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Avidità, competizione, solitudine e grigiore sono entrate con violenza nella

vita di tutti i giorni. Di libertà, soddisfazione, allegria e responsabilità non se


ne sa quasi più nulla. McDonald’s e antidepressivi a colazione, pranzo e cena:
l’era del consumo offre molte consolazioni ma poche libertà e i governi
sferrano attacchi continui ai nostri diritti civili. Dopo averci iniziato all’arte
sovversiva e rivoluzionaria dell’ozio, Hodgkinson torna con un nuovo e ben
più alto obiettivo: restituirci le chiavi della libertà. Attingendo alle opere di
esistenzialisti francesi, pensatori medievali, beats americani, hippies e punk,
l’autore ci guida alla riconquista della felicità perduta. «È possibile cambiare
la propria vita in un secondo. La libertà è uno stato della mente» sostiene. Ma
è necessario innanzitutto smettere di consumare e iniziare a essere creativi:
coltivate da voi frutta e verdura sui vostri terrazzi e davanzali, impastate e
cuocete il vostro pane! La libertà come stile di vita suggerisce svariati modi
per liberarsi da ansie, paure, debiti, lavori domestici, sensi di colpa e tanti altri
condizionamenti. Il pavimento di casa non brilla mai come quello delle
pubblicità? Sostituiamo alle lampadine la luce fioca delle candele e tutto
apparirà più pulito. E per sfuggire ai debiti iniziamo a cancellare
l’abbonamento alla tv satellitare e qualsiasi altro contratto che implichi un
pagamento. Un libro ironico, sagace, ricco di spunti, capace di offrire
nutrimento per il corpo, la mente e lo spirito senza mai annoiare. Basta carte
di credito e stress da carriera! Prepariamoci piuttosto a imparare a suonare
l’ukulele.
Tom Hodgkinson è l’autore dei bestseller mondiali L’ozio come stile di vita
(Rizzoli 2005, ora in Bur) e La libertà come stile di vita (Rizzoli 2007). Dirige
“The Idler”, rivista semestrale fondata da Jerome K. Jerome in cui scrittori e
umoristi esaltano i piaceri della pigrizia e combattono l’idolatria del lavoro.
Proprietà letteraria riservata
© Tom Hodgkinson, 2006
The moral rights of the Author has been asserted
© 2007 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-586-4879-7

Titolo originale dell’opera:


HOW TO BE FREE

Prima edizione digitale 2013 da edizione aprile 2007

In copertina:
illustrazione di Ice9 studio
progetto grafico Mucca design

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
La libertà come stile di vita
A Victoria
Introduzione

In ogni grido di ogni Uomo,


in ogni grido di paura di Bambino,
in ogni voce, in ogni divieto,
odo le catene forgiate dalla mente.
WILLIAM BLAKE, «Londra», in Canti dell’esperienza (1794)

Questo libro parla del buon vivere, e al suo cuore c’è una semplice verità:
quando vi affidate a Madama Libertà la vita si fa più semplice, meno
dispendiosa e molto più divertente. Il mio intento è quello di mostrarvi come
rimuovere le catene forgiate dalla mente e diventare liberi di creare da soli la
vostra vita. Dopo aver terminato il mio ultimo libro, L’ozio come stile di vita,
mi sono reso conto che l’ozio è, per me, praticamente sinonimo di libertà.
Essere oziosi significa vivere liberi. Essere oziosi vuol dire vivere secondo le
nostre regole. Essere oziosi vuol dire riunificare ciò che è stato diviso.
Ho cercato di basarmi su tre princìpi che potessero fondare una filosofia
per la vita quotidiana: libertà, divertimento e responsabilità, oppure anarchia,
medievalismo ed esistenzialismo. È un approccio alla vita altrimenti noto
come: farsi quattro risate e fare ciò che si vuole. Il mondo occidentale ha
lasciato che ci fossero strappati la libertà, il divertimento e la responsabilità; e
li ha rimpiazzati con l’avidità, la competizione, la lotta solitaria per il
predominio, il grigiore, i debiti, il McDonald’s e le multinazionali
farmaceutiche. L’era del consumismo offre molti agi ma ben poche libertà. I
governi, per la loro stessa natura, mettono continuamente a rischio le nostre
libertà civili. La Health and Safety, la commissione nazionale inglese per la
Sanità, è usata come scusa per estendere i poteri del governo.
Mi piace definirmi un anarchico, proprio perché mi dedico alla ricerca della
libertà. Nell’ottica dell’anarchia, i contratti si stipulano tra individui, non tra
cittadino e Stato. L’anarchia si basa sull’idea che gli esseri umani siano
fondamentalmente buoni, e dovrebbero potersi governare da soli; l’ideologia
puritana sostiene invece che l’uomo è intrinsecamente malvagio e, dunque,
dev’essere controllato dalle autorità. Nel Medioevo, nonostante le gerarchie,
ciascuno era libero di organizzare la propria vita. La grande maggioranza delle
catene di cui si parlerà in questo libro non erano ancora state inventate. Ogni
vita era creata da chi la viveva, e ricca di varietà.
Quello che ci serve oggi è una ridefinizione radicale delle relazioni
interumane: una definizione che si basi sui bisogni locali anziché sull’avidità
del capitalismo globale. Le nostre vite sono state sminuzzate in un milione di
piccoli frammenti, e il nostro obiettivo sarà quello di ricondurli a una totalità
armonica. Ad aiutarci non sono soltanto gli esempi del sistema medievale,
degli anarchici, degli esistenzialisti, ma anche una lunga serie di figure
storiche. Porteranno le loro testimonianze Aristotele, san Francesco d’Assisi,
san Tommaso d’Aquino, i romantici, William Cobbett, John Stuart Mill, John
Ruskin, William Morris, Oscar Wilde, coloro che dalle metropoli si sono
trasferiti in campagna, Chesterton, Eric Gill e i distributisti, Bertrand Russell,
Orwell, i situazionisti, gli Yippies, i punk e i radicali degli anni Settanta, come
John Seymour, Ivan Illich e Schumacher. Tutti costoro, in epoche diverse,
hanno promosso un ideale secondo cui la vera libertà è possibile solo nella
cooperazione e non nella competizione. Come vedremo, c’è una lunga
tradizione che rifiuta di vedere il denaro, le proprietà e gli affari come scopo
primario dell’esistenza. L’obiettivo è smettere di chiedere agli altri di fare
ordine nella nostra vita, e fidarci invece della nostra capacità di farlo. Siamo
spiriti liberi. Ci opponiamo alle interferenze altrui e ci rifiutiamo di interferire
con la vita del prossimo.
In questo libro parlerò delle barriere che si frappongono tra noi e la libertà,
e di come possiamo liberarci dall’ansia, dalla paura, dai mutui, dal denaro, dal
senso di colpa, dai debiti, dai governi, dalla noia, dai supermercati, dalle
bollette, dalla malinconia, dal dolore, dalla depressione e dallo spreco. Siamo
stati noi a offrire a questi nemici un ascendente sul nostro spirito, e soltanto
noi possiamo eliminare quella nefasta influenza. È inutile lamentarsi e
aspettare che qualcun altro agisca al posto nostro. Quando ci renderemo conto
che questi vincoli sono, dal primo all’ultimo, «forgiati dalla mente», allora,
ecco! vedremo spalancarsi la porta e schiudersi innanzi a noi il giardino della
libertà.
Il senso della vita è riappropriarsi delle libertà perdute. A scuola e al lavoro
ci persuadiamo a vicenda di non essere liberi né responsabili. Creiamo un
mondo di doveri, obblighi e cose da fare. Dimentichiamo così che la vita
dovrebbe essere vissuta con spontaneità, gioia, amore. In questo libro mi
rivolgerò al passato, in cerca di idee per il futuro. Gli antichi greci guardavano
con nostalgia all’Età dell’Oro, gli antichi romani agli antichi greci, Virgilio e
Ovidio a un idillio bucolico. Gli uomini del Medioevo, a loro volta,
rimpiangevano i greci, e i bei tempi andati in cui la vita era più semplice. Per
la verità, ogni epoca storica si è creata un concetto di «vecchi tempi» in cui la
gente viveva felice e le cose erano più semplici. Rimpiangere un passato
ideale, immaginario, non vuol dire evadere dalla realtà. Al contrario, è un
modo per andare avanti, per decidere quali sono le nostre priorità nella vita. E
se vogliamo cercare idee su come vivere, il passato è un posto molto migliore
del futuro: perché il futuro è pura fantasia, mentre il passato è accaduto
davvero. Il sogno utopistico di un futuro ipertecnologico, in cui le macchine
lavorano al nostro posto, è privo di senso.
Dunque, come si fa a diventare liberi? Be’, che vi piaccia o no, voi siete già
liberi. La vera domanda è se sceglierete di esercitare quella libertà? Al cuore
dell’uomo c’è l’essenza del nulla. Abbiamo creato un universo fatto apposta
per noi. La vita è assurda. Dio è amore. Siamo liberi.

Morte ai supermarket
Impasta il pane
Suona l’ukulele
Apri il salone del villaggio
Ogni azione è futile
Piantala di frignare
Fai musica
Smetti di consumare
Inizia a produrre
Tornatene in campagna
Schiaccia l’usura
Accogli la bellezza
Scegli la povertà
Lunga vita allo scalpello
Ignora lo Stato
Le riforme sono inutili
Anarchy in the UK
Lunga vita alla vanga
Lunga vita al cavallo
Lunga vita alla penna d’oca
Ama il tuo prossimo
Sii creativo
Libera lo spirito
Scava la terra
Produci concime
La vita è assurda
Noi siamo liberi
Sii felice
Bandisci l’ansia: sii spensierato

Vivete felici, o amici miei: liberi dalle preoccupazioni, dalle perplessità,


dall’angoscia, dal dolore dell’animo, vivete felici.
MARSILIO FICINO, citato da Robert Burton,
Anatomia della malinconia (1621)

Portatemi il mio Arco di splendente oro!


Portatemi le mie Frecce di desiderio!
WILLIAM BLAKE, Milton (1804)

Non ce ne frega niente.


Slogan del movimento punk (1977)

Vi dico subito una cosa sull’ansia: «Non è colpa vostra». Sbarazzatevi di


questo peso: quell’orribile senso di oppressione allo stomaco, l’impressione
che le cose si stiano mettendo male, unito a una cronica sensazione di
impotenza, è il risultato di una vita vissuta nell’età dell’ansia, oppressa dal
puritanesimo, imprigionata nella carriera, umiliata dai capi, assediata dalle
banche, sedotta dalle celebrità, annoiata dalla tv, sempre intenta a sperare, a
temere o a pentirsi. Esso – la Cosa, l’Uomo, il Sistema, il Gruppo, il Costrutto,
comunque vogliamo chiamare le strutture di potere – vuole vedervi in preda
all’ansia. L’ansia fa molto comodo allo status quo. Le persone ansiose
consumano molto e lavorano sodo. Di conseguenza, i governi e le grandi
aziende amano il terrorismo: lo adorano, perché fa bene ai loro affari. L’ansia
ci fa ripiombare nel conforto del cibo scadente e dello shopping con carta di
credito, quindi il sistema produce deliberatamente l’ansia, proprio mentre ci
promette di eliminarla.
L’ondata inarrestabile di storie allarmistiche sui giornali, a proposito del
tasso di criminalità in ascesa, ci rende ansiosi. I quotidiani vogliono darci
intrattenimento e pettegolezzi, storie che alimentano il nostro bisogno di shock
e orrore. Ci riescono bene. Sfogliate un tabloid in un giorno qualunque della
settimana, e troverete che nove articoli su dieci sono negativi e inquietanti.
Ogni giornale radio e ogni telegiornale, ogni quotidiano e molte delle nostre
conversazioni trasmettono lo stesso messaggio: preoccupati! Devi
preoccuparti! C’è un mondo pericoloso, là fuori, pieno di terroristi suicidi,
pazzi assassini imbottiti di bombe, ladri, mascalzoni e disastri naturali. Stattene
a casa! Guarda la tv! Compra roba su internet! Raggomitolati sul divano e
guarda un dvd! Per dirla con le parole della canzone TV Party dei Black Flag:
«Il telegiornale sa cosa c’è là fuori, ci sono terrori!». Come in 1984 di George
Orwell, ci dicono che siamo in uno stato di guerra perenne: è solo che ogni
tanto il nemico cambia identità. Noi inglesi non siamo più in guerra con l’Ira;
ora siamo in guerra con al Qaida. Nemici diversi, stessa ansia e medesimo
risultato finale: impotenza di massa.
Ma se dedichiamo qualche istante a riflettere su questi miti, ben presto li
vedremo rivelarsi come mere (e comode) finzioni. Secondo il grande studioso
dell’ansia Brian Dean, la verità è che i tassi di criminalità sono rimasti
grossomodo costanti negli ultimi centocinquant’anni. Dean sostiene che la
nostra paura del crimine è del tutto sproporzionata alla realtà dei fatti. La
verità è che corriamo molti più rischi con gli incidenti d’auto e gli infarti del
miocardio, che non con il crimine. Gli incidenti stradali uccidono dieci
persone al giorno nel Regno Unito, e le cardiopatie ne ammazzano centinaia,
ma nessuno propone di abolire le automobili, nessuno dà la colpa allo stress
che mette a repentaglio i nostri cuori. Al fondo del problema, secondo Dean,
c’è la propaganda dell’insicurezza: «Le cose in cui crediamo determinano le
nostre realtà. Se siamo convinti che l’universo sia fondamentalmente insicuro,
allora ci troveremo in uno stato di ansia perenne: il che non è un buon modo
di far funzionare il cervello».
Il nostro lavoro, organizzato nel maledetto sistema occupazionale, non ci
aiuta: condanna anzi tanti di noi a una fatica senza senso. Il grande pensatore
E.F. Schumacher è autore di Piccolo è bello. Anarchico e ozioso nell’animo,
sosteneva che l’enormità, le proporzioni sconfinate, inarrivabili, vertiginose
del capitalismo moderno prosciugano lo spirito. Credeva anche che
quell’enormità avesse trasformato il lavoro in qualcosa di inutile, noioso,
dannoso per l’anima: qualcosa da sopportare, un male necessario, anziché un
piacere. In un altro libro, Buon lavoro, Schumacher sostiene che la società
industriale genera ansia, perché si concentra anzitutto sull’avidità – quello che
i medievali chiamavano il peccato di avaritia – e quindi non lascia spazio
all’espressione delle nostre facoltà più nobili:
La società industriale dei nostri giorni manifesta ovunque questa caratteristica di
stimolare la gola, l’invidia e l’avarizia. […] Meccanico, artificiale, separato dalla
natura, strutturato per utilizzare solo la minima parte delle potenzialità umane, il
lavoro condanna la maggior parte dei lavoratori a trascorrere la propria vita
lavorativa in modo tale da non ricevere nessuno stimolo valido, nessun incentivo a
perfezionarsi, nessuna possibilità di sviluppo, nessun elemento di Bellezza, Verità o
Divinità. […]
Pertanto, io dico che uno dei grandi mali, forse il peggiore, della moderna società
industriale è l’indebita tensione nervosa che, per la sua natura immensamente
complicata, essa impone, e l’indebita proporzione dell’attenzione delle persone che
essa assorbe.

Allo stato attuale delle cose, sfruttiamo ogni momento libero dal lavoro per
consumare. Lasciamo i cancelli delle fabbriche e andiamo al supermercato a
riversare interamente la nostra paga nel Sistema. Soffriamo di uno strano
sdoppiamento di ruoli sociali: lavoratori e consumatori, oppressi e corteggiati.
Perlomeno nell’Ottocento la gente sapeva di essere niente più che un paio di
mani usate per far funzionare una macchina, e di essere sfruttata in nome del
profitto altrui. Quindi, forse, ribellarsi era più facile. Il contratto parlava
chiaro. Certo, tutti sappiamo che un’agguerrita ideologia di resistenza si
sviluppò tra i lavoratori nell’Ottocento, età di fatica e schiavitù. Oggi, invece,
non appena mettiamo piede fuori dalla fabbrica e ci incamminiamo verso
casa, veniamo avvolti da un turbinio di messaggi pubblicitari. La cultura dei
servizi fa di noi tanti piccoli principi, circondati da cortigiani affettati ansiosi
di accaparrarsi il nostro favore, per strapparci denaro o convincerci a fare
quello che vogliono loro. Ci fanno sentire importanti. Il mondo della
pubblicità pratica le sue arti oscure di seduzione. Nella Società dello
spettacolo (1967), il situazionista Guy Debord, meravigliosamente
spensierato, espresse così il concetto:
Questo operaio improvvisamente lavato dal disprezzo totale che gli è chiaramente
espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si
ritrova ogni giorno al di fuori di essa apparentemente trattato come una persona
grande, con una cortesia premurosa, sotto il travestimento del consumatore. Allora
l’umanesimo della merce prende a proprio carico «gli svaghi e l’umanità» del
lavoratore.

Il mondo del commercio, allora, ci tratta come celebrità: «Perché voi


valete» dice. Ci lusinga e si prostra ai nostri piedi, e continua a farlo finché
riesce a strapparci il numero di carta di credito. A quel punto ci getta via, e
siamo condannati al limbo della musichetta d’attesa al numero verde del
servizio clienti, per l’eternità. Che stupidi siamo!
Tutto l’apparato del moderno controllo statale, poi, sembra costruito
apposta per generare nervosismo. Le stesse istituzioni e gli strumenti che ci
vendono sotto l’etichetta del benessere e della sicurezza sono in realtà fonte di
angoscia, perché ci ricordano costantemente i pericoli a cui andiamo incontro.
La polizia, gli autovelox, le telecamere a circuito chiuso, gli allarmi antifurto.
Questi due carcerieri oscuri, Health and Safety [Salute e Sicurezza], sono
usati da quei ficcanaso per sferrare attacchi sempre più violenti alle nostre
libertà. Vale la pena di ricordare, per esempio, che quando, nel 1828, il
ministro degli Interni inglese Robert Peel propose l’istituzione di una forza di
polizia, ci fu una sollevazione popolare contro le limitazioni alla libertà
personale che sarebbero derivate da un simile provvedimento. Prima della
nascita della polizia di Stato, il rispetto della legalità era garantito da agenti
eletti a livello locale. Oggi invece abbiamo un imponente macchinario statale
che deve vedersela con circa cinquantamila criminali incalliti nel Paese,
mentre i sessanta milioni di onesti cittadini britannici devono soffrire. Questi
sistemi sono un affronto al godimento spontaneo della vita, un oltraggio al
piacere.
Io sono contrario al crimine, ma non perché disapprovi moralmente
l’infrazione delle leggi: anzi, sono affascinato dai criminali e dai ragazzini
Asbo* proprio perché la loro criminalità testimonia il loro rifiuto di
sottomettersi all’autorità. La delinquenza è un segno di vitalità. Sono contrario
al crimine perché non fa che nutrire l’apparato governativo: per ogni crimine
commesso, c’è un attacco dieci volte maggiore alle libertà personali. Una
bomba provoca diecimila nuove leggi. I governi amano il crimine, perché il
crimine fornisce loro una ragion d’essere (proteggere i cittadini) e un’ottima
scusa per estendere il loro controllo su di noi. Dunque, il vero anarchico
dovrebbe evitare a ogni costo di compiere atti criminali.
1984 di George Orwell sta diventando realtà anche in altri modi. Mentre
scrivo, il governo degli Stati Uniti sta cercando di citare in giudizio il motore
di ricerca Google perché nei suoi archivi sono registrate tutte le nostre
ricerche, e ciò gli permetterebbe di indagare i nostri processi mentali più
reconditi. Internet minaccia di trasformarsi da strumento di liberazione in
strumento di sorveglianza, una spia in ogni casa. Suppongo che la stessa cosa
potrebbe accadere alle nostre e-mail. Le nostre conversazioni più intime sono
registrate nella memoria elettronica, salvate, conservate, e resteranno per
sempre immagazzinate in qualche enorme hard drive, nel caso le autorità
avessero bisogno di dare un’occhiata. Il Grande Fratello non solo ci sta
guardando, ma ci ascolta anche, origlia le nostre conversazioni, spia l’interno
delle nostre menti e della nostra anima. Quel che è peggio, ci siamo sottomessi
a questo sistema di nostra spontanea volontà. Non è mai stato così con le
Poste di Sua Maestà. E ora c’è una nuova minaccia alle libertà civili nel Regno
Unito, sotto forma di carte d’identità sulle quali saranno annotate le nostre
manchevolezze.
L’ansia, e il fatto di essere circondati da agenti ansiogeni, è il fulcro del
progetto capitalista. Ecco perché vi dico: «Non è colpa vostra». Lo stesso mito
è perpetuato ovunque: compra quest’altro oggetto, solo un altro ancora, e
sarai felice. Potrebbe essere l’ultimo album degli U2, un versamento in
beneficenza, una polizza assicurativa multirischio, una nuova carta di credito,
una splendida vacanza, un lavoro migliore, un’auto più veloce… Non importa
quante volte questo mito fallisca nel generare la soddisfazione promessa; noi
continueremo a comprare un altro oggetto, e un altro ancora. Per dirla con
Penny Rimbaud, batterista e fondatore dei Crass, «diamo da mangiare alla
mano che ci morde». Restiamo insoddisfatti. Il capitalismo è continuamente e
perennemente deludente. Chi ti promette la libertà può trasformarsi
rapidamente in chi ti opprime.
L’ansia è il sacrificio della creatività in nome della sicurezza. Significa
rinunciare alle libertà personali in cambio della promessa – mai mantenuta –
di comodità, bambagia, centri commerciali con aria condizionata. La sicurezza
è un mito: semplicemente, non esiste. Questo, comunque, non ci impedisce di
inseguirla spasmodicamente.
Alcuni di noi possono trovare una forma di piacere nell’ansia e nei suoi
opposti, così come a qualcuno piace passare dalla roba bianca a quella
marrone, dal crack all’eroina, dallo sballo alla depressione. Recentemente mi è
capitato di sedermi accanto a un signore simpatico, sulla sessantina, nel
vagone ristorante di un treno. Mi ha chiesto se volevo dare un’occhiata alla
sua copia dell’«Evening Standard». Ho risposto di no, spiegando che i giornali
mi rendono ansioso perché mi spiattellano davanti una serie di problemi che
non è in mio potere risolvere. Mi ha risposto: «Oh, a me non dispiace sentirmi
in ansia. Tanto, poi mi bevo un bicchierino!».
È scandaloso come l’establishment medico, per vendere farmaci sempre
nuovi, tenti di farci credere che le cardiopatie si possono evitare con mezzi
meccanici, per esempio smettendo di fumare o assumendo pillole tossiche,
quando è perfettamente evidente che, benché questi possano essere fattori
concomitanti, la vera causa delle cardiopatie è un cuore agitato.
L’ozio, il dolce far niente – letteralmente non fare nulla – può essere
d’aiuto nella lotta contro l’ansia. Una strategia può essere semplicemente
quella di dimenticare, di abbandonarsi, di lasciare che le cose fluiscano dentro
di noi. È proprio questo che Nietzsche raccomanda:
Chiudere di tanto in tanto porte e finestre della coscienza; restare indisturbati dal
rumore e dalla lotta con cui il mondo sottostante degli organi posti al nostro servizio
svolge la sua collaborazione od opposizione; un po’ di silenzio, un po’ di tabula rasa
della coscienza, affinché vi sia ancora posto per il nuovo, e soprattutto per le funzioni
e i funzionari più nobili, per regolare, per prevedere, per predeterminare (il nostro
organismo è infatti organizzato oligarchicamente): è questo il vantaggio – come si è
detto – della dimenticanza attiva, una guardiana, per così dire, una sorvegliante
dell’ordine spirituale: per cui occorrerà subito considerare in che senso nessuna
felicità, nessuna serenità, nessuna speranza, nessuna fierezza, nessun presente
potrebbe esistere senza capacità di dimenticare.

Con «capacità di dimenticare» Nietzsche intende l’abilità di imparare a vivere.


La memoria può essere una nemica. Quante volte restiamo a letto con gli
occhi sbarrati a meditare dolorosamente su tutte le cose che dovremo fare in
futuro, e su tutte le cose che abbiamo sbagliato in passato? È per questo che
sono convinto che una dose moderata di alcol sia un’ottima idea, sempre che
sia di buona qualità. La birra è un fertilizzante per l’anima. Ed è per questo
che è importante fare buone letture. Riempirsi la testa di materiale di qualità,
ingredienti sani. Una dieta a base di buoni scrittori, senza giornali e riviste di
bassa lega, che non fanno altro che aggravare l’ansia, produrranno pensieri di
alta qualità e faranno di voi persone autonome e piene di risorse. Cibate la
vostra mente.
Nel giardinaggio si sta affermando un nuovo metodo, che consente di
risparmiare fatica: consiste nel ricoprire il terreno con uno strato di materia
organica, anziché scavarlo faticosamente ogni anno. È il sistema più naturale,
e il meno faticoso: lascia che la natura faccia il suo corso, riducendo al
minimo l’intervento umano. La stessa cosa accade con la vostra mente:
concimatela con ingredienti di qualità, libri, cibo e bellezza, e diventerà fertile
e produrrà cose belle e utili. Concimare la mente è anche molto meno faticoso
che scavarla. Scavare può anzi essere dannoso, perché porta in superficie dei
semi da cui nascono erbacce, e che altrimenti sarebbero rimasti dormienti.
Questi semi invece germoglieranno, costringendoci a molto lavoro inutile.
Ci serve anche una dieta di buone compagnie, allegria, divertimento, feste e
gioia. «Il buonumore» o, per dirla in modo più moderno, «farsi quattro risate
con gli amici», è uno dei piaceri più alti che la vita ci offra, e può scacciar via
quell’ansia, in particolare rivelando che anche gli altri sono ansiosi quanto
noi. Rimuovere dalle nostre vite i giornali e la televisione aiuta moltissimo. Io
sono riuscito ad assestarmi su un giornale a settimana, e così mi resta molto
più tempo per concentrarmi sulle cose che contano davvero nella vita: bere,
per esempio, o la musica. Rimpiazzate la tv con gli amici, i giornali con i libri.
Quanto a quelli fra noi che sono «rimasti confinati a lungo in una città
popolosa», come diceva Milton, raccomando caldamente di evitare la
metropolitana, e di girare piuttosto in bicicletta. Per due anni ho fatto il
pendolare a Londra in bici. Quindici miglia di pedalate al giorno, quasi due
ore, e che gioia era. Pedalare porta con sé un inebriante senso di libertà e
autosufficienza, oltre naturalmente alla piacevole sensazione di non spendere
soldi. Scendete a ruota libera per la città, siete in città ma non della città,
vivete la città ma senza esserne controllati. Sugli autobus e sui treni, siete
bersagli facili per gli inserzionisti pubblicitari. In sella a una bici, invece,
potete sorpassarli a testa alta. La gente dice che andare in bicicletta è
pericoloso, ma è una scusa patetica, oltre che un esempio dell’atteggiamento
meschino contro cui questo libro si scaglia. Ebbene, e se anche ci fosse un
margine di rischio nelle vostre vite? È solo un bene. Sveglia! Se proprio non
riuscite a vedervi in sella a una bici, almeno cercate di concedervi molto
tempo extra per il vostro viaggio, e sedetevi al piano di sopra dell’autobus.
Anche questo può essere un grande piacere, per la stessa ragione: galleggiate
sopra la città come un osservatore distaccato. Ho sperimentato momenti di
gioia pura su un autobus a due piani: momenti in cui avrei potuto ripudiare
tutto ciò che ho appena scritto e convincermi invece che questo è un mondo
meraviglioso. Oppure camminate! Camminate nel parco, e ammirate i nobili
giardini! Ma qualunque cosa facciate, evitate la metropolitana. Come dice il
mio amico Mark Manning, altrimenti noto come Zodiac Mindwarp, «non
riesco a stare seduto in silenzio a guardare gente che non conosco».
Un’altra strategia per combattere l’ansia è assicurare varietà alle nostre
giornate. Uno dei piaceri della vita in campagna è che c’è molto lavoro
manuale da fare. Tre o quattro pomeriggi a settimana me ne vado nell’orto e
pianto, scavo, estirpo, trasporto letame, o semplicemente mi fermo a guardare.
Una dieta fatta solo di lavoro mentale è soffocante. «È evidente che mantenere
la mente in sintonia col divino è molto più facile per un contadino, anche se
lavora duramente, che non per un impiegato stressato dal lavoro» dice
Schumacher. E il mio vicino, John il fattore, ne è la riprova. Uno dei grandi
vantaggi di essere un fattore, sostiene John, è che si ha a disposizione un
sacco di tempo libero per pensare. Un’altra idea: non andate in palestra. Le
palestre sono contaminate dalla vanità e dal denaro, dall’assurda ricerca della
perfezione. È l’etica consumistica applicata al corpo. Le palestre sono nemiche
del pensiero, e i loro maxischermi obnubilano le nostre menti e ci distraggono
da noi stessi. A volte penso che la vita si sia ridotta a uno sguardo rivolto a
uno schermo. Fissiamo uno schermo tutto il santo giorno in ufficio. Fissiamo
schermi in palestra. Anche sugli autobus ora hanno installato degli schermi. Ci
sono schermi sui treni. Poi torniamo a casa e fissiamo lo schermo del
computer, e quello della tv. Per divertirci fissiamo lo schermo del cinema.
Lavoro, riposo e divertimento: tutti richiedono che noi fissiamo schermi. Gli
schermi fanno di noi dei riceventi passivi. Tirate una martellata allo schermo e
trovatevi una matita e un foglio di carta. Addio, schermo. Benvenuto,
gessetto!
Il neo-luddista Kirkpatrick Sale era sulla strada giusta quando frantumò un
monitor per pc sul palco. Mostrandoci le vite degli altri in un flusso continuo,
gli schermi ci tolgono la responsabilità di creare una vita per noi stessi. Invece
di agire, guardiamo agire gli altri. Questo ci rende radicalmente impotenti, e
l’impotenza conduce all’ansia. E l’ansia allo shopping. Lo shopping conduce
ai debiti. I debiti conducono di nuovo all’ansia.
Un’altra soluzione semplice per l’ansia è abbracciare una teologia fatalista. I
cattolici, per esempio, sono probabilmente meno ansiosi dei protestanti, e i
buddisti sono senza dubbio meno ansiosi degli ebrei. Se credete che non ci sia
molto di sensato che possiate fare a parte divertirvi, ecco che la vostra ansia
scompare. Se ragionate come i puritani, e pensate di avere una chiara
percezione della vostra importanza nel mondo, e che quel che fate è davvero
significativo, la vostra ansia aumenterà. Un’alta opinione di sé favorisce
l’ansia, come vedremo nel capitolo 24. Dobbiamo imparare a fregarcene: non
nel senso di essere egoisti, ma nel senso di essere spensierati. Oggi, vogliamo
che gli altri ci considerino persone «premurose», e portiamo fiori sulla tomba
di perfetti sconosciuti per dimostrare la nostra natura «premurosa» a chiunque
possa vederci. «Sono davvero una persona premurosa» diciamo: una frase
che non significa assolutamente nulla, se non che ci facciamo carico dei
problemi altrui senza ricavarne alcun effetto benefico concreto. Parlare di
premura è pura ipocrisia.
Allora, liberatevi dalle preoccupazioni. Diventare sereni e spensierati è il
vostro dovere rivoluzionario come cercatori di verità. Smettete di lavorare;
smettete di comprare; iniziate a vivere. Abbuffatevi, bevete. Mangiate capponi
e buoni prosciutti. Bevete vini speziati e birre stagionate. Fate traballare la
vostra tavola per il troppo carico. Preparate la marmellata e la salsa chutney.
Suonate l’organetto di Barberia. Comprate un pianoforte. Di recente ho
convertito il mio pub casalingo in una sala da musica. Abbiamo trovato un
vecchio pianoforte, praticamente gratis, così ora possiamo cantare a
squarciagola. Come l’ansia è un prodotto della vostra immaginazione, anche
se influenzato dal mondo commerciale, così la vostra immaginazione ha il
potere di rimpiazzarla col buonumore.

VAI IN BICICLETTA

* Anti-Social Behaviour Orders, ovvero i ragazzi «difficili» oggetto di un programma


governativo per la prevenzione della piccola criminalità minorile. (N.d.T.)
Spezza le catene della noia

Lascia che siano altri a lamentarsi della malizia della loro epoca. Quello
che mi secca è la sua meschineria, perché la nostra è un’epoca senza
passione… La mia vita è monotona, monocorde.
SÖREN KIERKEGAARD

Se la scienza contemporanea fosse più sofisticata e più sottile, sono certo che
definirebbe la noia come uno dei killer più spietati del mondo moderno. Lo
scrittore francese Raoul Vaneigem, che appartenne a quella scuola di
scansafatiche anarchici noti come situazionisti, e che fu amico di Guy Debord,
scrisse nel Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni (1967):
«La gente muore di noia». Credo che questa osservazione sia vera in senso
letterale. Il grigiore e la noia non sono solo nemici della gioia di vivere; ne
sono gli assassini. Non mi sorprenderebbe affatto scoprire che sono anche
cancerogeni.
La noia è stata inventata nel 1760. Fu in quell’anno, come scrive il
professor Lars Svendsen nel suo eccellente studio Filosofia della noia (2003),
che la parola boredom (noia) apparve per la prima volta nella lingua inglese.
L’altra grande invenzione dell’epoca fu la Spinning Jenny, il telaio meccanico
che sancì l’avvio della Rivoluzione industriale. In altri termini: la noia sorge
dalla divisione del lavoro e dal passaggio da un lavoro autonomo e gradevole
al ben più noioso e schiavizzante lavoro in fabbrica.
E siamo davvero annoiati. Entrate nelle chat room o sui forum di internet
fra le tre e le cinque del pomeriggio e troverete centinaia di messaggi lasciati
da impiegati d’ufficio, che dicono: «Mi annoio, mi annoio, mi annoio!».
Questi appelli disperati, queste preghiere sofferte recitate da anime
prigioniere, sono come messaggi in bottiglia, gettati nell’etere, nell’oceano del
cyberspazio, nella speranza che qualcuno lì fuori sia in ascolto e che qualcuno
lì fuori possa accorrere in loro aiuto. Le probabilità, naturalmente, sono
scarse.
Di recente ho contribuito alla stesura di un libro intitolato Crap Jobs
[Lavori del cavolo]. Avevamo chiesto ai lettori della nostra rivista, «The
Idler» [L’Ozioso], di inviarci le loro storie di inferno lavorativo, e una delle
cose che più mi hanno colpito è stato il numero di persone che hanno citato la
noia come un aspetto tra i peggiori della vita lavorativa. Queste persone
trovano quasi impossibile sopportare il tedio, e si danno da fare in ogni modo
per superarlo: sabotaggi, violente prese in giro dei colleghi, atti irresponsabili.
Uno dei problemi è che molte professioni moderne richiedono quel minimo di
concentrazione necessaria per non sognare a occhi aperti, ma non abbastanza
per tenere davvero occupata la mente. Un lavoro meccanico potrà allora, per
esempio, essere preferibile a un impiego in un call center. I call center
sembrano fatti apposta per annoiare i propri clienti, e senza dubbio annoiano
a morte chi ci lavora. La paga è bassa e in più c’è la tortura psicologica di non
sapere mai quali atrocità ci riserverà la prossima telefonata.
Un’altra pubblicazione recente del nostro gruppo era intitolata Crap Towns
[Città del cavolo], e anche stavolta mi ha colpito il fatto che l’uniformità delle
città moderne fosse citata spesso come uno dei motivi principali della loro
bruttezza. Qualcosa di orribile è accaduto: le grandi catene di negozi in
franchising hanno invaso il Paese, trasformando quelle che una volta erano
cittadine vivaci, variegate ed esuberanti in altrettanti cloni, tanti centri
commerciali identici l’uno all’altro e popolati di zombi con il portafogli in
mano. Le piccole città inglesi di oggi non sono altro che un gruppo di
appartamenti raccolti attorno a un grande centro commerciale. Ci piange il
cuore quando camminiamo per il corso principale. Da ogni parte ci assalgono
marchi di fabbrica, istituzioni scialbe che hanno preso il posto delle variegate
e divertenti botteghe di una volta: il pizzicagnolo, il pescivendolo, il sarto da
uomo, il panettiere, il fioraio, il ciabattino e il farmacista. La spinta alla
crescita e l’economia di scala hanno messo in fuga lo spirito indipendente. O
quasi. A volte capita di vedere una vecchia bottega vittoriana: la sua bellezza,
eleganza e gioia di vivere risplendono come un arcobaleno. E poi ci sono altri
raggi di speranza: ieri ho visto un cartello, nella cittadina vicino a casa mia,
che mi ha rincuorato. Era nella vetrina di una bottega di riparazioni di
televisori, un’altra area merceologica in via d’estinzione. Diceva: Servizio
all’antica effettuato dal titolare.
Se E.F. Schumacher sosteneva che «Piccolo è bello», potremmo certamente
aggiungere che «Grande è noioso»: sono infatti le dimensioni sproporzionate
delle istituzioni moderne a renderle così impersonali, alienanti e stancanti per
lo spirito. Il McDonald’s è noioso; il ristorante indiano dove mangio di solito
no. Raoul Vaneigem ha scritto, sempre nel Trattato del saper vivere, che la
quantità ha avuto la meglio sulla qualità. Siamo diventati così ossessionati dai
numeri e dalle somme che abbiamo gettato da parte la bellezza e la verità.
Abbiamo sacrificato la vita al profitto. Risultato: noia su larga scala.
Una delle cause principali della noia, a mio avviso, è la scomparsa della
nostra creatività quotidiana. La rivoluzione puritana portò la noia alle masse.
Anche la religione e il cammino alla salvezza divennero noiosi. Nel Medioevo
la religione era piena di sangue, orrore e morte. Le chiese erano centri di
attività economica e di festa, oltre che luoghi di culto. La Chiesa era patrona
delle arti e commissionava opere d’arte agli artigiani locali. A messa si andava
soprattutto per il valore di intrattenimento dei sermoni: erano una forma di
teatro. Nella Firenze medievale, la gente faceva la fila tutta la notte per
ascoltare un predicatore famoso; e al termine della messa la si vedeva uscire
dalla chiesa in lacrime e singhiozzi. Tutto ciò fu spazzato via dai puritani, che
definirono «superstizione» e «idolatria» i metodi della vecchia Chiesa. In altri
termini, fu eliminato tutto il sano divertimento pagano che la Chiesa cattolica
aveva saggiamente conservato.
Anche i politici sono colpevoli di questa monotonia nelle nostre vite. Non
sentiamo i governi diffondere slogan come «Pugno di ferro contro la noia.
Azione decisa contro le radici della noia». Il più tedioso di tutti i governi – e i
governi sono tediosi per natura – fu quello nazista. Marce, file e colonne, la
distruzione dell’individualità, l’imposizione di un ordine burocratico
minuzioso, la sistematica rimozione di qualsiasi cosa minimamente
interessante: in particolare gli ebrei, ma anche gli zingari, i vagabondi, i pigri e
i dissidenti politici. I nazisti adoravano scrivere rapporti, compilare moduli,
catalogare, mantenere ogni cosa pulita e in ordine. I nazisti hanno cercato di
fare le pulizie di primavera su scala mondiale, come i puritani prima di loro,
ed è per questo che dobbiamo resistere alla tentazione del troppo ordine.
La ragione principale per cui così tante persone sono disperatamente
annoiate è che siamo governati da gente noiosa. Gli affaristi, i capitalisti in
cerca del profitto, gli alti sacerdoti del tedio totale hanno in mano le redini
dell’economia. Al governo ci sono i burocrati, i compilatori di moduli. A loro
la noia piace. Essere vivi li riempirebbe di terrore. Ma le cose non sono
sempre state così, e non devono restare così. C’era una volta, non tanto tempo
fa, un mondo in cui le persone noiose erano emarginate perché empie. Nel
Medioevo, soprattutto nei primi secoli, chi era portatore di valori borghesi e
dava troppo valore al denaro era guardato con disprezzo dai guerrieri, dai
preti e dai contadini. «C’è qualcosa di deplorevole nel commercio, qualcosa di
sordido e scandaloso», scrisse il maître-à-penser Tommaso d’Aquino. La
felicità, aggiungeva, va ricercata nella riflessione, non nella distrazione:
Dunque, se la felicità suprema per l’uomo non risiede nelle cose esterne che
chiamiamo i beni della fortuna, né nei beni del corpo, né nei beni dell’anima per la
sua parte sensitiva, né in quella intellettiva secondo l’attività delle virtù morali, né
secondo l’attività delle virtù intellettuali che concernono l’azione, ovvero l’arte e la
prudenza; dobbiamo concludere che la somma felicità per l’uomo risiede nella
contemplazione della verità.

