allora conosciute con il nome di
Sufi, erano «santi mendicanti» che vagabondavano in gruppo per le strade e le piazze,
con gli abiti ricoperti di pezze multicolore. I novizi erano educati all’umiltà e
all’abnegazione: dovevano vestirsi di stracci, tenere gli occhi fissi a terra, mangiare
cibo rivoltante; ed erano tenuti all’obbedienza cieca nei riguardi dei capi. Ma una
volta terminato il periodo di noviziato, questi Sufi entravano in un regno di totale
libertà. Rifiutavano i libri e le sottigliezze teologiche, per godere invece di una
conoscenza diretta di Dio. Si sentivano legati all’essenza divina in un’unione intima. E
questo li liberava da ogni vincolo. Ogni impulso era vissuto come un comando divino;
ora potevano circondarsi di beni materiali, ora potevano vivere nel lusso – e potevano
mentire e rubare e fornicare senza scrupoli di coscienza. Perché dal momento che
l’anima era interamente pregna di Dio, gli atti esterni non avevano importanza.
Una splendida filosofia, che permette di abbracciare il piacere dei sensi pur
essendone liberi. Un approccio analogo, amorale e anarchico, era quello
adottato dal mistico amalriciano Enrico Suso di Colonia, che nel 1330
trascrisse una conversazione avuta una domenica pomeriggio con
un’immagine incorporea:
Suso: Da dove provieni?
Immagine: Da nessun luogo.
Suso: Dimmi, che cosa sei?
Immagine: Io non sono.
Suso: Cosa desideri?
Immagine: Non ho desideri.
Suso: Questo è un miracolo! Dimmi, qual è il tuo nome?
Immagine: Mi chiamano Furia senza nome.
Suso: Dove conduce la tua sapienza?
Immagine: Alla libertà sfrenata.
Suso: Dimmi, cosa intendi con libertà sfrenata?
Immagine: Quando un uomo dà sfogo a tutti i suoi capricci senza distinguere tra sé e
Dio, e senza guardare indietro né avanti.
In questo contesto, il senso di colpa può essere visto come una catena forgiata
dalla mente, perché tende a prevenire il comportamento capriccioso. La colpa,
dunque, è dalla parte dell’autorità anziché da quella della libertà. È il padrone
che risiede in noi. Sentirsi in colpa significa anche evitare il presente: significa
pentirsi di azioni passate per spronarsi ad agire meglio in futuro. Il governo
adduce la stessa ragione per la propria esistenza: se non ci fosse il governo, i
nostri cosiddetti impulsi naturali non troverebbero resistenza, e il mondo
precipiterebbe nell’anarchia, nei bagni di sangue e nei saccheggi. Quindi il
senso di colpa sarebbe una sorta di «governo della mente», come lo definisce
lo sceneggiatore Bruce Robinson.
La risposta? Abbassate le pretese! Rilassatevi! Divertitevi! Accettate il
disordine! Una delle eredità più pesanti del puritanesimo è il perfezionismo. I
cattolici, nonostante la corruzione e il lassismo morale, erano meno severi con
se stessi. Il puritano vuole adeguarsi a standard troppo alti, e poi si detesta
perché non arriva a raggiungerli. Ma se abbassate le pretese e siete meno
esigenti, darete a voi stessi meno occasioni di sentirvi in colpa. Più sono alti i
vostri standard morali, più è atroce il senso di colpa. Rimuovete gli standard
morali e diventerete liberi.
DI’ DI SÌ
Rendiamo divina la fatica, come diceva George Herbert. Ciò che ci serve è
poesia nel lavoro domestico, una forma nuova, la «pastorale domestica»,
qualcosa che dia valore alle faccende quotidiane. Abbiamo bisogno di canzoni
rock che ne esaltino le virtù: Do the Dirty Dish [Lava i piatti sporchi] dei
Cramps, oppure I’ve just found the Soch I was looking for [Ho appena
trovato il calzino che stavo cercando] degli U2. Lanciamo la moda del lavare
i piatti. Con il mio amico Nick Lezard sto progettando un articolo sugli stili di
vita. Abbiamo inventato una nuova categoria demografica, i «Dobo», che sta
per Domesticated Bohemian, ossia «bohémien pantofolaio». Il Dobo ha avuto
una vita movimentata, ma ora si è fatto una famiglia. A volte però si
abbandona a una notte di edonismo. La sua natura selvaggia è ancora nascosta
in lui (o lei). Di qui il bisogno di una letteratura specifica che celebri la vita di
casa.
Un curioso paradosso è che, per quanto possa sembrare strano, è possibile
trovare la felicità nel servizio: cioè nell’aiutare il prossimo. Chi è più libero,
l’uomo con un milione di sterline e tre persone al suo servizio, o il suo
servitore? Wooster o Jeeves?* Gandhi perseguiva l’ideale del servizio alla
comunità, ma in diverse fasi della sua vita si avvalse dell’aiuto della servitù.
Sembra che ad alcune persone piaccia fare i servitori. George Harrison ha
detto una volta che Mal Evans, il collaboratore che seguiva i Beatles nelle
tournée, incarnava l’ideale orientale della libertà attraverso il servizio. Trovava
se stesso nell’aiuto che dava agli altri.
Se a tutti noi insegnassero a prenderci cura di noi stessi, sosteneva
Lawrence, potremmo disporre di una cultura più variegata. Ciascuno potrebbe
lavorare, vestirsi, mangiare e dormire nel modo che più gli si addice, anziché
nel modo che torna comodo al modello di regolarità industriale: «Oh, se solo
la gente potesse imparare a fare ciò che vuole e ad avere ciò che gli piace,
invece di aspirare scioccamente a fare ciò che piace a tutti e ad avere l’aspetto
che tutti vorrebbero avere». Dobbiamo rifiutare l’uniformità puritana. Cucite
cuori sulle vostre maniche, legate nastri alle vostre caviglie!
Amate voi stessi e inizierete a comportarvi con originalità, vale a dire con
autenticità e con uno stile personale. Se avete un giardino tutto vostro, per
esempio, potete coltivare le piante che volete. Allora perché ci copiamo tutti a
vicenda, e perché tutti i giardini di periferia sono identici? Ecco cosa scrive la
formidabile Violet Purton Biddle nel suo Small Gardens and How to Make
the Most of Them [I piccoli giardini, e come trarne il meglio] del 1911.
Sostituite «giardiniere dilettante» con «essere umano» e «giardino» con «vita»,
e le parole della signora Biddle vi sembreranno sagge:
«Siate originali!» è un motto che ogni giardiniere dilettante dovrebbe fare suo. La
maggior parte delle persone che hanno un giardino fanno ben pochi esperimenti.
Procedono lungo strade già battute, senza riflettere sulle straordinarie opportunità che
perdono. Ogni giardino, per quanto piccolo, dovrebbe possedere una sua individualità:
qualche caratteristica che lo salvi dalla banalità.
Come in giardino, anche nella vita in senso lato noi tutti abbiamo paura di
sperimentare. Ma la parola «esperimento» è molto utile. Invece di fare una
cosa sul serio, diciamo che stiamo «sperimentando». «I Beatles erano
drogati?» chiedevo ai miei genitori da ragazzino. «Be’» rispondevano loro
«sperimentavano le droghe.» Ma al di là della valenza eufemistica di questa
parola, è divertente trasformare le nostre vite in una serie di esperimenti. Se
l’esperimento fallisce, non importa: se ne fa un altro. Quando ci siamo
trasferiti in campagna, avevamo intenzione di fermarci solo per qualche mese.
Era un «esperimento». Ora che siamo qui da quattro anni, stiamo ancora
«sperimentando». In un mondo nel quale ci si chiede in continuazione di
«prendere un impegno», è liberatorio concedersi un po’ di dilettantismo. Non
prendetevi impegni. Provate tutto.
Nel giardinaggio, come nelle faccende domestiche, la cosa migliore è fare il
più possibile da soli. Per noi è facile, perché abbiamo un giardino piccolo,
eppure anche quello a volte ci sembra un peso. Ma imparare a conoscere i
fiori, le piante, il terriccio, e prendersene cura, piantarli, mangiarli: la vita
offre ben poche attività così piacevoli, utili e gratificanti. Quando ero giovane
non avvertivo il fascino del giardinaggio, dal momento che mi interessavo
soltanto all’alcol. Ora però capisco che tutti quei gentiluomini di mezza età e
quelle signore anziane si divertivano davvero quando lavoravano in giardino,
mentre io li ritenevo persone noiose. La mia vita è migliorata enormemente,
perché ora mi interesso di giardinaggio e di alcol: due piaceri, dove prima ce
n’era uno solo. E i due si sposano molto bene: non c’è niente come una bella
birra dopo due ore con la vanga in mano, e non c’è niente come due ore
passate a zappare dopo una nottata di stravizi. Fa meraviglie per i postumi
della sbornia. Anzi, un lettore dell’«Idler» ci ha scritto che beve apposta più
del dovuto, solo per il piacere di farsi passare il mal di testa estirpando
erbacce la mattina dopo.
Il modello di vita borghese, che prescrive di assumere degli «aiuti», come
sono eufemisticamente chiamati i servitori, è un modello difettoso. Quello che
vi serve non è aiuto pagato, ma aiuto non pagato. Nel 1900, quindici persone
vivevano nella fattoria isolata in cui vivo io ora. La coppia aveva dieci
bambini, e c’erano «uomini della casa» che mangiavano e vivevano con la
famiglia finché non si sposavano. È evidente che in molte case del Settecento
i servi erano trattati bene e il rispetto era reciproco. Il dottor Samuel Johnson,
per esempio, nella sua casa di Gough Court, aveva cinque o sei servitori
residenti. Il suo «servo» Francis Barber, di cui è ancora oggi appeso in casa
Johnson un ritratto eseguito da Joshua Reynolds, fuggì per mare, e Johnson
pagò perché fosse affrancato. Spesso i servi ereditavano una rendita annuale
alla morte dei loro padroni. William Cobbett parla della perdita dell’antico
rispetto tra padrone e servo; in Rural Rides scrive che ci si prendeva cura dei
braccianti e che tutti, padroni e servi, mangiavano assieme, seduti allo stesso
tavolo. La nozione vittoriana di «stanze per la servitù», le scale di servizio, la
segregazione tra il piano di sopra e il piano di sotto, non erano ancora state
inventate. Addirittura, nei tempi antichi, gli schiavi erano spesso parte della
famiglia; e naturalmente avevano la possibilità di diventare uomini liberi.
Prima dello scoppio della Grande guerra, nella tenuta di St Germans in
Cornovaglia vivevano 128 persone, che da quella terra traevano il
sostentamento. Ora ce ne sono due o tre. Le residenze più sontuose erano
gestite come una sorta di comune, in cui tutti i membri si dividevano il lavoro
e i frutti.
Forse non possiamo più tornare indietro a quel genere di rapporto tra servi
e padroni. È anzi meglio toglierci dalla mente quel dualismo rigido. Aiuto
senza gerarchia: questo dovrebbe essere lo scopo. E aiutarsi l’un l’altro. Non
c’è dubbio che essere in tanti alleggerisca il carico di lavoro. Quando
facciamo i grandi pranzi domenicali, ciascuno dà una mano a preparare il
cibo, oppure porta un’insalata, o il pane. Ognuno dà un contributo al servizio
in tavola e al lavaggio dei piatti. Cerchiamo anche di invitare spesso gli amici
a fermarsi qui, perché quando si è in tanti in casa, si fatica meno. Anzi, in
queste circostanze il lavoro può essere molto piacevole. Diventa divertente,
quando puoi chiacchierare mentre lavori.
Un problema del lavoro domestico è che la televisione, promotrice di
perfezione inattingibile, ci presenta uno standard assoluto; mentre le
condizioni in cui si trovano le nostre case dovrebbero essere materia di
giudizio individuale. Io stesso ammetto di aver tentato di adeguarmi a qualche
«standard» di pulizia assoluto e assurdo, che certamente non può esistere, per
quante volte mia madre possa ripetermi che invece esiste eccome. Mi dico che
è perché non sopporto il caos, perché mi sembra che il caos crei più lavoro.
Se tutti ripulissimo una cosa per volta dopo averla usata, avremmo molto più
tempo libero. Una risposta possibile sarebbe, naturalmente, un abbassamento
generale degli standard; o piuttosto, eliminare la nozione stessa di standard (e
qui mia madre non sarebbe d’accordo). Di recente, nel Regno Unito, abbiamo
dovuto patire l’obbrobrio di un programma televisivo (con relativi libri)
intitolato Quanto è pulita la tua casa? Due matriarche fasciste girano per il
Paese istillando nella gente atroci sensi di colpa per indurla a pulire.
Come in molte aree della vita, anche in questo caso sono convinto che i
vittoriani siano la radice dei nostri mali di oggi. Fu in quell’epoca buia e
razionale che prese forma l’equiparazione tra pulizia e moralità. Le persone
buone hanno case pulite, le persone cattive vivono nella sporcizia. Ma non c’è
nulla di moralmente buono nella pulizia e nulla di immorale nel suo opposto.
Anzi, abbiamo l’esempio dei «santi sporchi», che consideravano le abluzioni
una forma di vanità; e a quanto ne so i Cavalieri Templari non si cambiavano
mai le mutande, per analoghi motivi spirituali. Oggi, peraltro, si è giunti a
considerare controproducente da un punto di vista ecologico l’eccesso di
ordine negli ambienti naturali. Nel giardinaggio organico e nella Permacultura,
il giardiniere è incoraggiato a lasciare incolte alcune zone, per creare l’habitat
giusto per la fauna selvatica, e perché la natura faccia il suo corso. Nella sua
History of the Countryside [Storia della campagna], lo studioso Oliver
Rackham deplora ciò che lui definisce «la mano vandalica dell’ordine»:
quell’istinto provinciale di mettere tutto in ordine. «Ogni anno» scrive, questo
irrefrenabile desiderio di pulizia «distrugge un po’ di bellezza o di significato.»
Descrive il processo di messa in ordine come «la serie di piccoli atti vandalici
inconsci che odiano ciò che è intricato e imprevedibile, ma non creano nulla».
Rackham ama piuttosto le vecchie siepi troppo cresciute. Nel libro parla della
Legge di Hooper, secondo cui si può stabilire l’età di una siepe moltiplicando
per cento il numero di specie diverse presenti in un’area di trenta iarde.
Dunque, per esempio: la caotica e gloriosa siepe del mio orto contiene pruno
selvatico, sambuco, biancospino e agrifoglio, dunque risale circa al 1600.
L’ossessione per il bianco non aiuta. Perché, mi domando, i vestiti per
bambini sono così bianchi? Alla prima macchiolina li mettiamo in lavatrice.
L’idea che tutto debba essere candido genera un bel po’ di fatica inutile. Non
sarebbe meglio usare stoffa marrone, che assorba o addirittura nasconda lo
sporco? Anche i mobili da cucina bianchi hanno bisogno di essere puliti in
continuazione, mentre il legno assorbe le macchie e nasconde i segni. Il legno
scuro è molto più semplice da mantenere pulito rispetto alla plastica bianca.
Pulisco raramente la nostra credenza in legno di pino, mentre la nostra cucina
Ikea sembra avere costantemente bisogno di uno strofinaccio. Il legno assorbe
lo sporco, ma lo sporco resta sulla plastica bianca finché non vi decidete a
fare qualcosa. Anche le lenzuola devono essere immacolate. È come se
fingessimo di vivere in una dimora vittoriana con nove servitori, ma facendo
da soli tutto il lavoro. Non c’è da stupirsi che ogni donna e molti uomini siano
perennemente sfiniti dalle faccende domestiche. Tutto questo bisogno di
pulire genera quantità immani di lavoro, e si porta via del tempo che potrebbe
essere impiegato in modo più fruttuoso, per guardare fuori dalla finestra o per
estirpare le erbacce tra i cavoli.
L’epoca vittoriana è responsabile anche dell’invenzione delle temibili
lampadine, che spargono la loro luce severa e impietosa sul nostro disordine e
sulla nostra sporcizia. Come dovevano essere diverse le cose in età georgiana,
quando c’erano le candele. Lo sporco non si vedeva, e quindi c’era meno da
pulire. Gli abiti bianchi non erano così diffusi: ergo, meno bucato. Quella
delle lenzuola profumate di lavanda e fresche di bucato ogni giorno è
un’invenzione vittoriana, che serviva a esibire la propria ricchezza attraverso il
numero di persone di servizio adibite al lavaggio della biancheria. Lo stesso
vale per gli enormi prati rasati: queste aree verdi, piatte e aride non esistevano
prima del Settecento, così come non esistevano i campi da tennis e da croquet.
Tutto era un po’ più selvaggio, e questo significava meno fatica. Le case erano
più profumate, perché si usava la lavanda al posto della candeggina.
A pensarci bene, il problema della pulizia può essere ricondotto a un
problema di luce. Se volete una casa più pulita, basta che spegniate le luci e
accendiate una candela. La luce elettrica è il vero nemico. Dobbiamo opporci
al faro freddo e violento del razionalismo edisoniano, e abbracciare invece la
luce calda, tremolante, aggraziata, indulgente e irrazionale della candela. A
lume di candela, non c’è bisogno di tenere tutto pulito, perché lo sporco non
si vede. L’idea che tutti dobbiamo aderire a uno standard condiviso è
tirannica. Fatevi degli standard personali. Fate ciò che volete. Prendetevi cura
di voi stessi. Di questo problema bisogna parlare in termini diversi. Il mio
consiglio è: smettiamola di chiamarle «faccende domestiche» e diciamo
piuttosto «cura della casa». Vuol dire che ci prendiamo cura della nostra casa
perché vogliamo farlo, anziché lavorare per puro senso del dovere nei
confronti di un’autorità astratta che ci punta il dito contro. Vi lascio con un
proverbio dell’«Idler»: invece di lamentarti del disordine, accendi una candela
e non lo vedrai più.
* Bertram Wooster e il suo valletto Jeeves sono personaggi di una celebre serie di racconti
di P.G. Wodehouse. Nel mondo anglosassone, «Jeeves» è diventato il maggiordomo per
antonomasia. (N.d.T.)
Bando alla solitudine
Tutta la società inglese a partire dal secolo XVII è solcata dalla scissione tra la
«squirearchia», esponente della «lieta vecchia Inghilterra» e i circoli puritani, col loro
potere sociale molto variabile. Ancora oggi nell’immagine del «carattere nazionale»
inglese coesistono i due tratti: un gusto della vita ingenuo e imperturbabile, e un
dominio di sé severamente controllato, che si esprime in un grande riserbo, ed è legato
a un’etica convenzionale.
Per trovare una guida che ci orienti sul terreno malagevole della malinconia, o
depressione, o atra bile, dobbiamo rivolgerci a quell’esperto di fama
mondiale, rinomato studioso e intelletto sottile che fu Robert Burton.
L’Anatomia della malinconia, il più allegro e confortante dei libri, uscì nel
1621. Boswell riferisce che il malinconico Samuel Johnson lo definì «l’unico
libro che mai fosse riuscito nell’impresa di farlo alzare dal letto due ore prima
di quando progettava di alzarsi». All’epoca fu uno straordinario bestseller,
ripubblicato in almeno otto edizioni, con le quali, com’è indicato sulla mia
copia, «il libraio si comprò un podere». Gettate via gli antidepressivi e
comprate questo libro.
Le dimensioni del suo successo non devono sorprendere, perché quel
successo arrivò in un periodo orribile della storia. La lieta Inghilterra era
morta, o stava morendo. Il libro di Burton, 780 pagine della più deliziosa
sofferenza, fortunatamente scritto in un’epoca in cui il «disturbo bipolare» si
chiamava ancora «malinconia», fu pubblicato grossomodo a metà tra la
riforma di Enrico VIII e la Rivoluzione industriale: due disastri colossali per
chi ama la vita e la libertà. Gli antichi valori medievali erano ancora diffusi,
ma stava iniziando l’era dell’ansia, del puritanesimo, dell’individualismo e
dell’avidità. La lieta Inghilterra era messa sotto tiro dalle nuove classi medie
puritane. Un aumento demografico aveva condotto a un’esplosione della
povertà. I Tudor usavano la mano pesante contro i mendicanti e gli oziosi, i
suonatori ambulanti e i musici di strada. Thomas Cranmer* aveva bandito gli
antichi festival religiosi. Si metteva in dubbio il diritto di far festa alla
domenica. Ogni divertimento era risucchiato dalla vita del Paese. È dunque
plausibile supporre che ci fossero più persone malinconiche nel 1624 che non
per esempio nel Quattrocento, quando di un libro simile non ci sarebbe stato
alcun bisogno. Il libro di Burton è anche quasi coevo dell’Amleto, lo studio
shakespeariano dell’isolamento, e del Dottor Faustus, in cui Marlowe studia
l’ambizione. Fu scritto, inoltre, durante la grande espansione dei poteri del
governo che ebbe luogo nel Cinque-Seicento.
Il libro di Burton è costituito in gran parte da migliaia di citazioni sul tema
della malinconia, tratte da fonti classiche (per questo motivo è stato
tradizionalmente saccheggiato da scrittori che volevano darsi delle arie usando
citazioni latine). Questa circostanza può indurre a pensare che anche gli
antichi greci e i romani soffrissero di malinconia, il che non mi sorprende,
dato che essi, e soprattutto i romani, vivevano in un’oligarchia avida,
guerrafondaia, basata sullo sfruttamento: un po’ come l’America e la Gran
Bretagna di oggi. Ad alcuni romani forse la situazione non dispiaceva, ma su
vasta scala essa condusse alla rovina la grande massa dei cittadini e degli
schiavi. Può anche essere vero che, al di là dei fattori esterni, la malinconia sia
un semplice dato di fatto della vita. Infatti, scrive Burton, riflettendo sulle
cause della malinconia, sembra che essa sia stata una maledizione gettata
sull’uomo fin dal giorno del peccato originale. Sembra quindi che Burton
dica: la malinconia è solo sfortuna, fatevene una ragione. La malinconia è
parte di ciò che ci rende umani, ed è parte della condizione umana dal giorno
in cui Dio ci condannò a zappare la terra e filare la lana, anziché oziare nel
giardino dell’Eden:
La disobbedienza dell’uomo, il suo orgoglio, l’ambizione, l’intemperanza,
l’incredulità, la curiosità; da cui provenne il peccato originale, e quella generale
corruzione del genere umano, come da una fontana scorsero tutte le cattive
inclinazioni e le trasgressioni concrete che sono alla radice delle tante calamità a noi
inflitte per i nostri peccati […]. La malinconia, dunque, è una punizione per il male
compiuto, come scrive san Paolo nell’Epistola ai Romani, 2,9: «Tribolazione e
angoscia per ogni uomo che opera il male».