La noia è una forma di controllo sociale. Contemporaneamente al sorgere


della noia alla fine dell’Ottocento, assistiamo a un attacco sferrato contro
l’idea che il popolo possa organizzare il proprio divertimento. Come
sappiamo, l’arte e l’intrattenimento nelle epoche precedenti seguivano un
percorso dal basso verso l’alto. Tutti gli attori drammatici erano dilettanti; le
corporazioni artigiane organizzavano rappresentazioni teatrali; nel Medioevo
anche gli artisti erano considerati artigiani. Ma lo storico radicale E.P.
Thompson ci mostra che le autorità divennero sospettose di questa
democrazia dell’arte proprio nel periodo iniziale dell’era industriale; e il
controllo del tempo libero fu tolto al popolo insieme al controllo del lavoro.
In The Romantics, Thompson cita la risposta fornita nel 1798 da una
benintenzionata nobildonna liberale alla richiesta di un operaio di organizzare
uno spettacolo teatrale: «La rappresentazione» teme la signora «potrebbe farvi
male, e istigare rivolte e disordini nelle birrerie». Per Thompson, questo
aneddoto rivela la sempre crescente «paura nei confronti di una vera cultura
popolare, al di fuori della pianificazione e del controllo dei migliori».
Thompson incolpa anche il sistema educativo centralizzato e cita una lettera
composta nel 1911 da un ex ispettore capo delle scuole (e questo è
sorprendente), che critica il sistema scolastico definendolo noioso: «Lo scopo
dell’insegnante è di non lasciar spazio alla natura [dell’allievo], alla sua
spontaneità, alla sua libertà di movimento; di reprimere ogni suo impulso
naturale; di drenare tutte le sue energie fino all’annientamento della volontà; di
mantenere tutto il suo essere in uno stato di continua e dolorosa tensione».
La noia è dolorosa. Per Vaneigem, la pressione di essere tutti uguali stanca
il nostro spirito: «Mentre però l’organizzazione gerarchizzata s’impadronisce
della natura e si trasforma nella lotta, la parte di libertà e creatività riservata
agli individui si trova assorbita dalle necessità di adattarsi alle norme sociali e
alle loro variazioni».
Per evitare di deprimerci troppo, non dimentichiamo che lo spirito creativo
è ancora vivo. Sull’Isola di Eigg, vicino a Skye, in Scozia, tutti gli abitanti si
riuniscono ogni sabato sera per bere e fare musica. Nessuno riceve uno
stipendio: si suona per il piacere di suonare, non per soldi. Per combattere la
noia, dobbiamo riprendere il controllo del nostro lavoro e del nostro tempo
libero. L’artista Jeremy Deller ha viaggiato per molti anni in giro per le isole
britanniche, fotografando esempi di quella che lui definisce «arte folk».
Ovvero: atti creativi più o meno fini a se stessi, compiuti da persone normali
che non si definirebbero mai degli artisti. Questa è arte al di fuori del mondo
dell’arte, delle gallerie, dei musei, delle case d’asta e della sovrintendenza ai
beni culturali: fuori, insomma, dal mondo del denaro e da quello della
burocrazia. Tra i tanti esempi: un gufo gigante realizzato da un gruppo di
agricoltori; automobili personalizzate; schizzi disegnati nella polvere sul
portellone posteriore di un camion; un ritratto di Keith Richards dipinto su un
furgone; un enorme elefante motorizzato; una gara di smorfie. È un progetto
straordinario, perché dimostra che lo spirito libero è ancora vivo e vegeto.
Dimostra, in verità, che nonostante tutto la noia non ci ha ancora distrutti
completamente.
Come combattere la noia? Be’, lo stesso sistema che l’ha creata promette
anche di sconfiggerla. Il lavoro ci annoia, e poi la pubblicità promette di
liberarci dalla noia, dietro pagamento. Lo chiamano «svago», e la parola
inglese leisure deriva dal latino licere, che vuol dire «essere permesso». Lo
svago è dunque ciò che ci è concesso nel nostro «tempo libero». E costa.
Esistono enormi negozi chiamati Virgin Megastores, che vendono montagne di
musica e film. Nella pubblicità sostengono di sferrare un attacco alla noia. Ma
non dovremmo permettere loro di liberarci dalla nostra noia. Abbiamo
delegato ad altri l’alleviamento della nostra noia; ci siamo sottratti alla
responsabilità di fare i conti con essa. In altre parole: deferiamo la nostra
creatività ai musicisti e ai cineasti di professione. Paghiamo qualcun altro
perché ci sollevi dalla noia. Ci annoiamo per guadagnare i soldi che poi
spenderemo cercando di dis-annoiarci. L’assurda moda che chiamano «sport
estremi» è un esempio perfetto. Per sentirci vivi – dato che per la maggior
parte dell’anno ci sentiamo morti – ci gettiamo con un elastico da un ponte
ogni qualche mese. Cadere da un ponte, o vivere qualche secondo di
emozione, dovrebbe quindi compensare un anno intero di noia. E la libertà di
gettarci da un ponte, legati a un elastico, è sbandierata come un trionfo del
capitalismo moderno.
Tutto questo universo di noia è esattamente ciò contro cui si battevano i
Sex Pistols. Sono perfettamente d’accordo con Johnny Rotten: non voglio una
vacanza al sole. Rifiuto la vostra offerta indegna di due settimane in spiaggia
(svago noioso) per rinfrancare lo spirito dopo cinquanta settimane passate in
ufficio (lavoro noioso). In Tracce di rossetto, il critico rock Greil Marcus
collega in maniera brillante il movimento Dada a quello situazionista, e collega
entrambi al punk. Hanno in comune la lotta contro la noia, il semplice
desiderio di vivere. Ciò che unisce i tre movimenti è la fiducia nella possibilità
di ciascuno di noi di farcela. Tutti possiamo essere creativi e tutti possiamo
essere liberi. Il primo numero dell’«Internationale Situationiste», nel giugno
1958, annunciava che il mondo stava per cambiare, «perché non vogliamo
annoiarci […]. La gioventù arrabbiata e disinformata, i ribelli adolescenti di
buona famiglia che non hanno un’opinione ma una causa ce l’hanno eccome:
è la noia che accomuna questa gioventù bruciata. I situazionisti intendono
eseguire la condanna che lo svago contemporaneo ha pronunciato contro se
stesso». Il punk stava per rimettere la creatività nelle mani del popolo;
chiunque può farlo, dicevano, e per dimostrarlo, ecco i tre accordi che vi
servono per scrivere una canzone: Mi, La e Si7.
Be’, posso fare anche meglio di così. Invece della chitarra, vi esorto a
dedicarvi all’ukulele. Questa meraviglia a quattro corde costa pochissimo, è
comoda da trasportare e facilissima da suonare. È, di conseguenza, ancora più
punk della chitarra. Ecco i tre accordi che vi basteranno per suonare la
maggior parte delle canzoni:

Procuratevi un ukulele e non vi annoierete mai più. Potreste anche


guadagnare qualche soldo, suonando per strada. L’ukulele è libertà. Anzi,
l’Ukulele Orchestra of Great Britain ha intitolato il primo album Anarchy in
the Ukulele, ed è un titolo molto adatto.
Dietro l’attacco alla noia c’è un desiderio radicale di riprendere il controllo
delle nostre vite dalle mani delle enormi organizzazioni a cui ci siamo più o
meno volontariamente consegnati. È un atto di grande irresponsabilità da
parte nostra. Ma non è troppo tardi. Abbiamo solo bisogno di scoprire la
nostra creatività. Il modo più semplice per evitare la noia è creare oggetti; e in
questo settore ci sono già i germogli di un nuovo movimento, testimoniati dal
successo della rivista statunitense «Ready Made» [Pronto all’uso]
(www.readymademag.com). Il mio umore, poi, migliora di molto quando
vedo i ragazzi sugli skateboard. Ho lavorato per un anno in un negozio di
skate, e so bene che questo passatempo è radicalmente creativo e positivo. È
un movimento autodiretto, una federazione, con i propri giornali, le fanzine, i
concorsi e i negozi, tutti con un alto livello di ingegnosità, indipendenza e
creatività. Una delle aziende più giovani è la Death Skateboards, dallo
splendido nome, che ha l’altrettanto splendido slogan «Morte alla noia», e hip
hip urrà a loro.

SUONA L’UKULELE
La tirannia delle bollette, ovvero: la semplicità ti farà libero

Malgrado i precedenti solleciti, dai nostri tabulati risulta che non abbiamo ancora ricevuto
il versamento relativo alla Sua bolletta dell’energia elettrica. I dettagli del Suo contratto
saranno ora comunicati all’Ufficio recupero crediti, che invierà un delegato al Suo
domicilio per disconnettere l’allaccio alla rete elettrica, oppure installare un contatore per
il pagamento anticipato.
Lettera all’autore di Steve Hayfield, Direttore, Ufficio gestione delle entrate, Società per
la fornitura dell’energia elettrica (2005)
La West London Magistrates Court ha emesso nei Suoi confronti, il 28.07.2005, un ordine di
addebito per il mancato pagamento della somma di 875 sterline e 40 pence.
Lettera all’Autore dall’Ufficio locale delle Entrate, Hammersmith e Fulham, «Serviamo
la comunità»
Negli ultimi tre mesi, abbiamo individuato 172 evasori nella Sua zona. Nonostante i
numerosi solleciti, constatiamo che il Suo domicilio è ancora privo di licenz. […] Se Lei
sta usando un televisore illegalmente, sussiste ora una possibilità concreta che Lei sia
chiamato in giudizio e multato fino a 1000 sterline.
Lettera all’Autore di Ross McTaggart, Direttore dell’Ufficio per la riscossione del
canone televisivo (2005)
Coltivi la semplicità, Coleridge.
Lettera di Charles Lamb a Coleridge (1796)

Ogni giorno, una valanga di oppressione atterra nelle nostre cassette della
posta. Buste marroni ovunque, stampate in caratteri minacciosi. Finestrelle di
plastica trasparente. Lettere rosse, viola, nere. Richieste di soldi, generalmente
a caratteri cubitali e in colori accesi, per le persone stupide. «Gli ingranaggi
tirannici», come li chiamava Blake, della macchina burocratica continuano a
girare. Se solo potessimo liberarci da tutte queste bollette, pensiamo,
potremmo toglierci questi pesi dalle caviglie e volare ovunque vogliamo.
Il costo già enorme della vita quotidiana aumenta, quando si è pigri come lo
sono io. C’è una tassa sulla disorganizzazione. Quelli tra noi che vogliono
vivere liberi, vivere oziosi, insomma vivere, hanno la tendenza (tendenza
definita «irresponsabile» dalle persone sensate) a ignorare tutte le fatture, le
multe, i solleciti per le tasse, gli estratti conto, le bollette del telefono e, in
generale, l’inesprimibile orrore della zavorra che opprime la vita moderna. Li
mettiamo in un cassetto, proroghiamo il pagamento, rimandiamo e
procrastiniamo. Abbiamo di meglio da fare, per esempio soffiare anelli di
fumo verso il soffitto.
Ma se ritardate il pagamento, le bollette si fanno di colori ancor più
preoccupanti, e il tono diventa più minaccioso a ogni nuovo sollecito. Per
dirla con lo scrittore satirico Ian Vince, le lettere sono scritte «in tono
condiscendente eppure vagamente autoritario». Il linguaggio è svilito,
inelegante, freddo, impersonale, colpevolizzante, e ciò che in realtà significa è:
«Datti una mossa, idiota. Ti stai facendo riconoscere. Tutti gli altri hanno già
pagato. È la gente come te che danneggia tutto il sistema. Datti da fare,
coraggio».
Il modulo per l’annuale dichiarazione dei redditi usa una cadenza simile, tra
il soccorrevole e il minaccioso. Ecco una citazione. Prima c’è il tono gentile,
paterno: «Se ha bisogno d’aiuto, noi siamo qui – on-line, al telefono o di
persona». Ma questa dichiarazione è immediatamente seguita dalla minaccia,
stampata in grassetto: «Se la sua dichiarazione è mendace, Lei rischia di dover
pagare una penale e gli interessi».
La mia tendenza a trascurare il lato finanziario della mia vita mi costringe a
pagare orribili balzelli alla mia banca. Negli ultimi due mesi, per esempio, mi
sono state tolte trecento sterline dal conto corrente per aver superato il limite
di scoperto, in alcuni casi solo per un giorno o due. E questo si aggiunge ai
tassi d’interesse già proibitivi. Ho fatto ricorso contro alcuni di questi
provvedimenti, e a volte ho vinto. Ma ora non ho più voglia di perdere tempo
con queste cose. Scrivere o telefonare, riuscire a mettersi in contatto con un
essere umano anziché una voce pre-registrata, e riuscire a ottenere un
rimborso… sembra un’eventualità remota. Quindi non ci provo neppure.
Semplicemente, prometto a me stesso, senza troppa convinzione, di darmi una
regolata. Una parte di me, presa dal senso di colpa, vede queste penali come la
giusta punizione per la mia trascuratezza. Ma poi leggo sul giornale che la mia
banca quest’anno ha realizzato un profitto di quasi dieci milioni di sterline.
Sembra quindi che la mia indolenza nel pagare i conti faccia loro comodo.
L’altro giorno è suonato il campanello. Era Emma Brown (non è il suo
nome vero) dall’ufficio delle tasse. Insieme ci siamo seduti al tavolo della
cucina. Mi ha spiegato che sono debitore di 1700 sterline, e che se non potevo
pagarle, lei avrebbe dovuto fare il giro della casa, in cerca di mobili e
televisori da requisire. A un certo punto ha usato la parola «pignoramento».
Ora, io non ho idea di cosa significhi «pignoramento», ma so che è una parola
che porta con sé un’aura di minaccia palpabile. Per fortuna mi sono ricordato
che il mio commercialista mi aveva detto che dovevo al fisco solo
cinquecento sterline. Ho controllato l’estratto conto e ho scoperto di avere
ancora cinquecento sterline prima di andare in rosso. Così, la signora Brown
ha accettato un assegno per quella cifra e se n’è andata.
Non avevo compiuto atti criminali deliberati. Ero stato pigro, forse un po’
negligente, magari distratto. Ma mi hanno trattato come un delinquente. E tutti
siamo un po’ disorganizzati, a volte; non siamo robot. I nazisti erano
organizzatissimi. Ed è così che tutti i non-robot nella società sono presi di
mira e multati. Questo processo di autolesionismo raggiunge la massima
evidenza nel caso delle multe per divieto di sosta. Guai all’incauto
automobilista che riparte dal parcheggio con novanta secondi di ritardo!
Dovrà pagare trenta sterline. E se non le paga all’istante, la cifra raddoppia, o
triplica. Una volta ho accumulato quasi mille sterline di multe, perché mi ero
dimenticato di rinnovare il bollino per i residenti. Per farmi ridurre la multa a
cinquecento sterline ho dovuto far visita a una specie di tribunale, la mattina
successiva a una solenne sbronza.
Sì, costoro elevano contravvenzioni. La sola idea di «multa» porta con sé il
concetto di punizione per una malefatta. Non è una semplice transazione
finanziaria, o una forma legalizzata di furto, no: nella multa c’è una
componente morale. Una multa è ciò che le autorità ti infliggono quando hai
fatto qualcosa di male. Dio ti ha punito. Se, per esempio, siete in ritardo con
le tasse, vi multano di cento sterline: ma in nome di quale autorità? Se salite
su un treno senza biglietto, alcune compagnie vi fanno pagare l’intera tratta,
una cifra astronomica. E ovviamente non è mai colpa di nessuno. Il sistema sa
bene come scansare la responsabilità per i propri scandali. Probabilmente in
questo la dimensione delle aziende gioca a loro favore. «Non sono io a dettare
le regole» dicono i nostri oppressori. «Eseguo solo gli ordini.» Questa catena
di potere esiste per farci sentire in colpa se ci arrabbiamo con un semplice
impiegato o con un centralinista, e così renderci impotenti.
Nel Medioevo, le multe erano comminate dalla comunità, dal villaggio, per
punire la trasgressione di certe regole. I registri dei vassalli mostrano che le
infrazioni erano regolarmente punite dalla comunità locale con pene
pecuniarie. «John Aubrey ha provocato disturbo lasciando il suo mucchio di
letame nella strada di Sua Maestà. Multato di uno scellino. Ma graziato perché
povero.» La multa però ti era imposta dai tuoi vicini di casa, e i soldi finivano
dritti nelle casse della comunità, che servivano a finanziare opere
nell’interesse della comunità. Analogamente, nel caso delle corporazioni
professionali, le trasgressioni erano punite, i soldi delle multe erano raccolti e
riutilizzati per organizzare grandi banchetti, elemosine e sussidi di
disoccupazione. Il principio è lo stesso: le multe si riversano nella cassa
comune. Ma le dimensioni sproporzionate delle istituzioni coinvolte hanno
tolto a questa transazione il suo senso di collettività o connessione reciproca.
Ci sentiamo offesi e danneggiati. L’altro giorno ero in un tribunale civile, in
attesa di essere interrogato per un caso di guida senza assicurazione. A un
certo punto entra una giovane coppia. L’uomo apre la porta di una delle aule,
la richiude e grida alla sua ragazza: «C’è di nuovo quella vecchia puttana».
Non ci sentiamo minimamente coinvolti nel corso della giustizia: per molti di
noi, è solo un branco di ficcanasi al potere – le vecchie puttane – che puntano
il dito contro i giovani scapestrati.
Inutile dire che non vale l’inverso. Non c’è modo per noi di imporre multe
alle aziende che ci hanno fregati, cosa che fanno spesso. È un contratto a
senso unico, progettato per favorire il pesce grosso e rapinare il pesce piccolo.
Rubare ai poveri e ai derelitti è molto facile. Come scrive John Ruskin in A
quest’ultimo: «La forma contraria di ruberia, quella del masnadiero – il
derubare, cioè, il ricco perché ricco –, pare che non si presenti altrettanto
frequentemente al pensiero dell’antico mercante: forse perché, essendo cosa
meno vantaggiosa e più pericolosa del derubare il povero, è di rado praticata
da gente che sappia il fatto suo». Davvero. È più facile rubare ai poveri: basta
guardare i prezzi dei supermercati.
Ah, l’ordine! È tutta la vita che cerco di diventare una persona ordinata,
fallendo miseramente. Mi dimentico di ritirare soldi che mi spettano. Mi
dimentico di sollecitare i miei debitori; il risultato è che io perdo e le grandi
aziende vincono. È vero che i numeri sono contro di noi: tu sei da solo a casa,
poeta bohémien, con il computer portatile e il telefono, che cerchi di fare tutto
da solo. Loro, viceversa, dispongono di interi uffici pieni di schiavi di
professione che hanno il compito di liberarsi di te, evitarti e strapparti i soldi
con le minacce. Credo che uno dei problemi sia il fatto che siamo stati educati
a credere nell’idea di un «impiego», una posizione da salariato in cui altri
risolvono per te i tuoi problemi di soldi. Dipendiamo tutti dai nostri datori di
lavoro.
Ci manca quell’atteggiamento mentale del lavoratore indipendente, che è
così importante per chi ricerca attivamente la libertà: l’istinto che ci guida a
prenderci cura di noi stessi. Quando prendiamo la decisione di uscire dal
ritmo dalle-nove-alle-cinque, dobbiamo anche imparare a gestire bene i nostri
soldi.
G.K. Chesterton scrisse un saggio sul legame tra organizzazione ed
efficienza. «Ci hanno ripetuto che organizzazione è sinonimo di efficienza»
scrive. «Sarebbe molto più vero dire che organizzazione è sinonimo di
inefficienza.» Chesterton sostiene che le grandi organizzazioni sono
necessariamente, e per loro natura, inefficienti, a causa delle infinite catene di
esseri umani da cui sono composte. Più è grande l’organizzazione, più sono le
cose che possono andare storte. Un piccolo gruppo è più efficiente, sostiene.
Il metodo più efficiente per produrre un cavolo, per esempio, è coltivarlo da
soli. È più efficiente prendere la legna da un albero del vostro giardino che
non fare affidamento sul petrolio estratto in Arabia Saudita, trasformato in gas
in chissà quale raffineria e poi trasportato in gasdotti attraverso Paesi
politicamente instabili fino a giungere a casa vostra.
La contabilità dovrebbe far parte dell’educazione di ogni persona che
ricerchi la vera libertà. Lo studio condotto da Jenny Uglow sui pionieri
dell’Illuminismo, The Lunar Men (2002), rivela che i figli e le figlie di
grand’uomini come Erasmus Darwin e Joseph Priestley ricevettero
un’istruzione approfondita nel campo della ragioneria. Questo consentì loro di
seguire i propri affari e di affrancarsi dalla dipendenza nei confronti di chi fa
soldi sul caos. Gandhi ha fatto così. So che può sembrare una cosa
estremamente noiosa, ma nelle sue battaglie per la libertà e contro l’autorità
Gandhi trovava utile tenere libri contabili aggiornati. Ma forse voi potete
iniziare con piccole cose, come per esempio mettere nero su bianco, alla fine
della giornata, ogni vostra spesa. È incredibile quanto sia utile questo sistema
per mantenere il controllo della propria situazione.
Il mio amico Dan Kieran usa il pugno di ferro contro i debiti, che vede
come il nemico assoluto. Anche qui, il sistema di addebito diretto su conto
corrente trae profitto dalla pigrizia e dalla disorganizzazione. Il quotidiano
«The Sun» ha recentemente scritto che gli inglesi buttano via cinquecento
milioni di sterline l’anno in addebiti diretti che hanno dimenticato di
cancellare. In altre parole, non riceviamo più il servizio ma continuiamo a
pagarlo. Dan quindi ha deciso di pagare le bollette solo in contanti o con
assegni. Ed è straordinariamente difficile, anche perché le aziende spendono
molte risorse di marketing nel tentativo di convincerci della comodità
dell’addebito diretto, tanto che di primo acchito sembra sciocco pensarla
diversamente: certo gli addebiti diretti semplificano la vita, perché ci tolgono
la fatica di ricevere bollette e scrivere assegni. Ma in realtà, il semplice atto
con cui ci assumiamo la responsabilità delle nostre finanze, tornando al
vecchio metodo di imbustare un assegno e imbucarlo nella cassetta delle
lettere, produce un senso di soddisfazione, la sensazione di avere tutto sotto
controllo. Fa sembrare più reale la transazione. L’addebito diretto fa appello al
tragico fatto che sembriamo preferire la comodità alla responsabilità.
Pagare le bollette non è poi così doloroso, quando finalmente ci diamo da
fare. Mi lascio opprimere dal peso di tutte le bollette, di tutte le cose che devo
fare, tutte le incombenze. Ma poi, quando mi siedo alla scrivania con la mia
pila di scartoffie, mi rendo conto che bastano cinque minuti per mettere tutto
in ordine. Mi sono preoccupato inutilmente, mi dico. La situazione non era
poi così grave.
Un altro consiglio ci arriva da un pescatore e grande ozioso di nome Chris
Yates. Una o due volte al mese, Chris dedica un giorno alla ragioneria:
sospende tutte le altre attività e passa in rassegna bollette, conti e ricevute.
Se l’idea di organizzare le vostre finanze vi riempie di orrore, però, potreste
anche percorrere la strada inversa, quella della disorganizzazione radicale.
Potreste rimuovere sistematicamente dalla vostra vita tutte le organizzazioni;
sradicarle, gettarle via. Potreste evitare sin dall’inizio di farvi coinvolgere. Il
modo più semplice per liberarsi dalle bollette è disdire tutti i servizi per cui le
pagate. Niente più abbonamento alla tv digitale, niente cellulare, niente
internet, niente macchina. Gandhi, di nuovo lui, raccomandava la vita
semplice a chi perseguiva il cammino della libertà. Per esempio si rese conto
di spendere un sacco di soldi per i servizi di lavanderia. Se fosse riuscito a
limitare il suo bisogno di soldi, rifletté, avrebbe potuto dedicare più tempo al
suo impegno umanitario. Quindi iniziò a fare il bucato da solo. Possiamo
trovare un’analogia con il trasporto pubblico. Invece di sganciare bigliettoni
per l’abbonamento semestrale alla metropolitana, perché non comprarci una
bicicletta e usarla per andare al lavoro?
Negli Stati Uniti, questo modo di pensare ha un nome: il simplicity
movement. Movimento della semplicità: ma che vuol dire semplicità?
Significa autosufficienza. Più bollette paghiamo, più stiamo chiedendo ad altri
di fare cose per noi, cose che in un altro mondo potremmo benissimo fare da
soli. Si vendono a voi, tutti questi commercianti di bollette, con la promessa
di semplificarvi la vita. Ma non è così. Anzi, la rendono più difficile. Ridurre
la vostra dipendenza dai servizi esterni vi regalerà tempo e denaro. Potete
anche produrre da soli l’energia elettrica. È tempo di tornare alle tecnologie
medievali: mulini a vento ed energia idraulica. Raccogliete l’acqua piovana.
Installate pannelli solari. Il vento, l’acqua, la pioggia e il sole sono doni
gratuiti della natura. Perché non approfittarne?
Detta semplicemente: se evitate di consumare i prodotti del sistema, non
dovrete pagarli. Così, risparmierete non solo i soldi che prima spendevate per
tutti quei servizi, ma anche il tempo perduto e lo stress accumulato per via
delle bollette. L’oppressione si allontanerà lentamente dal vostro zerbino. E
non dovrete lavorare così sodo. La vita diventerà più facile e a buon mercato.
A proposito, è affascinante notare quanto Gandhi (che in un certo senso era
l’opposto di un ozioso, perché praticava l’abnegazione) abbia in comune con
gli estremisti della ricerca del piacere, come per esempio Keith Allen, attore
spensierato e uomo sregolato, che vive la sua vita senza alcuno scrupolo di
coscienza, senso di colpa o simili virtù borghesi. Ma è anche un cultore della
vita semplice e del rifiuto del denaro e dell’autorità. Estremisti e moderati
sembrano avere più cose in comune di quanto si pensi. Certo, spesso sono i
cercatori di piacere più estremisti a trasformarsi nei più grandi partigiani
dell’abnegazione. Le popstar che hanno fatto tutto – alcol, droga e il resto – si
mettono a bere acqua tiepida con limone e vanno a dormire alle nove e mezza.
I due percorsi sono strettamente legati. Quanto a me, sono un moderato,
scelgo l’aurea via di mezzo. Non ho alcuna intenzione di smettere di bere e ho
una tendenza all’eccesso, ma ultimamente bevo con moderazione.
Comunque, i bastardi sanno come raggiungervi. Qualche tempo fa ho
partecipato con Keith Allen a un incontro con un editore, a cui Keith tentava
di vendere la sua autobiografia. «E perché lei vorrebbe scrivere questo libro?»
ha chiesto l’editore. «Per via delle tasse» è stata la risposta.
È perfettamente possibile creare una vita priva di complicazioni e di lavoro.
Gli artisti Penny Rimbaud e Gee Vaucher hanno fondato i Crass, la punk band
anarchica degli anni Ottanta. Quarant’anni fa hanno preso in affitto una
baracca fatiscente appena fuori Londra, l’hanno sistemata e hanno riempito il
giardino di fiori, frutta, ortaggi, capanni e gazebi per riposarsi in tutta
tranquillità. Grazie a una politica di apertura al pubblico, che ha assicurato un
flusso continuo di residenti della zona e ospiti desiderosi di aiutare, sono
riusciti a rimettere a nuovo la casa e il parco con poca spesa. L’unione fa la
forza, e in questo caso il potere delle persone ha sostituito il denaro. Vivono
un’esistenza semplice, non hanno bisogno di lavorare, e quindi hanno ettari
ed ettari di spazio mentale per seguire i propri percorsi di vita, per pensare,
leggere, scrivere, parlare, bere, fare arte. Non guadagnano quasi nulla, ma
fanno esattamente ciò che vogliono e questo, secondo me, è un risultato
straordinario. Dimostra che denaro e libertà non sono affatto sinonimi. Gee
mi ha detto: «Credo di non aver mai pagato le tasse in vita mia. Qual è il
reddito minimo per doverle pagare? Cinquemila sterline? Non guadagno una
cifra simile». Non ho mai visto una casa più libera e autosufficiente della sua.
CANCELLA GLI ADDEBITI INDIRETTI
Da’ un calcio alla carriera e alle sue vuote promesse

L’amore del lavoro ben fatto e il gusto della promozione nel lavoro
sono oggi il marchio indelebile dell’insensibilità e della sottomissione
più stupida.
RAOUL VANEIGEM, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni (1967)

Non c’è un lavoro abbastanza buono per me.


Non c’è un lavoro abbastanza buono per nessuno.
S.L. LOWNDES, Lettera al «Sunday Times» (1982)

Credere nell’invenzione astratta che va sotto il nome di «carriera» è una


malattia tipica della classe media. I ranghi inferiori della società, ma anche gli
aristocratici, sono così saggi da non riporre la stessa fiducia nel progresso e
nel miglioramento di sé che caratterizza invece i borghesi. Gli aristocratici
sono già in cima alla scala sociale, quindi non hanno nessun traguardo più
alto da raggiungere. Paradossalmente, questa circostanza fornisce loro
un’umiltà che manca invece ai meritocrati di successo delle classi medie. Se
siete nati in un castello, vi mancherà l’autocompiacimento e l’orgoglio
dell’uomo che si è fatto da sé. E al lato opposto della scala sociale, la gente
non vede la necessità di lottare per un mutuo, per la sicurezza economica. Ma
le classi medie per come le conosciamo oggi, gli eredi della tradizione puritana
di risparmio e abnegazione, hanno elevato la «carriera» a epicentro della loro
lotta quotidiana. E ora come mai prima, le classi medie tentano di imporre la
loro etica del lavoro a tutti gli altri. Lo chiamano «governo».
L’idea di fondo alla base del concetto di carriera è un percorso ascendente
verso un punto indistinto e sempre sfuggente, situato sopra di voi. È la ricerca
della perfezione, la versione secolare della salvezza dei protestanti. Quello di
carriera è un concetto di matrice puritana, una specie di pellegrinaggio
solitario. È il Pilgrim’s Progress, il viaggio del pellegrino.* I governi vendono
se stessi promuovendo l’idea delle «pari opportunità affinché tutti possano
dare il meglio di sé» quando ciò che intendono in realtà è «pari opportunità
affinché qualsiasi viscido individuo possa tradire i suoi amici e colleghi per
venerare il falso dio della carriera». La carriera, secondo questa retorica,
sarebbe qualcosa di più di un semplice impiego: è qualcosa che vi definisce e
vi limita, e dovrebbe garantire la realizzazione della vostra creatività e
competitività. La carriera non è solo il modo in cui vi guadagnate il pane: è la
vostra vita. Ma sembra basarsi sullo schema della sopravvivenza del più
adatto. In altri termini, la vostra promozione dipende dalla mancata
promozione di qualcun altro, o dal suo licenziamento. Il principio della
competizione, applicato all’ambiente lavorativo, significa che il vostro
successo è ottenuto a scapito del fallimento di altri. Proprio per questo motivo
le grandi aziende sono focolai di intrighi e complotti. Iniziate facendo uno
stage, poi passate di grado e finite a prendere ordini da un idiota, poi diventate
idioti a vostra volta… e alla fine, se tutto va come previsto, diventate l’idiota
che dà ordini a tutti gli altri. «Il ricatto dei domani migliori» scrive Vaneigem
«si sostituisce dolcemente al ricatto della salvezza nell’aldilà. In entrambi i casi
il presente è sempre sotto il peso dell’oppressione.»
Nel frattempo il vostro stipendio aumenta, comprate automobili più potenti
e case più grandi, e così facendo contribuite alla carriera di altre persone. La
carriera riflette con precisione le dinamiche di altri miti moderni: è un mostro
avido, mai sazio, che vuole sempre di più. E la carriera incoraggia quella che
io considero una specializzazione orribilmente innaturale: nella nostra frenesia
di competizione, vogliamo diventare molto bravi in un solo settore molto
specialistico, disinteressandoci di tutti gli altri. Questo atteggiamento è
chiamato «professionalità», ma una definizione più corretta sarebbe
«inutilità». L’altro giorno ho chiesto al mio dentista se pensava di andare in
pensione nei prossimi anni. Mi ha risposto di no, perché non avrebbe saputo
cos’altro fare. «Il problema, quando fai il dentista, è che poi finisci col non
saper fare nient’altro.» E se non sai fare nient’altro, inizi a dipendere da altre
persone per il soddisfacimento dei tuoi bisogni: la cultura è prodotta dagli
esperti, la musica da gruppi che hanno un contratto con un produttore,
l’educazione da insegnanti esperti, la medicina da dottori esperti. Siamo dei
disabili. Ben presto sarà difficile appendere una mensola al muro senza avere
una laurea in «mensologia».
I pericoli connessi all’iperspecializzazione sono stati analizzati negli anni
Settanta da Ivan Illich. In libri quali Disoccupazione creativa, Illich ha
stigmatizzato le professioni come foriere di disabilità, definendole
letteralmente «menomanti». Ogni briciola di potere che affidiamo nelle mani
di un professionista è una briciola di potere in meno per noi:
Io propongo di chiamare quest’ultimo quarto di secolo: l’Era delle professioni
menomanti. Scelgo questa denominazione perché è impegnativa per chi la usa. Mette
infatti in luce le funzioni antisociali svolte dai fornitori meno contestati: gli educatori,
i medici, gli specialisti di assistenza sociale e gli scienziati. Nello stesso tempo,
mette sotto accusa la passività dei cittadini che si sono sottomessi come clienti a
questa poliedrica schiavitù.