Quindi non c’è via d’uscita. Anche il saggio, il fortunato, il prospero, dice
Burton, soffrono di malinconia:
Da queste disposizioni malinconiche nessun uomo è libero: nessuno è così stoico, così
saggio, così felice, così paziente, così generoso, così caro agli dèi, così divino da
potersi difendere; nessuno così placido da non doverne prima o poi patire le
conseguenze. […] Q. Metello, che Catullo definisce colmo di ogni felicità, «l’uomo
più fortunato che allora vivesse nella rigogliosa città di Roma, di nobili natali, un
uomo d’aspetto nobile, colto, in salute, ricco, onorato, un senatore, un console, felice
con sua moglie, lieto dei suoi figli» eccetera: eppure quest’uomo non era immune alla
malinconia, e anche lui aveva il suo carico di dolori […] per ogni pinta di miele qui
troverete un gallone di bile, per ogni oncia di piacere una libbra di dolore, per ogni
pollice di gioia una iarda di pianto: come l’edera fa con le querce, così queste miserie
avvolgono tutta la nostra vita.
Oggi, la buona compagnia, l’allegria e la birra non sono più usate come
metodi di cura. La malinconia è nelle mani dei professionisti, ridotta a merce,
industrializzata. È stata trasformata in una «indisposizione» da curarsi con
costosi prodotti chimici. Ed ecco a voi la nuova top five: Prozac, Zoloft, Paxil,
Wellbutrin ed Effexor, tutti nomi che suonano come galassie lontane in un
episodio di Star Trek. Roba di un altro mondo: manna dal cielo, e certamente
priva di ogni fascino e di ogni piacere, sterile, antisettica, freddamente
razionale, a-romantica. Queste pillole portano enormi profitti nelle tasche di
chi le vende, le grandi multinazionali farmaceutiche. La depressione è un
business enorme. Nel 2000, le vendite di antidepressivi dietro presentazione di
ricetta medica hanno superato i dieci miliardi di dollari nei soli Stati Uniti, e
questa cifra aumenta esponenzialmente ogni anno. Si stima che nel Regno
Unito una persona su 25 sia in cura con antidepressivi, oltre al mercato
emergente, ovvero sessantamila bambini. È un’industria in forte crescita.
Investi anche tu nella depressione! Fai soldi sulla sofferenza altrui! Dollari dal
dolore! Tutte ottime notizie, se siete un dirigente o un azionista di qualche
colosso farmaceutico; ma significano un conto salatissimo per il servizio
sanitario nazionale di Sua Maestà, e per quei cittadini statunitensi che
dispongono di un’assicurazione sanitaria privata (assicurazione che, a sua
volta, contribuisce a far restare le persone in impieghi che detestano). Ma poi,
queste medicine servono davvero a qualcosa? Uno studio recente ha persino
collegato l’uso degli antidepressivi all’incidenza dei suicidi, e così tante
persone ne fanno uso nel Regno Unito che i princìpi attivi di quei medicinali
sono penetrati nelle riserve idriche attraverso i nostri escrementi e la nostra
urina, aumentando il numero delle persone potenzialmente dipendenti da
queste sostanze.
Altre medicine sono vendute con l’etichetta di «ansiolitici», nel senso che
dovrebbero aiutarci a combattere il panico. A nessuno, chissà perché, viene
mai in mente che la colpa della depressione possa non essere della persona
depressa, quanto piuttosto delle aspettative imposte da questa società
ipercompetitiva, meritocratica, basata sul denaro, senza più Dio. Sì, voi siete
depressi, ma è colpa del mondo, non è colpa vostra. Quindi non cercate di
cambiare voi stessi per adattarvi a un mondo che non vi aiuta: piuttosto,
cambiate il vostro mondo.
Un mio amico che «soffre» di «depressione» è John Moore. Nel suo caso,
la diagnosi del medico è stata «disturbo bipolare», ma io trovo molto più
elegante, rispettoso, nobile e piacevole il nome di «malinconia». In un mio
libro precedente, ho descritto John come «l’uomo più pigro del mondo».
Quello che non ho detto, però, è che John ha un temperamento atrabiliare
cronico. La sua bile è nera. Quando la sua ormai ex moglie tentava di farlo
alzare dal letto la mattina, lui rispondeva: «Mi alzerò da questo letto quando ci
sarà un buon motivo per farlo». Come dice Burton: «È opinione comune che
a un uomo melanconico il sonno non basti mai […]. Nulla li fa soffrire di più,
o fa peggiorare la malattia più rapidamente, del risveglio». Sì, be’, gli oziosi lo
sanno bene: Victoria mi rimprovera ogni giorno perché sono scontroso
appena alzato.
John è in terapia con antidepressivi da più di quattro anni. Dice che ha
iniziato a prenderli perché spinto dagli altri; la sua malinconia lo rendeva
inadatto a lavorare nel mondo:
Credo di aver iniziato a prenderli perché gli altri vedessero che li prendevo, dal
momento che mi dicevano che la mia depressione era inaccettabile. Dovevo
dimostrare che stavo facendo qualcosa per diventare come tutti gli altri, che guardano
la tv. Bisogna essere in terapia farmacologica per vedere i reality show.
Vorrei smettere di prenderli, ma ormai ho sviluppato una dipendenza fisica. Quindi
dovrei smettere di colpo, ma è difficile trovare il tempo per farlo quando si è così
presi dal lavoro. Il medico mi ha detto che non è necessario smettere, che ci sono
persone che continuano ad assumerli per tutta la vita…
Vedi le cose in modo molto più chiaro. È come andare a pesca: ti immergi sotto il pelo
dell’acqua e riporti indietro cose molto utili. Keats, Byron o Shelley non sarebbero
mai esistiti, se avessero assunto il Prozac. La società ha bisogno dei maniaci-depressi,
ha bisogno di speleologi, che portino alla luce i tesori sepolti, e sappiano ripulirli e
levigarli, trasformandoli in oggetti belli e scintillanti.
1
No, no, non precipitarti verso il Lete; non trarre vino velenoso
Dall’aconito, torcendo le sue salde radici, no
Non lasciare che la tua pallida fronte sia baciata
Dal rosso grappolo di Proserpina, la belladonna;
No, il tuo rosario non fare con le bacche del tasso,
Né la tua lamentosa Psiche siano lo scarabeo,
O la falena della morte; non condividere
Col gufo piumato i misteri del tuo dolore,
Ché troppo assonnata l’ombra verrà all’ombra
Ad annegare la vigile angoscia dell’animo.
2
Ma quando dal cielo improvviso l’attacco cadrà
Di melanconia, come una nuvola in pianto
Che tutti i fiori nutre dal languido capo
E il verde colle nasconde in un sudario d’aprile,
Sazia allora il tuo dolore con una rosa mattutina,
Sazialo con l’arcobaleno dell’onda salata di sabbia
O con la ricchezza delle tonde peonie –
E quando mostri la tua amante una ricca ira,
La sua dolce mano imprigiona; lasciala delirare
Mentre tu ti nutri e ti sazi dai suoi occhi senza pari.
3
Sì, abita con la bellezza, lei – con la bellezza che deve morire;
E con la Gioia, che sempre una mano tiene sulle labbra
Per augurare addio: e vicino al Piacere, che fa soffrire,
E si tramuta in veleno mentre come un’ape succhia la bocca;
Sì, nel tempio stesso del Diletto
Ha il suo santuario sovrano la velata Melanconia,
Anche se nessuno la scorge se non quello la cui strenua lingua
Schiaccia il grappolo della Gioia sul palato da intenditore:
Assaggerà allora l’anima sua la tristezza di quel potere
Che rimanere la farà sospesa tra i suoi nebulosi trofei.
Signore, non mi sono mai lagnato del mondo; né credo di aver motivo
per lamentarmi. C’è da meravigliarsi che io abbia così tanto.
BOSWELL, Vita di Johnson (1781)
Leggendo L’essere e il nulla di Sartre mi sono reso conto, con mia grande
sorpresa, che la filosofia esistenzialista può essere di grande utilità pratica per
le nostre vite. A prima vista, il libro sembra terribilmente astratto e tecnico,
pieno com’è di sottili distinzioni tra essere-per-sé ed essere-per-gli-altri, tra
fatticità ed essenza. Ma al cuore del progetto c’è un appello semplice, che ci
chiama ad assumerci la responsabilità delle nostre vite, e a riconoscere che
siamo noi a scegliere come reagire alle situazioni e che, se lo vogliamo,
possiamo scegliere di essere liberi. Se al cuore dell’uomo c’è il nulla –
opinione condivisa anche da Tommaso d’Aquino – allora spetta a noi creare
significati. Nella nostra pigrizia, ci convinciamo che il solo significato a nostra
disposizione sia quello che, per puro caso, è dominante nella società: i miti
che abbiamo ricevuto in eredità, la struttura borghese. Ma basta gettare lo
sguardo sulla storia e sulle altre culture in giro per il mondo, per persuaderci
che il modo in cui facciamo le cose nell’Occidente industrializzato è solo uno
di un numero infinito di modi.
Non posso lamentarmi, per esempio (anche se lo faccio) del fatto di essere
sfruttato in quanto autore di questo libro. Nell’offrire queste parole a una
grande azienda, ho accettato di ricevere il dieci per cento del prezzo di
copertina, e accetto che altre persone si spartiscano il restante 90 per cento.
Questa cifra sarà divisa tra un certo numero di profittatori, ansiosi di far soldi
con le mie parole: l’editore, il distributore e il libraio. Potrei lamentarmi di
tutto ciò, ma dal momento che ho scelto io di entrare in questo sistema, non
ha senso che ora io mi lamenti. Potrei invece decidere di assumermi la
responsabilità totale per il mio libro, e quindi scegliere di pubblicarlo in
proprio. Potrei girare il Paese in macchina, visitando tutte le librerie, e
convincerle a ordinarne qualche copia.
Lamentarsi vuol dire sottrarsi alle proprie responsabilità. E c’è gente che ci
guadagna su: gli avvocati, per dirne una. Nelle cause di divorzio, gli avvocati
incoraggiano ciascuno dei coniugi a incolpare l’altro per tutti i problemi che
hanno condotto alla rottura della relazione. Gli avvocati sono bravissimi a
togliere la responsabilità dalle spalle del querelante, dicendo al loro cliente che
lui non ha nessuna colpa e che la parte avversa è chiaramente pazza. Questo
genere di cose dà dipendenza: «Gli avvocati sono come l’eroina» dice il mio
amico Bill Drummond, e nella mia esperienza è verissimo. Ti fanno sentire
bene, vorresti dosi sempre maggiori di ciò che ti offrono, e sono molto, molto
costosi.
A mio figlio Arthur dico che non deve per forza andare a scuola se non gli
va. Ci sono altri modi di educarlo e crescerlo. Se va a scuola è perché ha
deciso di andarci. Un soldato ha scelto di accettare che possano chiamarlo per
andare in guerra, e dunque ha accettato la possibilità di morire o restare ferito.