La «schiavitù del cliente» è un concetto di grande potenza teorica. Affidarsi


alla professionalità altrui significa ammettere di avere un’area di debolezza.
Quindi non possiamo incolpare un’autorità esterna per la nostra mancanza di
libertà, dal momento che abbiamo consentito loro di esercitare potere su di
noi, ovvero, con le parole di Illich, «ci siamo sottomessi».
È anche molto deprimente che le donne siano cadute vittima del mito della
carriera. «La mia carriera è importante per me» dicono le solipsistiche signore
in carriera. Non riesco davvero a comprendere come si possa pensare che
dare ordini a un branco di idioti in un supermercato sia più importante che
giocare con i propri figli, o uscire con gli amici, stare con la famiglia o fare
lavori creativi in casa. Negli ultimi cento anni, le donne hanno stabilito
un’equazione tra carriera e libertà. Per sfuggire a quella che percepivano come
la noia, la tirannia e l’impotenza della prigionia tra le quattro mura di casa
(che certamente era una realtà nell’era vittoriana), hanno cercato un lavoro
che generasse guadagno e soddisfazioni. Questa è la promessa. Ma qual è la
realtà? Come ha ingegnosamente scritto G.K. Chesterton: «Conosco donne
che dicono di non volere ordini, e poi vanno a fare le stenografe». Ora, non
sto dicendo che le donne non debbano sfuggire all’oppressione domestica e
cercare la libertà, l’autonomia, l’autorealizzazione creativa, l’indipendenza
economica e così via, ma sto dicendo che queste cose ben difficilmente si
troveranno nelle tradizionali professioni a tempo pieno, o nelle carriere.
Piuttosto, è molto meglio crearsi da soli il proprio lavoro.
In un numero recente dell’«Idler», abbiamo pubblicato un articolo della
nota giornalista televisiva Joan Bakewell, in cui l’autrice raccontava di aver
deciso coscientemente, all’inizio della sua vita lavorativa, di non voler fare
carriera. Non aveva alcuna intenzione di restare imprigionata nella gerarchia
della Bbc. Invece, continua, ha scoperto ben presto ciò che voleva fare e ha
semplicemente continuato a farlo. Nel suo campo, l’idea di un progresso
continuo e illimitato non si applicava. Il progresso è tiranno. Liberarvi da un
modello di lavoro basato sulla carriera significa liberarvi dalle aspettative
altrui. La carriera è un sentiero tracciato per voi da un’autorità esterna. Chi è
veramente libero, invece, sceglie il proprio sentiero tra i boschi.
In Proletariato e industria culturale, uscito nel 1957, Richard Hoggart fa
notare che ambizione, competizione e desiderio di avanzamento sono spesso
assenti dall’atteggiamento che le classi basse hanno nei confronti del lavoro, o
almeno così era negli anni Cinquanta:

Per molti, una volta che hanno un lavoro, non c’è percezione dell’idea di carriera,
delle possibilità di promozione. Gli impieghi sono distribuiti in senso orizzontale, non
verticale: la vita non è percepita come una scalata, né il lavoro è visto come scopo
ultimo dell’esistenza. C’è ancora rispetto per il bravo artigiano. Ma l’uomo seduto
sulla panca vicina non è visto come un concorrente, potenziale o reale […]. Delle
persone «fissate con il lavoro» non c’è da fidarsi.

Da ogni parte ci sentiamo ripetere che vale la pena di far qualcosa solo se c’è
da guadagnarci o se ci renderà famosi. Alle madri sembra che le loro vite
siano prosciugate dalla cura dei figli e dai lavori domestici, e che la maternità
non sia valutata positivamente dai loro pari. Se non hai un lavoro, non sei
nessuno.
La carriera non è che una forma nobilitata di schiavitù. Ed è una proroga
istituzionalizzata, un differimento del paradiso. Abbiamo in testa questa
nozione astratta di carriera, vista come un metro di paragone. A volte ci
compiacciamo dei nostri risultati confrontandoli con il nostro percorso di
carriera autoimposto e immaginario; altre volte ci rammarichiamo dei nostri
risultati scadenti, e le carriere degli altri sembrano più rapide e prestigiose
della nostra. Usiamo la carriera come un bastone per flagellarci. E teniamo gli
occhi fissi sul prossimo gradino della scala.
Ma qual è l’alternativa? Possiamo farcela da soli? Diventare il datore di
lavoro di noi stessi? Il malinconico poeta e critico vittoriano Matthew Arnold
era, come tanti altri della sua generazione, disgustato da come il XIX secolo
aveva elevato il lavoro a fede religiosa. Gli sembrava però che sull’altro
sentiero, quello della libertà, stesse la pazzia. Quelli che seguono sono alcuni
versi di un poema alquanto deprimente, intitolato A Summer Night, in cui
Arnold paragona le due opzioni:

Perché in tanti abitano una prigione sfacciata,


in cui, nella calda luce del sole,
le teste chine sul lavoro, languidamente
donano la vita a una fatica insensata,
senza sognare ciò che è oltre le mura della loro cella.
E mentre, anno dopo anno,
dalle loro stanche mani cadono
i frutti freschi del lavoro sterile, e il riposo
mai si fa più vicino,
il buio cala lento sul loro petto
e gli altri, pochi,
evadono e fuggono
sul vasto oceano della nuova vita.
Lì il prigioniero liberato, ovunque il suo cuore
inclina, salperà;

E lì lo colpirà la tempesta; e fra


i lampi si vede
solo un relitto,
e il pallido comandante sul suo ponte folto d’alberi
con volto attonito e i capelli al vento
afferra con più forza il timone,
ancora deciso a raggiungere un porto, non sa dove,
ancora credendo in qualche riva falsa, impossibile.
E più forte giunge il rombo
del mare e del vento, e nel buio che si infittisce
relitto e timoniere si dileguano, più e più lontano
e anche lui sparisce, e più non torna.

Non c’è vita, se non queste?


Pazzo o schiavo deve essere l’uomo?

Pazzo o schiavo deve essere l’uomo? Oggi chi cerca la libertà è considerato
pazzo. Con i capelli al vento e il volto attonito, l’avventuriero audace fa presto
a uscir di senno. E certo, la legge delle probabilità sembra cospirare contro chi
cerca la libertà. Potremmo dire: non è necessario essere pazzi per non lavorare
qui, ma aiuta. Pensiamo a Nietzsche, a Kerouac, che tornò a casa dalla madre,
triste e amareggiato. Pensiamo al povero Coleridge, schiavo del laudano,
respinto dal suo vecchio alleato Wordsworth. In effetti, la poesia di Arnold
sembra dire che diventare un pazzo spettinato è la sorte che ti spetta se cerchi
di essere libero. Ahimè, quale tormento, pena eterna, dolore!
È d’aiuto, poi, apprendere che i pazzi di oggi erano gente più che normale
nella società medievale. Nei primi secoli il cristianesimo si era opposto alla
carriera. «Più generalmente v’è nel cristianesimo una tendenza a mettere sotto
accusa ogni negotium, ogni attività secolare, e a privilegiare invece un certo
otium, un ozio che è fiducia nella provvidenza» scrive il medievista Jacques
Le Goff in Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Sì, davvero, gli oziosi
sono più santi di chi si ammazza di fatica. I pigri non lavoravano perché
confidavano che Dio gli avrebbe dato il pane quotidiano. L’Inghilterra
pullulava di frati mendicanti. A differenza degli elisabettiani e dei Tudor, i
medievali amavano l’ozio. I mendicanti disoccupati giocavano un ruolo di
primo piano nella società, in quanto oggetto della carità altrui. Era il paradiso
degli oziosi.
Darsi da fare per la carriera è qualcosa di empio: significa che si è posseduti
da una vanità tale che si osa tentare di prendere in mano il proprio destino. La
pigrizia, d’altro canto, ci sospinge lassù, dove siedono i santi. «La sfiducia dei
contadini nei confronti del mercante e del nobile, della loro sprezzante
arroganza, trova un parallelismo e una giustificazione sul piano ideologico
negli insegnamenti della Chiesa», scrive lo storico Aron Ja Gurevich in un
saggio sul mercante medievale. La carriera, dunque, è un’invenzione dei
protestanti, e un ideale di vita che sarebbe stato impraticabile nella società
medievale cattolica, più fatalista. La vita quotidiana a quel tempo richiedeva
creatività e versatilità. Dio era creativo, quindi il lavoro doveva essere
creativo. Ecco perché le prime forme di lavoro approvate dalla Chiesa sono
state il giardinaggio, impastare il pane e produrre birra. E quando si seguiva il
ritmo delle stagioni, prima che la luce elettrica rendesse tutto più noioso, la
vita era ricca e piena di varietà.
Da un’ottica taoista o esistenzialista, la carriera è un completo spreco di
tempo e di energie. Se ogni azione è futile, se ogni cosa è vanità, se la vita è
assurda, e il mondo è un grande nulla, allora perché non dovremmo
impigrirci e fare quel che ci pare? La carriera si impadronisce di una
potenziale fonte di gioia e la trasforma in dovere, obbligo, quasi penitenza.
Volete davvero che sulla vostra lapide ci sia scritto: «Ha sofferto per tutta la
vita»?
Nell’inelegante linguaggio di oggi, direi che una possibile risposta è il
«multitasking». Bevi e fuma contemporaneamente! Ma, seriamente: può darsi
che voi abbiate una vocazione, un centro di ispirazione nella vostra vita
lavorativa. Nel mio caso, questa vocazione, ovvero il mio dono, se preferite
chiamarlo così, è il giornalismo. Da quando avevo otto anni scrivo articoli e
dirigo riviste. Ma questa vocazione centrale non implica che, per perseguirla,
io debba trascurare ogni altro aspetto dell’attività umana. Mi piace anche
coltivare ortaggi, spargere paglia in terra, allevare galline, intagliare il legno,
sparare a lattine di fagioli col mio fucile ad aria compressa, giocare ai
Pokémon con i miei bambini, suonare l’ukulele. Non faccio queste cose per
soldi, o per la carriera. Le faccio per farle. Tre ore al giorno di lavoro
retribuito sono sufficienti per sbarcare il lunario; il resto della giornata è
dedicato a lavoro non retribuito, o a divertimento non retribuito.
Perché l’autosufficienza e la creatività tornino nelle nostre vite, potremmo
avviare un’attività commerciale da casa, un’azienda a conduzione familiare e
domestica, un’attività creativa nella quale possiamo investire tempo ed energia
quando e come vogliamo, a seconda dei momenti. «Imparate un’arte» dico ai
giovani scrittori che scrivono all’«Idler»: diventate falegnami, fabbri,
giardinieri, tappezzieri; queste attività si sposano benissimo con la vita della
mente. È saggio disprezzare la demagogia oppressiva di chi sostiene che un
tuttofare non sa fare bene niente. No: ci sono un sacco di cose che potete fare.
Potete tagliare la legna e trasportare l’acqua e scrivere poesie. Potete
combinare una piccola azienda agricola con la progettazione di software. C’è
un lettore dell’«Idler» che suona la tuba ma è anche un esperto imbianchino.
Ama entrambe le cose, ed entrambe contribuiscono al suo stipendio. Perché
limitarsi a un settore ristretto?
Una soluzione ben poco utile, proposta dalla società moderna, sarebbe la
terribile ricerca di un «equilibrio tra lavoro e vita». Oh, che orrore! A parte il
fatto che è una frase brutta, strana e volgare, c’è del marcio in questo
concetto, perché implica che il lavoro è una brutta cosa e la vita invece è bella.
Be’, allora rendete bello il lavoro, fate del vostro lavoro un piacere creativo, e
non dovrete preoccuparvi di bilanciare il bene e il male: tutto sarà bene.
L’utopia dell’ozio non soltanto cerca (con i sindacati) di ridurre la quantità di
lavoro spiacevole; intende anche ricondurre lavoro e vita a un’unità armonica.
Le carriere non ci permettono di essere noi stessi fino in fondo. Le carriere
prendono a metro di paragone del successo il denaro e lo status, anziché il
piacere di lavorare e la creatività. «Vocazione», d’altro canto, vuol dire
«chiamata», ed è un’attività che ci dà da vivere e che ci piace fare. Nel mio
caso, la mia vocazione è il giornalismo: ovvero, la comunicazione. La
vocazione di Eric Gill era la scultura, quella di Blake l’incisione, quella di
John Lennon scrivere canzoni, e così via. Che vi sia una vocazione al centro
della vostra vita non significa che voi non dobbiate fare altro. Uno scultore
può benissimo scrivere poesie, pulire la casa, intagliare il legno e togliere le
erbacce dall’orto, oltre a scolpire la pietra. Ma la scultura è il fulcro della sua
vita lavorativa, ed è attraverso la scultura che si guadagna da vivere.
Abbiamo il dovere di guardare nei nostri cuori e scoprire la nostra
vocazione, il nostro dono. Fatto ciò, scopriremo che altre parti della nostra
vita seguiranno naturalmente. Se mettiamo la vocazione al centro delle nostre
vite, anziché il guadagno fine a se stesso, allora vedremo arrivare il denaro.
Secondo quanto scrive Max Weber nell’Etica protestante e lo spirito del
capitalismo, l’ideologia cattolica medievale riguardo al lavoro era: «Ciascuno
si accontenti del suo “sostentamento”, e lasci che gli empi cerchino di
guadagnare».
La vocazione è un’idea comunitaria, è un’esperienza di generosità, mentre
la carriera è un modo egoistico e competitivo di lavorare. La vocazione è
stabile e piana, mentre la carriera è un’erta salita, che tende all’infinito. Se
pensiamo al lavoro come a una vocazione, possiamo lavorare con tranquillità
e serenità.
Una nozione di lavoro estremamente positiva mi è stata presentata
dall’artista Joe Rush. Negli anni Ottanta, Joe fu tra i fondatori di un collettivo
artistico di rinnegati chiamato Mutoid Waste Company, la cui vocazione era
creare sculture fantastiche con pezzi di ferro trovati in giro. Prendevano una
vecchia automobile e la trasformavano in qualcosa di magico e meraviglioso,
un insetto gigante o un dinosauro, un teschio o un uccello. Vivevano come
frati mendicanti, in giro per i festival e alloggiando in case occupate
abusivamente in tutta Europa. Il loro messaggio era semplice: «Siate creativi».
Joe è convinto che tutti nasciamo con un dono, e che spetta a noi scoprire
qual è, e poi esplorarlo. «Tutti avete talento, tutti avete ricevuto un dono… E
se c’è qualcuno là fuori che è geloso di voi, vuol dire che non ha ancora
scoperto qual è il suo dono.»
E come fare a trovare il nostro dono, la nostra vocazione? La risposta è
semplice: non fare nulla, più a lungo possibile. Come i giardinieri saggi
dicono che la cosa migliore da fare con un nuovo giardino è non toccarlo per
un anno, per capire cosa cresce dove, e solo allora disegnare il proprio unico,
utile e bellissimo giardino; così io consiglio di prendervi qualche mese per
riflettere, o anche un anno se potete. Per la maggior parte del tempo siamo
troppo occupati per fare un passo indietro e riflettere su cosa ci piacerebbe
davvero fare. Create tempo per voi stessi, e le cose si faranno più chiare. E
soprattutto, smettete di sforzarvi. La carriera si basa sul concetto di sforzo. Gli
spiriti liberi sono quelli che hanno smesso di sforzarsi e hanno deciso di
lasciar accadere le cose.

TROVA IL TUO DONO

* Romanzo allegorico di John Bunyan (1678), testo fondante del puritanesimo inglese, il
Pilgrim’s Progress narra l’ascesa del pellegrino Christian dalla “città della distruzione” (la
terra) alla città celeste di Zion. (N.d.T.)
Fuga dalla città

Ché io fui cresciuto


Nella grande città, chiuso tra chioschi bui,
E sol di leggiadro vidi il cielo e gli astri.
COLERIDGE, Gelo a mezzanotte (1797)

Scappare dalla metropoli è uno dei grandi sogni romantici. Dalle Bucoliche di
Virgilio ai poeti del Romanticismo, e oggi nelle canzoni pop e folk, è evidente
che tutti aneliamo alla pace e che tutti stiamo cercando di rientrare nel
Giardino dell’Amore. La visione pastorale è ben viva nelle canzoni di Peter
Doherty, con le sue parole su Albione e l’Arcadia e i canti dei pastori. In
compagnia di buoni amici, davanti a buon cibo e a un bel panorama, fuori
dalla frenesia e dalla folla della città, lontani dai treni della metropolitana, dal
pendolarismo, dalle bombe, dalla pubblicità, potremmo essere felici.
Wordsworth e Coleridge scrissero la loro rivoluzionaria raccolta poetica,
Ballate liriche (1798), rifugiandosi in campagna: Coleridge a Nether Stowey
nei Quantocks, Inghilterra occidentale; e Wordsworth e Dorothy nella vicina
Alfoxden House. Lì furono raggiunti, per qualche tempo, dal radicale John
Thelwall, e i tre erano guardati con sospetto dagli abitanti del luogo e dallo
stesso governo, che mandò una spia (più tardi ribattezzata «Spy Nozy»* da
Coleridge in Biographia Literaria, 1817) perché li controllasse. Ecco come
Thelwall descrive quei pochi mesi nelle sue Righe scritte a Bridgewater
(1797):
Ah! Che io possa, in qualche valle boscosa
costruire la mia povera culla; e possa rivelarsi serena,
mio Samuel! Accanto a te, che io possa spesso
con te trattenermi in dolce conversazione, amico più caro!
Amato da tempo già prima di conoscerti;
giacché affinità di spirito
univano, pur nella distanza, le nostre anime congeniali…

E dolce sarebbe,
terminata la fatica, lo studio e
l’impegno letterario,
sederci sotto i nostri pergolati
nella gioviale stagione estiva; o quando, cupo,
il vento d’inverno ha spazzato via le fronde ombrose,
attorno al focolare, insieme e in allegria
condividere le frugali vivande, e la ciotola
scintillante di bevanda fatta in casa – al nostro fianco
la tua Sara, e la mia Susan, e magari,
il pensieroso affittuario di Alfoxden, e la fanciulla
dagli occhi ardenti che, con amore fraterno,
mitiga la sua solitudine.

Mmm, mi piace l’idea di quella bevanda fatta in casa. Il pensieroso affittuario


di Alfoxden, a proposito, è William Wordsworth, e la fanciulla dagli occhi
ardenti è sua sorella Dorothy. Ho cercato di ricreare questo genere di idillio
quaggiù nella nostra fattoria in affitto nel Devon. Con il nostro pub casalingo
e la dispensa piena di birra, invitiamo gli amici per conversare e bere in
allegria. E in futuro avere un pub in casa potrebbe essere davvero un’oasi di
libertà: ora che vogliono proibire il fumo in tutti i locali pubblici, il mio pub,
il Green Man, potrebbe restare l’unico in Inghilterra nel quale il fumo è
addirittura incoraggiato.
I nostri poeti e filosofi hanno sempre opposto ferma resistenza agli sforzi
compiuti dai politici e dagli imprenditori per imporre una disciplina di tipo
robotico.
Mentre la Rivoluzione industriale si trascinava stancamente, ormai
agonizzante, contro i suoi effetti si levarono proteste da parte di chi tentava di
dar vita a comunità ideali. Si trattava di progetti per la creazione di forme di
vita cooperativa o comunistica (e in quei giorni, agli albori del radicalismo
politico, la parola «comunistico» non aveva le connotazioni negative di oggi,
il centralismo e il grigiore). William Morris, W.B. Yeats e D.H. Lawrence
sognavano il paradiso in terra, e quel paradiso di solito non era una metropoli.
Scrive Yeats:

Ogni volta che gli uomini hanno provato a immaginare una vita perfetta hanno
immaginato un luogo in cui gli uomini arano e seminano e raccolgono, non un posto in
cui grandi ruote girano e vomitano fumo […]. Noi intendiamo preservare un antico
ideale di vita. Ovunque le sue usanze saranno diffuse, lì troverete la canzone popolare,
la favola, il proverbio, le maniere gentili che vengono dalla cultura di un tempo […].
Dobbiamo vivere così da far valere tra la nostra gente quel nobile ideale di vita.
Il sogno di William Morris non era diverso:

Sembra che cercare di migliorare le cose non sia affare di nessuno – e non è neppure il
mio, vedete, anche se mi lamento – ma immaginate che la gente vivesse in piccole
comunità tra giardini e prati in fiore, così che per trovarsi in campagna bastassero
cinque minuti a piedi, e non avesse bisogno di quasi nulla, quasi nessun mobile per
esempio, e niente servitù, e studiasse la (difficile) arte del godersi la vita, e scoprisse
cosa vuole davvero: credo allora che si potrebbe sperare che la civiltà fosse davvero
cominciata.

Negli anni Settanta, John Seymour ebbe grande successo con il suo manuale
che insegnava a vivere dei proventi della terra, intitolato Self-Sufficiency.
Come prima di lui Cottage Economy di William Cobbett, anche il libro di
Seymour è un esercizio di vera e propria filosofia e non solo una guida
pratica. Come il libro di Cobbett, anche questo è pervaso dal suo spirito
sanguigno, indipendente ed eccentrico, ma rigogliosamente sano. Nel caso di
Seymour, la decisione di vivere di ciò che coltivava e sfuggire al moderno
sistema industriale fu presa per motivi pragmatici e non ideologici. Nel suo
libro The Fat of the Land (1961), racconta della ricerca di un modo
economico per vivere con la sua famiglia, così da poter lavorare meno (faceva
il giornalista indipendente). Andarsene dalla città, però, e vivere in campagna,
può essere faticoso. L’isolamento rurale può sembrare romantico, ma la vita è
più facile quando amici e vicini di casa sono a portata di mano. Abbiamo
bisogno degli altri. In Self-Sufficiency Seymour, come Yeats e Morris, sogna
una società rurale:
Sono convinto che, se mezza dozzina di famiglie decidessero di diventare
parzialmente autosufficienti, si stabilissero a poche miglia di distanza gli uni dagli
altri, e sapessero bene quello che fanno, potrebbero vivere molto bene. Ogni famiglia
eserciterebbe un’arte o un mestiere o una professione, i cui prodotti venderebbe al
resto del mondo. Ciascuna famiglia coltiverebbe o produrrebbe un certo numero di
beni o di oggetti che potrebbe usare ma anche scambiare con le altre famiglie in
cambio di altri oggetti. Nessuno si annoierebbe nell’esercitare il suo mestiere o la
sua arte, perché non dovrebbero farlo per l’intera giornata: ci sarebbero molti altri
lavori da fare ogni giorno. Questa parziale specializzazione offrirebbe loro del tempo
libero: probabilmente più di quanto ne è concesso allo schiavo salariato delle città,
dopo il tempo sprecato in treno per andare e tornare dalla fabbrica o dall’ufficio.

È precisamente questa la mia speranza per il luogo in cui vivo. Le cinque


case che compongono il nostro villaggio sono state messe in vendita una dopo
l’altra: potrei forse convincere i miei amici a comprarle e trasferirsi quaggiù?
Potremmo avere ciascuno il suo orto, qualcuno potrebbe allevare le galline,
altri i maiali, altri ancora le capre. Servono amici e vicini per fare questo
genere di cose: farlo da sé è troppo faticoso e solitario. Potremmo scambiarci i
prodotti dei rispettivi orti, e lasciarci in pace a vicenda quando lo vogliamo.
L’ideale sarebbe portare in campagna qualcosa della città. Per alcune
persone, le città sono liberatorie. Alla fine del XIX secolo, un monaco di
nome Riccardo di Devizes descrisse in tono aspro la depravazione di Londra:
«Chiunque viva qui finisce col commettere qualche sorta di crimine […] il
numero dei parassiti è infinito. Attori, saltimbanchi, fanciulli dalla pelle liscia,
Mori, adulatori, bei ragazzi, effeminati, pederasti, ragazze che cantano e
ballano, ciarlatani, danzatrici del ventre, fattucchiere, estorsori, vagabondi,
maghi, mimi, mendicanti, buffoni: gente simile riempie ogni casa». Sembra
fantastico, e somiglia molto a un qualunque giovedì sera in Dean Street ai
giorni nostri: anzi, è identico, ed è per questo che mi piace passare le serate lì.
Sono cresciuto a Londra, dove ho frequentato le scuole e ho trascorso i
primi dodici anni della mia vita lavorativa in compagnia di vagabondi,
mendicanti e buffoni, e mi sono divertito parecchio. Solo più tardi ho iniziato
a coglierne le limitazioni. L’idea che abbiamo della città, credo, dipende dal
fatto di vedere l’attività commerciale come fonte di libertà oppure di
prigionia. In contrasto con l’inorridito Riccardo di Devizes, un suo
contemporaneo tesse le lodi dei commerci londinesi: «La città di Londra […]
spande la sua fama più lontano, spedisce le sue merci più distante, rizza la
testa più in alto di qualsiasi altra […] i cittadini di Londra sono più rinomati di
tutti gli altri per le loro maniere cortesi, l’abbigliamento elegante e la buona
tavola». È interessante notare in questo brano quali fossero le priorità per un
uomo del Medioevo: le buone maniere, i bei vestiti e il cibo sono in cima alla
lista.
Be’, nonostante le innegabili qualità delle fattucchiere e delle danzatrici del
ventre, e malgrado la ricchezza, alla fine ho deciso che la campagna mi
chiamava. Ho capito che, nonostante le inevitabili difficoltà e il cattivo tempo
e tutto il resto, avremmo riconquistato tempo e spazio. E poi, in campagna è
più facile vivere con meno soldi, e quindi meno lavoro. Non c’è dubbio che
la mia famiglia sia meno ossessionata dal denaro rispetto a prima; la città
sembra succhiarti banconote dalle tasche mentre passeggi per i suoi seducenti
viali. Credo che in campagna sia facile essere buoni, perché, come scrisse
Oscar Wilde, non ci sono tentazioni a cui cedere.
Gli amanti della città si lamentano del silenzio opprimente che c’è in
campagna. Sentono la mancanza delle sirene. Si lamentano anche del modo in
cui tutti sanno quello che fai. In città si può vivere con un certo grado di
privacy e anonimità. È anche innegabile che in città è molto più facile trovare
persone affini a noi per interessi e opinioni. Il movimento britannico dell’Arts
and Crafts, pur adorando la campagna, manteneva stretti legami con la
capitale, e William Morris per esempio era spesso a Londra per affari.
È possibile fare entrambe le cose. Si può dar vita a un sano dialogo tra città
e campagna. Potete ritirarvi in campagna per meditare e poi tornare in città per
agire e vendere. La città vi serve per smerciare ciò che producete, sia esso
poesia o scultura o carote. Come dice san Tommaso nella Summa Theologica:
«Entrambi questi modi di vita sono legittimi ed encomiabili: ritirarsi dalla
società per praticare l’astinenza, e frequentare gli altri uomini per vivere come
loro». Nel Medioevo i muratori, per esempio, trascorrevano l’inverno nelle
loro piccole proprietà agricole, e la bella stagione lavorando e commerciando
nelle città. Le grandi famiglie di proprietari terrieri del Settecento
trascorrevano l’inverno a Londra. Il problema delle città non è il fatto che
siano città, ma il fatto che sono troppo grandi. Sono sproporzionate, fanno
girare la testa, sono impossibili. A Londra, per esempio, per spostarsi dal
punto A a un qualunque punto B ci vuole un’ora. Questo problema,
comunque, è facilmente risolvibile con una bicicletta: vendete l’auto,
compratevi una bici.
Una città più piccola può offrire molta libertà. L’età medievale ci offre
l’esempio delle nobili e libere città-Stato. Dal XII secolo in poi, si sviluppò in
tutta Europa un grande movimento democratico che portò alla creazione di
città di circa cinquanta o centomila abitanti, che si governavano da sole e
senza l’interferenza dei nobili. Queste città erano fondate dai nuovi borghesi,
stanchi delle restrizioni della vita feudale, proprio allo scopo di vivere liberi.
Questa cultura è stata studiata dal principe Peter Kropotkin nel Mutuo
appoggio (1902). È un libro illuminante scritto da un grand’uomo. Nato nel
1842 da genitori aristocratici, la riflessione sulle iniquità della servitù della
gleba fece di lui un rivoluzionario; dal 1917 visse quasi sempre in Europa, e
viaggiò molto anche nel Regno Unito. Oscar Wilde lo definì uno dei due
uomini davvero felici che avesse mai conosciuto. Il mutuo appoggio uscì
quando Kropotkin viveva a Bromley, nel Kent: un indirizzo periferico e
lezioso per uno dei più grandi anarchici della storia.
Nel Mutuo appoggio, Kropotkin sostiene che le città medievali erano
fondate su ciò che oggi chiameremmo dei princìpi pericolosamente radicali.
Nacquero proprio per affrancarsi dal dominio dei nobili e per creare comunità
ideali di lavoro e creatività, in cui giustizia, eguaglianza e aiuto reciproco
erano i princìpi etici dominanti. Come noi oggi siamo motivati dai valori della
competizione e del profitto, così i nostri antenati medievali insegnavano il
valore della cooperazione. Erano profondamente influenzati dalla riscoperta
dell’Etica di Aristotele (che chiamavano «il filosofo», come se fosse l’unico
di cui valesse la pena parlare) e dal Discorso della Montagna. È importante
capire che i cambiamenti non sono accaduti da soli, spontaneamente; erano
fondati su una filosofia e poi su uno sforzo cosciente di mettere in pratica e
comunicare quella filosofia. Quelle città avevano circa cinquantamila abitanti,
e brulicavano di scuole, ospedali, terme, laboratori e capolavori di
architettura. Il lavoro era organizzato attraverso il sistema delle corporazioni
professionali. C’era un limite naturale alla crescita delle città, che erano
circondate da cinte murarie. In quelle cattedrali, Kropotkin e altri appassionati
del medioevo come Ruskin videro espresso al meglio lo spirito creativo e
passionale dell’impresa. Ecco come Kropotkin descrive la genesi della città
medievale:
Con un’unanimità che sembrava quasi inconcepibile e che per lungo tempo non fu
compresa dagli storici, i raggruppamenti urbani di ogni specie e perfino i piccoli
borghi cominciarono a scuotere il giogo dei loro padroni spirituali e temporali. Il
villaggio fortificato si sollevò contro il castello del signore, lo sfidò dapprima, lo
assalì in seguito e finalmente lo distrusse. Il movimento si estese da luogo a luogo,
trascinando tutte le città dell’Europa e in meno di cento anni delle città libere
sorgevano sulle coste del Mediterraneo, del Mar del Nord, del Baltico, dell’Oceano
Atlantico, fino ai fiordi della Scandinavia; ai piedi degli Appennini, delle Alpi, della
Foresta Nera, dei Grampiani e dei Carpazi; nelle pianure della Russia, dell’Ungheria,
della Francia, della Spagna. Dovunque scoppiava la stessa rivolta, con le stesse
manifestazioni, passando per le stesse fasi, conducente agli stessi risultati. Ovunque
gli uomini trovarono o sperarono di trovare qualche protezione dietro le mura della
loro città, istituirono le loro «giurande» e le loro «fraternite», le loro «amicizie» uniti
in un’idea comune, e avviantisi arditamente verso una nuova via di solidarietà e di
libertà. Riuscirono così bene che in trecento o quattrocento anni cambiarono la faccia
dell’Europa. Coprirono i paesi di belli e sontuosi edifici, testimonianti il genio delle
libere unioni di uomini liberi, la bellezza e la potenza di espressione delle quali non
è stata uguagliata poi: essi legarono alle successive generazioni tutte le arti, tutte le
industrie, delle quali la nostra presente civiltà, con tutte le sue conquiste e le sue
promesse per l’avvenire, non è che uno sviluppo. E se cerchiamo di scoprire le forze
che hanno prodotto questi grandi risultati, noi le troviamo, non nel genio di singoli
eroi, non nella potente organizzazione dei grandi Stati o nelle capacità politiche dei
loro governanti, ma in questa stessa corrente di mutuo appoggio e di aiuto che
abbiamo veduto all’opera nel comune rurale e che ritroviamo nel Medio Evo,
vivificata e rafforzata da una nuova specie d’uomini, animata dal medesimo spirito,
ma formata su un nuovo modello: le corporazioni.

Nella Firenze del Duecento c’erano sette corporazioni principali, dette Arti
Maggiori, e quattordici Minori. C’erano l’Arte dei Giudici e dei Notai, l’Arte
dei Mercanti o di Calimala, l’Arte del Cambio, l’Arte della Lana, l’Arte della
Seta o di Por Santa Maria, l’Arte dei Medici e Speziali, l’Arte dei Vaiai e
Pellicciai; e poi le Arti Minori: Beccai, Calzolai, Fabbri, Maestri di Pietra e
Legname, Linaioli e Rigattieri, Vinattieri, Albergatori, Oliandoli e Pizzicagnoli,
Cuoiai e Galigai, Corazzai e Spadai, Correggiai, Legnaioli, Chiavaioli, Fornai.
Tutti vivevano insieme e più o meno in armonia in una sorta di Stato
anarchico, con i capi delle Arti che si alternavano al governo della città per
periodi di due mesi.
Potremmo ricreare oggi città di questo tipo? Non dovremmo rendere
obbligatoria la lettura del Mutuo appoggio per tutti gli architetti e gli
urbanisti? Certo, dobbiamo trovare una città di cinquantamila persone,
cinquantamila persone in cerca di libertà. Poi dobbiamo alzare un muro di
cinta tutto intorno, dichiararci Repubblica indipendente e andare avanti per
conto nostro. Per Kropotkin le città medievali erano la prova del fatto che,
lasciati a noi stessi, possiamo organizzarci molto meglio di qualsiasi governo.
Come dice il montanaro viaggiatore, punk e skateboarder William Elliot
Whitmore: «In realtà, tutti condividiamo questi ideali, e il cittadino medio è
una brava persona; sono i governi che mandano tutto a puttane». Il
movimento delle città medievali mostra anche che uno stato di cose in cui
l’autorità e la competizione sono i princìpi fondanti non è l’unico possibile,
come sostengono i filosofi della domenica.
Quello che mi piacerebbe vedere, e quello che realmente esisteva
nell’Inghilterra medievale, è un Paese fatto di piccole federazioni autonome,
di città, villaggi, comuni e borghi. L’idea stessa di un’organizzazione
centralizzata è assurda perché non considera le differenze tra le varie aree del
Paese: diversi modi di vedere la vita, culture diverse, lingue diverse, usi e
costumi, climi, persino differenze nell’abbigliamento. Centralizzazione è
sinonimo di uniformità, e uniformità vuol dire noia, e noia vuol dire morte
(vedi capitolo 2). Immaginate di colonizzare un villaggio o una cittadina con i
vostri amici, e di creare una società libera tutta vostra.
Mi domando che sorta di mutamento o di crisi potrebbe condurre a un
nuovo Occidente e a un nuovo modo di pensare. Negli anni Settanta, i
pensatori alternativi parlavano in toni quasi speranzosi di una crisi del
petrolio; ma il petrolio zampilla ancora dalla Terra. Quando finirà?
Personalmente vedrei con favore una crisi del petrolio, perché potrebbe
fornirci un’occasione per tornare al legno come fonte energetica: il legno,
perennemente rinnovabile; il legno, che è raccolto, non estratto nelle miniere
(un’altra idea che non mi dispiace è recuperare il cavallo come mezzo di
trasporto e spostarsi da una nazione all’altra per nave). Con l’aumento del
prezzo del petrolio, è aumentata la richiesta di produzione locale di energia, e
le aziende produttrici di pannelli solari, pompe di calore e pile a combustibile
fanno ottimi affari. Tecnologie medievali come la ruota ad acqua o il mulino a
vento stanno tornando di moda. Stiamo iniziando a capire che nozioni come
quella di energia rinnovabile, lungi dall’essere pazzie, sono semplicemente
buone idee. E molto più economiche di un’inefficiente compagnia elettrica.
Immagino che produrre da soli l’energia elettrica dia una sensazione simile a
quella che si prova mangiando ortaggi coltivati da noi: un piacevole senso di
soddisfazione e liberazione, almeno in parte, dalla dipendenza nei confronti di
un sistema centralizzato di distribuzione. I pannelli solari sono l’anarchia in
azione.
Ora, è anche possibile crearsi una vita di campagna in città, se per «vita di
campagna» si intende, secondo il gergo odierno, una vita sostenibile. Il mio
amico Graham Burnett, che vive in città, mi ha fatto conoscere il movimento
della Permacultura. È un approccio alla vita che ha avuto origine in Australia,
per opera di un uomo di nome Bill Mollison. L’idea alla base della
Permacultura è quella di vivere senza sfruttare la Terra e gli altri uomini, in
sintonia con la natura, in armonia con la propria vita quotidiana e l’ambiente,
e senza lavorare troppo. Davvero, la Permacultura è l’ozio per eccellenza. La
rivista «Permaculture», per esempio, è piena di articoli su persone che hanno
trasformato il loro giardino nei sobborghi in vere e proprie foreste di alberi da
frutto; o gente di città che produce tutte le verdure che mangia nel suo piccolo
orto demaniale in affitto. È un approccio pratico alla vita, perché non
pretende che ci trasferiamo in un’azienda agricola del Galles e diventiamo
autosufficienti. Ci mostra invece che si può essere liberi anche in città. Per
esempio potete affittare un orto demaniale. Potete coltivare frutta sul
davanzale. Sostituire il vostro prato borghese con cespugli di lamponi, mirtilli
e uva spina, alberi di pesco e peri. L’altro aspetto affascinante di questa
filosofia è che preferisce la riflessione all’azione. Dopo la creazione di un
sistema, l’orto in Permacultura continuerà a produrre frutti copiosi senza
bisogno di cure costanti. La Permacultura si oppone fermamente alla fatica,
perché affannarsi troppo vuol dire interferire con la natura. Dunque, è la
scelta ideale per gli oziosi. La consiglio caldamente.
Tutto ciò che dobbiamo fare per rigenerare le nostre città è spargere semi in
giro. Quando fate una passeggiata, portatevi dietro dei semi: papavero,
bietola, rucola. Metteteli tra le erbacce negli spiazzi urbani incolti. E state a
vedere cosa succede.
Ancora John Seymour:

Riesco a immaginare, un giorno nel futuro, una società altamente sofisticata, in cui
alcuni vivono in città dalle dimensioni umane, altri sparsi in una campagna ben curata,
tutti interdipendenti eppure per certi versi indipendenti, con le città che aiutano le
campagne e viceversa. Non sarebbe una società molto meccanizzata o industrializzata,
ma una società in cui le vere arti del vivere civile sono esercitate ai massimi livelli, in
cui la letteratura, la musica, il teatro, le arti visive, l’artigianato che conduce alla bella
vita, sono praticate e apprezzate da tutti. Tutto ciò non sarebbe un «tornare indietro»,
qualunque cosa significhi. Sarebbe, se vogliamo pensare in termini di progresso
ideale, un «andare avanti» verso un’età dell’oro. L’Atene di Pericle non era un brutto
posto, a parte qualche schiavo. Se trovassimo un modo per ottenere lo stesso risultato
senza schiavi, avremmo ottenuto qualcosa di grande valore.

I medievali erano seguaci della Permacultura: i sistemi erano sostenibili, non


c’era l’intensificazione: le fattorie non erano specializzate in una sola coltura,
la proprietà terriera era ampiamente diffusa, le piccole aziende agricole erano
numerose, tutto veniva riciclato e riutilizzato senza bisogno dell’intervento di
un consiglio comunale. Il denaro restava all’interno dell’economia locale,
anziché essere risucchiato dai supermarket. Non c’erano veicoli a motore. Ci
si costruiva la casa da soli. Le dispute legali erano risolte a livello locale. Non
c’erano involucri di plastica e quindi non c’erano rifiuti. Era il paradiso della
Permacultura. Ora abbiamo l’opportunità di prendere tutte le buone idee del
modo di vivere dei medievali senza le gerarchie e il dominio dei chierici. Un
consiglio pratico che posso offrire, a proposito, è di portarsi sempre dietro un
coltello. È incredibile quanto torni utile sia in città sia in campagna. Avere in
tasca una piccola arma dà anche una piacevole sensazione di indipendenza e
invulnerabilità. Dev’essere un po’ come avere una spada appesa al fianco,
tradizione durata fino alla fine del Settecento.
Quindi, quando assumete l’atteggiamento mentale più adatto alla vostra
vita, che viviate felicemente in città o in campagna non fa poi una gran
differenza. Non serve fuggire dalla città per fuggire dalla vita di città.

AFFITTA UN ORTO DEMANIALE


* Il soprannome nacque quando la spia fraintese il nome del filosofo Spinoza, di cui
Wordsworth e Coleridge discutevano, interpretandolo come il nome di un complice dei due.
(N.d.T.)
Porre fine alla guerra di classe

Numquam libertas gratior extat


Quam sub rege pio
(La libertà non è mai più gradevole che sotto un re pio)
CLAUDIANO (370-c.a. 404)

Quando Adamo zappava ed Eva filava


chi era allora il gentiluomo?
Slogan tradizionale dei contadini ribelli medievali

Il nostro sistema di classi sociali riflette grossomodo lo schema tripartito


diffuso nell’Alto Medioevo. Le tre classi erano i contadini, i chierici e i nobili,
ovvero laboratores, oratores, bellatores. I contadini lavoravano la terra, i
chierici leggevano, scrivevano, meditavano, pregavano e aiutavano i poveri,
mentre i nobili andavano in guerra. Mi sarei trovato molto bene in ciascuna di
queste classi. Sembrano tutte più divertenti delle opzioni che abbiamo oggi:
working class, ovvero fare un lavoro noioso e indebitarsi; classe media,
ovvero fare un lavoro noioso e indebitarsi ancor di più; o classi alte, ovvero
poltrire, litigare con i parenti e vendere le proprie terre un pezzo per volta, per
pagare le tasse.
Sì, mi sarei trovato bene come contadino, come chierico e come nobile.
Credo di avere più affinità con il chierico, dato che le mie occupazioni
principali sono la lettura e la scrittura, ma mi piace anche pensare di essere un
po’ rustico, nel senso che mi piace lavorare la terra o almeno il mio orticello, e
un po’ nobile, perché mi piace poltrire e non far niente. Il mio obiettivo,
dunque, è riunire in una sola persona gli aspetti migliori di ciascuna classe.
Credo sia questo che si intende con la parola bohémien.
La cosa buffa del sistema di classi medievale è che in realtà c’era più
uguaglianza, non meno, rispetto a oggi. Se guardate i registri delle case
padronali dal 1100 al 1500, quello che colpisce è che, da un punto di vista
economico, c’era un alto livello di parità. A parte il signore del castello, tutti
gli altri erano sullo stesso piano. È questo il peculiare paradosso della
versione medievale dell’autorità: creava più libertà. I chierici, naturalmente,
ispirandosi a Gesù, insistevano sul fatto che tutti gli uomini erano uguali
davanti a Dio; il principe non era migliore del contadino. Questa idea era
predicata continuamente sia ai nobili che ai poveri, e così portava umiltà
nell’animo del nobile e nobiltà in quello del contadino. Come scrive il
medievista Jacques Le Goff, un alone di santità circondava il lavoro legato
alla terra. Coltivare la terra voleva dire essere vicini a Dio. E nella cultura
democratica dei trovatori provenzali, molti poeti sostenevano che la nobiltà
fosse una questione di carattere, non di nascita, ed era quindi attingibile dal
contadino e dal borghese, e non solo dall’aristocratico. In Inghilterra, i servi
compravano la loro libertà, e i contadini che acquistavano la terra diventavano
yeomen: la classe cui apparteneva il prospero Franklin, l’allodiere generoso e
sicuro di sé di cui canta Chaucer:
Vi era di tutto, e in tale abbondanza, che in quella casa pareva proprio che vi
fioccassero i cibi e le bevande e tutte le leccornie che si possono immaginare.

Persino i vescovi provenivano da tutte le classi sociali. C’era molta più


mobilità sociale di quanto si pensi comunemente, soprattutto nel tardo
Medioevo. E le classi medie dell’epoca, come Franklin, erano ben diverse da
quelle borghesi di oggi, perché tenevano alla loro libertà, come scrive lo
storico M.H. Keen: «La prosperità e solidità degli uomini della classe media
ebbe […] una profonda influenza sul carattere nazionale inglese. Permisero
agli inglesi di resistere alla tirannia».
Oggi, tutti lavoriamo sodo per conto di altre persone, facendo cose noiose e
poco creative. Anche qualche aristocratico lavora, e chi lo fa ne va molto
fiero. Il governo della borghesia, espresso nel Parlamento, è il governo
esercitato dai deboli sui forti e, mediante quella legge crudele per cui i deboli
possono a volte conquistare i forti, il terribile e sdolcinato vortice creato dai
parlamentari puritani delle classi medie minaccia di risucchiarci tutti nel suo
gorgo infernale. La classe operaia è incoraggiata a pensare in grande e a
entrare nei ranghi della classe media attraverso il duro lavoro, mentre alle
classi alte si richiede di diventare blandamente democratiche: trovarsi un
lavoro e diventare noiosi!
Ora, gli atteggiamenti tipici della vecchia classe operaia, come quelli
descritti da Richard Hoggart in Proletariato e industria culturale, sono
positivi e sono basati sull’importanza nella vita del buon vicinato, del
divertimento e degli amici, rispetto al lavoro e alla carriera:
Qualunque lavoro si faccia, gli orizzonti saranno probabilmente limitati: in ogni caso,
aggiungono subito gli esponenti della classe operaia, i soldi e il potere non sembrano
rendere la gente più felice. Le cose «vere» sono quelle umane e amichevoli: la casa,
l’affetto della famiglia, l’amicizia e la capacità di dire: «Divertiti»; «I soldi non sono
la cosa che conta» dicono, e «Non vale la pena di vivere se passi il tempo a sudare
per guadagnare di più». Le canzoni operaie parlano d’amore, amicizia, gioie
domestiche; ripetono sempre che i soldi non sono importanti.

Questi per me sono valori positivi, e sono proprio quelli più danneggiati dalla
«mediocrizzazione» della società. Hoggart parla anche di un lodevole
atteggiamento improntato al carpe diem, che è in contrasto con l’altro
atteggiamento, quello del «sacrifica l’oggi al domani», dei piani pensionistici,
tipico delle classi medie (ritratte brillantemente nella canzone She’s Leaving
Home dei Beatles):
[…] in generale, la natura immediata e presente della vita operaia incoraggia il
godimento immediato del piacere, dissuade dal pianificare in vista di obiettivi futuri
o alla luce di ideali. «La vita non è rose e fiori» pensano; ma «Al domani ci si
penserà domani»: così la classe operaia è da tempo la culla dell’esistenzialismo
ottimista […]. Al piacere si dà grande importanza, si rammenderanno le lenzuola
anziché comprarne di nuove, ma si metterà da parte il denaro necessario per bere e
fumare […].

Sì, sì, sì! Basta che ci siano i soldi per la birra e le sigarette di oggi, e al
domani ci penseremo domani. Preferirei avere lenzuola strappate e una
dispensa piena di birra che essere astemio e avere un corredo completo.
Adoro questo modo di affidarsi alla Provvidenza. E i progetti per il futuro?
Be’, conosciamo tutti la barzelletta ebrea: Come si fa a far ridere Dio? Parlagli
dei tuoi progetti.
Quindi smettiamola con la guerra di classe e passiamo all’armonia di classe,
integrità di classe, rispetto di classe, pace di classe. Abbiamo classe ma non
facciamo parte di una classe. Possiamo aiutarci a vicenda e imparare gli uni
dagli altri. E a me la gente delle classi alte, in generale, piace. Mi piace la
tradizione aristocratica semplicemente perché tanti aristocratici sono
antiborghesi. Non gli piace lavorare, o almeno, non gli piace ciò che il lavoro
è diventato. Sanno ancora essere eccentrici e diversi. Si sentono superiori alle
persone che sono costrette a lavorare, e quanto a loro, si abbandonano
all’indolenza – nobile attività, come spero di aver dimostrato in altra sede –
ma sono anche impegnati nella beneficenza, nel lavoro per la comunità, nel
patronato delle arti; aprono al pubblico i loro palazzi, organizzano festival e
sono ospitali e affascinanti: tutti ruoli molto importanti in una società libera.
Non sono minimamente invidioso delle loro ville e dei loro soldi, perché so
che quelle case e quei soldi sono una gran seccatura. Sono grato agli
aristocratici perché si prendono cura dei palazzi e dei giardini e, se mi è
concesso di far loro visita ogni tanto, allora benissimo.
Ma il nostro risentimento ci rende difficile fuggire. Il risentimento può
costituire una barriera per la libertà. Ogni volta che parlo in pubblico dei
benefici effetti del non lavorare, qualcuno nel pubblico domanda, più o meno
gentilmente, da quale classe sociale provengo e se ho una rendita fissa.
L’implicazione sottaciuta è che «è facile per te parlare di ozio». Spiego loro
che non ho, né ho mai avuto, una rendita, e che i soldi che uso per vivere
sono il risultato dei miei sforzi nel mercato del lavoro. Ma è davvero qualcosa
di cui vantarsi? E le idee di qualcuno che ha una rendita privata valgono meno
di quelle degli altri? Dalle classi alte provengono alcune delle più grandi e
rivoluzionarie idee della storia: Lord Byron, Marx ed Engels, William Morris,
Bertrand Russell – tutti ricconi che si atteggiano a bohémien. Il risentimento
altrui («Ah, fai presto a parlare tu»), la sensazione che per tutti gli altri la vita
sia un pochino più facile che per noi, è il primo ostacolo da superare nella
nostra ricerca della libertà.
Pur essendo un nemico dell’oppressione e dello sfruttamento, non sono
affatto a favore della rimozione di ogni barriera di classe. Se lo facessimo
resteremmo con un’orribile meritocrazia di stampo protestante, come quella
che c’è in America, dove, come Tom Wolfe mostra in modo magistrale nel
Falò delle vanità, non c’è scusa per non essere Signori dell’Universo. A dirla
tutta, l’uguaglianza è qualcosa di insensato. Dove tutti sono uguali e hanno
pari opportunità, il fallimento non è giustificabile. Un sistema di classe,
invece, offre una scusa prefabbricata per il fatto di godersi la vita invece di
lavorare; sempre che ci sia davvero bisogno di una scusa. E se non ti piace la
classe cui appartieni, spostati. Un contadino è riuscito a diventare papa.
Appartenere a una classe diversa non vuol dire essere inferiori a qualcun
altro: io sono ben felice di essere in una classe diversa rispetto ad altre
persone, ma non per questo mi sento inferiore rispetto alle classi alte, o
superiore rispetto alla classe operaia.
È straordinariamente facile sfuggire al vostro background sociale,
qualunque esso sia: è sufficiente rifiutare ciò che ci offre il mondo
convenzionale e prefabbricato, e inventarvi un mondo tutto vostro. Così,
incontrerete compagni che la pensano come voi, e sono legati a voi
spiritualmente anziché per diritto di nascita. È inutile lamentarsi della sorte che
vi è toccata. Sì, orribili ingiustizie sono state perpetrate ai vostri danni e ai
danni di quelli come voi, ma per sfuggire alle catene di queste ingiustizie, e
prevenirne la ripetizione, non serve lamentarsi dei torti subiti in passato:
bisogna piuttosto dimostrare superiorità e sforzarsi di vivere bene. La bohème
è una strada praticabile per liberarsi dalle restrizioni imposte dalle proprie
origini: ciascuna classe, a modo suo, può essere considerata limitante rispetto
alle nostre libertà. E nei circoli bohémien si mescolano lord e ladri, ubriachi,
poeti e musicisti, tutta gente che è riuscita a liberarsi dalle catene che ci legano
(se noi glielo permettiamo).
Il problema non è che le persone sono diverse, ma che non rispettano la
differenza. È qui il problema dei governi che promettono di dar vita a una
società senza classi; quello che intendono davvero è una società in cui siamo
tutti uguali: tutti robot, androidi stakanovisti, automi, come Charlie Chaplin in
Tempi moderni. La società che hanno in mente è forgiata su quest’immagine
tetra, grigia, noiosa, pavida.
Le differenze tra le classi aggiungono colore alle nostre vite. Cavalieri,
guerrieri e vescovi hanno lasciato opere stupende in giro per il mondo, per la
nostra delizia: castelli, giardini, cattedrali. I bambini sembrano nutrire una
passione innata per i re e le regine e le storie degli antichi cavalieri. Re Artù
era un aristocratico, non un burocrate sovietico. La monarchia sa anche essere
divertente. Robert Burton, nel suo brillante manuale di auto-aiuto seicentesco,
nonché corposo ammasso di chiacchiere, l’Anatomia della malinconia,
delinea la sua personale visione utopica, nella quale le barriere di classe sono
mantenute per la semplice ragione che rendono la vita più divertente, più
varia e colorata. Burton attacca la Repubblica di Platone definendola
«noiosa»:
La comunità delineata da Platone è per molti versi empia, assurda e ridicola.
Distrugge ogni splendore e magnificenza. Io voglio invece diversi ordini, gradi di
nobiltà ereditaria, che non penalizzino tuttavia i fratelli più giovani, ma anzi
garantiscano loro una pensione, oppure insegnino loro un mestiere, qualche vocazione
onesta, mettendoli così in grado di guadagnarsi da vivere… La mia forma di governo
sarà la monarchia.

La mia utopia si comporrebbe probabilmente di una società su tre livelli, non


dissimile da quella medievale, con cavalieri, chierici e contadini. La classe
guerriera sarebbe quella aristocratica, e il loro compito sarebbe starsene seduti
e non far nulla, a parte curare i loro splendidi giardini, organizzare party e
festival nelle loro enormi case, agire da mecenati delle arti ed essere ospitali
(ovvero regalare cibo e birra). È proprio ciò che fa oggi la famiglia Eliot in
Cornovaglia. Usano la loro splendida casa e il parco come luogo d’incontro e
centro di attività artistica. I chierici sarebbero scrittori, poeti, artisti eccetera.
Vivrebbero come contadini, in libertà e autosufficienza. E i contadini
sarebbero gli artigiani, i muratori, i calzolai, i falegnami, i vasai, i fabbri. Tutte
e tre le classi sarebbero coinvolte nella creazione di musica e architettura. Chi
spende, chi pensa e chi crea.
Avremmo a nostra disposizione le biblioteche dei nobili, potremmo
passeggiare nei loro giardini, nuotare nelle loro piscine. Si sostituirebbero allo
Stato, e lo farebbero a livello individuale. Torneremmo alle terre comuni e ai
pascoli pubblici. Abbatteremmo tutte le recinzioni. Dovremmo eliminare le
enclosures. Il rispetto delle differenze sarebbe all’ordine del giorno. Si
diffonderebbe un pregiudizio contro il tentativo di trasformare la gente in
robot, e l’efficienza e la regolarità diventerebbero disvalori. Rideremmo dietro
ai meschini burocrati e li cacceremmo dalla città.
Federalismo e rispetto. Il mio modo non è migliore del tuo. Non c’è una
cosa migliore di un’altra. Tutte le cose e tutte le persone sono completamente
diverse tra loro e completamente uguali.
Il vero compito è trovare il nemico dentro di noi, non fuori. Come diceva il
pensatore beatnik Alexander Trocchi, dobbiamo «colpire il nemico nella sua
base strategica, cioè dentro di noi». La stessa lotta di classe nutre la classe
media, perché quando lotti contro qualcosa, non fai altro che rafforzarlo. La
risposta è semplice: ignorare le cose che non vi piacciono delle classi e
concentrarvi su quelle che invece vi piacciono. La guerra di classe è un vicolo
cieco, perché è un atteggiamento profondamente irresponsabile verso la vita,
dal momento che dice: «Se solo quei bastardi non mi avessero fottuto, tutto
andrebbe bene». Be’, in un certo senso voi vi siete lasciati fottere, e voi avete
libertà di scelta, potete decidere se lasciarvi fottere o no. Per questa via sta la
libertà.
Dobbiamo rimettere in discussione la nostra complicità con lo status quo
attuale. Quando parliamo di anarchia, non intendiamo una dissoluzione
completa dell’ordine, un mondo alla Mad Max dove sopravvivono solo i più
violenti. Quello che intendiamo, piuttosto, è una decentralizzazione del potere:
il potere al popolo. D.H. Lawrence ha scritto che la questione non è
distruggere il sistema, ma sostituirlo con un altro, più umano: «Un sistema
dev’esserci; devono esserci classi di uomini; dev’esserci differenziazione: o
questo, o il nulla amorfo. La vera scelta è tra sistema e sistema, meccanico
oppure organico».
È interessante l’uso del termine «organico», parola che oggi è molto in voga
nei circoli dei buongustai, ed è spesso disprezzata in quanto moda borghese.
Ma è una parola forte, e quando la mettiamo in contrasto con «meccanico»,
come fa Lawrence, il suo significato diventa chiarissimo. Abbasso i robot,
viva l’essere umano. Abbasso l’uguaglianza, viva la varietà. Abbasso la
dipendenza, viva l’indipendenza. Eccetera.
Come teorico dell’ozio e come anarchico, amo tutte le persone che lottano
per essere libere, da qualunque classe sociale provengano. Amo gli
aristocratici, amo gli operai e amo la borghesia bohémien (cui appartengo).
Amo i criminali e i drogati. Se volete unirvi agli eletti, ai variopinti, ai creativi,
è molto facile. Create da soli la vostra vita. Mettete da parte il risentimento.
Rigettate l’idea di «dover fare». Non dovete fare proprio niente. Siete dotati di
libero arbitrio. Usatelo.

SII BOHÉMIEN
Togliti l’orologio

Il nuovo movimento sta lentamente, spensieratamente costruendo


una società alternativa. È internazionale, interraziale, equisessuale,
rilassata. Opera in base a nuove concezioni di tempo e spazio.
Nel mondo del futuro potrebbero non esserci orologi.
TOM MCGRATH, «International Times» (marzo 1967)

Buttate via le sveglie, scrivevo nel mio libro precedente L’ozio come stile di
vita. Ora vi chiedo di gettare anche i vostri orologi da polso. Per qualche
oscuro motivo, tutti vogliono un orologio di gran marca. Ma non è curioso
che quello che è di fatto un simbolo di schiavitù sia diventato uno status
symbol? Indossare un orologio comunica agli altri che vi siete sottomessi ai
ritmi industriali moderni. Indossare un orologio molto costoso indica che siete
orgogliosi di esservi sottomessi. Si tratta, letteralmente, di un paio di manette
d’oro zecchino. Le sbarre della gabbia sono a ventiquattro carati.
Sappiamo, dalle parole dello storico E.P. Thompson e di Jay Griffiths,
autrice di Pip Pip. A Sideways Look At Time [Uno sguardo obliquo al tempo],
che la moderna concezione del tempo è sorta assieme all’economia di
consumo. Un tempo, prima che qualcuno pensasse a organizzare e
standardizzare le procedure lavorative, nei monasteri era il suono delle
campane a strutturare i ritmi quotidiani della preghiera, dello studio e del
giardinaggio. In seguito, le campane furono usate in tutta l’Europa occidentale
per annunciare le assemblee locali. Quando sentivano la campana, uomini e
donne dovevano posare gli strumenti di lavoro, lasciare i campi e andare in
città per l’assemblea. Presto gli orologi fecero la loro comparsa sul mercato,
allo scopo di imporre una qualche uniformità ai ritmi di lavoro. Ma il tempo
era ancora una realtà locale e pubblica. Non era la stessa ora in tutti i luoghi.
L’orologio di ogni città indicava un’ora diversa, ma ogni membro di quella
comunità condivideva la percezione del tempo. In un certo senso, con
l’orologio pubblico, il tempo diventava libero. Libero nel senso che non
occorreva legarsi un orologio al polso per sapere che ore fossero, dato che ce
n’era uno a disposizione di tutti. Ed era libero perché era riservato alla
comunità.
È anche vero però che, già nel Trecento, possiamo vedere i primi segnali di
quello che Jacques Le Goff chiama «il tempo del mercante», la colonizzazione
del tempo allo scopo di far soldi meglio e più in fretta:

Il governatore reale dell’Artois autorizza nel 1315 la popolazione di Aire-sur-la-Lys a


costruire una torre campanaria, le cui campane suoneranno le ore delle transazioni
commerciali e del lavoro degli operai drappieri […]. L’orologio comunale è uno
strumento di dominazione economica, sociale e politica dei mercanti che reggono il
comune. E, per servirli, si avverte la necessità di una misura rigorosa del tempo,
perché nella drapperia «è opportuno che la maggior parte degli operai giornalieri [il
proletariato del tessile] vadano e vengano al loro lavoro a ore fisse».

Già si percepiscono i «ritmi infernali», commenta Le Goff. Nel Medioevo il


«tempo del mercante» lottava contro il tempo religioso. L’atteggiamento
dominante della religione sosteneva che il tempo non si potesse vendere. Ecco
come un francescano del Trecento risponde a chi lo interroga sul tema del
credito e dell’interesse:

Domanda: può un mercante, in una transazione, richiedere una cifra più alta a chi non
può saldare il conto subito, rispetto a chi può? La risposta è no, perché se lo facesse
venderebbe il tempo, e commetterebbe usura vendendo ciò che non è suo.

Oggigiorno la pensiamo in modo opposto: veneriamo i banchieri e i ricchi. Il


tempo e il denaro, che i medievali tentavano così strenuamente di tenere
separati, si sono fusi in una sola cosa. Come è accaduto? Anche qui come in
altri casi darò la colpa a quello stakanovista codardo e moralista di Benjamin
Franklin, che nel Settecento ha inventato o espresso un modo tutto nuovo di
pensare al tempo. Il tempo non era più un dono di Dio. Ora, il tempo era
denaro. Il seguente brano fu scritto come propaganda destinata ai giovani
all’inizio della carriera:
Considera che il tempo è denaro; chi potrebbe guadagnare col suo lavoro dieci
scellini al giorno e per mezza giornata va a spasso, o poltrisce nella sua stanza, anche
se spende solo sei pence per i suoi piaceri, non deve contare solo questi; inoltre ha
speso altri cinque scellini, o meglio li ha buttati via.
Considera che il credito è denaro. Se qualcuno mi lascia il suo denaro esigibile, mi
regala gli interessi o quanto ne posso fare per questo tempo. Ciò ammonta a una cifra
considerevole, se un uomo ha molto e buon credito e ne fa buon uso.
Considera che il denaro ha una natura feconda e fruttuosa. Il denaro può generare
denaro, e i rampolli ne possono produrre ancora di più, e così via. Cinque scellini
trafficati sono sei, nuovamente impiegati diventano sette scellini e tre pence e così
via, fino alla somma di cento sterline. Quanto più denaro è presente, tanto più ne
produce se impiegato, di modo che l’utile sale sempre di più. Chi uccide una scrofa,
distrugge tutta la sua discendenza fino al millesimo membro. Chi sopprime una
somma di cinque scellini, uccide tutto quello che si sarebbe potuto produrre con essa:
intere colonne di lire sterline.

Per Franklin, non solo è un dovere morale equiparare il tempo al denaro, ma


l’accumulo di denaro fine a se stesso diventa un obiettivo lodevole. Da mezzo
di scambio, il denaro unito al tempo comincia a vivere di vita propria. Il
profitto diventa un’entità astratta, un obiettivo che vale la pena inseguire. Qui
non si riflette sul perché il profitto sia una bella cosa, o su come useremo il
profitto ottenuto per far del bene alla società. Addio, fratellanza universale;
benvenuti, lavoratori solitari.
Quindi, se anche noi come il malvagio Franklin crediamo che il tempo sia
denaro, allora dal punto di vista commerciale è in qualche modo sensato
indossare un orologio per tenere il conto del tempo prezioso che abbiamo
perso, e per aiutarci a non sprecarlo al pub. Da locale e pubblico il tempo è
diventato globale e privato. Ma se siete sempre consapevoli dell’ora, significa
che non state vivendo nell’attimo, dato che state già pianificando la prossima
mossa. Perdete quella deliziosa impressione che il tempo stia andando avanti
per conto suo, quel «perdere il senso del tempo» come si suol dire. Perdere il
senso del tempo è una sensazione meravigliosa in cui ci si dimentica di essere
vincolati dal trascorrere delle ore, e ci si lascia andare. Quattro ore possono
passare in un attimo. Toglietevi l’orologio e sarete letteralmente liberi dal
tempo. Se volete sapere che ore sono, cercate un orologio a parete o chiamate
l’apposito servizio telefonico; ci sono molti modi per scoprirlo.
Non vi sto consigliando di essere irresponsabili e sempre in ritardo. Dato
che tutti ci siamo accordati per vivere secondo una certa organizzazione del
tempo, dovremmo rispettarla. Però ogni tanto penso: non sarebbe bellissimo
vivere secondo la scansione del tempo degli africani, che non prendono
appuntamenti, ma lasciano che succedano? L’idea di «prendere un
appuntamento» è ridicola per un africano, o perlomeno un africano all’antica,
che vive in un’area rurale. C’era una top model africana che viveva a New
York, ed era sempre in ritardo agli appuntamenti: non riusciva ad adattarsi alla
nuova e rigida concezione del tempo.
Ora, benché sia indubbiamente maleducato essere in ritardo, io cerco di
fissare gli appuntamenti a orari molto vaghi. Per esempio, dico: «Dovrei
arrivare tra le cinque e le sei». Sto anche imparando a concedermi molto
tempo per giungere a destinazione, perché per la strada può capitare ogni
genere di inconveniente. Oppure potrei incontrare qualcuno e mettermi a
chiacchierare. Se poi arrivo in anticipo, tanto meglio. Ricordo di aver letto nei
diari di Joe Orton che lui era sempre in anticipo agli appuntamenti, e che
questo gli dava l’opportunità di farsi una passeggiata prima di suonare il
campanello. Non aveva paura del tempo libero. Ci sono due tipi di persona:
quelli che amano i ritardi e i disastri e quelli che si stressano e iniziano a
iperventilare, come se iperventilare cambiasse le cose.
È probabilmente impossibile liberarci del tutto dagli orologi e dal tempo,
ma possiamo facilmente cambiare la nostra relazione con il tempo, mettendoci
su un piano di parità con esso anziché esserne schiavi. Una strategia infallibile
per farlo è ovviamente l’uso di droghe. Le droghe possono incurvare e
dilatare il tempo, creando una nuova, distorta logica. Un eroinomane, per
esempio, non è mai puntuale. Le droghe possono far sembrare un minuto
lungo un’ora, o contrarre tre giorni in pochi minuti. La loro popolarità è
dovuta al fatto che offrono una fuga temporanea dal tempo degli schiavi, il
tempo commerciale, il tempo come merce, nel senso descritto da Franklin. Le
droghe ci consentono di uscire dal Sistema, per ballare o parlare o meditare.
Permettiamo a noi stessi di diventare schiavi del tempo. Anche il mondo
del lavoro è definito da una mera durata: «dalle-nove-alle-cinque». Sono un
impiegato dalle-nove-alle-cinque, uno schiavo, un automa. Che brutto modo
di vivere. Continuamente, il tempo grava su di noi, ci esorta a darci una
mossa, a fare di più, a organizzarci. L’orologio è un grande ammonitore,
sempre lì a rimproverarci.
Quindi, come sfuggire alle grinfie dell’orologio? Una risposta semplice è:
smettiamo di programmare le nostre giornate. Io ho la tendenza a inserire
troppi impegni in un giorno solo, e questo è sempre un errore. Siate realistici.
Non pretendete troppo da voi stessi. Fate di meno. Fate spazio. Riducete il
numero di visite e riunioni in agenda al minimo indispensabile, per fare
spazio alle cose più divertenti e vitali, «le cose che, semplicemente, capitano».
Quando lasciate che le cose vi accadano, la vita stessa inizierà ad accadere.
Lasciate dunque grandi spazi bianchi nella vostra vita, perché è negli spazi
bianchi che vivete davvero. È bellissimo, per esempio, quando le cose vanno
storte. Una volta ero sull’isola di Eigg, e il traghetto fu cancellato tre giorni di
fila a causa del maltempo. Questa circostanza prolungò come per magia la
nostra vacanza, e avemmo la scusa perfetta per disdire tutti gli impegni che
avevamo a casa.
Dobbiamo anche abbandonare quel modo di pensare degno di uno schiavo,
per cui «Non ci sono abbastanza ore in un giorno» e «Proprio non ho tempo».
Quando diciamo di non avere tempo per fare qualcosa, quello che davvero
intendiamo è «Ho dato la priorità a qualcos’altro». La gente dice: «Non ho
tempo per leggere/camminare/giocare/cucinare/guardare fuori dalla finestra».
Ma sembrano avere tempo per guardare ore e ore di televisione al giorno. La
sensazione che il tempo non sia abbastanza agisce su di noi come un
guardiano sugli schiavi: fa schioccare una frusta e ci intima di darci una
mossa. Uno dei trionfi del progetto capitalista è il fatto che il guardiano degli
schiavi ora è dentro di noi, il che fa risparmiare un sacco di soldi sugli
stipendi. Peggio ancora, ci hanno convinti a spendere i nostri risparmi per
comprarci un piccolo guardiano da legare al polso. Il Coniglio Bianco è
schiavo della regina, un leccapiedi servile. Quindi, vedete, buttare via
l’orologio è davvero un vostro preciso dovere rivoluzionario.
È assurdo anche pensare di essere a corto di tempo, dato che ciascuno di
noi dispone della medesima quantità di tempo, essendoci sempre ventiquattro
ore in un giorno. È impossibile che una persona abbia meno tempo di
un’altra. Quindi, invece di lamentarvi perché «non abbiamo abbastanza
tempo», sforzatevi di dire: «Ho molto tempo a disposizione». A volte le parole
riescono a precedere la realtà. La sensazione di non aver tempo è uno dei
motori dell’economia consumistica. Se vi sembra di non aver tempo, sarete
facile preda per chi vuol vendervi prodotti che promettono di «far risparmiare
tempo», quegli aggeggi che servono a faticare meno. L’automobile, per
esempio, nel lungo periodo non fa affatto risparmiare tempo. Ivan Illich ha
calcolato che se sommiamo tutto il tempo che passiamo in macchina,
compresi gli spostamenti da casa al garage e il tempo che passiamo a
guadagnare i soldi che spenderemo in benzina; e dividiamo il totale per il
numero di chilometri percorsi, la nostra velocità media è di otto chilometri
l’ora. Andremmo più veloci in bicicletta. La velocità, paradossalmente, erode
il nostro tempo libero. Quindi, se volete risparmiare, smettete di sottomettervi
al tempo dettato dall’orologio.
Sto compiendo uno sforzo, nella mia vita quotidiana, per apprezzare le
catastrofi. Più facile dirlo che farlo, ma un disastro può diventare
un’avventura se vi liberate da un’agenda troppo fitta di impegni. I disastri,
poi, spezzano la routine. L’altro giorno il mio furgone si è fermato sulla strada
per la stazione. Sì, sono arrivato a Londra in ritardo, ma ho avuto un po’ di
tempo libero mentre aspettavo il soccorso stradale. Vivere nella morsa del
cronometro ci impedisce anche di vivere per l’attimo, perché non facciamo
che preoccuparci per cosa dovremo fare in futuro, anziché abitare il momento
presente. Dobbiamo abbandonare il tempo del mercante e tornare ad affidarci
al tempo naturale. Vivere secondo le stagioni, abbandonarci al tempo che si
distende. Non sprecatelo più in sforzi inutili, televisione e lavoro. Lasciate che
le cose accadano, e le cose accadranno. Il tempo è gratis, quindi tutto il tempo
dovrebbe essere tempo libero. Dovremmo abbandonare l’espressione «tempo
libero» perché implica il suo opposto, il tempo della schiavitù. Il tempo è un
dono di Dio, e dire che coincide con il denaro è un atto di pura follia.
Toglietevi dunque quell’orologio, gettatelo nel fiume e ballate per la strada,
finalmente liberi.