E comunque, tutti ci lamentiamo lo stesso. Io mi lagno in continuazione,
per esempio, delle tasse e della burocrazia. Certo, lamentarsi può essere
divertente. Il mio amico Murphy obietta: «Ma a me piace lamentarmi!». Be’,
ma allora, benissimo. Se vi piace, allora vi prendete la responsabilità delle
vostre lamentele, e le riconoscete come tali, e non come una risposta obiettiva
e razionale alla realtà che vi circonda.
Abbiamo tutto il diritto di scandalizzarci per lo sfruttamento, la brutalità, il
dominio. Possiamo lamentarcene. Ma dobbiamo anche essere consapevoli
della nostra complicità nel creare questa situazione. Se vi lamentate del vostro
lavoro, allora dovreste licenziarvi e inventarvi un lavoro su misura per voi.
Di recente ho scoperto una cosa sconcertante sulle donne. Sembra che
quando si lamentano non siano in cerca di soluzioni. Vogliono solo
lamentarsi, e pretendono che i loro mariti le commiserino, le consolino,
condividano il loro dolore. L’ultima cosa che le donne vogliono è ciò che i
mariti danno loro di solito, ovvero consigli. Non vogliono sentirsi dire di
«iscriversi a un corso» o di «trovarsi un lavoro». Vogliono solo lamentarsi. Al
maschio, che per sua natura è più diretto, tutto ciò sembra una follia. Ma
tant’è. E forse, dopotutto, è bene riconoscere che lamentarsi è in un certo
senso piacevole, perché celebra l’atto di lamentarsi. Victoria dice che il mio
equivalente della lamentela è la parolaccia. Imprecando riesco a sfogarmi, e
poi torno tranquillo come prima.
La soluzione è tenere per voi alcune delle vostre lamentele, e
semplicemente rimpiazzare le cose che odiate con quelle che amate. Quindi,
invece di andare al supermercato, ora ho un orto, invito gli amici, leggo libri,
ho un cavallo e sono circondato da persone che io stesso ho scelto. Evitate la
spazzatura, ignoratela. Sì, il mondo fa schifo ed è pieno di prodotti della
peggior qualità immaginabile. Quindi ignorateli, e createvi un mondo di
prodotti di alta qualità.
Se ho un conto in banca, non posso lamentarmi se mi obbligano a pagare
gli interessi; ma è ovvio che, essendo una banca, cercherà di succhiarmi più
soldi possibile. È una banca: è la sua natura. Potrei decidere di non avere più
un conto né una carta di credito.
Una delle cose per cui mi lagno più spesso sono le stazioni di servizio.
Quando visito questi postacci zeppi di spazzatura a caro prezzo, mi assale un
senso di snobismo nei confronti del mio prossimo. Poveri babbei, mi dico,
che si fanno gabbare così. Poi però mi rendo conto che anch’io mi sto
facendo gabbare, e quindi chi mi dà il diritto di sentirmi superiore agli altri?
«Chi diavolo è tutta questa gente?» ci lagniamo quando restiamo bloccati in
un ingorgo. Be’, siamo noi. Non possiamo separare noi stessi dagli altri. Le
volte in cui, invece, ho scelto di essere di buonumore, mi accomodo su un
autobus che attraversa Oxford Street e mi godo fino in fondo la varietà di vita
che mi circonda.
Lamentarsi, forse, è il primo passo. Ma ci sono molti modi di lamentarsi.
C’è la lamentela che serve soltanto a incolpare qualcun altro e sottrarsi alle
proprie responsabilità, e poi c’è la lamentela responsabile, o lamentela
positiva, potremmo chiamarla. Come dice Penny Rimbaud: «Le nostre vite
sono precipuamente e intrinsecamente nostre. È una responsabilità che pochi
sembrano disposti ad accollarsi». Se lamentandoci giungiamo ad accettare la
nostra responsabilità, allora la lamentela può tradursi in un atto positivo, un
passo nella direzione giusta.
Negli ultimi anni, nel Regno Unito si è diffuso un nuovo modo di dire, una
piccola locuzione che compare con regolarità nelle conversazioni, e che non
avevo mai sentito fino a tre o quattro anni fa. All’inizio suona blandamente
positiva, ma, riflettendoci meglio, mi sembra che mostri una celebrazione
esistenziale, della vita in sé. L’espressione è: «It’s all good», cioè: «Va tutto
bene». Generalmente è usata subito dopo che ci si è lamentati per qualcosa.
Quindi, brontolo per dieci minuti buoni con un amico, e poi concludo: «Oh
be’, ma in fondo, va tutto bene». Vuol dire: fa tutto parte della vita, e chi sono
io per dire che una cosa è migliore di un’altra? Dove sta scritto che Firenze è
meglio di Swindon? Uno dei grandi vantaggi del mestiere di scrittore è che
quando succede qualcosa di brutto posso sempre dire: «Oh be’, almeno ho
qualcosa di cui scrivere». E perciò quando, qualche tempo fa, sono dovuto
andare in tribunale per quella faccenda della guida senza assicurazione, ho
deciso di guadagnare il più possibile da questa esperienza, anziché
lagnarmene. Celebrate il male, celebrate il bene, perché alla fin fine
potrebbero essere la stessa cosa. Ah, a proposito, mi hanno assolto.
RINGRAZIA LA SORTE
Liberati dal mutuo e diventa un allegro vagabondo
[…] nell’Alto Medioevo, i poveri erano legati in modo piuttosto stretto alla terra.
Prima della metà del Cinquecento, avevano ancora giardini e orti da cui trarre il cibo
[…] allevavano bestiame nelle terre comuni; e arrotondavano i guadagni con lavori
saltuari e a domicilio. Nei periodi difficili, senza dubbio erano aiutati dai parenti, dai
vicini, dagli amici.
Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento questo sistema iniziò a
essere smantellato. Dice Beir: «Il sistema dell’agricoltura in campi aperti passò
da un sistema comunitario a uno individualistico». Nel Cinquecento, dice, i
nuovi proprietari terrieri alzarono i canoni di affitto e imposero nuove tasse, e
«nel 1600 al popolo inglese era ormai stata sottratta la principale risorsa del
Paese». Il Medioevo vide una diffusione della proprietà o della locazione delle
terre di tipo quasi comunistico. A Chippenham, per esempio, la percentuale di
proprietari di casa che non possedevano terra salì dal 3,5 per cento del 1279 al
32 per cento nel 1544, fino al 63 per cento nel 1712. Strappato dalla terra, il
povero contadino «non faceva più parte di un’economia vassallatica».
Prima del 1600, il contadino medio non se la passava per niente male. Era
più libero di quanto generalmente si pensi. Viveva esattamente come oggi
vorrebbero vivere gli operatori di borsa: una grande casa in campagna, con
cavalli, animali e terre. Solo che il contadino, per mantenersi, non doveva
correre in città a faticare alle sette del mattino di ogni giorno feriale: gli
bastava lavorare uno o due giorni la settimana sulla terra padronale. Ogni
contadino che affittava un pezzo di terra contraeva un accordo con la casa
padronale. Ecco due esempi, risalenti al Ducecento, tratti da Rowland Parker:
Thomas Vaccarius gestisce nove acri di terra con una casa, ed è tenuto a cento giorni
di lavoro all’anno, ad arare un acro e a espletare servizio di trasporto ove richiesto.
Riceverà una gallina, falcerà e accatasterà. I suoi servigi sono ripagati con dieci
scellini l’anno, e paga una pigione di tre pence.
John Aubrey gestisce diciotto acri di terra con una casa, ed è tenuto a cinquantadue
giorni di lavoro l’anno; deve arare due giorni, più altri due in occasione della
mietitura; deve falciare il prato per due giorni, trasportare il fieno, riparare il tetto
della casa padronale, vangare i campi d’avena insieme ai suoi compagni, e riceverà
una gallina e sedici uova. I suoi servigi sono ripagati con nove scellini e otto pence, e
paga una pigione di due scellini e sei pence.
Per l’affitto dei suoi 9 acri, Thomas Vaccarius spendeva una percentuale
minima dei suoi guadagni. Lavorava due giorni la settimana. John Aubrey
deteneva 18 acri di terra e doveva lavorare solo un giorno alla settimana, e
che, alle percentuali di oggi, gli renderebbe 30.000 sterline l’anno (a fronte di
un affitto pari a 7.000 sterline, una cifra modesta per un appezzamento così
vasto). Per i restanti cinque-sei giorni alla settimana, Thomas e John
lavoravano nei loro campi e praticavano una o più attività di artigianato, con
cui arrotondavano i guadagni.
E poi arrivò il vile attacco di Enrico VIII e dei puritani contro il vecchio
modo di vivere. Il mutuo, che sposta tutto l’onere dell’acquisto di una casa
sulle spalle di un solo individuo, è la logica conseguenza
dell’individualizzazione della proprietà privata. Ma la realtà è che quando ci
hanno venduto l’idea che tutti dovremmo possedere le case in cui viviamo, ci
siamo lasciati abbindolare dagli usurai.
Dobbiamo far diffondere il possesso della terra, proibire i mutui a tassi
d’usura, calmierare gli affitti e far scendere i prezzi delle case. Forse per fare
tutto ciò basterebbe perdere interesse nel guadagno. E i proprietari terrieri
devono reinventarsi come bonari mecenati, del tutto disinteressati al profitto.
Un buon ruolo per i ricchi sarebbe quello di concedere a noi tutti i loro
immobili, con affitti bassi. E noi dobbiamo smetterla di volere case sempre
più grandi. Uno degli aspetti più affascinanti della Permacultura è che mostra
come trarre il meglio da ciò che abbiamo e goderci il luogo in cui siamo,
anziché attribuire i nostri problemi alla scarsità di spazio, soldi, tempo.
Finché non arriverà quel giorno felice, dovreste prendere in considerazione
gli squat, le case occupate. L’occupazione abusiva è una scelta assolutamente
logica per chi insegue la libertà. Gli squatters non fanno che occupare edifici
abbandonati e viverci. La cosa può funzionare alla perfezione. Un gruppo di
miei amici ha vissuto in una casa abusiva per oltre cinque anni. Pian piano
hanno ristrutturato l’edificio, man mano che imparavano le basi della
carpenteria. Non pagavano affitto né rate del mutuo, il che toglieva loro una
delle principali motivazioni per dedicarsi a lavori sgraditi, e dunque
assicurava loro un alto livello di libertà. Il grande collettivo artistico Mutoid
Waste Company trasformò lo squatting in una forma d’arte negli anni Ottanta
e Novanta. Vivevano in case occupate in giro per Londra, poi a Berlino e in
tutta Europa. Si trasferivano in un grande magazzino, dove trascorrevano le
giornate realizzando fantastiche sculture con gli avanzi del cibo, e le nottate a
ballare e divertirsi; erano davvero la reincarnazione dei trovatori medievali.
Come san Francesco d’Assisi, rifiutavano il denaro, per poi viaggiare intorno
al mondo come pazzi e saltimbanchi.
Un’altra opzione realistica è vivere in una comune. Prendete qualche amico
e andate a vivere tutti insieme in una casa. Potreste anche comprare casa
insieme e dividere il mutuo. O unirvi a una comune già esistente. Secondo
Diggers and Dreamers, un libro che elenca gli esperimenti di vita comune
attualmente in corso nel Regno Unito, ci sono almeno 2500 persone che
vivono così, in almeno 100 comunità. Non ho dubbi che la cifra reale sia
molto più alta, perché molte comunità più informali non saranno incluse nella
lista. Trovate quattro villette a schiera in fila e buttate giù le pareti divisorie,
come i Beatles in Help!.