BUTTA VIA L’OROLOGIO


Smetti di competere

Il principio del commercio medievale era, bisogna ammetterlo, il


cameratismo e la giustizia: mentre il principio del commercio moderno
è, bisogna ammetterlo, la competizione e l’avidità.
G.K. CHESTERTON, William Cobbett (1926)

Dai tempi di Darwin, le cui teorie giunsero in un periodo molto competitivo


della storia europea, la nostra società è stata quasi unanime nel ritenere che la
strada da percorrere fosse quella dell’agonismo. Il principio della
«sopravvivenza del più adatto» si è affermato e ha avuto grande successo non
solo come teoria biologica, ma anche come etica applicata alla vita quotidiana.
Quando i capitalisti dibattono sui media, usano la frase «sana competizione»
dando per scontato che chiunque li ascolti concorderà sul fatto che la
competizione sia qualcosa di salutare. È una cosa che diamo per assodata, un
fatto della vita. Ovviamente non è un caso che le teorie di Darwin, o almeno
una certa interpretazione di esse, si siano affacciate proprio quando era sorto
il bisogno di una simile giustificazione per una forma nuova e particolarmente
rapace di capitalismo. Ora, potreste pensare che questa nozione abbia ormai
acquisito i caratteri dell’inevitabilità. Il principio della competizione domina il
mondo degli affari e governa il sistema educativo. È ormai parte integrante del
sistema sanitario e del trasporto pubblico, e il governo blatera di «obiettivi» da
raggiungere. Gli impiegati nelle aziende sono incoraggiati a competere gli uni
contro gli altri. L’idea è profondamente radicata nelle nostre coscienze.
La teoria sosterrebbe che il regime di concorrenza permette di produrre
merci di qualità elevata e a prezzi ragionevoli. È vero il contrario: la
concorrenza sfrenata, ovvero la guerra commerciale, e l’espansione infinita
che necessariamente ne deriva, sfocia inevitabilmente nei monopoli, perché
un’azienda enorme fagocita gradualmente i suoi concorrenti meno fortunati.
Un esempio è dato dall’inarrestabile ascesa di Tesco, l’onnipresente
supermercato inglese, che ha distrutto comunità, facendo chiudere molti
negozi che non riuscivano a tenere i prezzi altrettanto bassi. Questo processo
non fa che succhiare soldi alle comunità, riversandoli nelle tasche degli
azionisti. Le aziende vanno fiere di questo stato di cose. Ricordo interminabili
riunioni d’affari in cui qualcuno sbottava: «Be’, non siamo un’associazione
benefica», accolto da mormorii di approvazione da parte dell’uditorio. Il
sistema azionario esercita anche una pressione verso il basso nei confronti
della qualità, perché la pura quantità – più vendite – diventa il fattore
importante. La concorrenza, in realtà, uccide la varietà. Conduce alla
creazione di gigantesche imprese, con schiavi incatenati ai piani bassi e
ragazzini geniali al vertice. Conduce le grandi catene a fagocitare le imprese
individuali; conduce al fenomeno recentemente battezzato in Gran Bretagna
«città-clone»: cioè il fatto che le strade principali delle varie cittadine sono
tutte uguali. Conduce alla «starbucksificazione» del mondo,* per cui il libero
arbitrio si riduce a libertà di scegliere tra un cappuccino Starbucks e un latte
macchiato Starbucks. La concorrenza è nemica della libertà e della giustizia.
Devo ammettere che anche in me c’è una vena di competitività esasperata.
La cosa è divenuta evidente quando ho condotto la mia squadra di redattori
dell’«Idler» a una vittoria schiacciante contro il quotidiano «Financial Times»
nel programma a quiz University Challenge della Bbc, nel 2005. Benché la
nostra vittoria sia da attribuire non a me ma quasi interamente a Rowley
Leigh, lo chef intellettuale, sono stato catapultato nel buonumore. La mia
compagna, Victoria, sostiene che questo trionfo ha avuto un effetto
straordinario sulla nostra pace domestica: non le ho mai tenuto il muso per
due settimane intere.
Quindi, se mi piace vincere, come mai mi scaglio contro il concetto di
«vittoria»? Be’, è perché credo che vi siano due forme molto diverse di
competizione: nell’ambito del gioco e nell’ambito lavorativo. Finché la
competizione resta legata al gioco e allo sport, allora è divertente, priva di
scopo pratico e fine a se stessa. Per esempio, chi vorrebbe smettere di giocare
a freccette, a biliardo e a croquet? I giochi sono antichi, e sono divertenti. Le
corti catalane del Duecento, per esempio, amavano lo sport, e si lanciavano
arance per giorni e giorni di fila. C’è questa straordinaria descrizione, citata da
Linda M. Paterson nel suo studio The World of the Troubadours [Il mondo
dei trovatori]:

L’ammiraglio aveva fatto issare molto in alto il bersaglio, perché, dopo sua maestà il
re Pere e il signore di Maiorca, era il più abile lanciatore fra tutti i cavalieri di
Spagna; e suo cognato Lord Berenguer d’Etenca era altrettanto bravo. Io stesso ho
veduto entrambi effettuare un lancio, ma senza dubbio re Pere e il re di Maiorca sono i
più straordinari che io abbia mai visto mirare al taulat. Entrambi erano soliti lanciare
tre freccette e un’arancia; e l’ultima freccetta era grande come una lancia saracena del
tipo corto; le prime due mancavano sempre il bersaglio, perché per quanto esso fosse
posizionato in alto, le frecce erano scagliate molto più su; la terza invece colpiva la
tavola. Dopo di ciò, l’ammiraglio ordinò che si preparasse un bersaglio tondo; e i suoi
marinai approntarono due navi corazzate, quelle dalla chiglia piatta che si usano per
risalire i fiumi. Sulle barche si svolgevano battaglie a colpi di arance: se n’erano fatte
spedire l’equivalente di oltre cinquanta alberi dal regno di Valencia […]. Le
celebrazioni si protrassero per oltre due settimane, durante le quali non vi fu uomo a
Saragozza che facesse altro se non cantare, giocare o divertirsi.

Due settimane di festa e divertimento! Oggi, con la nostra ossessione per il


lavoro, non riusciamo a immaginare cosa succedeva durante quei festival.
Come scrive nel suo Autunno del Medioevo l’eccentrico storico olandese
Johan Huizinga, l’uomo moderno si rappresenta se stesso in primo luogo
come un lavoratore, ed è questo il grande mutamento. Niente più preghiera,
guerra, agricoltura. Solo lavoro, e lavoro duro. Tre giorni di seguito è il tempo
massimo che dedichiamo alla gioia e al divertimento. A volte dedichiamo due
intere settimane a quella costosa autotortura che definiamo «vacanza», ma le
vacanze richiedono altro duro lavoro, e costano molto. Questo non vuol dire
che lo spirito giocoso e competitivo non persista: abbiamo ancora il braccio di
ferro, le prove di forza, i giochi al pub, le giostre e i birilli. Ma quando la
competizione è elevata a principio-guida dell’azione morale nel mondo degli
affari e del lavoro, allora vuol dire che qualcosa è andato storto.
Come i capitalisti fanno del tempo una merce tra le altre, e hanno
magicamente interiorizzato il tempo dell’orologio, così sono riusciti a
manipolare il nostro istinto alla competizione, che più correttamente e più
semplicemente dovremmo definire «passione per il gioco», e l’hanno usato
per il proprio vantaggio. Se gli schiavi competono tra loro, i padroni non
hanno più bisogno di spingerli all’azione con la forza fisica. È tutto molto più
facile. Il consiglio di amministrazione si diverte da morire nel vedere gli
impiegati lavorare come pazzi e competere tra loro in cambio di stipendi da
fame e pochissima supervisione. Ai consiglieri resta così un sacco di tempo
libero per giocare a golf e ridacchiare in compagnia nelle sale riunioni.
La volontà di vincere e il bisogno di crescita continua, risultato del sistema
azionario, conduce alla furberia, al sabotaggio, alla perdita completa del
piacere di fare il proprio lavoro. I fini hanno il sopravvento sui mezzi.
Sappiamo che questo spirito avaro è nato nell’età del protestantesimo con i
puritani, con Benjamin Franklin, Wesley e tutti gli altri grigi repubblicani,
promotori di noia. Ma qual è l’alternativa?
Quando sollevo questo problema al pub, tutti mi dicono che non c’è
alternativa; la battaglia continua è l’unica modalità possibile di vita e di lavoro.
Si è tentato con altri sistemi – per esempio il comunismo – che però hanno
fallito, e tutto ciò che ci è rimasto è la crudeltà e la continua lotta del
capitalismo. Bisogna essere forti per sopravvivere nel mondo di oggi, ci
dicono. Questa parola, «sopravvivere», la trovo particolarmente deprimente.
Avete mai visto quei terribili manuali di auto-aiuto con la parola
«sopravvivenza» nel titolo? Come sopravvivere alla famiglia, o titoli del
genere. La vita si è quindi ridotta a una questione di mera sopravvivenza?
Personalmente, non mi sembra un’ambizione molto nobile. Come amare,
come vivere felici, come godersi la vita: dovrebbero essere questi i nostri
obiettivi.
In ogni caso, è falso che il capitalismo sia l’unico sistema possibile. Nel
Mutuo appoggio, Kropotkin conduce uno studio metodico attraverso esempi
tratti dalla natura e dal mondo umano, in cui l’aiuto reciproco appare come il
fattore dominante. Kropotkin individua nel mondo animale alcuni esempi di
collaborazione, e prosegue descrivendo i codici sociali delle società primitive
e anche dei simpatici barbari, ben diversi dai nostri codici fondati
sull’egoismo. Per esempio, in alcune comunità primitive, lo spirito
dell’ospitalità è così importante che se camminate da soli nella foresta e vi
sedete per consumare il vostro pasto, dovete prima gridare tre volte
un’offerta, rivolta a eventuali estranei di passaggio, di condividere il pranzo
con voi.
L’Inghilterra medievale, la «vecchia e lieta Inghilterra», era imbevuta fino al
midollo di questo spirito dell’ospitalità. Anzi, l’idea di «ospizio», «ospedale»,
fu inventata da frati e monache, che tenevano sempre aperte le porte dei loro
conventi, prendendosi cura dei mendicanti e dei vagabondi, ma anche dei
cittadini che finivano nei guai: a tutti costoro, i religiosi distribuivano birra,
pane e pancetta. Ispirandosi al Discorso della Montagna, prendevano molto
sul serio il concetto di caritas. A quei tempi, per un prete, sarebbe stato
moralmente impossibile non aiutare quelli che noi oggi chiamiamo
«senzatetto». Ogni lavoratore donava al monastero più vicino il 10 per cento
dei suoi guadagni, o dei prodotti della sua terra; in molti casi, il monastero
sarà stato anche il padrone di quella terra. Queste decime servivano in primo
luogo per alleviare le sofferenze dei poveri della zona. In quell’epoca, ci
prendevamo cura dei nostri poveri, anziché delegare quest’incombenza a una
cricca di burocrati.
Monaci e preti martellavano nelle teste dei fedeli l’idea che lo sforzo fosse
sinonimo di vanagloria, che fosse sbagliato cercare di fregare il prossimo. La
nozione di «fratellanza» era promossa con decisione. È straordinario, per
esempio, constatare che san Tommaso d’Aquino esorta continuamente il
lettore ad «amare Dio e il tuo prossimo». Dio e il prossimo sono quasi sullo
stesso piano. Ci prendiamo cura gli uni degli altri. È questo il principio della
carità inteso nel senso medievale.
Nel Trecento, ovviamente, l’etica protestante che avrebbe infestato Europa
e America con esiti disastrosi non era ancora stata inventata. Il primo pensiero
di uomini e donne non era fare un sacco di soldi ma salvarsi l’anima. Anzi,
fare un sacco di soldi era un sistema quasi infallibile per andare all’inferno; è
più facile che un cammello passi per la cruna di un ago… Gesù e gli apostoli
vissero in povertà, e il filosofo preferito dai medievali, Aristotele, elogiò la
vita contemplativa. Ecco perché, pur essendo innegabilmente un’età
mercantile, il Medioevo fu profondamente diviso nell’atteggiamento verso il
denaro, e anzi sull’argomento si accesero innumerevoli dibattiti.
Le nuove corporazioni professionali sorte a partire dal XII secolo si
fondarono sulla nozione di «prezzo fisso ed equo» e su quella di bene
comune. Le corporazioni dovevano esercitare una forma di attività
professionale che fosse in linea con i codici etici medievali, i quali per
principio diffidavano del troppo lavoro, del commercio e della competizione.
Il Padre Nostro – «dacci oggi il nostro pane quotidiano» – è un credo
anticompetitivo, quasi orientale nel suo fatalismo. Alcune forme di lavoro
erano state definite accettabili dal clero: il giardinaggio, la preparazione del
pane e della birra; ma il lavoro in generale, e soprattutto l’attività
commerciale, era visto come un’altra forma di vanità. Ma poi, tutto iniziò a
cambiare. Come sottolinea Jacques Le Goff:
Gli uomini del Medioevo hanno visto nel lavoro innanzitutto la punizione del peccato
originale, una penitenza. Poi, senza rinnegare questa prospettiva penitenziale, hanno
valorizzato sempre più il lavoro, strumento di riscatto, di dignità, di salvezza,
collaborazione all’opera del Creatore che, dopo aver lavorato, il settimo giorno si è
riposato. Lavoro, caro affanno che va strappato all’alienazione per trasformarlo,
individualmente e collettivamente, nella difficile via della liberazione.

Quindi, il compito dei nuovi mercanti e membri delle corporazioni, che


volevano essere liberi di lavorare e commerciare, fu quello di istituire nuovi e
complessi sistemi di valori, che stabilissero come lavorare in modo da non
spiacere a Dio. I princìpi del lavoro erano: che doveva essere creativo, di alta
qualità, che non se ne doveva fare troppo, che bisognava mettersi d’accordo
sul prezzo, prendersi cura dei colleghi e non competere con loro. In altre
parole: niente sfruttamento. Il lavoro notturno, per esempio, era proibito,
perché poteva incoraggiare la concorrenza sleale. I prezzi erano fissi, e il
prestito a interesse (o usura) continuava a essere proibito. Il sistema era, per
l’appunto, anticompetitivo. Le quote d’iscrizione e le multe finivano in una
cassa comune, che era usata per organizzare splendide feste, per costruire
nuove sedi per la corporazione, per le elemosine.
Questo lungo periodo di cooperazione si interruppe bruscamente per colpa
di Enrico VIII, che minò alle fondamenta la Chiesa cattolica perché voleva
andare a letto con Anna Bolena e riempirsi i forzieri con l’oro dei preti. Nelle
scuole inglesi, di solito, si dipinge la Riforma come una deplorevole necessità;
ma naturalmente questa è la visione protestante. Dovremmo piuttosto
chiederci se abbiamo subìto un lavaggio del cervello, visto che ci beviamo
questa storia come niente fosse. Ecco come William Cobbett descrive il
processo, nella sua Storia della Riforma protestante:
Ora, amici miei, un’inchiesta equa e corretta ci mostrerà che si trattò di un mutamento
in peggio; che la «Riforma», com’è chiamata, si originò dalla lussuria, fu portata
avanti nell’ipocrisia e nella perfidia, fu nutrita dal saccheggio, dalla devastazione e
da fiumi di sangue innocente, inglese e irlandese; e che quanto alle sue più remote
conseguenze, alcune di esse sono ancora di fronte a noi, in quella miseria, quella
povertà, quella nudità, quella fame, quell’eterna lotta e disprezzo, che ora ci fissano
negli occhi e ci stordiscono a ogni angolo, e che la «Riforma» ci ha donato in cambio
della semplicità, della gioia, dell’armonia e della carità cristiana di cui i nostri
antenati cattolici godettero con tanta abbondanza e per tanti secoli.

Pur non essendo esattamente un puritano, Enrico VIII, con il suo saccheggio
dei monasteri e la rottura con Roma, si rivelò molto in sintonia con il nascente
puritanesimo. Tra il 1500 e il 1760, la fazione puritana in Inghilterra – la gente
seria, contraria al divertimento, gran lavoratori, fautori dell’abnegazione,
cancellatori del Natale, pellegrini solitari, distruttori dell’albero della cuccagna,
parlamentari, nemici della gioia e della spontaneità – vide crescere la sua
influenza fino a conquistare l’intera nazione attraverso la Rivoluzione
industriale e la privatizzazione delle terre. Odiavano la pompa magna, lo
sfarzo, l’oro e l’incenso; il fatto dunque che le chiese fossero state spogliate di
ogni decorazione si adattava perfettamente ai loro austeri gusti. E poi l’intero
progetto si ritorse contro di loro, perché il passo logico successivo al
protestantesimo è l’ateismo: chi me lo fa fare di credere in Dio?
Tuttavia, rimase vivo il ricordo del modo di vita comunistico che aveva
preceduto la Riforma; e da quando è iniziata la nuova via, non abbiamo
smesso di ribellarci e di sognare un’alternativa più umana. È affascinante
notare come sia accaduto qualcosa di simile nella civiltà Maya del Messico,
più o meno nello stesso periodo. Secondo l’archeologo J. Eric S. Thompson, i
Maya, proprio come i medievali, credevano che «nessuno deve faticare per
ottenere più della sua equa razione, perché il di più sarebbe ottenuto a spese
del vicino; e per un Maya il prossimo è molto importante». Questa società fu,
naturalmente, distrutta dai conquistadores. Thompson cita il libro Maya di
Chilam Balam di Chumayel: «Prima che venissero tra noi gli uomini potenti e
gli spagnoli non esisteva avidità di guadagno, non si spargeva il sangue
dell’amico, non si aggravava la miseria del povero, non si privava nessuno
del cibo…». Qui ebbe inizio, dice, lo sforzo individuale.
Uno dei primi seri tentativi di protesta contro il nuovo ordine che si stava
affermando in Europa fu quello dei Diggers [scavatori] del 1649, che
coltivavano il terreno pubblico. Il loro leader, John Winstanley, mercante di
grano fallito, sosteneva che tutti dovessero «lavorare insieme e mangiare il
pane insieme». Si ribellavano alle politiche di privatizzazione della terra
promosse dai Tudor, che avevano tolto ai villaggi le terre comuni, costruendo
steccati e riempiendo i campi di pecore. I Diggers, secondo un rapporto del
tribunale, progettavano di:
[…] scavare e arare e zappare la terra, e raccoglierne i frutti […]. Intendono
riportare la Creazione alla sua condizione primigenia. Come Dio aveva promesso di
rendere fertile la terra sterile, così essi si ripromettevano di tornare a godere dei
frutti della terra, distribuendoli ai poveri e ai bisognosi, di dar da mangiare agli
affamati e vestire gli ignudi.

Il braccio destro di Winstanley, John Everard, disse che «il tempo della
salvezza era vicino, e Dio avrebbe condotto il suo popolo alla liberazione da
questa schiavitù, ripristinando la loro libertà di godere i frutti e i benefici della
terra». I Diggers furono all’origine di una delle prime rivolte contro il nuovo
ordine protestante che stava lentamente infettando la vecchia Inghilterra. Le
cose, naturalmente, peggiorarono sensibilmente in seguito agli Enclosure Acts
che si susseguirono a partire dal 1760, il cui scopo era cacciare la popolazione
dalla campagna e forzarne il trasferimento in città, per usarla come
manodopera a basso costo nelle nuove fabbriche. Una popolazione rurale di
grande varietà, che disponeva di molti terreni comuni usati come pascoli e per
raccogliere legna da ardere, fu gradualmente sostituita da un’arida campagna
popolata solo da pecore. Le pecore presero letteralmente il posto degli uomini,
perché rendevano di più; questo processo fu condotto con la massima
brutalità nelle Highlands scozzesi, dove proprietari terrieri ambiziosi
cacciarono i contadini dai loro poderi e li lasciarono a morir di fame,
spingendo molti a tentare il tutto per tutto emigrando in America.
Il Seicento vide anche l’affermazione del movimento anarchico dei Ranters.
Nei Fanatici dell’Apocalisse, Norman Cohn mostra che i Ranters raccolsero
l’eredità spirituale delle sette del Libero Spirito, o Amalriciani, che erano
fiorite in tutta Europa tra l’XI e il XIII secolo. Come quelle sette, i Ranters
sostenevano che il puro di cuore non potesse compiere il male; dunque, anche
se avesse avuto un rapporto carnale con la propria sorella sull’altare di una
chiesa, non avrebbe peccato. I Ranters si opponevano al lavoro: erano
convinti che ogni cosa dovesse essere messa in comune, che le definizioni di
peccato non fossero realtà assolute ma semplici miti, creati dagli uomini per
soggiogarsi a vicenda. Erano gli esistenzialisti dell’epoca, convinti che nulla
avesse valore intrinseco e che ogni significato fosse una creazione dell’uomo.
Il predicatore itinerante Laurence Clarkson (1615-1667) parlò dei Ranters
nella sua biografia (1650). La sua filosofia è relativista all’estremo; sembra di
leggere Nietzsche:

Tutte le cose create da Dio erano buone, quindi nulla era cattivo se non perché
giudicato tale dagli uomini. Compresi che non esistevano il furto, la truffa e la
menzogna se non quando l’uomo le definiva così; perché se gli uomini non avessero
introdotto in questo mondo la proprietà, il Mio e il Tuo, non ci sarebbero stati furto,
truffa né menzogna.

Il peccato ha origine nella sola immaginazione, dice Clarkson. Ogni cosa è


forgiata dalla mente:

Consideriamo qualsiasi atto, per esempio l’atto della bestemmia, dell’ubriachezza,


dell’adulterio e del furto: essi, nella loro natura semplice – nuda – di atti non si
distinguono in alcun modo dall’atto della preghiera e della lode a Dio. Perché siete
perplessi? Perché vi adirate? Sono tutti una sola cosa; non c’è più santità, più purezza
nell’uno che nell’altro.

La moralità è una creazione umana. È una filosofia che rimonta ai Sufi e al


movimento amalriciano, passando per Nietzsche, Sartre, i situazionisti e i
punk.
Nell’Ottocento furono in molti a tentare di far naufragare l’idea di
competitività come principio organizzativo. Ci fu per esempio Robert Owen,
il proprietario di mulini votato alla filantropia. Ci furono i terreni colonizzati
dai Cartisti. Ci fu John Minter Morgan, che sognava «villaggi ben costruiti, di
unità e cooperazione». C’era James Smith, che nel 1833 fece suo il credo del
sansimonismo: «La competizione e l’antagonismo devono cedere il passo alla
collaborazione e agli interessi della comunità». Le associazioni spuntavano
come funghi: la National Community Friendly Society, la Association of All
Classes (poi confluite nella Universal Society of Rational Religionists) e le
associazioni United Advancement. Colonie improntate alla cooperazione
furono fondate a Tytherley nello Hampshire e a Manea Fen nell’East Anglia.
Nel 1871, John Ruskin fondò la St George’s Guild [corporazione di san
Giorgio], in parte basata sulle antiche corporazioni medievali. L’idea era
quella di creare una comunità di artigiani che vivessero secondo un modello
cooperativo, e allo scopo acquistò la tenuta di St George nello Sheffield. Gli
abitanti, disse, sarebbero stati «guardiani di una nuova vita […] più nello
spirito di monaci missionari che di mercanti». Il progetto della nuova colonia
fallì a causa di un pazzo sedicente visionario di nome Riley, che cercò di
prendere il potere con la forza. Ma le idee e gli esperimenti di Ruskin ebbero
grande influenza, soprattutto sull’altro medievista William Morris, che scrisse:
«La fratellanza è paradiso, e l’assenza di fratellanza è inferno. La fratellanza è
vita, l’assenza di fratellanza è morte». Un altro grande pensatore di quest’area
fu l’anarchico cristiano Lev Tolstoj, che, non diversamente dai Diggers,
sognava di «fondare una nuova religione corrispondente allo stato attuale
dell’umanità: la religione cristiana, ma libera dai dogmi e dal misticismo; una
religione pratica, che non promette beatitudini future ma offre la beatitudine
su questa terra». La sua idea non era un benevolo socialismo di Stato – che,
come vediamo oggi, è un disastro completo, mitigato solo da qualche progetto
di welfare – ma l’autogoverno e la libera cooperazione di gruppi federati. Il
libro di Tolstoj Il regno di Dio è in voi, essenzialmente un’esegesi del
Discorso della Montagna visto come manuale pratico di nonviolenza e
noncompetizione, ebbe un impatto fortissimo sugli intellettuali dell’epoca. Fu
l’equivalente tardo-ottocentesco dei Crass. J.C. Kenworthy e J. Bruce Wallace,
ispirati da Tolstoj, fondarono nel 1894 un gruppo di nome Brotherhood Trust
[Società dei fratelli]. Iniziarono aprendo una cooperativa di frutta e verdura
che si prefiggeva di raccogliere soldi per comprare terreni. Sedi distaccate
della società aprirono nei sobborghi londinesi di Hackney e Walthamstow e,
nel 1896, davanti al congresso della Seconda internazionale socialista,
Kenworthy pronunciò queste parole:

La nazione inglese è pronta a rinunciare alla politica come arma, e a volgersi invece
alla cooperazione industriale basata su princìpi di libertà, anarchia e comunismo […].
Siamo nelle fasi finali di una civiltà corrotta. Un concetto errato della vita, la fiducia
nell’egoismo come legge di condotta necessaria, ha posto fine a ogni nostra possibilità
di percepire con chiarezza la verità spirituale, e ci ha consegnati nelle mani dei più
drammatici errori del materialismo.

Kenworthy fondò la sua piccola colonia a Purleigh, nella contea dell’Essex.


Ben presto la colonia raccolse sessantacinque persone, e un reporter del
«Clarion» scrisse: «Hanno compiuto il salto dalla competizione alla
cooperazione senza attendere la passerella della socialdemocrazia, e sono
giunti sulle rive dell’anarchia». Avevano ventitré acri di terreno, duecento
alberi di mele, duecentocinquanta cespugli di uva spina, mucche e galline, e
coltivavano da soli le loro verdure. Avevano anche una tipografia. Ben presto
sorsero altre colonie basate su princìpi di condivisione: nel solo Essex c’erano
Althorne, Asingdon e Forset Gate. Altri tentativi di dar vita a gruppi di stampo
tolstoiano furono compiuti a Leeds, Blackburn e Leicester. Purleigh, però,
fallì; in parte, come disse uno dei membri, perché è nella natura di questi
esperimenti attrarre gente con qualche rotella fuori posto, che non è riuscita
ad ambientarsi altrove: «C’era molta follia a Purleigh. Almeno cinque abitanti
della colonia, nel periodo in cui io vissi lì, sarebbero in seguito finiti in un
istituto per problemi mentali. Anche coloro tra noi che conservarono la sanità
mentale non sempre riuscivano a contenere gli scatti d’ira».
Negli anni Venti, l’affascinante principio del «distributismo» venne
promosso da artisti e intellettuali di estrazione cattolica, quali Chesterton,
Arthur J. Penty, Hilaire Belloc e Eric Gill, gli uomini che il mio amico James
Parker chiama «quei cattolici grassi». L’idea era di donare un orto privato a
ogni famiglia, e di reintrodurre le corporazioni professionali. Torneremo a
parlare del distributismo nel capitolo «Al diavolo il governo».
Più avanti nel XX secolo, ci sono stati il movimento hippie antimaterialista
degli anni Sessanta e Settanta, i vari Abbie Hoffman e Jerry Rubin con le loro
battaglie contro gli «inquadrati» in giacca e cravatta. Negli anni Settanta ci
sono stati anche dei tentativi di sfuggire all’incubo industriale, da parte di
pionieri come John Seymour, il cattolico radicale Ivan Illich, E.F. Schumacher
e il giovane Satish Kumar, che fece il giro del mondo a piedi per poi fermarsi
a Hartland, un villaggio nella Cornovaglia settentrionale a circa un’ora di
distanza da casa mia. Oggi Satish dirige da Hartland la rivista «Resurgence»
[Rinascita], e ha un magnifico orto che ho visitato di recente. Oggi la
«Diggers’ and Dreamers’ Guide to Communal Living» [Guida dei Diggers e
dei sognatori alla vita comunitaria] censisce un centinaio di comunità sparse
per il Regno Unito, e ci sono innumerevoli persone che vivono in villaggi,
coltivano orti, rifiutano il lavoro e i soldi, si aiutano l’un l’altro e se la cavano
alla grande. La rivista «Permaculture» pubblica articoli sulle comunità che in
tutto il mondo hanno abbracciato l’autosufficienza, l’artigianato e la vita
associata, come la comunità Tinker’s Bubble nel Somerset, o la Ragman’s
Lane Farm nel Gloucestershire. Sono storie di gente messa in cassa
integrazione che ha deciso di aderire a quei princìpi, si è liberata dalla
dipendenza dal denaro ed è divenuta autosufficiente, e ora prospera. Il
problema più grande sembra costituito dalle assurde leggi sulla pianificazione
territoriale, che rendono praticamente impossibile costruire anche solo una
capanna nel bosco, mentre le stesse autorità non battono ciglio nel consentire
la costruzione di giganteschi supermercati fuori città. I permessi necessari per
tirar su simili mostruosità, a quanto mi risulta, sono spesso l’esito di
un’accorta propaganda svolta dai supermarket nei confronti dei consiglieri, a
cui sono promessi posti di lavoro e servizi per gli abitanti della zona.
Be’, gli illuminanti esempi che abbiamo proposto dimostrano che nella vita
non c’è un unico sentiero, quello che dal lavoro conduce alla sofferenza
passando per i debiti. È il sentiero che ci presentano i mass media e le scuole,
ma là fuori c’è un milione di alternative possibili, tutte più divertenti di quella
che ci viene imposta, e tutte basate sull’aiuto e la condivisione, anziché sulla
competizione. «Un mondo nuovo sta arrivando, non lo vedi?» cantava Woody
Guthrie «in cui saremo tutti uniti e tutti liberi.»
Lavorare in una comunità è fonte di grande piacere. Più aiutate gli altri, più
è probabile che loro vorranno aiutare voi, e così via, in un circolo virtuoso.
Certo, il sistema della schiavitù retribuita full-time si oppone diametralmente a
qualsiasi idea di aiuto reciproco, in parte perché porta via così tanto del nostro
tempo. Quando torniamo a casa dal lavoro, l’ultima cosa che ci va di fare è
andare a una riunione della Società per la tutela del centro di aggregazione
locale, o dar da mangiare al cane del vicino. Quindi ci limitiamo ad accendere
la tv e ci lasciamo bersagliare dalla pubblicità per ore e ore. Lo chiamiamo
«relax». Il buon vicinato è sotto attacco da cinquecento anni. Il principio di
competizione ha avuto il sopravvento. Ma vediamo bene che è stato un
completo fallimento, che ci ha portati tutti ad azzannarci alla gola come cani.
La competizione è il credo dello schiavo. Noi ci illudiamo di elevarci battendo
il prossimo, ma in realtà ci stiamo umiliando fino a ridurci a schiavi. Essere
competitivi è segno di sottomissione: in ultimo, significa obbedire alla volontà
del padrone. È tempo di tornare alla cooperazione, al buon vicinato, alle due
settimane filate di banchetti e alla beneficenza.
I sindacati hanno commesso l’errore di combattere il management; ovvero,
di mettersi in concorrenza con i capi. La battaglia dei sindacati contro i
manager è una battaglia negativa, perché oppone il risentimento all’avidità. I
lavoratori brontolano e i capi chiedono più profitto. Ogni energia è dissipata
nella lotta, invece di essere impiegata creativamente. Nelle corporazioni
medievali, i sindacati e il management erano uniti in un’entità sola, dal
momento che alla guida delle corporazioni c’erano i loro membri. Quindi,
dobbiamo tornare alle corporazioni. Io ne ho già fondate due: la Corporazione
degli scrittori freelance di Clerkenwell e la Corporazione dei Diggers del
North Devon. Progettiamo di produrre stemmi araldici e organizzare sontuosi
banchetti annuali con i fondi comuni. Ci aiuteremo l’un l’altro nei momenti
difficili.

FONDA UNA CORPORAZIONE

* Starbucks è una celebre catena di caffetterie fast-food diffusa negli Stati Uniti e in gran
parte d’Europa. (N.d.T.)
Scappa dai debiti

Un anno fa non avevo un centesimo a mio nome.


Ora sono debitore di due milioni di dollari.
MARK TWAIN

Le banche sono il male. Potrà sembrarvi una semplificazione eccessiva e


disinvolta del problema dei soldi e dei debiti; ma, fino a non molto tempo fa,
era vero in senso letterale. Dall’Alto Medioevo fino al 1500 e oltre, il prestito a
interesse (o usura) era rigorosamente proibito a chiunque volesse seriamente
salvarsi l’anima. Era peccato, era proibito, era male perché il tempo era un
dono di Dio, e dunque non poteva essere oggetto di compravendita. Nel
Vangelo di Luca, Cristo dice: «Prestate senza sperarne nulla» (6,35). L’usura,
inoltre, si opponeva agli insegnamenti cristiani perché comportava lo
sfruttamento del prossimo quando questi era caduto in difficoltà: è in questo,
dopotutto, che consiste il prestito a interesse. Era visto anche come un modo
pigro per far soldi, dal momento che per ottenere un profitto bastava
aspettare. L’usura non era un vero lavoro; non creava nulla e generava dolore.
Le chiese medievali sono piene di strozzini arricchiti scolpiti nella pietra.
Come testimonianza di quanto siano cambiate le cose, basta guardare alla
storia di padre O’Callaghan, il prete idealista che all’inizio dell’Ottocento – età
dell’oro dell’espansione capitalistica – cercò di riportare in auge le antiche
leggi contro l’usura. Naturalmente non fece molta strada, dato che le sue idee
erano del tutto in disaccordo con l’avida morale dell’epoca. La sua prima
iniziativa dopo aver abbracciato queste idee fu, nel 1819, il rifiuto di assolvere
un mercante di grano in punto di morte, finché non avesse ripagato ai suoi
debitori tutti gli interessi. La sua condotta era in linea con gli usi medievali:
secondo Jacques Le Goff, sul letto di morte gli strozzini restituivano i soldi a
tutti coloro che avevano derubato, per timore delle fiamme infernali.
Suppongo che, almeno a quei tempi, fosse facile trovare un individuo
responsabile; al giorno d’oggi va di moda la frase «sto solo facendo il mio
lavoro», e nessuno si prende più la responsabilità per nulla.
Ebbene: il mercante di grano si pentì e il denaro tornò ai legittimi
proprietari. Ma in seguito a lamentele da parte di altri usurai – o uomini
d’affari, uomini impegnati, ficcanaso – della zona, gli sforzi di O’Callaghan
furono frenati dal vescovo e alla fine gli fu proibita la celebrazione della
messa. Il povero, emarginato O’Callaghan, la cui unica colpa era aver fatto
un’affermazione che nel 1200 non sarebbe stata più controversa che dire «il
nero è nero», prese a girare il mondo alla ricerca di cattolici più ortodossi a
cui legarsi. La sua ricerca non diede frutti, e alla fine anche il Vaticano si stufò
di lui. William Cobbett, però, decise di pubblicare il libro di O’Callaghan
sull’usura, che sentiva in sintonia con la sua teoria per cui il moderno sistema
industriale schiavizzava le persone anziché liberarle. Cobbett pubblicizzò il
libro con lo slogan: «Ogni uomo del Regno dovrebbe leggerlo, soprattutto i
giovani».
Le operazioni bancarie – note di credito eccetera – sono state inventate a
Firenze nel Duecento, dalla grande famiglia Medici. In qualche modo costoro
riuscivano a combinare usura e santità, forse perché erano i banchieri del
papa. Il capofamiglia, Cosimo de’ Medici, faceva lunghe passeggiate con il
suo confessore per discutere la questione. Compensava l’usura con generose
donazioni agli artisti e agli architetti. Con le guerre, i governi si indebitavano
fino al collo. Quando le monarchie volevano raccogliere fondi per una guerra,
accettavano prestiti da una famiglia ricca come i Baring. I Baring richiedevano
un interesse su questi mutui, il che conduceva la nazione all’indebitamento
cronico. Secondo Cobbett, fu Enrico VIII a mettere in moto questo sistema. A
quei tempi, però, le banche non avevano molto potere, limitandosi a esercitare
un certo ascendente sui governi o sulla monarchia; oggi, invece, queste
aziende colossali si prendono tutti i nostri soldi. E ciò, naturalmente, oltre alle
tasse che paghiamo sul reddito, che tornano in mano alle banche come
interesse sui prestiti governativi destinati a finanziare guerre passate o future.
Le banche di oggi accumulano profitti inimmaginabili. La Hsbc ha
dichiarato un fatturato di dieci miliardi di sterline nel 2005. Al confronto, i
Medici erano piccoli negozianti di quartiere. In realtà, l’usura è un’attività
estremamente profittevole se praticata su scala mondiale e ben organizzata. Le
banche sostengono di occuparsi altruisticamente dell’interesse degli azionisti e
dei risparmiatori, e così facendo promuovono se stesse come istituzioni
caritatevoli; ma naturalmente questa simulazione di generosità crolla
miseramente quando scoprite che le persone a capo dell’azienda ne sono
anche i maggiori azionisti, e dunque hanno l’interesse maggiore nel suo
profitto. I capi guadagnano somme oscene schiavizzando noialtri. Potrebbe
esserci di qualche conforto apprendere che andranno tutti dritti all’inferno,
anche se, naturalmente, darebbe molta più soddisfazione vederli soffrire su
questa Terra.
Nel frattempo, però, cosa possiamo fare per liberarci da questa trappola?
Come affrancarci dalla schiavitù del debito? Ciò che abbiamo detto sull’usura
è importante, perché mostra i banchieri per come sono realmente: venali e
profittocentrici, e assolutamente non paternalisti. Mostra che i medievali erano
essenzialmente anticapitalisti. Come scrive Jacques Le Goff nel suo studio
sull’argomento, La borsa o la vita:
Strana situazione, quella dell’usuraio medievale. In una prospettiva di lunga durata,
lo storico di oggi gli riconosce la qualità di precursore di un sistema economico che,
malgrado le sue ingiustizie e i suoi difetti, si iscrive in Occidente nella traiettoria di
un progresso, il capitalismo, mentre nel suo tempo quest’uomo è stato disprezzato da
tutti i punti di vista dell’epoca.

Quindi, l’uomo della strada può sentirsi moralmente superiore ai banchieri.


L’autopubblicità delle banche, basata sul «ci prenderemo cura di te», è
soltanto questo: pubblicità, un trucco del marketing, una tecnica seduttiva. A
loro interessa il massimo profitto, e questo è quanto. Dunque non dovreste
mai, mai sentirvi in colpa per essere andati in rosso: loro sfruttano il vostro
senso di colpa per farvi credere di aver meritato i loro tassi d’interesse da
usurai, quei costi di gestione e le tasse extra che vi impongono senza neppure
chiedervi il permesso. E questo oltre all’interesse standard! Sono loro che
dovrebbero sentirsi in colpa, e molto. Mi chiedo cosa ne direbbero i monaci
medievali. Be’, in realtà lo sappiamo. Il monaco Tommaso di Cobham,
vissuto nel Duecento, scrisse: «È evidente che l’usuraio non può essere
considerato un penitente sincero, fin quando non avrà restituito tutto il denaro
che ha estorto con il suo peccato».
Davvero, i banchieri sono esseri immondi! E la cosa sorprendente è che
noi, le masse servili, mostriamo loro gratitudine quando ci concedono un
fido! Ci mettiamo sull’attenti e diciamo: «Oh, grazie, nobile signore! Voi siete
sempre così generoso!». Be’, nei circoli dei banchieri c’è un dibattito in corso,
per stabilire se quegli sproporzionati tassi d’interesse sullo scoperto sono
effettivamente legali. Certo, se andate a lamentarvi alla vostra banca, come ho
fatto io l’altro giorno per centotrenta sterline di interesse sullo scoperto,
spesso accadrà che vi restituiscano i soldi. Stanno solo cercando di ottenere
più che possono, e anche se le probabilità sembrano poche, dato che loro
sono potenti e noi piccoli, è possibile farsi valere.
L’altra cosa da avere ben chiara in testa è che le banche amano i clienti
indebitati. Li adorano; ci guadagnano molto. Commerciano in debiti, li
vendono ai fondi di investimento e gente simile. È per questo che ci spronano
a spendere tutti i nostri soldi e addebitare sulla carta di credito quella
splendida vacanza, la nuova automobile o il televisore. È per questo che gli
usurai non badano a spese per pubblicizzare i loro «servizi finanziari» – gran
bell’eufemismo per «usura» – in televisione. Vi perseguitano con quegli spot,
e la maggior parte sono trasmessi durante i programmi per ragazzi; e le
mamme e i papà si vedono piombare in cucina il figlio di cinque anni: «Avete
mai riflettuto sulla Ocean Finance? Sono simpatici». In realtà, ogni spot che vi
invita a spendere soldi, e la maggior parte degli spot fa proprio questo, è
pubblicità gratuita per le banche, perché più spendete e più loro si
arricchiscono. L’ultima novità è che anche i maledetti supermercati stanno
entrando nel business dell’usura, offrendo prestiti, conti correnti e tutto il
triste catalogo dei cosiddetti «servizi finanziari».
Quindi, il fatto stesso che ogni giorno, attivamente, costantemente e
piuttosto scandalosamente, veniamo incoraggiati dalla cultura in cui siamo
immersi, anzi subiamo un lavaggio del cervello, per indurci a contrarre debiti,
dovrebbe bastare a toglierci ogni senso di colpa per i debiti che abbiamo. È
normale avere debiti! Sono i debiti che fanno girare il mondo.
Eppure, sì, i debiti ci gettano un peso addosso. Frappongono un ostacolo
tra noi e i nostri sogni. Sono una schiavitù. Saldare i debiti diventa la nostra
priorità, e va a scapito di ciò che davvero ci piacerebbe fare. Quindi finiamo
per mantenere i nostri impieghi da schiavi. «Odio il mio lavoro e mi
piacerebbe andarmene» dicono in tanti «ma devo cinquemila sterline alla
banca, quindi non posso.» In molti, proprio per questo motivo, hanno
paragonato il debito a una forma moderna di contratto di apprendistato. Si
contraggono debiti e ci si ritrova in un lavoro che si odia, al solo scopo di
pagare il debito. Questo va a vantaggio del sistema, perché significa che la
maggior parte di noi sta più o meno zitta, china la testa e continua a lavorare. I
debiti, poi, generano molta ansia, problemi di salute ed esaurimenti nervosi.
Ne è testimone il successo dei servizi di assistenza psicologica per le persone
con debiti. I medievali avevano ragione: l’usura è una gran brutta cosa.
Perché non li abbiamo ascoltati?
Nella mia esperienza, lasciare il lavoro è di fatto l’unico modo di saldare
quel debito. Più è alto il vostro stipendio, più alti saranno i debiti. Con un
processo stranamente paradossale, sembra che avere un impiego faccia
aumentare i nostri debiti anziché ridurli; come potrà confermarvi ogni schiavo
salariato. Ho amici che guadagnano il doppio o dieci volte più di me, ma che
sono indebitati perché spendono troppo. Se lavorate da casa, spenderete
molto meno. Anzi, gli esuli della corsa alla carriera che frequentavano i
seminari di John Seymour sulla piccola proprietà terriera si autodefinivano
DFK, che sta per Debt-Free Killers (killer liberi dai debiti. È solo ponendosi al
di fuori del sistema che potrete gradualmente liberarvi dai debiti. Restare nel
sistema, cioè restarne dipendenti, non farà altro che far aumentare i debiti,
mentre la libertà e l’autosufficienza vi permetteranno di avere la meglio su di
essi. Ancora una volta, vi raccomando di sfogliare la rivista «Permaculture»: è
piena di consigli utili su come uscire dai debiti, quale tappa del cammino che
conduce all’autosufficienza.
L’altra opzione è fregarsene. La natura apparentemente schiavizzante del
debito è in realtà un mito. Ci schiavizzerà solo se gli permetteremo di farlo.
L’argomento debiti è discusso di frequente sul forum online del sito
dell’«Idler», dove si leggono cose come: «Mi piacerebbe condurre una vita
oziosa, ma ho troppi debiti da pagare». La mia preferita è la risposta di Sarah
Janes, collaboratrice della rivista, che dice: «Io ai miei debiti non ci penso».
Analogamente, il grande radicale e spirito libero settecentesco John Wilkes era
perennemente indebitato, ma non permise mai ai debiti di frapporsi tra lui e i
suoi progetti. Non permise mai ai debiti di diventare un paralizzante «se
soltanto…» nella sua mente. Questo non per negare la realtà delle
conseguenze di un indebitamento pesante sulla nostra salute fisica e mentale.
So bene come ci si sente, perché ci sono passato anch’io con la testa tra le
mani seduto al tavolo della cucina, con un mucchio di buste da lettera e una
calcolatrice. Ma comprendere che davvero i soldi sono «forgiati dalla mente»
ci aiuterà a toglierci le catene. Noi stessi siamo complici nella creazione del
mito debito-e-soldi. Questo è il primo passo.
È molto improbabile che vi sbattano in mezzo a una strada. Una lettrice
dell’«Idler» era così preoccupata per i suoi debiti che andò al più vicino
Citizens Advice Bureau (sportello consulenza cittadini). Lì riuscirono ad
accordarsi con i creditori, stabilendo che la donna avrebbe pagato il dovuto in
comode rate di… due sterline al mese. Diciotto mesi dopo, per pura pigrizia,
la donna sospese i pagamenti. Da allora sono passati due anni, e nessuno è
tornato a cercarla per chiederle i soldi. Che aneddoto illuminante!
Probabilmente i suoi creditori si sono finalmente arresi e le hanno cancellato il
debito.
Per comprendere la natura essenzialmente fittizia del debito, è utile capire la
natura altrettanto fittizia dei soldi. Perché i soldi, come ha mostrato il
banchiere-scrittore Edward Chancellor, non esistono. È il credito che fa girare
il mondo, non i soldi veri. Il credito, quella curiosa qualità che determina
quanti soldi potreste prendere in prestito se voleste. Il vostro credito ha a che
fare con il vostro valore morale, o la fiducia che gli altri ripongono in voi. La
madre di Damien Hirst racconta di quando il figlio stava muovendo i primi
passi come artista. Aveva bisogno di un’estensione del fido bancario, la chiese
al suo istituto di credito e ricevette un secco rifiuto. Ma quando tornò alla
banca accompagnato dal suo amico mercante d’arte Jay Jopling, ex studente di
Eton e supremamente sicuro di sé, il fido fu concesso all’istante.
È il credito, non i contanti, a creare la ricchezza. Pare che i ricchi
contraggano molti più debiti di noi. Il debito, quindi, non va temuto. Quando
guardo il mio estratto conto sullo schermo del computer, mi diventa più chiara
la natura del denaro. Solo numeri su uno schermo. Come possono quei
numeri minacciare la mia salute mentale, a meno che io non glielo consenta?
Il mio credito è il debito della banca, e viceversa. Non ha poi molta
importanza.
La natura strana, elusiva, sfuggente del debito è stata colta perfettamente da
Daniel Defoe:
Parlerò di ciò che preme a tutti gli uomini, ma che solo uno su quaranta capisce
davvero […]. Se uno tenta di spiegarlo a parole, finisce per perdersi lui stesso nel
folto del bosco, anziché tirarne fuori gli altri. Si spiega da solo, è come il vento che
soffia dove vuole, ne sentiamo il suono ma non sappiamo da dove proviene né dove
va.
Come l’anima nel corpo, fa agire ogni sostanza pur restando in sé immateriale; suscita
il movimento ma in sé non può essere definito esistente; crea le forme ma non ha
forma propria, non è quantità né qualità; non ha dove, non ha quando, non ha
posizione né disposizione. Se vi dicessi che è l’ombra essenziale di qualcosa che non
è non complicherei la cosa anziché spiegarla, e non lascerei voi e me stesso più
all’oscuro di quanto fossimo prima?

Di nuovo, la nozione di credito è vista come totalmente informe, una specie di


fumo che esiste solo nella mente, o per illusione collettiva. Costruire cose
concrete e solide a casa è un modo efficace per sfuggire alla riflessione sulla
natura incomprensibilmente astratta del denaro. Per svincolarvi dal ciclo
lavoro-spesa-debiti-lavoro, basta smettere di consumare e iniziare a creare. Il
sistema monetario ha creato una divisione interna a tutti noi, tra produttore e
consumatore. Ogni giorno, nel mondo degli affari, le persone normali sono
chiamate «consumatori», in sé già una parola orribilmente avida. Riflettete sul
fatto che il termine «consumo» ha la stessa radice di «consunzione», una
malattia mortale dei poeti romantici, che, appunto, consumava il corpo sino a
farlo spirare, dopo averlo succhiato, drenato, svuotato, usato. Essere un
consumatore vuol dire drenare il mondo, mangiarselo, ingozzarcene, farlo
seccare, prosciugarne le risorse, accaparrarci le sue ricchezze; in breve,
ucciderlo. Ma essere un creatore, un produttore, significa l’esatto opposto.
Dovremmo prefiggerci l’obiettivo di produrre almeno una parte di ciò che
consumiamo. Un consiglio semplice e divertente, che ho già menzionato e sul
quale torneremo, è di coltivare ortaggi e frutta. Farlo ci permette di azzerare la
distanza che separa il produttore dal consumatore, e di tornare esseri umani a
tutto tondo. Credo sia per questo che proviamo così tanto piacere quando
raccogliamo carote e ravanelli. Ci sembra una cosa naturale da fare. È un atto
radicale di integrazione. Ho intenzione di fondare una rivista per giardinieri
anarchici, che intitolerò «Il ravanello». Nelle sue pagine si mescoleranno
consigli pratici sull’orticoltura organica e testi di filosofia politica radicale.
Saremo radicali in tutti i sensi del termine, visto che, dopotutto, ravanelli e
carote non sono che radici.
Soprattutto, per liberarci dai debiti, dobbiamo affrancarci dalla paura della
povertà. Non predico il pauperismo autentico, cioè essere senzatetto e patire la
fame. Ma una povertà moderata, in cui i nostri bisogni primari siano
soddisfatti, e i nostri desideri e pretese limitati, è uno stato lodevole. Tornando
al Medioevo, è chiaro che allora essere poveri era considerata una bella cosa. I
poveri erano una parte importante della società. Dopotutto, lo stesso Gesù e
gli apostoli erano poveri, e gli ordini mendicanti volevano imitare la vita
apostolica. L’accademico cattolico George O’Brien, nel suo saggio The
Economic Effects of the Reformation (1923), porta come esempio i predicatori
itineranti:
[…] anche chiedere l’elemosina era reso dignitoso dall’esempio dei frati mendicanti.
L’Europa era disseminata di istituzioni tese a mitigare ogni forma di povertà e di
sofferenza, e alle risorse degli insediamenti monastici si aggiungevano le elemosine
private, che erano disciplinate rigidamente e imposte come un dovere ai proprietari
terrieri. La Riforma, attaccando le fondazioni ecclesiastiche, ha tolto ai poveri la
prima di queste fonti di sostegno; e ha diminuito di molto anche la seconda insistendo
sulla dottrina della giustificazione per la sola fede.

I poveri erano benaccetti, se non altro perché offrivano ai ricchi


un’opportunità per fare elemosine, che nel Medioevo era un dovere religioso
e sociale. La carità era al centro dello sforzo salvifico. Inoltre, come abbiamo
detto, smettere di lottare per ottenere un guadagno voleva dire riporre tutta la
nostra fiducia nella Provvidenza. La gente non provava pietà per i poveri,
anzi, quasi li ammirava: agli occhi di Dio, la povertà valeva altrettanto se non
più della ricchezza. I santi facevano della povertà una virtù. Oggi,
commettiamo l’imperdonabile errore di dare per scontato che i poveri
vogliano diventare ricchi. Abbiamo compassione dei poveri e dei senzatetto, e
pensiamo che vorrebbero unirsi alla lotta sfrenata per il guadagno, che
vorrebbero diventare borghesi come noi. Ma forse, magari, chissà, non è
vero. E forse i cosiddetti «Paesi poveri» del mondo non hanno nessun
interesse a entrare nel sistema borghese.
Prosegue O’Brien:
Il più spiacevole risultato del passaggio dal sistema di solidarietà medievale a quello
moderno è che ha reso disdicevole ricevere quella solidarietà, e che la povertà ha
iniziato a essere considerata una cosa di cui vergognarsi. Il desiderio, espresso dai
riformatori, di mettere fine alla questua, e di assicurare per quanto possibile
l’applicazione dell’ingiunzione biblica per cui solo chi lavora può mangiare, li
condusse a una certa disapprovazione morale dell’accettazione di elemosine, se non
da parte dei malati e dei disabili, e le leggi sulla povertà nei Paesi riformati
tendevano a una certa asprezza nei riguardi dei poveri, cosa che non era mai avvenuta
ai tempi del cattolicesimo.

Oggi, però, l’impulso caritatevole è stato cooptato dalle grandi aziende che
sfruttano i poveri con astrusi progetti di inserimento nel mercato del lavoro.
La beneficenza è una bella cosa, ma i regimi capitalistici spremono la nostra
natura caritatevole. Lavorare per un ente benefico è una buona mossa, oggi,
per chi vuol fare carriera, guadagnare un sacco di soldi e intanto mostrarsi al
mondo come una persona buona. Gli aiuti ai poveri e le misure anti-debiti
costano care: chi paga ha sempre il coltello dalla parte del manico. I Paesi
occidentali cancellano parte del debito dei Paesi africani, ma in cambio
chiedono a quei Paesi di occidentalizzarsi, che di solito significa lasciare che
gli sfruttatori prendano possesso della terra e trasformino un’economia rurale
perfettamente autosufficiente in una urbana, basata sui salari, industriale. Il
giornale satirico «Whitestones» ha scritto una parodia della canzone Feed the
World [Date da mangiare al mondo] del Live Aid, intitolandola Milk the
World [Mungete il mondo]. Il testo dice: «Soldi giù per il tombino, le banche
svizzere traboccano». Oggi, per qualcuno, la beneficenza è solo un modo per
aprire nuovi mercati esteri per le esportazioni. E la beneficenza fatta dalle
istituzioni è in grado di rovinare le piccole imprese locali e la loro varietà. In
Zambia, per esempio, le industrie locali di abbigliamento sono state
completamente distrutte quando dal Regno Unito sono arrivate tonnellate di
abiti di seconda mano a basso prezzo, venduti dai cittadini britannici per
beneficenza.
Il debito sembra ridurci in schiavitù, ma quando vi renderete conto che in
realtà non esiste, sarete liberi: come potete infatti farvi schiavizzare dal
prodotto dell’immaginazione di qualcun altro? Infischiatevene degli usurai,
perché mai dovrebbe importarvene di loro? Andranno comunque all’inferno!
Sogghignate delle loro lettere minacciose, ridete delle loro esili figurine sugli
schermi, sghignazzate pensando alle vite noiose che conducono e alla
dannazione che li attende!

TAGLIA IN DUE LA CARTA DI CREDITO


Morte allo shopping: evadere dalla prigione del consumismo

La cosa migliore non è privarsi dei piaceri, ma possederli


senza esserne schiavi.
ARISTIPPO (435-356 a.C.)

La Bibbia ci aveva avvertiti. Adamo ed Eva vivono in perfetta felicità nel


Giardino dell’Eden. Non lavorano, ma neppure consumano. Sembra essere
un’epoca pre-agricola, in cui il cibo è semplicemente raccolto dagli alberi e
dai cespugli (per la verità è ancora possibile vivere così: l’altro giorno,
durante una passeggiata, abbiamo raccolto un barile di acetosella e ortica, e
Victoria ha preparato un risotto delizioso). Se Adamo ed Eva non erano
cacciatori-raccoglitori, erano senz’altro raccoglitori. Ma poi il desiderio di
consumare, o di migliorarsi, o «il prurito» come lo chiama Schopenhauer,
fece la sua comparsa sotto forma di un serpente. Questo mostro capitalista
risvegliò in Eva e Adamo l’idea che le cose potessero essere migliori di come
erano. In un istante, furono cacciati dal paradiso terrestre e condannati a una
vita di duro lavoro, fatica e dolore. I capricci subentrarono ai bisogni, e da lì
in poi le cose potevano soltanto peggiorare.
Oggi, siamo schiavi dei nostri desideri, prigionieri dello shopping. La
volontà di comprare è una forza corrosiva e stremante. Desideriamo un nuovo
paio di scarpe, una casa nuova, un divano, un televisore. Ci servono soldi per
comprare quella roba, quindi ci leghiamo a un datore di lavoro per ottenere
quei soldi, oppure ci cacciamo nei debiti chiedendo il denaro in prestito a uno
dei tanti usurai legalizzati attivi nel mercato del lavoro. E chiamiamo tutto
questo «libertà». È questo, in poche parole, il problema del desiderio. La
nostra naturale aspirazione a vivere bene e goderci la vita è sfruttata dal
sistema del consumismo e trasformata in una forza materiale che ci riduce in
schiavitù. L’entità dello spreco è inimmaginabile: di recente ho sentito una
trasmissione radiofonica sul tema del commercio di abiti di seconda mano in
Zambia. Era impensabile, per gli zambiani, che noi avessimo buttato via dei
vestiti in ottime condizioni; per cui pensavano che li avessimo donati per puro
spirito di carità. E poi, lo shopping è così noioso. Preferisco bere.
Sembra ovvio che, se riuscissimo a estinguere i desideri consumistici e a
smettere di comprare, giungeremmo molto vicini alla libertà quotidiana,
semplicemente perché non dovremmo più lavorare così tanto. Non vuol dire
che non si debba godere di qualche lusso, ma solo che i lussi non andrebbero
presi troppo sul serio, né considerati uno scopo primario della vita. Non fate
del lusso un significato. Il filosofo edonista greco Aristippo era noto per il suo
distacco dalle cose materiali. Prendeva i piaceri dove li trovava, non inseguiva
il desiderio. Raccoglieva, anziché cacciare. Aristippo era uno di quegli uomini
fortunati che se ne infischiano: sarebbe stato felice tanto in una capanna come
in un castello.
Liberarsi dai desideri non significa rinunciare a ogni piacere e diventare una
specie di eremita depresso. Di recente, mentre parlavo in pubblico sul tema
dell’ozio creativo, qualcuno mi ha chiesto se disapprovo la tv. Devo
ammettere che c’è una parte di me che si irrita quando i bambini guardano la
tv in un giorno di sole, ma d’altro canto, chi sono io per togliere a un’altra
persona una fonte di piacere? Non vorrei una forza di polizia in difesa
dell’ozio, che staccasse la spina alle televisioni e dicesse alla gente di procurasi
un ukulele o una zappa. La tv ha prodotto grandi cose: un mondo senza tv
sarebbe un mondo senza i «Simpson». Detto ciò, ho appena telefonato per
disdire il nostro abbonamento alla tv via satellite; ho sentito che stavo dando
loro una bella lezione. Perché pagare per farsi invadere la casa da spot
pubblicitari e propaganda capitalista? Ora risparmieremo 250 sterline l’anno e
passeremo il tempo guardando dvd.
Il segreto non è rinunciare ai piaceri, ma esserne padroni. Nel nostro strano
mondo, quando si tratta di piaceri, sembriamo oscillare tra l’eccesso e
l’astinenza. La setta degli Alcolisti Anonimi predica l’astinenza totale come
unica soluzione. Per ottenerla, bisogna partecipare a una serie infinita di
riunioni, sviluppare spirito di gruppo e recitare in continuazione le regole
degli AA. A me sembra una gran fatica, e la filosofia che soggiace al metodo
degli AA sembra riconoscere che dal desiderio dell’alcol è impossibile
liberarsi definitivamente. Ma non c’è altro modo di affrontare il problema del
bere? Gli AA dicono che «un bicchiere è un bicchiere di troppo e mille non
sono abbastanza», ma non potrebbe esistere un’associazione che incoraggiasse
l’assunzione moderata di alcol? Se ogni giorno dovessi andare a una riunione
per confessare la bevuta della sera prima, certo sarei spinto a bere meno. Il
ciclo ubriachezza-astinenza può non essere così connaturato alla natura umana
come noi sembriamo pensare. Non è possibile che in qualche modo noi siamo
incoraggiati a ubriacarci e poi astenerci perché così svolgiamo il doppio
compito di riempire le casse del Sistema (esagerando col bere) e restare docili
mediante l’autoflagellazione e il senso di colpa (astenendoci)?
È importante distinguere i piaceri fisici concreti che sono prodotti dai beni
commestibili, come il cibo e le bevande, e la promessa di piacere generata dal
marketing dei beni e degli oggetti prodotti in massa. Desideriamo oggetti,
siamo legati a oggetti, crediamo che gli oggetti ci faranno sentire meglio.
Questo processo innesca il differimento del desiderio, che è una delle
caratteristiche fondamentali, anzi uno dei motori, del capitalismo su larga
scala. Il desiderio di possedere oggetti produce una brama inestinguibile, e
questa brama inestinguibile ci guida nel mondo e nei nostri progetti di auto-
realizzazione. Certo, gli oggetti sono dotati di un fattore interno di delusione.
Ricordo ancora il leggero sconforto che provai da ragazzo, quando mi diedero
un giocattolo e mi accorsi che non era al livello delle mie aspettative, create
dalla dispendiosa campagna pubblicitaria vista in televisione. Il fatto che gli
oggetti siano deludenti ci conduce non ad abbandonarli, come dovremmo, ma
piuttosto a comprarne altri, nella speranza che l’oggetto nuovo di zecca non ci
deluderà come ha fatto il precedente. Il capitalismo funziona così: con un
flusso costante di delusioni che incoraggia a spendere sempre di più.
Come dico a Victoria quando mi accusa di essere puritano, liberarsi dai
desideri materiali non è una buona azione, un sacrificio di sé: è la scelta
rivoluzionaria di uno spirito libero. È un gesto anarchico, perché il desiderio
degli oggetti è ciò che tiene in moto gli ingranaggi della schiavitù. Se io non
volessi un grande televisore, nessuno sarebbe costretto a caricare grandi
televisori nei cassoni dei camion in cambio del salario minimo (se non di
meno) nel cuore della notte. Il capitalismo su larga scala ci impone di essere
robot instancabili. Robot di giorno, instancabili di sera e nei weekend. E
naturalmente, più perdiamo interesse per gli oggetti, meno vorremo un
lavoro, e meno saranno le persone disposte a caricare camion nel cuore della
notte in cambio del salario minimo (se non di meno). Quando smettiamo di
comprare iniziamo a vivere, e smettiamo di sostenere un sistema che ci sfrutta.
Gli intellettuali di tutti gli orientamenti sono consapevoli del problema del
desiderio fin dall’alba della Rivoluzione industriale. Una delle figure di spicco
nella storia dell’anarchismo è William Godwin, meglio noto ai nostri tempi
per essere il padre di Mary Shelley – protagonista a diciassette anni di una
fuga d’amore con Percy Shelley e che scrisse Frankenstein nel corso di una
dissoluta vacanza in Svizzera in compagnia di amici letterati, tra cui Lord
Byron. Godwin è celebre anche in quanto marito della grande scrittrice Mary
Wollstonecraft, autrice dei Diritti delle donne, la quale, ahimè, morì dando
alla luce Mary Shelley. Godwin era un uomo probo, a cui mancava l’istinto
per il divertimento, ma era un pensatore saggio e compassionevole. La sua
opera maggiore, Indagine sulla giustizia politica, uscì nel 1793, circa
trent’anni dopo l’invenzione della Spinning Jenny, quando il nuovo sistema
consumistico era in piena espansione. E la sua analisi della manipolazione del
desiderio da parte dei poteri dominanti è di grande attualità. Godwin si
domanda: quali sono le cose buone del mondo?
Possono essere divise in quattro categorie: sussistenza; mezzi per lo sviluppo
intellettuale e morale; gratificazioni a poco prezzo; e quelle gratificazioni che non
sono affatto essenziali a una vita sana e vigorosa, e non possono essere acquistate se
non a prezzo di considerevole fatica e lavoro. È in particolare quest’ultima categoria
a piazzare un ostacolo sulla via dell’equa distribuzione. Ci occuperemo più avanti di
stabilire quanti e quali elementi di quella categoria possano rientrare nella modalità
più pura di esistenza sociale. Ma, nel frattempo, è inevitabile rimarcare l’inferiorità
di questa categoria rispetto alle altre tre. Senza di essa possiamo comunque godere
delle gioie, le soddisfazioni e le attività della vita. E in che modo sono prodotte
quelle cose apparentemente superflue? Limitando in maniera deplorevole moltitudini
di uomini, in questioni di somma importanza, così che un uomo possa essere
soddisfatto con lussi sontuosi ma in realtà insignificanti.

Ecco qui. Credo che la parola «inferiorità» descriva bene i fronzoli del
consumismo. Lavorare sodo per produrre oggetti inutili, e farne l’unico scopo
della vita: è questa la follia del desiderio. Se riuscite a eliminare il desiderio di
possedere quei gingilli, allora, molto semplicemente, non avrete bisogno di
lavorare così sodo; sarete dunque in larga misura più liberi di quanto non
foste prima. Per non dir nulla del grande sfruttamento di esseri umani che
serve a produrre quei fronzoli (che Godwin definisce «limitare moltitudini di
uomini in maniera deplorevole») nelle fabbriche e nei mulini, e ancor oggi nei
nostri supermercati e grandi magazzini. Questo ci dà un’ulteriore spinta a
superare la brama di possesso che indirizziamo verso pezzi di spazzatura di
vario genere, auto migliori o case più belle. Il processo di miglioramento,
invidia e desiderio è oggetto di satira molto ben riuscita in un episodio dei
«Simpson», in cui vediamo Marge intenta a leggere una rivista intitolata «Case
migliori. Della tua». Un trucco semplice per chi cerca la libertà è smettere di
comprare le riviste patinate, che ci fanno sentire male e spendere soldi.
Se riusciamo a tagliare nella categoria che Godwin mette al quarto posto, le
gratificazioni che possono essere acquistate solo a prezzo del duro lavoro, le
nostre vite possono diventare molto più ricche. Le prime tre cose buone sono:
la sussistenza, cioè cibo, acqua e un tetto sulla testa; «il progresso intellettuale
e morale», che per me significa libri e amici (gli amici sono gratis, e i libri si
possono comprare per due soldi o prendere in prestito in biblioteca, o dagli
amici); e le gratificazioni a poco prezzo, che per me significano birra e
tabacco. Quindi, in poche parole: se avete dove vivere, soldi abbastanza per
comprare o produrre buon cibo, amici, libri, alcol e sigarette in quantità,
quanto brutta può mai essere la vita? Sono queste le cose davvero importanti.
Tutto il resto sono decorazioni, distrazioni, vanità, ostentazione. Ma in qualche
modo, la quarta categoria ha preso il sopravvento sulle altre nelle nostre
menti. È ora di smetterla!
Questo atteggiamento antimaterialista è realizzabile con qualsiasi stipendio.
Abbiamo bisogno di fregarcene. Come mi piace la gente che se ne frega,
quegli spiriti liberi, con gli occhi vispi. Non quelli che sono crudeli ed egoisti,
ma quelli che sono semplicemente liberi dalle preoccupazioni, letteralmente s-
pensierati. Ho un amico che guadagna milioni, e un altro che guadagna meno
di cinquemila sterline l’anno, ma hanno molto più in comune tra loro che con
molte altre persone che stanno, diciamo, nel mezzo, appunto perché entrambi
sono lontani dal materialismo. Quando vai a far loro visita ti danno il loro
vestito migliore e svuotano le cantine per te. «Alcuni ripongono la loro fiducia
non in Dio ma nelle vanità» scriveva Tommaso d’Aquino. «E quali sono
queste vanità? Sono beni temporali, ricchezze, onore e cose simili, e in verità
ogni cosa è vana, ogni uomo vivente.» Ma ciò che conta non è possedere quei
beni, quanto piuttosto l’atteggiamento che teniamo nei loro confronti.
Tommaso dice anche chiaramente che l’ascetismo non è necessario per
salvarsi l’anima: «L’astinenza nel bere e nel mangiare non è un fattore
imprescindibile ai fini della salvezza: il regno di Dio non è cibo e bevande
[…]. I santi apostoli comprendevano bene che il regno di Dio non consiste
nel bere e nel mangiare, ma nell’accettazione di entrambi, poiché essi non
sono rallegrati dall’abbondanza, né afflitti dal bisogno».
In altri termini: prendetevela comoda. Ancora una volta, san Tommaso è
molto vicino agli esistenzialisti e ai taoisti. È una filosofia del distacco.
Raccomanda di trattare con la stessa indifferenza sia l’abbondanza sia il
bisogno. Nel mio caso, la mia famiglia e io siamo stati obbligati a rinunciare al
consumismo a causa di una povertà involontaria che si è protratta per due
anni. Prima di allora, guadagnavo un bel po’ di soldi come consulente per
grandi aziende, facendo attività promozionale ed editoriale. All’improvviso, il
mio stipendio si è ridotto a un ottavo della cifra precedente. Ho smesso di
leggere i giornali, ho quasi smesso di guardare la tv e sono andato a vivere
fuori città. Facendo economie e tagliando sulle spese inutili, ci siamo resi
conto di essere meno esposti di prima ai falsi richiami del consumismo.
Smettere di leggere giornali e riviste è stato in parte un modo per spendere
meno, ma ha avuto anche il felice risultato di non esporci a un milione di
tentazioni. La cosa strana è che l’esperienza è stata gratificante e divertente.
Non l’abbiamo vissuto come un sacrificio. Bandire la tv è stata una buona
mossa. È reclamizzata come un servizio, ma in realtà è contemporaneamente
un mezzo per spaventarci, distrarci da noi stessi con l’intrattenimento,
venderci prodotti di cui non abbiamo bisogno e farci credere nel denaro come
una sorta di religione. Guardare la televisione può anche farci sentire inutili:
vediamo gli esperti che fanno le cose anziché farle noi stessi. È molto meglio,
come ha detto Bertrand Russell, fare qualcosa male che guardare un altro farla
bene. I protestanti che attaccavano la superstizione e la magia medievale non
si sarebbero mai sognati un oggetto così magico, così potente e così
destabilizzante come la televisione.
Naturalmente il desiderio, o «la caccia all’oro», esisteva già ben prima che
fosse inventato il capitalismo su larga scala. Nell’Anatomia della malinconia,
Burton racconta di quando Ippocrate trovò Democrito seduto su una pietra,
intento a leggere un libro e a sezionare animali, alla ricerca, diceva, «della
causa della follia e della malinconia»:
Ippocrate ne lodò il lavoro ammirando la sua serenità e il suo modo di trascorrere il
tempo. «E tu – chiese Democrito – perché non lo trovi il tempo?» «Perché – replicò
Ippocrate – me lo impediscono affari domestici, di cui è necessario che ci
occupiamo, per noi, per i vicini, e per gli amici, come questioni di denaro, malattie,
errori e morti che capitano ogni giorno; ci sono inoltre la moglie, i figli, i servi, e
simili affari che ci privano del tempo.» A queste parole Democrito rise a lungo
(mentre i suoi amici e la gente di Abdera stavano a guardare piangendo e lamentando
la sua follia). Ippocrate gli chiese perché rideva. Egli rispose: «Per le vanità e le
frivolezze del nostro tempo, nel vedere gli uomini così lontani da ogni azione virtuosa
andare in cerca dell’oro e non porre nessun limite alla propria ambizione; darsi
infinite pene per una gloria di breve durata e per trovare favore presso gli uomini;
scavare nel terreno miniere tanto profonde per cercare l’oro e molte volte non trovare
niente, perdendo così la vita e le proprie sostanze […]. Essi danno molta importanza
a cose prive di significato, considerando parte integrante del proprio tesoro statue,
quadri e simili beni mobili, comprati a caro prezzo, lavorati con tanta abilità che
manca loro solo la parola, e tuttavia odiano le persone che parlano con loro […].
Quando un cinghiale ha sete, beve quello di cui ha bisogno e non di più, e quando la
sua pancia è piena, smette di mangiare, gli uomini invece sono smodati in entrambe le
cose; come per la sensualità: gli animali desiderano i rapporti sessuali in determinati
momenti, gli uomini sempre, rovinandosi così la salute […]».

Fare grandi progetti per estrarre l’oro dalle miniere e poi non trovare nulla è
una metafora perfetta per descrivere il desiderio e l’attività nella nostra epoca.
Burton suggerisce di «tenere sotto controllo i desideri» come una tappa nel
cammino verso la libertà. Davvero, i pazzi sono schiavi:
Questo è il paradosso di Cicerone, «gli uomini saggi sono liberi, mentre gli stolti
sono schiavi». Libertà è poter vivere secondo le proprie leggi, come noi stessi
vogliamo. Chi ha questa libertà?
Chi è libero?
È saggio colui che può dominare la propria volontà,
che è costante e coraggioso con se stesso,
che non si lascia intimorire né dalla povertà né dalla morte né dai legami
e, giusto e retto, frena i propri desideri e disprezza gli onori.