Molti di noi hanno condiviso appartamenti con gli amici, negli anni
dell’università; ed è un sistema che funziona, a parte la sporcizia che regna in
una casa abitata da quattro giovani adulti irresponsabili e incapaci. Quando
poi cresciamo, ci convinciamo che un appartamento tutto per noi, magari da
dividere con il partner, sia uno dei vantaggi della schiavitù retribuita, e
scappare dalla coabitazione studentesca diventa una questione di status
sociale. Ma pensate a quanto vivrebbero bene insieme dei giovani adulti,
ormai in grado di mandare avanti una casa.
Oggi, Dial House nell’Essex ci offre un esempio vivente di tutto ciò. È un
cottage con cinque camere da letto e un acro di terra, e negli anni ci hanno
vissuto fino a venti persone contemporaneamente, benché al momento siano
solo in tre. Il loro caso dimostra cosa si può ottenere con le persone anziché
con i soldi: la casa ha ottime finiture e uno splendido giardino. Gli abitanti
hanno costruito dei capanni e stanze in più nei giardini. È uno schema
efficace, ed è sorprendente che non sia stato adottato da più persone.
Dopotutto, è un’idea molto semplice: un gruppo di amici che condividono la
casa. L’edificio è oggi di proprietà di un consorzio, che l’ha comprato quando
era minacciato dai promotori immobiliari.
L’idea alla base della casa dei Crass era un approccio «aperto»: in altre
parole, si offriva ospitalità e accoglienza a chiunque. In questo senso è
l’equivalente laico di un monastero medievale, luogo di pace e rifugio, ma
anche un ambiente di lavoro stimolante: cucinare, fare il pane, coltivare, fare
cose. Penny Rimbaud è un prete laico, e l’altro artista e coinquilino Gee
Vaucher è la madre superiora. L’ultimo progetto di Penny è una capanna di
legno con un campanile e vetrate istoriate. Stranamente simile a una cappella.
Ma soprattutto, molto simile alla Fratellanza dello Spirito Libero, quei
bohémien trecenteschi che vivevano in gruppo in quelle che chiamavano Case
della povertà volontaria.
Penny Rimbaud auspicava la formazione di una rete di case simili in tutto il
Paese, tutte a meno di una giornata di cammino l’una dall’altra. Credo che
sempre più persone dovrebbero seguire il suo esempio e aprire le loro case ai
viaggiatori.
Un’altra opzione sarebbe comprare una casa molto a buon mercato, e molto
isolata. Potete sempre dormire a casa di amici, quando siete in città. Poi avrete
un piccolo mutuo, o costruirete da soli la vostra casa. Mi risulta che le case di
mattoni col tetto di paglia stiano tornando molto in voga. Compratevi un
ettaro di terra e costruiteci una casetta. Poi ingranditela, anno dopo anno.
Diventate architetti. Dividete le spese con gli amici. L’altra domanda da porvi
è: avete proprio bisogno di una casa così grande? Conosco molti londinesi di
successo che, spinti dal desiderio di una bella casa in campagna, si sono
caricati sulle spalle un mutuo colossale, che li ha resi letteralmente schiavi del
loro impiego. Pur guadagnando quello che a noi sembrerebbe uno stipendio
principesco, si sentono oppressi dal debito e quindi ricorrono a ogni sorta di
strategia machiavellica per tenersi stretto il lavoro o per ottenere una
promozione. Sono perennemente in preda all’ansia. Ma a che serve la bella
casa? Di certo significa forti spese. Più è grande la casa, più lavoro c’è da fare.
Più pulizie, più mobili, più spese, più fatica, più seccature.
Ancora una volta, consiglio di dare un’occhiata alla rivista «Permaculture»,
ricchissima di esempi di persone che si sono ritagliate stili di vita a basso
costo, a volte costruendosi da soli la casa, nel folto di una foresta. Un
problema che incontrano spesso è quello delle leggi sull’urbanistica. Per
qualche oscura ragione, come ho già detto, gli uffici preposti non hanno
nessun problema a concedere i permessi per costruire i dispendiosi
supermercati che affollano le nostre città; ma se chiedete il permesso di
costruire una capanna nel bosco, scoprirete che è praticamente impossibile. È
evidente che le autorità non sopportano chi vuole essere libero.
Un’altra alternativa è il vagabondaggio. Liberatevi dal mutuo e andate in
strada. Nel Medioevo, come abbiamo visto, il vagabondaggio era socialmente
accettabile, soprattutto grazie all’esempio offerto da san Francesco e dai frati
mendicanti. Sembra che Gesù non abbia mai dovuto combattere con le rate
mensili del mutuo: era un vagabondo, viveva dell’ospitalità altrui. In India,
oggi, abbiamo l’esempio dei sadhus, i santoni pazzi che arrivano in un
villaggio, approfittano per qualche giorno dell’ospitalità e della mensa altrui, e
poi ripartono. Gli indiani non si sognano neppure di iscrivere i sadhus
all’ufficio di collocamento. Non li sdegnano in quanto senzatetto, né si
sforzano di reinserirli nella società «normale». Così dovrebbe accadere
quando la Mutoid Waste Company arriva in città: dovremmo accoglierli a
braccia aperte, non cercare di trovar loro un impiego.
Il problema del vagabondaggio è che i governi non lo sopportano. Odiano
il caos, gli elementi di disobbedienza, l’idea che ci sia gente che se ne va in
giro per il Paese a fare ciò che gli pare. Più i governi acquistano potere, più
aumenta il loro risentimento nei confronti dei vagabondi, e più usano la mano
pesante contro di loro. I vagabondi furono lasciati in pace, o addirittura
incoraggiati, per novecento anni; ma poi, i governi centralizzati, ordinati e
autoritari del periodo Tudor introdussero una serie di leggi contro il
vagabondaggio. Era diventato un problema, e per due ragioni: la prima è che,
dopo la Riforma protestante e gli Enclosure Acts, migliaia di persone avevano
perso il lavoro a causa di un processo che oggi chiameremmo privatizzazione.
Il vecchio sistema collettivo era sotto attacco. Quindi c’erano più mendicanti.
In secondo luogo, di quei mendicanti non si prendevano più cura i monasteri
e le grandi case aristocratiche. Da un lato, i monasteri erano stati requisiti dai
nuovi arricchiti avidi; dall’altro, la tradizione cattolica dell’ospitalità era messa
in forse dal nuovo individualismo protestante.
La nuova etica del lavoro non riuscì inoltre a comprendere il ruolo del
vagabondo nella società. Nel 1565, il ministro Sir Thomas Smith scriveva:
«Non avendo rendita o reddito sufficienti per mantenersi, vive in modo così
ozioso, è messo sotto accusa, a volte mandato in prigione, a volte altrimenti
punito in quanto vagabondo recidivo: tale è l’odio del nostro governo per
l’ozio». Quando le prigioni furono piene di questi vagabondi recidivi, le
autorità decisero di mandarli nelle nuove piantagioni in Giamaica, dove
sarebbero stati a contratto per sette anni. Si narra che li trattassero peggio degli
schiavi, perché era nell’interesse degli schiavisti che gli schiavi fossero ben
nutriti e ragionevolmente sereni, dovendo essi continuare a lavorare per tutta
la vita. Gli esuli a contratto, invece, dopo sette anni se ne sarebbero andati, e
quindi non c’era interesse a tenerli in salute; o in vita, se è per questo.
Le case di correzione erano l’equivalente elisabettiano dei campi di lavoro o
di concentramento nazisti: una legge del 1576 stabilì che «i giovani possono
essere abituati e addestrati alla fatica e al lavoro»; e i bambini pigri dai cinque
ai quattordici anni erano messi alla gogna o frustati. Altre categorie di uomini
guardate con disprezzo dalle autorità erano «venditori ambulanti e stagnini,
soldati e marinai, intrattenitori, studenti, guaritori senza licenza, indovini,
maghi». Gli zingari e gli irlandesi erano trattati alla stessa stregua dei
vagabondi, e una legge del 1572 ricacciava gli irlandesi nel loro Paese,
accusandoli di «papismo» e ribellione. È sempre la solita storia: il pugno di
ferro del governo contro l’ozio.
Ma la domanda forse più importante è: cosa intendiamo con la parola
«casa»? È possibile che il vagabondo senza tetto si senta più «a casa» del
banchiere vincolato al suo mutuo. Investire tempo e soldi nei mutui e nella
«casa dei sogni» non sarà mai altro che un diversivo rispetto al vero
problema, che siete voi e il vostro stato d’animo. Il mutuo è lo sfruttamento
economico del nostro desiderio di casa. Troverete ciò che state cercando
quando smetterete di cercare.
Ma la risposta definitiva alle preoccupazioni sul mutuo è semplice: non
preoccuparsi. È tutta una finzione. Non lasciatevi deprimere dal debito. Chi se
ne importa del debito? Vi ritroverete mai senza casa e senza niente da
mangiare? Improbabile. Quindi, quanto mai può andar storto? La Cosa ama
vedervi indebitati. Gli affaristi della City, che possiedono il vostro debito,
amano il vostro debito. Non vi stanno facendo un favore, per quanto il loro
materiale promozionale cerchi di farvelo credere. Vi stanno sfruttando. Gli
usurai fanno affari e si divertono da matti. Per amor del cielo, non lasciate che
vi facciano sentire in colpa. Sono loro quelli che dovrebbero sentirsi in colpa,
perché sono peccatori, condannati alle fiamme eterne! Evviva!
Dolore vuol dire profitto: in una società più onesta della nostra, sarebbe
questo lo slogan dei colossi farmaceutici. Perché questa è la semplice e nuda
verità: più dolore sentite, più pillole ingurgiterete; e più pillole ingurgitate, più
sale il valore di mercato delle azioni di quell’azienda. E più dolore c’è nel
mondo, più sarà alto il profitto. Il passo logicamente conseguente, dunque, è
di creare il dolore: di provocare sofferenza, depressione, disturbi bipolari allo
scopo di venderne il rimedio. Le nuove malattie creano nuovi mercati. E in un
certo senso, accade proprio questo. Siamo oppressi da impieghi noiosi,
monitor che sbraitano, desideri impossibili. C’è una splendida installazione di
Damien Hirst intitolata Looking Forward to the Total and Absolute
Suppression of Pain [Auspicando la totale e assoluta soppressione del
dolore], in cui quattro monitor trasmettono simultaneamente, e a volume
assordante, altrettanti diversi spot pubblicitari di analgesici per il mal di testa.
Le soluzioni proposte per il dolore sono esattamente ciò che ci provoca quel
dolore. Il sistema che ci fa soffrire promette di liberarci dalla sofferenza.
L’obiettivo, che non si raggiunge mai, di una soppressione totale del dolore
è un obiettivo molto redditizio. Il presidente di una delle maggiori aziende
farmaceutiche inglesi riceve un salario annuale (bonus inclusi) di quattro
milioni e mezzo di dollari. In aggiunta, l’azienda versa ingenti contributi
annuali al suo piano pensionistico e, naturalmente, questo signore possiede
moltissime azioni. Il fatturato annuo della sua multinazionale è di 20 miliardi
di sterline, e i profitti ammontano a 6,1 miliardi, la maggior parte dei quali
proviene da un singolo farmaco, un antidepressivo molto diffuso.
Dei 100.000 dipendenti, 40.000 lavorano alle vendite e nel marketing. Le
grandi case farmaceutiche hanno anche un esercito di venditori «non
retribuiti»: i medici di famiglia, che in realtà sono retribuiti eccome con i soldi
dei contribuenti. Non si fanno pregare per scarabocchiare una ricetta per gli
antidepressivi.
Lo slogan della casa farmaceutica in questione, citato all’inizio di questo
capitolo, riassume le sordide ambizioni dell’uomo moderno: «Fai di più,
sentiti meglio, vivi più a lungo». Al di là del fatto che sono tutte parole
fumose e relative, e quindi del tutto prive di significato, la mancanza di
passione per la vita che dimostrano è estremamente preoccupante. «Fai di
più»: come se «fare» fosse in sé una cosa buona, e più si fa, meglio è. Direi
che a questo mondo si «fa» sin troppo. La reazione responsabile a un mondo
attanagliato da problemi medici e ambientali che noi stessi abbiamo creato,
intervenendo troppo, sarebbe semmai quella di «fare» di meno, non certo di
più. È il «fare» che ha creato tutti questi problemi. E perché mai un «fare di
più» fine a se stesso dovrebbe essere un obiettivo valido? Hitler e Stalin
hanno «fatto di più», ma mi sembra chiaro che le cose sarebbero finite molto
meglio se avessero «fatto» di meno. «Sentiti meglio»: be’, qui c’è l’idea di
sopprimere il dolore. Il dolore è visto come un intralcio che ostacola il «fare».
Io invece lo vedo come una gradita opportunità per non «fare» nulla per
qualche giorno o qualche ora. Se stiamo male, la cosa più logica non sarebbe
infilarci sotto le coperte con una pila di libri e una scodella di macedonia? E
quanto al «vivi più a lungo», qui sta un altro problema. La qualità della vita è
stata sacrificata sull’altare della quantità di vita. Lo scopo è diventato vivere
più a lungo possibile, anziché vivere con pienezza.
Il presidente di quella casa farmaceutica, oltre a decantare i suoi profitti, si
vanta anche delle intenzioni caritatevoli dell’azienda. Il mondo delle pillole, il
sacramento della modernità, è vasto e spaventoso. La corruzione della Chiesa
cattolica medievale è una goccia nell’oceano, se paragonata alle dimensioni
smisurate, ai profitti inimmaginabili e alle porcherie che tirano fuori questi
piazzisti su scala globale, afflitti da un desiderio insaziabile di crescita e
impazienti di aprire nuovi mercati per i loro rimedi per l’artrite e veleni vari.
Ma ora basta parlare del profitto che deriva dal dolore; l’ho menzionato
solo nella speranza che liberarci dal dolore ci sarà più facile quando capiremo
che la sua creazione va a vantaggio del sistema del profitto. Essere felici e
divertirci, allora, diventa una forma di ribellione.
Ma la paura del dolore può anche diventare un ostacolo alla vita. Anzi, la
paura della sofferenza fisica può essere vista come paura della vita, dal
momento che la vita è dolore. Sarebbe logico allora accettare il dolore e la
sofferenza. Se vi fermate a parlare con Damien Hirst, a un certo punto vi
chiederà cosa amate della vita. «Ehm, non saprei» direte voi. E lui ribatterà:
«Io amo tutto della vita». Lui ama tutto, gli alti e i bassi. Si ribella all’ideale
perfezionista di rimuovere tutto il male e la sofferenza del mondo. La vita è
dolore, e tribolazioni. Per ogni pro sembra esserci un contro. Come scrive,
con la sua consueta cupezza, Robert Burton:
Nelle avversità desidero la prosperità, nella prosperità temo le avversità […]. Quale
condizione di vita è libera? La saggezza è inscindibile dalla fatica, la gloria
dall’invidia; ricchezze e preoccupazioni, figli e seccature, piaceri e malattie, riposo e
povertà vanno insieme, come se l’uomo fosse nato per essere punito in questa vita per
qualche peccato atavico.
Ero il primo a vedere il vero contrasto: da una parte l’istinto degenerante, che si
rivolta contro la vita con rancore sotterraneo (il cristianesimo, la filosofia di
Schopenhauer, in un certo senso già la filosofia di Platone, tutto l’idealismo ne sono
forme tipiche), e dall’altra una formula della affermazione suprema, nata dalla
pienezza, dalla sovrabbondanza, un dire sì senza riserve, al dolore stesso, alla colpa
stessa, a tutto ciò che l’esistenza ha di problematico e di ignoto…
ACCOGLI LE AVVERSITÀ
Smettila di preoccuparti per la pensione e fatti una vita
Tutte le tue belle parole per me non valgono un soldo. Meglio una quaglia stretta qui al
mio petto che un intero pollaio messo sotto chiave da qualcun altro. Se ti fidi dei
regali altrui, ti ritroverai con un pugno di mosche.
Sì, anch’io preferirei una quaglia oggi che la vaga possibilità di un pollaio
domani. Le pensioni sono fatte di promesse vuote. Sono qualcosa di
demoniaco. Nel frattempo, i capitalisti si pavoneggiano esibendo infernali
computer palmari comprati con i vostri soldi, e viaggiano in taxi dandosi un
sacco di arie. Ma non sono che speculatori! È tempo di cambiare le cose.
Elevatevi al di sopra dei manager senza scrupoli! No, non sottoscriverò un
fondo pensione. I soldi che guadagno vorrei tenerli ben stretti. Nascondili nel
materasso! Comprati qualcosa di bello! Nel mio caso, questo vuol dire libri.
Preferirò sempre spendere cinquanta sterline al mese in libri che dare
cinquanta sterline al mese a un broker. L’innata avidità dei manager di fondi
pensione li rende anche vulnerabili agli imbrogli. Un mio amico, che di
mestiere fa l’avvocato, mi ha appena raccontato che un gruppo di giovanotti
in carriera della City è riuscito a sottrarre ottanta milioni di sterline da un
fondo che prometteva dividendi principeschi. Quindi, la vostra pensione è
l’esatto opposto di ciò che dice di essere: non solo non è sicura, è il posto
meno sicuro al mondo dove mettere i vostri soldi. Investire in una pensione,
di fatto, è indice di irresponsabile avventatezza.
Quindi, quando si parla di pensioni, io appartengo alla scuola di pensiero
del «mangia, bevi e sii felice, perché domani potresti essere morto». Credere
nelle pensioni ci imprigiona in una sorta di schiavitù. Se non credi nelle
pensioni, vuol dire che credi in te stesso e ti prendi cura di te. E questo ti
rende libero. Preferisco avere il mio denaro ora, e al domani ci penserò
domani. Ripeto: non possiamo lamentarci se, nella nostra avidità, affidiamo i
nostri soldi a una cricca di speculatori che li usa per riempirsi il garage di
Ferrari rosso fiamma.
L’altro punto da sottolineare a proposito di pensione è che lo stesso
concetto di «sicurezza» è una parvenza fantasmatica. La sicurezza non esiste,
punto e basta. È un parto della mente, una pia illusione, un fuoco fatuo. Le
cose sono imprevedibili. Come facciamo a sapere cosa accadrà domani, o
anche tra un minuto? Un disastro naturale, o un crollo in Borsa, potrebbero
spazzar via i vostri risparmi. Se avete dei soldi, per Giove, spendeteli. La vita
è mutamento, flusso, corrente, processo. La sicurezza è desiderio di stabilità,
certezza, protezione. È una finzione; e anche se la preoccupazione per questo
genere di cose è solitamente definita «il mondo reale», è in realtà l’esatto
opposto. Il mondo reale è quello in cui viviamo; quel posto caotico, confuso,
incerto e meraviglioso.
Preoccuparsi per il futuro è inutile: non ci aiuta a migliorare il presente.
L’ironia della sorte è che le persone che più vi incoraggiano a pensare al
futuro sono proprio quelle che vogliono i vostri soldi adesso. Non si
preoccupano del loro futuro: vogliono massimizzare oggi i loro profitti.
Provvedete da soli a voi stessi. Per esempio, continuando a lavorare.
Oppure investendo negli immobili. O vendendo la vostra casa. Un’altra
possibilità è semplicemente affidarsi alla Provvidenza divina, e con
«Provvidenza» intendo i vostri amici, parenti e vicini. I gruppi finanziari ci
fanno sentire soli e abbandonati, per convincerci a comprare da loro la nostra
sicurezza. Ma dimentichiamo il potere della famiglia, degli amici e della
comunità, che possono aiutarci quando le cose si mettono male.
Se vi preoccupate di come farete a sopravvivere nel futuro, allora perché
non vendete la vostra casa quando andate in pensione? Se pensate che il 40
per cento del suo valore finirà comunque al ministero del Tesoro, la cosa più
logica da fare è venderla e mantenervi con il ricavato. Non ci sarà molto da
lasciare in eredità, ma anche i vostri figli dovranno pur provvedere a se stessi.
Al diavolo la prudenza. Se anche guardate alle pensioni da un’ottica
razionale e di buon senso, sono comunque pericolose, proprio perché il
mercato è così imprevedibile. La vostra pensione è frantumata e sparsa qua e
là per il mercato azionario; e se la Borsa crolla, i vostri sudati risparmi
svaniranno nel nulla, lasciandovi con inutili pezzetti di carta da sventolare allo
sportello della banca. Investire in azioni è il trionfo della speranza
sull’esperienza, come Dickens e Edward Chancellor ci hanno mostrato
chiaramente.
Proporrei di abolire l’istituto del pensionamento. È un concetto assurdo: se
mi piace lavorare, perché dovrei voler andare in pensione? Nelle situazioni in
cui non possiamo più lavorare, il nostro settore d’impiego dovrebbe passarci
un vitalizio; e questo sarebbe un altro argomento a favore del ripristino delle
antiche corporazioni professionali. Ogni corporazione si prendeva cura dei
suoi membri: quando uno di loro si ammalava e non poteva più lavorare, gli
altri lavoravano al posto suo. I membri delle corporazioni pagavano tasse che
servivano a mantenere le vedove e gli orfani dei loro colleghi. Si prendevano
cura di sé, affrontando le emergenze a livello locale e tramite accordi privati
tra gruppi: non con campagne pubblicitarie mirate a indurre la paura nel
prossimo.
Nel mio caso, in un certo senso, sono andato in pensione a trentacinque
anni per scrivere un libro; e, se Dio vuole, non avrò mai più bisogno di
lavorare. Credo che questa debba essere la nostra responsabilità: anziché
aspettare i giorni felici della pensione, godiamoci oggi i nostri piaceri. Non
deleghiamo il nostro futuro a un soggetto esterno, sia esso il governo o il
manager di un fondo pensione. Non lasciamo che sia un altro a gestire i nostri
soldi. Farlo non ci garantirà sicurezza, sarebbe anzi un’operazione
estremamente rischiosa.
Dobbiamo prenderci cura di noi stessi, e un modo per farlo è rifiutare le
vane promesse della diabolica industria delle pensioni. Dire no alle pensioni
significa iniziare ad amare noi stessi. Significa mandare a quel paese i
finanzieri con la lingua lunga.
SII AGGRAZIATO
* Espressione usata nei Paesi anglosassoni per calcolare l’impatto ambientale del cibo,
basato sulle miglia percorse per giungere dal produttore fino alla nostra tavola. (N.d.T.)
Il regno del brutto è finito: lunga vita alla bellezza, alla qualità,
alla fratellanza!
Tolle querelas
pauper enim non est cui rerum suppetit usus.