La libertà, dunque, esiste in una sorta di autosufficienza spirituale. Chi è


davvero libero non insegue le ricchezze o gli onori, perché sa che quella
strada conduce alla schiavitù. Chi è davvero libero non teme nulla. Un
pensiero simile è espresso da Aldous Huxley nella sua introduzione al
Bhagavad-Gita:* «Non ci sarà mai pace perpetua finché gli esseri umani non
abbracceranno una filosofia di vita più adeguata alle realtà cosmiche e
psicologiche rispetto alle insane idolatrie del nazionalismo e della fede
apocalittica che gli uomini della pubblicità ripongono nel Progresso verso una
Nuova Gerusalemme meccanizzata».
Il Bhagavad-Gita contiene ottimi consigli sul lavoro e sulla creazione. «La
parola è imprigionata nella sua stessa attività, tranne quando le azioni sono
compiute per amor di Dio. Dunque, ogni azione va compiuta in modo
sacramentale, e occorre liberarsi da ogni legame con i risultati.» In altre
parole, dovremmo concentrarci sui mezzi anziché sui fini. Il desiderio e il
capitalismo moderno predicano la dottrina per cui i mezzi sono irrilevanti, e il
fine è tutto: «Sto solo facendo il mio lavoro». La nostra società è centrata sugli
obiettivi, mentre la società che sognavano i medievali e gli anarchici dava
valore a una vita basata sul piacere che si coglie nel processo, anziché sul
piacere passeggero e immateriale che deriva dalla soddisfazione di un
desiderio. Non serve credere in Dio per appurare la verità della citazione
appena riportata a proposito del lavoro. Basta sostituire «per amor di Dio»
con «per generosità» o «con amore», ed ecco la versione profana dello stesso
concetto.
L’approccio degli esistenzialisti al desiderio può tornarci utile. Per Sartre, il
desiderio non è qualcosa da cui ci si possa esattamente liberare; piuttosto, è
qualcosa che accogliamo, ma senza necessariamente agire per soddisfarlo.
Questo può essere vero nel caso del desiderio sessuale. «Mettiamo che una
donna bellissima entri nella vostra vita» dice Penny Rimbaud. «Agire in base
al vostro desiderio vorrebbe dire rischiare di distruggere completamente la
vostra vita familiare. Allora agite e cedete, ma solo nella vostra mente.
Percorrete l’intero cammino…» Nel mondo esistenzialista, accogliete il
desiderio, parlate con lui, vi lasciate intrattenere da lui, chiacchierate con lui, e
poi, quando se ne va, soffiate sulla candela e andate a dormire. Quindi, per
liberarvi dal desiderio e impedirgli di dominarvi, è importante riconoscerlo e
accettarlo, anziché nasconderlo e fingere che non esista. Di recente ho fatto un
sogno assurdo, in cui compravo una Land Rover, oggetto del quale non ho
alcun bisogno pratico. Le Land Rover mi piacciono esteticamente. Ne ho
guidata una, e per un paio di settimane è stato come se fosse mia. Poi il
desiderio è lentamente evaporato, e così ho evitato di spendere soldi che non
avevo per comprare una cosa che mi sarebbe stata solo d’intralcio.
La prossima volta che vi sembrerà che la possibilità di scegliere fra due
marche diverse sia una forma di libertà, pensate solo a quei film sugli zombi
in cui i morti viventi entrano ed escono in silenzio dai negozi e, sempre in
silenzio, fanno su e giù per le scale mobili. Che regista visionario era quello.
Guardare la tv ci rende tutti degli zombi. Quindi il primo passo è: staccate la
spina del televisore. Ora, sotto il desiderio di fare shopping sta la paura, ed è a
questo che ci volgeremo: al metodo per vincere questa particolare minaccia
alla nostra libertà.

BUTTA VIA LA TV

* Canto del Beato, canto sacro popolare e amato tra gli induisti. (N.d.T.)
Sfuggi alla morsa della paura

Si ricordi la deliziosa novella di Cechov, dell’uomo che voleva insegnare


a un gattino ad acchiappare i topi; il micio però non dava loro la
caccia, e l’uomo allora lo batteva, ottenendo alla fine questo bel
risultato: che anche quando il gatto fu cresciuto, bastava la vista d’un
topo per riempirlo di terrore. «Era questo stesso uomo», aggiunge
Cechov, «che mi insegnò il latino.»
BERTRAND RUSSELL, Libertà e autorità nell’educazione (1928)

Una cappella era costruita lì in mezzo,


dove io giocavo sul prato.
E le porte di questa cappella erano chiuse,
e «Tu non devi» scritto sulla porta […].
WILLIAM BLAKE, Il giardino dell’amore (1793)

Vivo in una zona piuttosto isolata, vicino al mare. Quando percorro in auto le
strette strade nei dintorni di casa, quindi, mi imbatto in molti turisti. Quando
accosto per lasciarli passare, guardo se mi rivolgono un cenno di
ringraziamento. C’è una cosa che mi colpisce di questi turisti, tutti di mezz’età
o anziani, bianchi e borghesi, ed è la loro paura. Non ti guardano negli occhi,
si aggrappano al volante e fissano un punto della strada di fronte a loro. Non
è maleducazione, è solo che sembrano terrorizzati dal fatto di essere vivi:
troppo impauriti per rivolgermi un sorriso o un cenno della mano. Quando
vanno a fare un picnic, sistemano le sedie di plastica vicino al bagagliaio
dell’auto, perché hanno paura di allontanarsi anche solo di pochi passi dalla
loro coperta di Linus a motore. Nervosi come leprotti, si spostano da una zona
protetta all’altra. Per gli atterriti abitanti della periferia, la campagna è
diventata un fornitore di paesaggi.
Quanto più divertente doveva essere la vita ai tempi in cui si girava a
cavallo, si chiacchierava con gli estranei, ci si affacciava dai cancelli, si
saltavano gli steccati, si cantava con gioia, si era tutt’uno con la natura, i suoi
animali e il suo tempo. Thomas Hardy provava una gran nostalgia per quei
tempi felici, quando l’uomo non era ancora spaventato e sottomesso. Nella
Brughiera, lamentava che lo sguardo preoccupato fosse ormai divenuto la
norma: «La visione della vita, come d’una cosa a cui bisogna rassegnarsi, –
sostituitasi al gusto di vivere, così intenso nelle civiltà primitive – finirà col
permeare di sé così totalmente la struttura delle razze più progredite, che il
riflesso di questa visione sul volto umano dovrà essere accettato come nuovo
punto di partenza per l’arte».
Stare in sella a un cavallo anziché in un’auto dà una sensazione di libertà
quasi palpabile. Le automobili sono bozzoli. E poi – e questo riveste grande
importanza per me – il cavallo offre al suo padrone la possibilità di fingersi
un cavaliere medievale. Anche se ho un aspetto abbastanza ridicolo quando
sono a cavallo, con un casco da ciclista e le galosce di gomma, in sella a un
pony non lontano da un cavallo shire,* riesco lo stesso a immaginarmi nei
panni di un trovatore, Thomas IX de Martinhoe, alla ricerca della sua dama e
pronto per una serata di musica e risate al castello più vicino, buona
compagnia, cigni e gru arrosto, vino speziato e un bel fuoco vivo.
La pubblicità delle automobili mescola il concetto di «eccitante» con quello
di «sicuro»: la libertà on the road e la promessa di un caldo utero materno.
Ma le auto sono uno dei più mortiferi aspetti della vita moderna, responsabili
della morte di 3500 persone all’anno nel solo Regno Unito. Dieci persone al
giorno: molte più di quante ne uccida la droga, il terrorismo, l’Aids o il
crimine. In tutto il mondo, gli incidenti stradali sono la nona causa di morte
(la guerra è al ventunesimo posto, la violenza al diciassettesimo). Le cose a cui
ci aggrappiamo per proteggerci dalla vita sono le stesse che ci uccideranno,
con tutta probabilità. Di recente ho avuto alcuni incidenti e mi sono ritrovato
senza macchina; allora, invece di guidare per cinque miglia fino alla città più
vicina, sono andato a piedi. Che piacere, che divertimento è stato! Molto
meno pericolo, molta più gioia rispetto all’automobile, piena di piccoli terrori.
Oggi ci sembra normale guidare per quattro ore in uno stato di continua
tensione e paura, ma è una cosa folle. Come molti dei problemi di cui parlo in
questo libro, anche la paura fa molto comodo alla società, perché è funzionale
ai suoi ordinati meccanismi. Una popolazione docile, perché terrificata
dall’autorità in tutte le sue forme (supermercato, banca, scuola, capoufficio) e
degli altri esseri umani, sarà più portata a lasciarsi guidare da oggetti e
istituzioni che le offrano sicurezza, solidità e significato. Se avete paura,
difficilmente farete scoppiare una rivolta; probabilmente lavorerete sodo e
spenderete molto. La paura ci spinge a osservare la vita, anziché viverla.
Siamo spettatori, non attori. Preferiamo guardare una soap opera che viverla.
Anzi: quando incontriamo un gruppo di persone vivaci e attive, qualcuno dirà
«Sembra di essere in una soap opera!». Costoro dimenticano che le soap
dovrebbero imitare la vita vera (a parte il dettaglio che nelle soap opera
nessuno guarda mai le soap opera). Come la tv, le auto tengono la vita a
debita distanza, come qualcosa da guardare e non da vivere: la vista dal
divano, lo scorcio di panorama intravisto dal parabrezza.
E a ogni nuova bomba, a ogni titolo a nove colonne sui tassi di criminalità
in ascesa, a ogni sciopero e ogni calamità, direttori e azionisti delle grandi
compagnie di assicurazioni si fregheranno le mani. La paura genera buoni
profitti. Con la paura si controllano le persone. È il timore della punizione che
tiene zitti gli scolari e semplifica il lavoro dell’insegnante. È la paura di essere
licenziati che tiene zitti gli impiegati scontenti. La paura ci aiuta anche a
svolgere il nostro ruolo di consumatori. È la paura che proviamo nei
confronti della nostra stessa vita a farci spendere soldi nei centri commerciali
e a farci digitare il numero della nostra carta di credito su un sito internet. È la
paura a impedirci di fuggire, è la paura che ci impedisce, come lo impediva al
grande capo Bromden in Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey, di
strappar via il pannello di controllo dalla corsia dell’infermiera Ratched,
buttarlo fuori dalla finestra e scavalcare le recinzioni per fuggire nella prateria,
fuggire dentro noi stessi. È molto più facile mettersi in fila con gli altri e
prendere le pillole. Potremmo chiederci da dove provenga la paura: è innata,
oppure è un prodotto culturale? È suscitata in noi da un condizionamento
esterno, oppure esiste qualcosa di naturalmente spaventoso nel cuore
dell’uomo? Tra le fonti di paura c’è senz’altro il sistema educativo. I bambini
piccoli non hanno paura di niente, sono anarchici imperiosi, e servono
quindici anni di duro lavoro da parte degli educatori per inculcare in loro la
docilità, così che non si lamentino troppo quando si ritrovano annoiati dietro
una scrivania. Educare è un po’ come potare: interferisce con lo sviluppo
spontaneo dell’albero, in favore di una forma che torni utile alla società
commerciale. L’educazione di massa nacque quando, verso la fine dell’età
vittoriana, sorse il bisogno di un gran numero di impiegati da collocare nei
settori in espansione come banche e assicurazioni: il mondo abitato da Tony
Hancock nel film The Rebel. Oggi la «Cosa», come la chiamava Cobbett, o il
«Gruppo», come lo definiva Ken Kesey, richiede che noi siamo in grado
perlomeno di digitare il nostro codice pin in una macchina, e per riuscirci
abbiamo bisogno di un livello minimo di alfabetizzazione e abilità aritmetiche.
Quindi ci insegnano a usare una tastiera e un mouse e a far la spesa al
supermercato; ma non ci insegnano a goderci la vita, a viverla con gioia e
senza paura.
L’ostacolo forse più grande alla conquista della libertà è la nostra paura
della libertà. Forse ricorderete quella scena magistrale di Qualcuno volò sul
nido del cuculo in cui McMurphy si rende conto d’un tratto che metà delle
persone ricoverate nel manicomio sono lì per scelta:
«Mi state contando balle!»
Nessuno dice niente. McMurphy va avanti e indietro lungo la panca, passandosi le
dita tra i capelli folti. Arriva fino in fondo alla fila, poi torna indietro all’estremità
opposta, accanto all’apparecchio dei raggi X. L’apparecchio sembra sibilare e
sputargli addosso.
«Tu, Billy… tu devi essere affidato, Cristo santo!»
Billy ci volta le spalle, ha il mento appoggiato sullo schermo nero ed è in punta di
piedi. «No» dice, come se stesse parlando all’apparecchio.
«Ma allora perché? Perché? Sei ancora giovane! Dovresti andartene in giro su una
decappottabile, a caccia di gonnelle. Tutto questo…» sposta di nuovo la mano
circolarmente intorno a sé «… perché sopporti tutto questo?»
Billy non dice niente e McMurphy passa da lui ad altri due pazienti.
«Ditemi perché. Vi lagnate, borbottate per settimane di seguito, dicendo che non
sopportate questo posto, che non sopportate l’infermiera, che non la potete soffrire, e
non siete affidati. Posso capirlo, nel caso di alcuni di quei vecchi in corsia. Sono
matti. Ma voi, non dico che voi siate precisamente persone normali, ma non siete
neppure pazzi.»
I due non gli rispondono. Lui si porta davanti a Sefelt.
«E tu, Sefelt? Tu non hai niente, a parte gli attacchi. Diavolo, avevo uno zio che
veniva preso da convulsioni due volte peggiori delle tue, e per giunta aveva visioni
ispirate dal diavolo ma non per questo andò a rinchiudersi in un manicomio. Potresti
vivere fuori di qui se soltanto avessi il coraggio…»
«Ma certo!» È la voce di Billy, il quale ha voltato le spalle allo schermo e la cui
faccia è striata di lacrime. «Ma certo!» egli torna a urlare. «Se ne avessimo il
coraggio! Io potrei uscire anche ooggi, se avessi coraggio. Mia m-madre è una buona
amica di M miss Ratched, e potrei farmi firmare il m-modulo ed essere dimesso
questo stesso pomeriggio, se avessi coraggio!»

Noi non siamo che tanti Billy Bibbit spaventati, tanti Harding e Sefelt,
rinchiusi, autoincarcerati, sempre pronti a lamentarsi ma troppo impauriti per
fare alcunché. Per dirla con le parole di quei geni musicali dei Suicidal
Tendencies, siamo «Istituzionalizzati», e le istituzioni sono una delle peggiori
invenzioni degli ultimi 250 anni. Lo scemo non vive più nel villaggio; ora è
rinchiuso in un manicomio.
Ci siamo tarpati le ali da soli. Possiamo ancora avere scatti d’ira a scuola,
come John Lennon quando, in Working Class Hero, accusa il sistema
educativo di imbottirci di paure per fare di noi tanti piccoli schiavi che non
hanno il coraggio di guardare al di là del parapetto. Ma in realtà, forse è
proprio per questo che, pur odiando la guerra, ritengo che i soldati siano
uomini di qualità migliore della media. Hanno visto cose orribili, hanno
sofferto, hanno affrontato la paura, e ora possono camminare a testa alta nel
mondo, senza temere la fame e gli stenti. Sono autosufficienti e dotati di
spirito comunitario.
È la nostra innata stupidità a renderci pavidi. Non bastiamo a noi stessi,
quindi ci affidiamo agli altri, dipendiamo da loro, e questo ci terrorizza. È dai
tempi della Riforma protestante che siamo più o meno soli in questo mondo,
che sappiamo di non poterci fidare di nessuno e che dovremmo soffrire in
silenzio. Una situazione ben diversa dalla «fratellanza tra gli uomini» che
regnava prima del Cinquecento, quando eravamo tutti sulla stessa barca.
Dobbiamo anche fare i conti con la relazione tra l’ego e la paura, tra la paura e
l’orgoglio. Non proviamo nemmeno a fare certe cose, per paura di farle male.
Quindi finiamo per non fare nulla. Facciamo come Withnail nel bel film di
Bruce Robinson Shakespeare a colazione: «Non voglio fare il sostituto di
Constantin» grida orgoglioso dalla cabina telefonica rossa al suo agente a
Londra «voglio la parte di primo attore!».
Personalmente preferisco l’idea esistenzialista, rendersi conto che ogni cosa
è assurda, che non c’è una cosa migliore di un’altra in assoluto. La vita è il
nulla, quindi ognuno può e deve costruire la sua vita, e godersela. Tutto è
vanità, finzione, condizionamento, autocreazione, ogni cosa è «forgiata dalla
mente». L’essere e il nulla di Sartre è una lettura difficile, ma ricca di brani
affascinanti e, benché astratta, la filosofia alla base del libro è pratica. Non mi
sembra lontanissima dalla rassegnazione tipica del taoismo, o dal
cristianesimo fatalista di Tommaso d’Aquino, che insegna a credere nella
Provvidenza senza prendersi la briga di sforzarsi oltremodo. Quando
Tommaso cita il versetto biblico «Ogni cosa è vanità», è come se dicesse: «La
vita è assurda». Le corse frenetiche, sudare per ottenere ciò che una volta si
chiamava «onore e ricchezze», e oggi si chiama «avanzamento di carriera»: è
tutto una gran perdita di tempo. La vita terrena è un imbroglio. Vanità vuol
dire assurdità: entrambe mere creazioni della mente umana, del tutto prive di
significato. Molto meglio, allora, crearci da soli la nostra vita. Tutte e tre
queste posizioni filosofiche, d’altronde, sono unite nell’opposizione a ogni
forma di schiavitù, sottomissione e sfruttamento.
Ecco perché, anche se Tolstoj e Gandhi sono convincenti quando parlano di
guerra e nonviolenza, trovo utili le metafore belliche per descrivere la vita.
C’è qualcosa di profondamente nobile nell’antico guerriero senza macchia né
paura, che si batte per un bene più elevato che non salvarsi la pelle.
È per questo che gli antichi portavano come esempio l’otium e il bellum
come sentieri altrettanto nobili, contrapponendoli al sentiero borghese del
lavoro e degli affari, dagli orizzonti assai limitati. Per dirla in modo più
semplice: agli intellettuali e ai guerrieri, agli oratores e ai bellatores,
l’infermiera Ratched non è riuscita a tagliare le palle. Ma intellettuali e
guerrieri sono ormai praticamente estinti, o fungono solo da diversivo.
L’esercito dice che gli si chiede di fare «un lavoro», e si limita a eseguire gli
ordini.
Allora, strappate via il pannello di controllo e scaraventatelo fuori dalla
finestra. Dobbiamo alzare la voce, sorridere, salutare le persone. Diciamo
addio ai brividi di terrore, a quell’orribile sensazione della domenica sera,
l’angoscia che ci assale prima di una riunione, la stretta allo stomaco quando
riceviamo una lettera dall’ufficio delle tasse. Non abbiate paura di loro! I
mittenti di quelle lettere sono coniglietti spauriti, piccoli Billy Bibbit chiusi in
uffici angusti e bui, che guardano fuori dalla finestra, persi in fantasie
erotiche, terrorizzati all’idea di perdere il lavoro. In realtà non esistono!
Stamattina ho ricevuto un mandato di comparizione per guida senza
assicurazione. La mia prima reazione è stata di terrore e indignazione. Poi ho
deciso di riderci su. Sarà un’avventura e, anche se mi ritirano la patente, poco
male. Sto cercando di usare meno l’auto. Ciascuno di noi spende cinquemila
sterline l’anno per mantenere l’automobile, e con quei soldi si comprano un
sacco di biglietti del treno e corse in taxi. Prego, accomodatevi! Appenderò al
muro il mandato, lo mostrerò agli ospiti. Il vostro mandato mi fa ridere! Chi
se ne importa?
Che ne è della paura nella mia utopia pre-cinquecentesca? Be’, le paure che
abbiamo analizzato in questo capitolo erano sconosciute, perché non c’erano
governi né istituzioni analoghe a quelle con cui abbiamo a che fare oggi. A
quei tempi, però, la paura era un elemento centrale della vita, ma era la paura
di Dio, il timore di non essere salvati. Era un timore ben diverso dai terrori
paralizzanti e invalidanti che viviamo oggi. Nel Medioevo, la paura poteva
essere una forza positiva. Per Tommaso d’Aquino era una qualità astratta,
utile alla salvezza: «Colui che non ha paura non può essere salvato […]. Il
timore di Dio è il primo passo verso la saggezza».
Qui san Tommaso presenta la paura come una forza creativa, anziché
distruttiva. La paura non era un motivo sufficiente per sottrarsi alla vita, come
facciamo noi, che cerchiamo conforto nello shopping e nella tv. La paura è
una forma di umiltà. Tommaso sembra dire: riconoscete di aver paura, giocate
con la paura, usatela. Ai tempi della vecchia e lieta Inghilterra, la paura era
qualcosa con cui lottare, occhi brillanti, archi di splendente oro. Non abbiate
paura della paura! Saltate su quel cavallo!

MONTA SUL CARRO DI FUOCO

* Razza di cavalli particolarmente alti e robusti. (N.d.T.)


Al diavolo il governo

Ci hanno insegnato a credere che gli uomini si farebbero l’un l’altro a


pezzi se non ci fossero i preti a dirigere le loro coscienze, i signori a cui
rivolgersi per la propria tranquillità, e i re a condurli al sicuro dai
pericoli dell’oceano politico.
WILLIAM GODWIN, Indagine sulla giustizia politica (1793)

Ma la democrazia, come la concepiscono gli uomini politici, è una


forma di governo, vale a dire è un metodo per indurre la gente a fare
ciò che i loro governanti vogliono, credendo di fare ciò che essa vuole.
BERTRAND RUSSELL, Libertà e autorità nell’educazione (1928)

Nota bene: I cittadini che desiderassero ottenere credito potrebbero


incontrare difficoltà se il loro nome non appare sui registri elettorali.
Lettera con cui le autorità locali chiedono all’Autore di registrarsi al voto
(2006)

Oggi la politica è solo un modo per elevarsi nel mondo. Gli uomini si
gettano in politica con questo unico scopo, e la loro condotta dipende
interamente da questo.
SAMUEL JOHNSON, CIT. IN BOSWELL, Vita di Samuel Johnson (1775)

Sono un anarchico.
PIERRE-JOSEPH PROUDHON (1848)

Nelle nostre democrazie occidentali, più o meno liberali, raramente ci


sovviene il pensiero che potremmo benissimo vivere senza governo. Ci
sembra che uno Stato vasto e centralizzato sia una realtà inevitabile, e che il
massimo che possiamo attenderci sia il diritto di votare ogni cinque anni per
eleggere un’oligarchia leggermente diversa per correggere i peggiori eccessi
della precedente. Non riusciamo a vedere oltre il Parlamento come mezzo per
organizzare le cose. Ci lamentiamo dei buffoni che ci governano e poi ne
eleggiamo di nuovi. Crediamo nelle «riforme», quel processo infinito e futile
di intromissione negli affari altrui. La speranza trionfa sull’esperienza. I
governi fanno troppo, e molto di ciò che fanno lo fanno male. Per esempio
dovrebbero difenderci dagli attacchi. Ma non gli riesce molto bene. Anzi,
incoraggiano altra gente ad attaccarci, attaccandola per primi, come è successo
in Iraq. I terroristi hanno ucciso molte meno persone di quante ne abbiamo
ammazzate noi stessi, mandando i soldati in guerra. Mentre scrivo, 27.000
civili sono morti in Iraq, e i terroristi islamici in Gran Bretagna hanno ucciso
non più di cinquanta persone. Ai governi i terroristi piacciono, perché fanno
buona pubblicità al bisogno di protezione da parte del governo. Ai governi
piacciono anche le guerre, perché forniscono loro una ragion d’essere:
salvarci dagli infedeli. Il nemico è una creazione del governo, come ha
mostrato George Orwell in 1984. L’alternativa – anarchia, o autogoverno – è
accusata di condurre al disordine e alla sregolatezza. Ma come diceva Lev
Tolstoj, pacifista autore di Guerra e pace:

[…] anche se l’assenza di governo significasse realmente anarchia nel senso negativo
della parola – e non è assolutamente così – anche allora, il disordine anarchico non
sarebbe peggiore della situazione a cui i governi hanno già condotto i loro popoli, e a
cui li stanno conducendo.

C’è del marcio nel cuore dei governi: ed è la semplice conseguenza del potere
come modo per far carriera. Vi pagano per stare al potere. E poi ci sono i taxi
gratis, le cene nei ristoranti eleganti, e scrivono di voi sui giornali. La politica
è il reality show delle persone noiose. Il fatto che ogni politico tenti di far
carriera, guadagnare di più e salire nella scala gerarchica non dovrebbe
testimoniare dell’assurdità di tutto il sistema? Se invece i cosiddetti
«rappresentanti del popolo» fossero anonimi e non retribuiti, forse ci
fideremmo più facilmente di loro. Non troppi anni fa, in effetti, i parlamentari
non erano retribuiti. A quell’epoca la politica non era così tragicamente
professionalizzata. Questo non esclude, certo, che molti politici abbiano le
migliori intenzioni, ma i benintenzionati possono fare più guai di chi si
trattiene dall’interferire. Senza dubbio, i puritani erano in buona fede quando
proibirono di festeggiare il Natale.
La politica non è l’arte di governare un Paese; è l’arte di persuadere la gente
che per governare il Paese è necessario un gruppo di politici stipendiati. E in
quest’arte oscura, i nostri leader sono abili e capaci. Per restare al potere
devono farci credere di essere i nostri salvatori, e che non potremmo gestire
nulla senza di loro. In altre parole: a loro basta convincerci che siamo stupidi
e bisognosi d’aiuto. Ed è per ottenere questo risultato che lavorano così
duramente. Lo scopo è raggiunto principalmente attraverso una costante
attenzione dei mass media. Ogni giornale, ogni giornale radio, ogni
telegiornale, ogni sito web: tutti pieni di notizie sulla politica di partito. È una
quantità di pubblicità gratis che il pr di un’azienda privata può solo sognare.
Tutti questi comunicati stampa non fanno che venderci l’idea della necessità e
inevitabilità del governo. E lo fanno bene: molti Primi ministri sarebbero
ottimi venditori di auto usate, anzi penso che parecchi di loro potrebbero
vendervi del crack, e intanto convincervi che state facendo del bene
all’economia e alla vostra salute. Le campagne morali come la cosiddetta
«guerra alla droga» sono condotte con l’unico scopo di convincerci che i
politici hanno un qualche senso del bene e del male. La reazione tipica di
fronte all’olocausto è «Mai più». Abbiamo anche un Holocaust Day, un
«giorno della memoria» la cui funzione ufficiale è prevenire il ripetersi di quel
male. Congratulandoci con noi stessi perché non mandiamo più gli ebrei nei
campi di concentramento e nelle camere a gas, evitiamo di fare i conti con la
realtà del fatto che mandiamo altra gente a morire e ridursi in schiavitù in altro
modo, oggi, proprio qui, proprio ora.
E poi c’è il grande spettacolo delle elezioni. Ogni cinque anni circa, il
popolo, più o meno ignorato dai politici fin dalla precedente tornata elettorale,
improvvisamente è bombardato con il messaggio che «votare è molto
importante». In un’assurda sceneggiata, i leader di partito appaiono in
televisione e rispondono a domande poste da esponenti della «gente
normale». Questo programma televisivo, trasmesso per un’ora ogni cinque
anni, dovrebbe servire a convincere lo spettatore che viviamo in una
democrazia. Si distribuiscono volantini, giovani candidati pieni di entusiasmo
(aspiranti politici in carriera) bussano alla nostra porta e promettono che
rimedieranno ai guai combinati dall’attuale governo. I giornali sono pieni di
congetture e resoconti sulla campagna elettorale. Suppongo che per i primi
minuti la cosa possa essere divertente. L’errore è pensare che abbia la minima
importanza per le nostre vite di ogni giorno. L’elezione ci sarà, la febbre calerà
e le cose torneranno com’erano prima; il partito vincitore farà ciò che vuole, e
si giustificherà dicendo di essere stato eletto dal popolo.
Chi crede in questo tipo di democrazia parlamentare ci crede solo quando
vince il partito per cui vota. Se così non fosse, costoro sarebbero soddisfatti
di qualsiasi risultato: perché se davvero pensiamo che il voto di maggioranza
sia quello giusto, dovremmo cambiare schieramento politico a seconda di chi
prende la maggioranza in ogni elezione. Invece, succede che l’elettore dei
conservatori si lamenta quando vincono i laburisti, e resta fedele ai
conservatori. I liberal americani si oppongono a Bush e sono in favore della
democrazia. Ma se ti opponi a Bush, di fatto sei antidemocratico. Non si
rendono conto che la colpa non è tanto di Bush quanto dell’intero sistema. Se
credete nella democrazia, non dovreste lamentarvi quando il partito che ha
preso più voti va al governo.
Lo spirito misero del Parlamento si diffonde sino agli estremi confini del
regno. I burocrati, la triste brigata della Health and Safety, ha tentacoli
ovunque. Di recente ho provato a organizzare un ballo in un edificio pubblico
della mia zona. Niente di complicato, penserete. Invece no. Dopo aver
compilato pile di moduli per la licenza di «Pubblico Intrattenimento», che ci
avrebbe permesso di far ballare ottanta persone con un violino e una
fisarmonica, alla fine mi sono arreso, perché prima di ottenere la licenza
avremmo dovuto spendere 1400 sterline per installare un impianto elettrico
d’emergenza, e tutto ciò per l’Health and Safety. Una grande azienda potrebbe
permettersi di spendere 1400 sterline, ma i nostri risparmi, frutto di tornei di
whist e gare di ballo, non sarebbero bastati. Quindi ho deciso di organizzare
comunque la festa, ma privatamente. Ho spedito inviti a tutti gli abitanti della
zona e a tutti i nostri amici. Il giorno della festa, abbiamo chiesto a tutti un
contributo di cinque sterline per pagare i musicisti, gli Alabama 3 (in versione
acustica) e Louis Eliot. Ognuno ha portato qualcosa da bere. Victoria ha
preparato un enorme prosciutto e abbiamo offerto panini. La festa è iniziata
all’ora del tè, e l’abbiamo chiamata «ballo del tè», così che gli ospiti potessero
portare i bambini. La festa è durata dalle quattro alle otto e mezzo. Tutti hanno
bevuto in abbondanza, la stanza era piena di fumo, abbiamo ballato, e tutti,
fattori, hippie, vicini e amici si sono divertiti molto. Abbiamo anche raccolto
un po’ di soldi, che sono tornati nella cassa comune del villaggio. Avrei potuto
scoraggiarmi e lasciar perdere, e sarebbe stato un diretto risultato della recente
legislazione governativa, che toglie potere alle amministrazioni locali, impone
le stesse regole all’intero Paese e rende molto, molto difficile organizzare una
festa. E la beffa è che paghiamo a questo governo tra un quarto e la metà di
quello che guadagniamo, in cambio del privilegio di essere trattati con
condiscendenza e comandati a bacchetta. Siamo obbligati per legge a spendere
cifre altissime in tasse così che i 650 parlamentari inglesi possano dare sfogo
alla loro vanità e al loro orgoglio sfrenato. Persino il contadino medievale,
proverbialmente sfruttato, non era tenuto a versare alla comunità più del 10
per cento di quel che guadagnava e produceva. Se già quello gli pesava, come
si sarebbe sentito se lo avessero obbligato a pagare il quaranta per cento? E
nei giorni che precedettero l’avvento dell’esercito permanente e del debito
pubblico, non c’era un sistema di tassazione centralizzato. Le decime erano
versate direttamente nella cassa comune locale, anziché essere succhiate da
Londra e sprecate per stipendiare orde di perditempo, salvo poi tornare al
vostro villaggio ridotte a quattro soldi. In passato, le tendenze puritane del
Parlamento erano controbilanciate in parte dalla monarchia, a cui piaceva
divertirsi. Ora, purtroppo, la monarchia ha perso qualsiasi potere, e il vecchio
sistema re-Parlamento è stato rimpiazzato dal governo delle persone noiose, la
tediocrazia. Sono felice quando il principe Carlo si lascia sfuggire un’opinione
un po’ pazza. Si oppone al consenso borghese, e ha il coraggio di esprimere
punti di vista che si discostano dal pensare comune.
Esiste un’alternativa concreta ai governi eletti dal popolo. È quella per cui il
popolo si autogoverna, ovvero gestisce i propri affari senza affidarsi a
un’autorità esterna. L’anarchia, come ho detto, è malvista. Ma in realtà, è un
modo ragionevole e sensato di organizzare la convivenza civile, perché pone
l’accento sull’importanza delle soluzioni a livello locale. Alcuni dei nostri
massimi pensatori, come abbiamo visto, uomini come William Godwin,
Proudhon, Kropotkin, Oscar Wilde, Tolstoj e Gandhi, erano anarchici. Tutti
costoro hanno ben compreso le carenze di un’organizzazione sociale fondata
su un grande governo centrale, e hanno teorizzato alternative basate sulla
libertà individuale e su un sistema federale di autogoverno. Questo ha
funzionato in passato. Dobbiamo incolpare solo la nostra debolezza nel
sottometterci ai governi. Il primo passo è riconoscere che c’è un problema, e
riconoscere, nelle parole di Proudhon, «l’insufficienza del principio di
autorità». L’anarchia è lo spirito creativo che lotta contro lo spirito
sottomesso, e la battaglia deve partire da noi. Dobbiamo riconoscere la nostra
dignità, il nostro potere e la nostra forza creativa, e non permettere che la
pigrizia e il desiderio di comodità ci impediscano di vivere come vogliamo.
Tolstoj la definisce così:

L’anarchia è una forma di governo o costituzione in cui la coscienza pubblica e


privata, formatasi attraverso lo sviluppo della scienza e della legge, da sola è
sufficiente a mantenere l’ordine e a garantire tutte le libertà. In essa, di conseguenza, i
corpi di polizia, i metodi di prevenzione e repressione, l’ufficialità, la tassazione
eccetera sono ridotti al minimo. In essa, più in particolare, le forme della monarchia e
della centralizzazione intensiva scompaiono, e sono sostituite da istituzioni federali e
da un modello di vita basato sulla comunità. Quando la politica e la vita domestica
sono diventate tutt’uno, quando i problemi economici sono stati risolti in modo tale
che gli interessi individuali coincidano con quelli collettivi, allora – scomparsa ogni
forma di coercizione – è evidente che tutti vivremo in uno stato di totale libertà, o
anarchia.

Qualcosa di molto simile è stato realizzato alla fine del Medioevo con il già
citato sistema delle Corporazioni e delle Arti, come hanno mostrato Kropotkin
e altri. Come abbiamo visto, i popoli si sollevarono in tutta Europa, si
liberarono dalla sottomissione ai nobili, crearono associazioni e corporazioni
di mestieri e fondarono le loro città libere. Il XIII secolo vide uno
straordinario movimento popolare, che diede vita in tutto il continente a un
nuovo ideale di libertà; e A.N. Whitehead, filosofo e amico di Bertrand
Russell, nel suo Simbolismo sostiene che questo senso di libertà durò fino al
Seicento:

Per quanto riguarda le libertà individuali, c’era una libertà più diffusa a Londra
nell’anno 1633 […] di quanta ce ne sia oggi in qualsiasi città industriale del mondo. È
impossibile comprendere la storia sociale dei nostri antenati, se dimentichiamo la
rigogliosa libertà che fioriva allora nelle città dell’Inghilterra, delle Fiandre, della
valle del Reno, del Nord Italia. Nel nostro attuale sistema industriale, questo tipo di
libertà si sta perdendo. Questa perdita implica la sparizione di valori infinitamente
preziosi per la vita umana. I diversi usi dei temperamenti individuali non trovano più
soddisfazione in attività serie. Rimangono solo condizioni ferree di impiego e
divertimenti stupidi e volgari.

Sembra di sentir parlare un punk o un situazionista. Allora, cosa possiamo


fare? Cosa fare per «riprenderci le nostre vite», come si suol dire oggi? Come
possiamo riuscire a essere noi stessi, anziché cercare di conformarci e
contorcerci per rientrare in un modello standardizzato? Be’, per iniziare
possiamo ignorare il governo. Il modo migliore per distruggere lo Stato è non
curarsi di lui e sperare che se ne vada. I media ci dicono sempre che non
votare è un segno di «apatia», ma per me è l’esatto opposto. Quando non
votate, come non voto io, nella vostra mente avviene uno spostamento
fondamentale. Non potete più dare la colpa al governo per i vostri problemi,
perché avete scelto di star fuori dal loro sistema. Quindi iniziate, per dirla con
Kropotkin, ad «agire per voi stessi». Diventate responsabili.
Il primo passo, che potrebbe anche essere l’ultimo, è quello, molto
immediato, di creare l’anarchia nel vostro giardino, la vostra personale
Anarchy in the UK. Attualmente, per esempio, c’è un dibattito in corso sul
forum online dell’«Idler» sul tema della produzione autonoma di energia
elettrica. Gli utenti si raccomandano l’un l’altro varie microtecnologie per uso
domestico, che permettono di ridurre la dipendenza dalle grandi compagnie e
abbassare le bollette. L’autore del messaggio che ha dato origine al dibattito
scriveva:

Il punto è mandare al diavolo i perdigiorno che ci governano e fare tutto ciò che è
fattibile a un livello privato, domestico, casalingo, nelle normali case di città e dei
sobborghi, per contribuire ad abbassare i costi stratosferici dell’energia.