[Cessa dunque
di lamentarti, perché non è povero
chi ha quanto gli basta.]
ORAZIO (65-68 a.C.)
A volte penso che ciò di cui abbiamo bisogno non è più ricchezza, ma
più povertà. È la ricchezza che provoca i problemi, è la ricchezza che
causa l’ineguaglianza.
SATISH KUMAR
A livello superficiale, per chi ricerca la libertà, i soldi sono molto attraenti. È
senz’altro piacevole poter disporre di soldi. Il denaro sembra promettere
comodità, agio, abbondanza, divertimento, felicità e, soprattutto, sembra
promettere libertà. Libertà di movimento, libertà dall’ingerenza altrui, libertà
dall’obbligo di fare un lavoro che non ci piace fare. O perlomeno, una grossa
cifra di denaro – la cifra esatta è ignota – sembra offrirci la libertà. Cosa
fareste se aveste un milione di sterline? Questione dibattuta nel cortile di ogni
scuola elementare. Potreste smettere di lavorare, fare la vacanza di una vita,
comprare una Ferrari. Potreste vivere come il fantastico Michael Carroll,
piccolo criminale arricchitosi con la lotteria nazionale, che colleziona
reprimende della polizia per comportamento antisociale, continua a mostrare il
dito medio all’autorità e si fa dipingere pupazzi da cartone animato sul cofano
della Bmw.
E che dire del fuck-off money?* Questa espressione volgare ma efficace
significa possedere così tanti soldi, essere così sfacciatamente ricchi, da non
aver più bisogno di pensare ai soldi, da poter uscire dal mondo delle
presentazioni in Powerpoint, dei piani strategici e della parlantina dei
venditori e di tutta la deferenza che di solito è necessaria per fare soldi. Un
ampio patrimonio, in teoria, vi garantirebbe di non essere più schiavi di un
altro, dato che avreste abbastanza soldi per fare quel che vi pare; non dovreste
strisciare e prostrarvi per ottenere un impiego o perché qualcuno faccia un
lavoro per voi. Potete dire di no. In altri termini, l’idea di fondo è quella di
fare un sacco di soldi per sfuggire alla tirannia dei soldi. Immagino che possa
essere un approccio efficace. Conosco un paio di persone per le quali ha
funzionato benissimo. Ma è un gioco pericoloso. La maggior parte dei sistemi
per fare soldi in fretta fallisce miseramente, e sarete comunque sempre alla
mercé delle imprevedibili forze del mercato. Oggi nel Regno Unito ci sono
circa 8000 persone con questo livello di ricchezza, su 30 milioni di persone in
età lavorativa. Il che equivale a una possibilità su 4000 di entrare in
quell’esclusivo club: una percentuale che nessun allibratore prenderebbe in
considerazione. E se i numeri giocano così a vostro sfavore, vale davvero la
pena di sforzarsi?
Da un punto di vista razionale non ha molto senso proporre l’arricchimento
come una soluzione valida per tutti, perché è nella natura della ricchezza che
solo in pochi possano essere ricchi, dal momento che la ricchezza di uno
dipende dalla non ricchezza degli altri. Non possiamo essere tutti ricchi. Come
dice Ruskin in A quest’ultimo: «La ricchezza è una forza che, al pari
dell’elettricità, non agisce se non per ineguaglianze e negazioni di se stessa. Il
potere di una ghinea che abbiate in tasca dipende esclusivamente dalla
mancanza di una ghinea nella tasca del vostro vicino». Ruskin prosegue:
«L’arte di diventare ricchi […] è l’arte di stabilire il massimo di disuguaglianza
in nostro favore».
Si dà per scontato che tutti noi vogliamo diventare ricchi. Voler essere
ricchi è una delle forze motrici di un mondo competitivo. Il desiderio di
essere ricchi è ciò che ci fa sforzare, lavorare, lottare, combattere, competere,
ingannare e abbandonare la morale. Ed è esattamente l’impulso su cui fanno
leva le persone che davvero diventano ricche – gli usurai e gli investitori, i
manipolatori del mercato – perché sfruttano la nostra avidità per i loro scopi.
Volere più soldi di quanti ne abbiamo ci impedisce di godere del presente; è
dunque un tratto puritano. Dovremmo piuttosto gioire di ciò che abbiamo.
Nella ricerca della libertà, la brama di ricchezza è anzi il primo desiderio da
eliminare.
Il problema è che oggi, a differenza del Medioevo, nessuno vuole essere
povero. È visto come sintomo di fallimento. Come scrive William Godwin:
«Gli usi prevalenti in molti Paesi sono accuratamente predisposti per inculcare
la convinzione che l’integrità, la virtù, la comprensione e la laboriosità sono
nulla, e l’opulenza è tutto». Ciò che nel 1793 Godwin chiamava «gli usi», cioè
i mezzi attraverso i quali un’ideologia dominante viene diffusa tra la
popolazione, oggi li chiameremmo «i mass media». C’è un altro modo di
guardare a questo problema, e si chiama «essere grati per ciò che si ha». La
vera ricchezza è questione di atteggiamento mentale. Come scrive Robert
Burton:
Una delle più grandi sventure che possono colpire un uomo, nella considerazione che
il mondo ha di lui, è la povertà e l’indigenza […]. Eppure, se intesa correttamente,
essa è in sé una grande benedizione, una condizione felice, e non reca in quanto tale
cause di malcontento, né obbliga chi ne è colpito a considerarsi ignobile, odiato da
Dio, abbandonato, miserabile, sfortunato. Cristo stesso era povero, nato in una
mangiatoia, e per tutta la vita non ebbe una casa in cui rifugiarsi, «nel caso qualcuno
pensasse che la povertà era effetto di un giudizio divino, o una condizione odiosa». E
come lui, così disse ai suoi apostoli e discepoli, tutti loro erano poveri, i profeti
poveri, gli apostoli poveri […]. «Afflitti (dice san Paolo) ma sempre lieti; gente che
non ha nulla e invece possediamo tutto!».
DESIDERA MENO
SPALA LA MERDA
Smetti di lavorare, inizia a vivere
E quale sarà allora il retto modo di vivere? Sarà quello di fare il proprio
gioco, sacrificando, cantando e danzando, per vedere se con ciò si
riesca a rendere propizi gli dèi e a tenere lontano i nemici,
sconfiggendoli in guerra.
PLATONE
Dobbiamo rendere libero tutto il nostro tempo. Fare ciò che vogliamo, tutto il
santo giorno. Non fare niente, per tutto il giorno. Bighellonare tutto il giorno.
Se vi piace il vostro lavoro, allora non è lavoro. Come dice la mia amica
Sarah, il segreto per vivere liberi è svegliarsi ogni mattina e gridare:
«Buongiorno, Signore, cos’hai in serbo per me oggi?». Lei sostiene che
funzioni davvero. La libertà può iniziare oggi, proprio ora. Potete cambiare la
vostra vita in un secondo. La libertà è uno stato d’animo.
GIOCA
Bibliografia
Ecco alcuni libri che ho letto durante la stesura di questo libro. Li raccomando a tutti
coloro tra voi che cercano la libertà.
Cash, Arthur H., John Wilkes: The Scandalous Father of Civil Liberty, Yale, Boston 2006.
Biografia di uno dei massimi spiriti liberi del Settecento.
Chancellor, Edward, Un mondo di bolle, Carocci, Roma 2000.
Illuminante storia delle «bolle» finanziarie, dai tulipani alla mania del punto com.
Chaucer, Geoffrey, I racconti di Canterbury, Bur, Milano 2000.
Ritratti di figure trecentesche, scritti con tocco leggero e umorismo ribaldo.
Chesterton, L’uomo che fu giovedì, Nord, Milano 1993.
Storia di anarchici calcolatori, con colpo di scena. Originariamente pubblicato nel 1908.
–, La Chiesa viva, Paoline, Alba 1966.
Saggi sulla religione e su come sfuggire al programma industriale. Graham Green lo
inseriva tra «i grandi libri dell’epoca».
–, Francesco d’Assisi, Guida, Napoli 1990.
Ritratto dell’uomo più beneducato che sia mai vissuto, «Stella del Mattino del
Rinascimento».
–, William Cobbett, Hause of Stratus, London 2000.
Brillante saggio sull’importanza di Cobbett come pensatore dal volto umano.
Clayton, Antony, Decadent London, Historical Publications Ltd, London 2005.
Le vite degli esteti londinesi fin de siècle: Wilde, Beardsley eccetera.
Coates, Chris, Utopia Britannica: British Utopian Experiments 1325-1945, D&D
Publications, London 2001.
Tentativi di costruire Gerusalemme sul verdeggiante e felice suolo d’Inghilterra.
Cobbett, William, Cottage Economy, Peter Davies, London 1926.
–, Storia della Riforma Protestante in Inghilterra ed in Irlanda, Biblioteca cattolica,
Napoli 1825.
Un attacco feroce contro Enrico VIII e la sua distruzione del vecchio modo di vivere.
Cohn, Norman, I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Milano 1965.
Studio dei movimenti bohèmien e amorali del Medioevo: dai Sufi agli Amalriciani.
Fattorusso, J. e Florence, M.L., The City of Flowers, The Medici Series, Firenze 1950.
Eccentrica guida turistica.
Fearnley-Whittingstall, Hugh, The River Cottage Cookbook, HarperCollins, London 2001.
Un illuminante manuale per vivere bene e mangiare meglio.
Fortescue, Sir John, De Laudibus Legum Angliae, Hall, London 1775.
La classica celebrazione quattrocentesca del sistema giuridico inglese.
Fukuoka, Masanobu, La rivoluzione del filo di paglia. Un’introduzione all’agricoltura
naturale, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1980.
Saggio e illuminante resoconto di un esperimento di «agricoltura dell’ozio»: ovvero,
lasciare che la natura lavori per noi.
Gandhi, Mohandas K., La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma 1983.
Testo in cui Mohandas scopre la libertà nella servitù.
Gardner, Edmund G., The Story of Florence, J.M. Dent & Co., London 1908.
Utile storia della grande e libera città-Stato.
Gill, Eric, Autobiography, Jonathan Cape, London 1947.
Pensieri sull’arte e la vita dell’incisore di caratteri tipografici che si reinventò come
scultore.
Godwin, William, Caleb Williams. Il primo romanzo giallo della storia, Vallecchi, Firenze
1976.
Appassionante racconto di una vita passata a fuggire.
–, Indagine sulla giustizia politica, Assandri, Torino 1978.
Antica teoria anarchica, dal padre di Mary Shelley.
Gombrich, E.H., Breve storia del mondo, Salani, Firenze 2003.
Pubblicato per la prima volta nel 1936 dal celebre storico dell’arte, questo libro spiega
in modo semplice e accessibile come siamo giunti a essere dove siamo ora.
Griffiths, Jay, Pip Pip: A Sideways Look at Time, Flamingo, London 1999.
Breve storia della politica del tempo.
Keen, M.H., England in the Later Middle Ages, Methuen, London 1980.
Libro di testo, un po’ noioso ma con osservazioni interessanti.
Kesey, Ken, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Bur, Milano 1988.
L’infermiera Ratched e le autorità mediche tarpano lo spirito libero, nel capolavoro di
Kesey.
Kropotkin, Prince Peter, Act for Yourselves, Freedom Press, London 1998.
Raccolta di articoli dalla rivista «Freedom», 1886-1907.
–, Il mutuo appoggio, Ennesse, Roma 1970.
Lo spirito di cooperazione negli animali e nell’uomo.
Lawrence, D.H., Phoenix: The Posthumous Papers of D.H. Lawrence, Heinemann, London
1961.
Raccolta di saggi di un lungimirante cercatore di libertà.
Lawrence, Felicity, Non è sull’etichetta. Quello che mangiamo senza saperlo, Einaudi,
Torino 2005.
Leggetelo e non comprerete mai più cibo in un supermercato.
Le Goff, Jacques (a cura di), The Medieval World, Collins & Brown, London 1990.
Saggi accademici scritti da medievisti, sui cavalieri, i chierici e gli intellettuali.
–, Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel
Medioevo, Einaudi, Torino 1986.
La nascita della cultura mercantile e la sua battaglia con la Chiesa.
–, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, Roma-Bari 1987.
L’usura nel Medioevo.
Lindsay, Jack, The Troubadours and Their World of the Twelfth and Thirteenth Centuries,
Frederick Muller Ltd, London 1976.
Ritratto delle pop star dei loro giorni, i musicisti letterari che vagavano da corte a corte.
Livingstone, Karen, e Parry, Linda (a cura di), International Arts and Crafts, V&A
Publications, London 2005.
McCarthy, Fiona, Eric Gill, Faber & Faber, London 2003.
La migliore biografia di Gill, che documenta i suoi contributi alla cultura inglese, ma
anche la sua complicata sessualità.
Marcus, Greil, Tracce di rossetto. Percorsi segreti nella cultura del Novecento dal dada
ai Sex Pistols, Leonardo, Milano 1991.
Il punk e i suoi antenati, dagli amalriciani ai dadaisti ai situazionisti. Marsh, Jan, Back to
the Land: The Pastoral Impulse in Victorian England from 1880 to 1914, Quartet Books
Ltd, London 1982.
I vittoriani resistono all’industrializzazione.
Marx, Karl, Il capitale, Utet, Torino 1960.
Vale sempre la pena di dargli un’occhiata.
Michel, John, Eccentric Lives and Peculiar Notions, Thames and Hudson, London 1984.
Vite di alcuni spiriti liberi.
Mill, John Stuart, Utilitarianism, Liberty and Representative Government, J.M. Dent,
London 1944.
Un altro spirito libero travestito da razionalista.
Morris, William, Notizie da nessun luogo, o Un’epoca di quiete, Garzanti, Milano 1984.
L’affascinante utopia di Morris, in cui il denaro non esiste e i pascoli ricoprono
Piccadilly Circus.
–, Art, Labour and Socialism, Socialist Party of Great Britain, London 1962.
Un appello accorato per riunire arte e vita.
Mumford, Lewis, Il mito della macchina, Il Saggiatore, Milano 1969.
Come le macchine hanno separato l’uomo dalla natura.
O’Brien, George, The Economic Effects of the Reformation, IHS Press, Norfolk, VA 2003.
Ristampa di un libro del 1923, che attacca da parte cattolica Enrico VIII e compagnia, e
celebra l’approccio dei medievali all’economia.
Parker, Rowland, The Common Stream: Two Thousand Years of the English Village,
Paladin, St. Albans 1976.
La storia di un villaggio, tratta dai registri parrocchiali e dai verbali dei processi; di
grande fascino, e utile per conoscere meglio la storia dei sistemi giuridici e sociali.
Parry, A.W., Education in England in the Middle Ages, W.B. Clive, London 1920.
Mostra come l’educazione libera non sia un’invenzione di noi moderni.
Paterson, Linda M., The World of the Troubadours: Medieval Occitan Society, c.1100-
c.1300, Cambridge University Press 1993.
Studio accademico con pagine molto interessanti sulla cura dei bambini nel Medioevo.
Penty, Arthur, The Gauntlet: A Challenge to the Myth of Progress, HIS Press, Norfolk, VA
2003.
Lo scrittore cristiano (1875-1937) attacca l’industrializzazione.
Piano, Stefano, Bhagavad-gita. Il canto del glorioso signore, Fabbri, Milano 1996.
Proudhon, Pierre-Joseph, Selected Writings, a cura di Stewart Edwards, trad. di Elisabeth
Fraser, Macmillan, London 1970.
Dove Proudhon dichiara: «Sono un anarchico» e «La proprietà privata è un furto».
Rackham, Oliver, The History of the Countryside, Phoenix Press, London 2000.
Un viaggio nella storia delle siepi, degli stagni, della selvaggina, dei boschi e delle terre
desolate, in compagnia di un professore di Cambridge che ama la natura incontaminata.
Rubin, Jerry, Do it. Sceneggiatura per la rivoluzione, Milano Libri Edizioni, Milano 1971.
La bibbia degli hippie, che dice: «Fatevi, prima di leggere questo libro!». Un po’ datato
ma resta una buona fonte di ispirazione.
Ruskin, John, The Stones of Venice, voll. I, II, III, George Allen, London 1906 (trad. it. Le
pietre di Venezia, Utet, Torino 1962).
Il classico studio di Ruskin sull’architettura medievale.
–, A quest’ultimo, M. Valerio, Torino 2003.
Saggi sulla vita e sull’arte.
Russell, Bertrand, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano 1953.
Manuale utile, anche se un po’ severo con il grande Nietzsche. Russell era sempre un po’
troppo moderato.
–, Saggi Scettici, Tea, Milano 1995.
Bertie, che amava divertirsi, parla dei puritani, dell’educazione e dei cinesi fannulloni.
Sartre, Jean-Paul, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991.
Lungo e tecnico, ma vale la pena di leggerlo, soprattutto se volete imparare a divertirvi
quando lavate i piatti.
–, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 2004.
In cui Sartre sembra dire che le emozioni non esistono.
Schama, Simon, A History of Britain, 3000 BC-AD 1603, Bbc Worldwide, London 2000.
Il famoso storico se la prende, in maniera molto godibile, con Thomas Cromwell ed
Enrico VIII.
Schumacher, E.F., Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse
qualcosa, Mondadori, Milano 1978.
Illuminante celebrazione delle istituzioni a misura d’uomo, di cui oggi, nell’era dei
supermercati, abbiamo più bisogno che mai.
–, Buon lavoro, Red, Como 1995.
Idee su come il lavoro potrebbe essere divertente, creativo e gratificante. Seymour, John,
The Countryside Explained, Faber & Faber, London 1977.
Storia dell’agricoltura e dell’allevamento.
–, The Fat of the Land, Faber & Faber, London 1961.
Il primo libro del grande Seymour, piccolo proprietario terriero, che qui descrive i suoi
esordi come allevatore.
–, Self-Sufficiency, Faber & Faber, London 1973.
Una lettura molto piacevole, ma anche molto utile per chi voglia vivere libero.
Simons, Arthur J., The New Vegetable Grower’s Handbook, Penguin, London 1975.
Il classico che si è imposto tra le tante guide per gli orticultori in tempo di guerra.
Svendsen, Lars, Filosofia della noia, Guanda, Milano 2004.
Uno studio ironico che sostiene che la noia è un sintomo della vita moderna.
Vaneigem, Raoul, Trattato di saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni, Castelvecchi,
Roma 2006.
L’arguto attacco del situazionista contro le vuote promesse del capitalismo.
Weber, Max, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bur, Milano 2000.
Come i protestanti competitivi hanno spodestato i cattolici cooperativi.
Wells, H.G., Una utopia moderna, Mursia, Milano 1990.
Fantasia tecnologica di «treni che scivolano a gran velocità» e «unità tra i popoli, una
sola lingua, viaggi in tutto il mondo».
Wenner, Jann S., Lennon Remembers, Verso, London 2000.
Lennon in versione sincera.
Whitehead, A.N., Simbolismo, Raffaello Cortina, Milano 1998.
Whitehead era un amico filosofico di Bertrand Russell, e questo libro parla del nostro
amore per i simboli.
Wilde, Oscar, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Tea, Milano 1989.
Il celebre saggio di Wilde sulla libertà politica, influenzato da Kropotkin.
Wymer, Norman, English Town Crafts: A Survey of Their Development from Early Times
to the Present Day, B.T. Batsford Ltd, London 1949.
L’importanza che un tempo avevano le arti e l’artigianato nella vita di ogni giorno degli
inglesi.
Ecco alcuni indirizzi web e consigli utili per guidarvi nella ricerca della libertà. La cosa
migliore è fondare una rivista o un sito per condividere le vostre idee. E poi, internet è una
gran bella cosa, ma non può sostituire il dialogo con gli altri esseri umani.
Togliti l’orologio
Per saperne di più sul fantastico movimento di protesta contro la cultura della fretta,
andate su www.longnow.org e leggete cosa scrivono a proposito del computer più lento del
mondo, il Clock of the Long Now [Orologio del Lungo Adesso].
Smetti di competere
L’Associazione britannica delle Corporazioni di filatori, tessitori e tintori è reperibile
all’indirizzo web www.wsd.org.uk. Se non siete filatori, tessitori né tintori, vi toccherà
fondare una vostra corporazione.
Al diavolo il governo
Visitate la splendida Freedom Bookshop [Libreria della Libertà] di Londra, che ha anche
un sito: www.libcom.org/hosted/freedom: ogni spirito libero troverà qualcosa su cui
riflettere.
La famiglia antinucleare
La Alliance for Childhood [Alleanza per l’Infanzia] (www.allianceforchildhood.org.uk)
sembra fondarsi sull’ideale positivo «Lasciateli in pace».
Disarma il dolore
Visitate i siti web delle grandi multinazionali farmaceutiche per familiarizzarvi con
l’entità dell’orrore provocato dal commercio internazionale del dolore.
Rifuggi dalla maleducazione e salpa verso una nuova era di cortesia, civiltà e grazia
Ascoltate la musica dei trovatori, nella registrazione dell’Unicorn Ensemble di Vienna:
www.unicornensemble.at.
Il regno del brutto è finito: lunga vita alla bellezza, alla qualità, alla fratellanza!
Comprate uno scalpello. Imparate un’arte. I Comuni e le organizzazioni locali tengono
corsi a prezzi modici.
Introduzione
Bandisci l’ansia: sii spensierato
Spezza le catene della noia
La tirannia delle bollette, ovvero: la semplicità ti farà libero
Da’ un calcio alla carriera e alle sue vuote promesse
Fuga dalla città
Porre fine alla guerra di classe
Togliti l’orologio
Smetti di competere
Scappa dai debiti
Morte allo shopping: evadere dalla prigione del consumismo
Sfuggi alla morsa della paura
Al diavolo il governo
Di’ no al senso di colpa e libera il tuo spirito
Niente più faccende domestiche, o il potere della candela
Bando alla solitudine
Non sottometterti più alle macchine, usa le mani
Elogio della malinconia
Basta lamentele: sii felice
Liberati dal mutuo e diventa un allegro vagabondo
La famiglia antinucleare
Disarma il dolore
Smettila di preoccuparti per la pensione e fatti una vita
Rifuggi dalla maleducazione e salpa verso una nuova era di
cortesia, civiltà e grazia
A morte i puritani
Emancipati dal supermercato
Il regno del brutto è finito: lunga vita alla bellezza, alla
qualità, alla fratellanza!
Deponi la ricchezza tiranna
Rifiuta lo spreco e scegli la frugalità
Smetti di lavorare, inizia a vivere
Bibliografia