In altri termini, un approccio anarchico alla vita è estremamente pratico. Costa


poco, ed è facile. È tutt’altro che un sogno indulgente: è molto più sensato che
affidarsi ad autorità esterne perché risolvano i nostri problemi. Starsene seduti
ad attendere la rivoluzione difficilmente porterà a risultati concreti. E poi, la
rivoluzione servirebbe davvero a qualcosa? Una rivoluzione presuppone una
battaglia tra due forze. Una delle due vincerà, e quella forza tenterà di gestire il
Paese con una qualche forma di governo… e saremmo daccapo. Dunque, lo
stesso concetto di rivoluzione è un’assurdità. La rivoluzione non è altro che
uno dei tanti generi di riforma. Dobbiamo essere ancor più radicali, più
estremi dei rivoluzionari; dobbiamo fare un passo più in là. E la risposta più
semplice è concentrarci su noi stessi e sui cambiamenti a livello locale. In
breve, dobbiamo dare il buon esempio. Una tappa importante nel processo
mentale che conduce a liberarsi dal potere del governo è quella che consiste
nel capire che, in certo grado, noi stessi siamo complici del problema. Non
agendo per noi stessi, lasciamo che gli altri agiscano per conto nostro.
Nell’Essere e il nulla, Sartre scrive che non serve a nulla restare seduti a
lamentarsi della propria vita, perché farlo significa abdicare alle proprie
responsabilità. Nessun fattore esterno può farci pensare o agire in un certo
modo se noi non glielo permettiamo. Nel mondo ipotizzato dagli
esistenzialisti, in cui la vita è assurda, tanto vale crearsi da soli la propria vita.
«Agire», nella mia interpretazione, significa accettare che siamo radicalmente
responsabili per la creazione delle nostre vite. Tolstoj ha espresso lo stesso
concetto:
Gli uomini costruiscono questa terribile macchina di potere, permettono a chiunque
ne sia capace di impadronirsene (ed è probabile che siano i più depravati a
impadronirsene) – gli si sottomettono come schiavi e poi si sorprendono che ne
derivi un male. Hanno paura delle bombe degli anarchici, e non hanno paura di questa
terribile organizzazione, che non fa che minacciarli con le peggiori calamità.

E oggi temiamo il terrorismo, quando il vero nemico è il nostro governo.


Invece di attaccare lo status quo – sempre una pessima idea, perché
attaccare qualcuno tende a rafforzarlo (i governi adorano l’opposizione!) –
sarebbe forse più saggio creare delle società tutte per noi, parallele all’attuale
sistema, e fare del nostro meglio per ignorare del tutto la Cosa. Per
minimizzare la burocrazia e le tasse, guadagneremo piccole somme di denaro
e sopperiremo aiutandoci l’un l’altro. Non vogliamo case a buon mercato,
posti di lavoro e centri commerciali. Quelli sono contentini per gli schiavi,
panem et circenses concessi da un’autorità che si dimostra più o meno
benevola a seconda di quale governo il Fato ha mandato al potere. Quello che
vogliamo in realtà è creare le nostre piccole aristocrazie personalizzate, come
dice D.H. Lawrence. Vogliamo terra, caravan e alberi, appezzamenti di
proprietà, orti coltivati, arte e artigianato. E birra, e libri. È tutto. Quindi, la
nostra sola speranza potrebbe essere non tanto fare una rivoluzione, ma solo
ignorare in massa il sistema dominante.
Che ne è allora del distributismo, l’idea per cui ogni famiglia dovrebbe
possedere uno o due acri di terra? Nell’introduzione a Distributist
Perspectives, una raccolta di saggi recentemente pubblicata dalla IHS Press, lo
studioso cattolico Thomas Naylor scrive:

Con l’aiuto del distributismo forse sarà possibile: (1) riprendere il controllo delle
nostre vite dalle mani del grande governo, delle grandi aziende, delle grandi città,
delle grandi scuole e dei grandi network informatici; (2) reimparare come prenderci
cura di noi stessi decentralizzando e umanizzando le nostre vite; e (3) imparare ad
aiutare gli altri a prendersi cura di se stessi così che tutti possiamo diventare meno
dipendenti dalle grandi aziende, dal grande governo, dai grandi mercati.

Il distributismo è anarchia. Si oppone al controllo centralizzato e al grande


business, ed è in favore dell’autogestione e dell’autogoverno. Dice che
«piccolo è bello». Crede nei sistemi sostenibili e nella «misura d’uomo».
L’obiezione che proverrà dal filosofo della domenica, allorché si solleveranno
i nobili ideali dell’autogoverno, della libertà e dell’anarchia, è la vecchia storia
della «natura umana». Lasciati a noi stessi, senza regole né controllo da parte
di autorità centrali, cominceremmo ad ammazzarci e stuprarci a vicenda. (A
proposito: non so se avete mai notato che la gente, quando sta per dire una
trita banalità, un luogo comune noioso o una verità lapalissiana, dice sempre:
«Io penso che…», con grande enfasi sulla parola «io», come se stessero per
annunciare un’opinione originale, frutto di lunga e attenta riflessione, e non
propaganda riciclata e copiata pari pari dai tabloid.)
Come dimostrano le corporazioni, è vero l’opposto. È proprio l’esistenza di
un governo che autorizza le persone a uccidersi e stuprarsi a vicenda; il
governo crea gli omicidi e le violenze proprio mentre finge di prevenirli. Per
ripetere le parole di Tolstoj sul governo: «[…] anche se l’assenza di governo
significasse realmente anarchia nel senso negativo della parola – e non è
assolutamente così – anche allora, il disordine anarchico non sarebbe peggiore
della situazione a cui i governi hanno già condotto i loro popoli, e a cui li
stanno conducendo».
Possiamo vedere in azione il distributismo anche oggi, nell’allotment
movement, l’assegnazione di orti demaniali a privati cittadini. In tutto il Paese
stiamo scoprendo che è possibile coltivare il nostro orto, per divertirci e per
mangiare. Gli orti demaniali sono messi a disposizione dalle autorità locali a
prezzi molto bassi, e se un consigliere sta leggendo questo libro e vuole farsi
una buona reputazione, basta che proponga la creazione di nuovi orti
demaniali. Gli orti danno potere al popolo. Un altro ambito in cui vediamo
applicati i princìpi di autosufficienza propri del distributismo è il movimento
della Permacultura. Lì nessuno si lamenta, nessuno siede immobile ad
aspettare che il governo faccia qualcosa. Nella Permacultura, l’accento è posto
su cosa noi possiamo fare per migliorare oggi la nostra vita quotidiana, per
liberarci dalla morsa di ferro degli impieghi, dei supermercati, del denaro e
del petrolio. Dobbiamo creare da soli la nostra vita. «Credo che un uomo sia
più felice» scriveva C.S. Lewis nel suo saggio Willing Slaves of the Welfare
State «e felice in modo più ricco, se possiede la “mente nata libera” […] e
nella vita adulta solo l’uomo che non ha bisogno di niente, che non chiede
nulla al governo, può criticare le sue leggi e farsi beffe della sua ideologia.»
Le cronache di Narnia non sono tanto, come spesso si crede, un’allegoria
religiosa, quanto piuttosto una storia che parla della libertà. La Strega Bianca
simboleggia Elisabetta I e le sue leggi contro il divertimento, che presero di
mira la lieta Inghilterra. A Narnia, ricorderete, è sempre inverno e non è mai
Natale. Mr Tumnus, il fauno, ricorda i bei tempi andati in cui si ballava e si
rideva. Non c’è più la varietà delle stagioni, niente più banchetti, niente più
balli. Solo uniformità. Il Book of Common Prayer di Thomas Cranmer fu
introdotto nel 1549, quando era reggente il primo duca di Somerset, Lord
Protettore. Il testo di Cranmer proibiva i vecchi festival religiosi, e fu
introdotto con un atto ufficiale del parlamento, l’Act of Uniformity, il cui
nome, direi, è tutto un programma: la vecchia varietà cattolica è attaccata dalla
nuova uniformità protestante.
Noi siamo, in realtà, tutti liberi. La questione è solo se scegliamo o meno di
esercitare quella libertà. Siamo noi a scegliere. Sono qui per ricordarvi che
potete essere liberi se lo volete, perché è un fatto molto semplice del quale
però siamo tenuti più o meno all’oscuro. Ci viene detto che siamo schiavi, e
noi lo accettiamo, perché non abbiamo voglia di essere liberi. Piuttosto,
sprofondiamo nella schiavitù del lavoro e dello shopping. La libertà è a
portata di mano. È proprio vero che le catene sono forgiate dalla mente.

SMETTI DI VOTARE
Di’ no al senso di colpa e libera il tuo spirito

Molti di noi sentono di dover essere all’altezza delle aspettative altrui.


Ma le aspettative altrui per me non esistevano. Tutto ciò che mi
importava era essere felice. Questo mi dava un grande vantaggio nei
confronti dei miei coetanei, perché, svincolato dalla coscienza, facevo
esattamente ciò che volevo.
KEITH ALLEN, A to Z of Life, «Idler» (2005)

Un uomo che abbia una coscienza è lui stesso il Diavolo, l’inferno e il


purgatorio, si infligge tormenti da solo. Colui il cui spirito è libero
sfugge a tutte queste cose.
GIOVANNI DI BRÜNN, adepto dei «Fratelli del Libero Spirito» (gli Amalriciani),
1320 ca.

Nelle nostre teste c’è una specie di libro mastro della coscienza. A ogni piacere
deve corrispondere subito un’abbondante porzione di senso di colpa. Per ogni
atto dello spirito libero che è dentro di noi, lo spirito incatenato ci rimprovera
con il dito alzato e impone una punizione. Quando ci dicono che abbiamo
fatto qualcosa di sbagliato, ci torturiamo con il disprezzo di noi stessi, le
recriminazioni e le promesse di comportarci meglio in futuro. Il senso di
colpa è anche ciò che ci spinge a fare lavori che non ci piacciono. I lettori
dell’«Idler» scrivono per dire che vorrebbero avere più tempo libero dal
lavoro, ma come affrontare il senso di colpa? Star seduti a fare niente, dicono,
li fa sentire colpevoli. Dunque si sentono in dovere di costruirsi un inferno
personale, colpendosi con tridenti e forconi, spronandosi e pungolandosi. Il
senso di colpa non funziona. È un’emozione che non dà forza, ma la toglie. È
negativa, ci trattiene dall’azione. Ho sempre pensato che le risoluzioni dettate
dal senso di colpa fossero straordinariamente inefficaci, per il semplice
motivo che le infrango sempre. E se dobbiamo credere a Nietzsche, il senso di
colpa è la controparte emotiva dei debiti. Quando vi sentite colpevoli, sentite
di dovere qualcosa a qualcuno. E infatti, scrive, la transazione commerciale
può addirittura aver preceduto il sorgere del senso di colpa:

Il sentimento della colpa, della nostra personale obbligazione […] ha avuto […] la sua
origine nel più antico e originario rapporto tra persone che esista, nel rapporto tra
compratore e venditore, creditore e debitore: qui, per la prima volta, si fece innanzi
persona a persona, qui per la prima volta si misurò persona a persona […]. Il
fondamentale concetto morale di colpa (Schuld) ha origine nel concetto del tutto
materiale di debiti (Schulden).

Questa spiegazione dell’origine della colpa suggerisce che non si tratta di uno
stato mentale innato. Inoltre, per Nietzsche, il concetto di colpa emerge
quando tracciamo una distinzione tra intenzione e azione. «Non l’ho fatto
apposta» diciamo. In questo senso, la colpa diventa un’astrazione totale,
perché presuppone che fare e scegliere siano due cose diverse. L’idea di colpa
si basa in ultima analisi sul presupposto che dentro di noi si svolga una lotta
tra due fazioni: nel mio caso, il Tom buono e il Tom cattivo. Il Tom cattivo fa
qualcosa di male, e allora il Tom buono lo fa sentire in colpa. Un bel giorno,
si spera, il Tom buono avrà la meglio sul Tom cattivo. Ma quel giorno non
arriva mai. E la battaglia continua, ma la battaglia indebolisce il nostro spirito,
e questo è uno dei motivi per cui il senso di colpa ci debilita.
È irresponsabile sentirsi in colpa per le azioni compiute in passato, perché
ci spinge a negare la nostra responsabilità per le cose che facciamo oggi.
Quando diciamo «mi sento molto in colpa per questo», vuol dire che
rigettiamo quel lato di noi stessi, qualunque esso sia, che avvertiamo come
responsabile di quell’azione. Di conseguenza, coloro tra noi che soffrono
meno di sensi di colpa – e persone così esistono – sono di fatto le persone più
responsabili: perché se ci si assume la responsabilità delle proprie azioni non
ci si sentirà in colpa per esse. Una conferma del fatto che il senso di colpa non
è innato ma un prodotto della cultura viene dall’esempio dell’infedeltà. Un
uomo che tradisce la sua ragazza potrà sentirsi in colpa. Ma una volta che
abbia lasciato quella ragazza, il senso di colpa svanirà, e anzi l’uomo potrà
provare l’emozione opposta: potrebbe essere contento di sé. È anche ovvio
che i bambini piccoli non avvertono il peso della colpa. La colpa è qualcosa
che impariamo a sentire.
Nelle nostre relazioni sociali intime, così come in quelle con la comunità in
senso lato, le altre persone tentano sempre di far sorgere in noi un senso di
indebitamento. Se vi offrono una cena, siete tenuti a mandare un biglietto di
ringraziamento. Ci scambiamo regali con tutta una serie di regole implicite sul
livello di smancerie in cui il ricevente dovrà profondersi. Ricorrenze come il
Natale diventano una matassa inestricabile di obbligazioni reciproche. Ci
riempiamo così tanto la testa con le cose che dovremmo fare, che rischiamo di
dimenticare le cose che dobbiamo fare. Finiamo così per scrivere lettere
dettate dal puro senso di colpa anziché da un desiderio sincero di esprimere
gratitudine, e questo è senz’altro poco salutare, perché quella lettera diventa il
saldo di un debito e non un’espressione di amore o amicizia. Ci chiedono di
soffrire per i nostri peccati. Nel caso dell’infedeltà, per esempio, la sofferenza
dovrebbe in qualche modo espiare il male compiuto. Strano a dirsi, ma nel
Medioevo al posto del senso di colpa c’erano le multe. I libri contabili delle
case padronali sono pieni di uomini e donne multati per «fornicazione». Ecco
alcuni esempi che provengono da Foxton, nel Cambridgeshire, e risalgono al
Trecento:
Alice Gosse ha fornicato con William Overhawe; multata di 6 scellini.
Asselota, figlia di Alan Asselote, ha fornicato mentre era al servizio dello sceriffo.
Alice Fenner ha fornicato con John Taylor, con il quale non è sposata; si dispone il
sequestro dei beni finché non pagherà la multa.

A quei tempi, anziché soffrire per i propri peccati, bastava pagare una multa
alla cassa comune. Bastava un pagamento per saldare il conto. Allo stesso
modo, gli usurai erano salvati dalla dannazione se prima di morire
restituivano i soldi che avevano estorto. Chiaramente, è accaduto ciò che
diceva Nietzsche: al tributo in denaro per le malefatte si è gradualmente
sostituito un tributo emotivo; le obbligazioni materiali sono antecedenti alla
nascita dei fardelli etici. Ai tempi del cattolicesimo medievale, si pagava la
multa e si andava avanti con la propria vita. Con il puritanesimo invece, il
denaro non era più una ricompensa sufficiente per un atto immorale:
bisognava pagare soffrendo. Né era sufficiente la confessione dei peccati: per
i puritani non era abbastanza. Occorreva diventare una persona migliore. Ora,
invece di ripagare i nostri debiti, siamo costretti, come Christian nel Viaggio
del pellegrino, a portarne sulle spalle il fardello nella nostra eterna ricerca
della perfezione.
Ma Nietzsche insiste: «Domando di nuovo: fino a che punto la sofferenza
può bilanciare i debiti o la colpa?». Che differenza fa? La mia sofferenza non
cambia la vita di nessun altro. È un concetto negativo, non ha alcuno scopo;
non offre un beneficio concreto a nessuno. Come dice Nietzsche, la colpa può
essere sinonimo «del gelido No del disgusto verso la vita» – ed è proprio a
questo che mi fa pensare la campagna del Just Say No.* Facciamo qualcosa di
divertente, e un’altra parte di noi si sente disgustata. Il senso di colpa è un no
rivolto alla vita, e ciò che hanno in comune le persone libere dalla coscienza è
un atteggiamento positivo: afferrare la vita e tenerla stretta, con tutta la sua
stranezza.
Nella maggior parte di noi convivono, ben poco pacificamente, le due
tendenze opposte. Una volta ho chiesto alla mia amica Hannah se aveva
intenzione di andare alla festa di un nostro comune amico, che doveva
svolgersi di lunedì.
«Oh, non lo so proprio» mi ha risposto. «C’è la Regola del Lunedì Sera.»
«La Regola del Lunedì Sera?»
«Sì, dovresti saperlo. La Regola che dice che non si può uscire di lunedì
sera.»
Hannah, sentendosi in colpa per aver ceduto ai piaceri durante il weekend,
si era inventata questa regola come una specie di penitenza per i suoi stravizi.
Si era divisa in due: da un lato lo scaricatore di porto medievale, la Hannah
dedita al «mangia, bevi e sii felice»; dall’altro, la Hannah che lavora sodo e
rinuncia ai piaceri.
Il senso di colpa è un’invenzione dell’uomo. Scegliamo di permettere a noi
stessi di sentirci in colpa; la colpa è l’esito di una scelta. E a volte capita di
fingere sensi di colpa, con un amico o un nemico, per evitare che ci accusino
di disinteresse o indifferenza. Esprimere la colpa sembra la cosa giusta da
fare. «Mi sento molto in colpa per non essere venuto alla tua festa» possiamo
dire. Qui la colpa è resa esplicita. E la risposta che ci auguriamo, molto
spesso, arriverà in modo automatico: «Oh, non preoccuparti, nessun
problema». Il nostro senso di colpa è servito a pagare il debito. Quindi ora
siamo autorizzati a non sentirci più in colpa. La colpa è anche un modo che
usiamo per comunicare agli altri che siamo persone coscienziose. «Mi sento
molto in colpa per essermi ubriacato ieri sera» diciamo, anche se in realtà non
ci sentiamo in colpa nemmeno un po’, o perlomeno potremmo scegliere di
non sentirci in colpa. Quando qualcuno mi dice «ieri sera ho bevuto troppo»,
rispondo sempre: «Io ho bevuto esattamente la giusta quantità».
Alcune persone sono libere dai sensi di colpa. Sono rare, ma esistono, e
quello che hanno in comune è un approccio nietzscheano, un dire sì alla vita,
e il fatto di non avere una coscienza, il che li rende in grado di fare
esattamente ciò che vogliono. Il mio amico, il compianto Gavin Hills, non era
afflitto da sensi di colpa e non si sentiva mai in debito con gli altri. Questo
non significava però che si comportasse in modo immorale o sconsiderato.
Anzi, era un gentiluomo modello quando si trattava di far del bene (non nel
senso che fosse un ficcanaso, ma perché faceva accadere cose buone). Si
prendeva cura delle persone in difficoltà, di chi aveva smarrito la strada, ma
di loro non parlava mai: i suoi amici lo scoprirono solo dopo la sua morte.
Anche l’attore Keith Allen, spirito libero e amante dei piaceri, è privo di sensi
di colpa: fa ciò che vuole, e quindi non ha mai patito il risentimento. Gavin e
Keith sono tutt’altro che irresponsabili: esemplificano anche un atteggiamento
di responsabilità radicale, nel loro rifiuto di sottomettersi al senso di colpa,
perché da un certo punto di vista il senso di colpa è una scappatoia. C’è qui
qualcosa di meravigliosamente eroico e liberatorio, nel rifiuto della colpa.
Come scriveva Hazlitt a proposito del grande libertino e poeta John Wilmot,
conte di Rochester, «il suo disprezzo per tutto ciò che gli altri rispettano sfiora
il sublime». Semplicemente, Wilmot rifiutava la saggezza convenzionale e la
realtà borghese.
Questo modo di vivere, liberi dai lacci della coscienza, ha una lunga
tradizione. Nell’antica Grecia e a Roma ne troviamo molti esempi, e poi c’è il
caso delle strane sette eretiche europee che si ribellavano contro i sensi di
colpa e la buona coscienza perché li vedevano come un mezzo di controllo e
non come impulsi innati. Era il caso, per esempio, dei Sufi, come ricorda
Norman Cohn nel suo I fanatici dell’Apocalisse (1957):

Intorno alla fine del XII secolo, in diverse città spagnole tra cui Siviglia, fu attiva la
fratellanza mistica dei Musulmani. Queste persone, allora conosciute con il nome di
Sufi, erano «santi mendicanti» che vagabondavano in gruppo per le strade e le piazze,
con gli abiti ricoperti di pezze multicolore. I novizi erano educati all’umiltà e
all’abnegazione: dovevano vestirsi di stracci, tenere gli occhi fissi a terra, mangiare
cibo rivoltante; ed erano tenuti all’obbedienza cieca nei riguardi dei capi. Ma una
volta terminato il periodo di noviziato, questi Sufi entravano in un regno di totale
libertà. Rifiutavano i libri e le sottigliezze teologiche, per godere invece di una
conoscenza diretta di Dio. Si sentivano legati all’essenza divina in un’unione intima. E
questo li liberava da ogni vincolo. Ogni impulso era vissuto come un comando divino;
ora potevano circondarsi di beni materiali, ora potevano vivere nel lusso – e potevano
mentire e rubare e fornicare senza scrupoli di coscienza. Perché dal momento che
l’anima era interamente pregna di Dio, gli atti esterni non avevano importanza.

Una splendida filosofia, che permette di abbracciare il piacere dei sensi pur
essendone liberi. Un approccio analogo, amorale e anarchico, era quello
adottato dal mistico amalriciano Enrico Suso di Colonia, che nel 1330
trascrisse una conversazione avuta una domenica pomeriggio con
un’immagine incorporea:
Suso: Da dove provieni?
Immagine: Da nessun luogo.
Suso: Dimmi, che cosa sei?
Immagine: Io non sono.
Suso: Cosa desideri?
Immagine: Non ho desideri.
Suso: Questo è un miracolo! Dimmi, qual è il tuo nome?
Immagine: Mi chiamano Furia senza nome.
Suso: Dove conduce la tua sapienza?
Immagine: Alla libertà sfrenata.
Suso: Dimmi, cosa intendi con libertà sfrenata?
Immagine: Quando un uomo dà sfogo a tutti i suoi capricci senza distinguere tra sé e
Dio, e senza guardare indietro né avanti.

In questo contesto, il senso di colpa può essere visto come una catena forgiata
dalla mente, perché tende a prevenire il comportamento capriccioso. La colpa,
dunque, è dalla parte dell’autorità anziché da quella della libertà. È il padrone
che risiede in noi. Sentirsi in colpa significa anche evitare il presente: significa
pentirsi di azioni passate per spronarsi ad agire meglio in futuro. Il governo
adduce la stessa ragione per la propria esistenza: se non ci fosse il governo, i
nostri cosiddetti impulsi naturali non troverebbero resistenza, e il mondo
precipiterebbe nell’anarchia, nei bagni di sangue e nei saccheggi. Quindi il
senso di colpa sarebbe una sorta di «governo della mente», come lo definisce
lo sceneggiatore Bruce Robinson.
La risposta? Abbassate le pretese! Rilassatevi! Divertitevi! Accettate il
disordine! Una delle eredità più pesanti del puritanesimo è il perfezionismo. I
cattolici, nonostante la corruzione e il lassismo morale, erano meno severi con
se stessi. Il puritano vuole adeguarsi a standard troppo alti, e poi si detesta
perché non arriva a raggiungerli. Ma se abbassate le pretese e siete meno
esigenti, darete a voi stessi meno occasioni di sentirvi in colpa. Più sono alti i
vostri standard morali, più è atroce il senso di colpa. Rimuovete gli standard
morali e diventerete liberi.

DI’ DI SÌ

* Campagna di sensibilizzazione contro la droga, promossa dal governo inglese, con lo


slogan «Just Say No», «Di’ semplicemente no». (N.d.T.)
Niente più faccende domestiche, o il potere della candela

Avere un servitore è altrettanto seccante che essere un servitore.


D.H. LAWRENCE, Education of the People (1918)

Pochi compiti si avvicinano al supplizio di Sisifo più di quello della


massaia; giorno per giorno bisogna lavare i piatti, spolverare i mobili,
rammendare la biancheria, tutte cose che domani saranno di nuovo
sporche, polverose, rotte.
SIMONE DE BEAUVOIR, Il secondo sesso (1949)

Un certo grado di avversione per i lavori domestici – pulire, lavare i piatti,


fare il bucato, passare lo straccio, rifare i letti – sembra essere un tratto innato
dell’essere umano, e certamente dei più pigri tra noi. Nei primi secoli del
Medioevo, quando il lavoro manuale era disprezzato, questo pregiudizio era
altrettanto forte: Tommaso d’Aquino, per esempio, colloca i lavapiatti al
fondo della scala sociale, perché il loro lavoro li mette in contatto con la
sporcizia. Greci e romani delegavano questa fatica ingrata agli schiavi. George
Orwell, in Senza un soldo a Parigi e Londra, definisce i plongeurs come la
feccia della società, al gradino più basso della gerarchia delle cucine di Parigi,
molto al di sotto dei camerieri e dei cuochi, relativamente aristocratici. E se
fate l’errore di cercare un impiego nel più vicino ufficio di collocamento,
l’unico posto sempre disponibile, ma che nessuno vuole mai, è quello di
assistente di cucina.
Nel sistema capitalistico, il modo convenzionale per affrontare il problema
delle faccende domestiche è: cercare di guadagnare abbastanza per pagare
qualcun altro perché faccia quelle faccende per noi. I soldi ci libereranno dalla
fatica. La tipica famiglia vittoriana di classe media aveva un esercito di
camerieri, e anche il più misero dei vicari di campagna aveva una perpetua. La
saggia moglie vittoriana divenne un ornamento ciondolante, svenevole,
inutile, ingessato, cui non era permesso lavorare. In questo era molto diversa
dall’attiva moglie di età georgiana.
Una possibile soluzione, promossa dalle società meccanizzate, è quella di
comprare macchinari che lavorino per noi. Le lavastoviglie e le lavatrici sono
ormai parte integrante di ogni casa. Ma una lavastoviglie alleggerisce davvero
la nostra mole di lavoro, oppure ci alleggerisce soltanto il portafogli, con
l’astuta promessa di «semplificarci la vita»? Due anni fa ne abbiamo comprata
una, e all’inizio sembrava un dono degli dèi, più che l’equivalente di un aiuto
umano. Che meraviglia, questo nuovo mondo tecnologico! Infili là dentro
piatti e posate, e un’ora dopo li ritrovi puliti! Be’, in teoria almeno. La realtà è
un po’ diversa. A meno di pulirla tutti i giorni, e di tenere sempre sotto
controllo il livello del sale e del brillantante e chissà cos’altro, un bel giorno
smette di funzionare, e anzi restituisce piatti su cui lo sporco si è incrostato, e
che devono passare nuovamente sotto il rubinetto. Le lavastoviglie non
lavano i pezzi difficili, come le pentole ricoperte di porridge o i vassoi da
forno unti di grasso. Quelli dovete lavarveli da soli. E poi ci sono le questioni
ecologiche: quanta acqua, quanto sapone e quanta elettricità state sprecando
per farvi lavare le pentole da quel congegno? Consideriamo anche lo sforzo
enorme che usare una lavastoviglie comporta: bisogna sciacquare i piatti,
sistemarli nella macchina, comprare le pastiglie e le polverine necessarie, e poi
– orrore! – svuotarla. Si finisce per comprare ogni stoviglia in triplice copia,
perché quella che ci serve è sempre nella lavastoviglie. Lavate i piatti a mano e
avrete risolto tutti questi problemi.
Come vedremo in seguito, le macchine non fanno che incrementare la
solitudine e l’isolamento che affliggono la vita moderna. La moglie è a casa da
sola con il bucato, mentre il marito fa baldoria al pub con colleghi e amici. Ha
lavorato per comprare alla moglie quelle macchine che le semplificassero la
vita, e sembra scortese che lei si lamenti. Ma qualcosa non torna. Questo
pensiero mi è venuto in mente durante un viaggio in Messico. Ogni settimana,
vicino alla nostra casa, gruppi di donne portavano il bucato al fiume e
passavano un paio d’ore a lavare i panni insieme, mentre i bambini giocavano
con dei canotti di gomma. Questa scena mi ha colpito: mi è parso un modo
molto più piacevole per fare il bucato, piuttosto che premere il pulsante di una
macchina, gettare chili di panni umidi in ceste e da lì in altre macchine, il tutto
in solitudine. Il lavoro noioso è sempre meno noioso quando è condiviso con
altri. L’altro giorno eravamo nel seminterrato della redazione dell’«Idler», e
abbiamo trascorso cinque ore a spedire le copie ai lettori abbonati. Abbiamo
riempito buste, leccato francobolli, portato sacchi pieni di lettere all’ufficio
postale. Poiché eravamo in quattro a fare questo lavoro, abbiamo passato
l’intero pomeriggio a chiacchierare in allegria. E abbiamo fatto relativamente
in fretta ciò che dovevamo fare. In passato, pagavamo un povero tizio perché
facesse questo lavoro per noi. Costui impiegava tre giorni interi, da solo, e noi
dovevamo pagarlo. In questo modo invece il lavoro è stato svolto più in
fretta, spendendo meno e divertendosi molto di più. L’unica barriera che si
oppone a questo modo di lavorare siamo noi stessi: in quanto direttore della
rivista, mi ritenevo superiore a compiti umili come quello di affrancare buste.
Volevo quindi delegarli ai miei sottoposti. Ora ho deciso di considerarli
divertenti.
C’è gioia nel lavoro umile. Se cercate l’illuminazione, allora tagliate la
legna, portate l’acqua, come dicevano i vecchi saggi cinesi.
È meglio fare le cose da sé. D.H. Lawrence, nel suo saggio Education of the
People, usa un argomento molto valido per dissuadere dall’assumere
personale di servizio chi vuol essere libero. Per Lawrence, liberarsi dalla
servitù significa liberarsi dalla schiavitù. Quando Coleridge sognava una
comunità di poeti «sulle rive del Susquehanna», scrisse a Robert Southey:
«Non avremo servi!». Niente servi vuol dire più libertà, non meno. Troviamo
in Lawrence la stessa qualità infantile e sognatrice:
Un uomo che dipende dai suoi servi non è libero. L’uomo non può mai essere
completamente libero. In realtà non vuole esserlo. Ma nella sua vita personale,
immediata, può essere molto più libero di quanto lo sia ora. Come? Facendo cose per
se stesso. Una volta risvegliato il nostro orgoglio personale, proviamo piacere
nell’essere al servizio di noi stessi, nel pulire la nostra stanza, rifarci il letto, lavare i
piatti – o in proporzione: come fa il soldato. Abbiamo un’idea errata di noi stessi. Ci
percepiamo come esseri idealizzati. Per il resto siamo creature fisiche animate la cui
vita consiste di movimento e azione. Abbiamo due piedi, di cui dobbiamo prenderci
cura e che necessitano di calze e scarpe. Questo è un problema nostro, e spetta a noi
preoccuparcene. Alle mie calze e alle mie scarpe ci penso io, perché sono mie, sono
private.

Ciascuno di noi dovrebbe sviluppare il maggior numero possibile di abilità.


Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino dovrebbe saper cucinare, pulire e
cambiare una presa di corrente. Rischiamo di trasformarci tutti in
videogiocatori senza alcuna utilità pratica. La libertà risiede
nell’autosufficienza, dice Lawrence:
La dipendenza da se stessi è indipendenza. Per essere liberi bisogna essere
autosufficienti, soprattutto nelle questioni piccole, materiali, personali. Nelle grandi
questioni dell’amore, dell’amicizia, dei rapporti umani si incontrano altri individui
liberi; non c’è servizio. Il servizio è degradante, sia per il servitore che per il
servito: è promiscuo, è una sorta di prostituzione. Nessuno dovrebbe fare per me ciò
che posso ragionevolmente fare da solo.
Una volta che abbiamo congedato il nostro esercito di servitori, sorge il
problema di come svolgere le faccende domestiche in modo tale da non
sentirci oppressi da noi stessi. Tendiamo a interiorizzare il ruolo di servo. Ci
spacchiamo in due: il servo vittoriano frustrato e il padrone vittoriano
sfruttatore. Il padrone che è dentro di noi dice al servo: «Forza, ragazzo, lava i
piatti! Tirati su i calzini! Metti in ordine il tuo studio!». E il servo reagisce con
risentimento e controvoglia, se non con sedizione esplicita. Tutti sappiamo
com’è liberatorio dire a noi stessi: «Ma chi se ne importa, i piatti li laverò
domattina». Oggi schiavizziamo noi stessi in base alla memoria collettiva di
aver più o meno schiavizzato gli altri perché lavorassero per noi. O peggio,
schiavizziamo il nostro partner. Le relazioni possono facilmente tramutarsi in
battaglie, in cui uno dei due cerca di dare ordini all’altro. La moglie
pretenderà che il marito l’aiuti in casa; e quando lui comincia a farlo, inizierà a
sentirsi in diritto di dire a sua moglie cosa deve fare. E qui cominciano i guai.
L’unica risposta, dunque, e non è una cosa facile, è imparare a divertirsi
lavando i piatti. Nelle parole di Lawrence:
L’atto stesso di fare cose è una gioia in sé. Lavando i piatti, avverto il tocco leggero
della porcellana e della terracotta, ne sento il peso, le movenze, il portamento, il
calore peculiare, il liscio e il ruvido della superficie. Mi trovo al centro di un
sistema infinitamente complesso di movimenti, aggiustamenti e contatti rapidi e
nervosi. I miei nervi riacquistano agilità e prontezza, la coscienza primaria si
risveglia in me. Al di là della soddisfazione morale o pratica che deriva dall’aver
fatto una buona cosa, c’è la soddisfazione pura che risulta dal lavoro manuale
ripetitivo e dalla reazione della coscienza primaria. Per potermi definire un essere
umano sano e appagato, devo trascorrere gran parte della mia vita in questi
movimenti ripetitivi, in questa frenetica attività nella quale non sono comprato né
venduto, ma agisco da solo e libero a partire dal centro del mio stesso isolamento
attivo. Ma non consciamente. Non osservo le mie reazioni. Se lavo i piatti, li lavo
perché siano puliti. Nient’altro.

Rendiamo divina la fatica, come diceva George Herbert. Ciò che ci serve è
poesia nel lavoro domestico, una forma nuova, la «pastorale domestica»,
qualcosa che dia valore alle faccende quotidiane. Abbiamo bisogno di canzoni
rock che ne esaltino le virtù: Do the Dirty Dish [Lava i piatti sporchi] dei
Cramps, oppure I’ve just found the Soch I was looking for [Ho appena
trovato il calzino che stavo cercando] degli U2. Lanciamo la moda del lavare
i piatti. Con il mio amico Nick Lezard sto progettando un articolo sugli stili di
vita. Abbiamo inventato una nuova categoria demografica, i «Dobo», che sta
per Domesticated Bohemian, ossia «bohémien pantofolaio». Il Dobo ha avuto
una vita movimentata, ma ora si è fatto una famiglia. A volte però si
abbandona a una notte di edonismo. La sua natura selvaggia è ancora nascosta
in lui (o lei). Di qui il bisogno di una letteratura specifica che celebri la vita di
casa.
Un curioso paradosso è che, per quanto possa sembrare strano, è possibile
trovare la felicità nel servizio: cioè nell’aiutare il prossimo. Chi è più libero,
l’uomo con un milione di sterline e tre persone al suo servizio, o il suo
servitore? Wooster o Jeeves?* Gandhi perseguiva l’ideale del servizio alla
comunità, ma in diverse fasi della sua vita si avvalse dell’aiuto della servitù.
Sembra che ad alcune persone piaccia fare i servitori. George Harrison ha
detto una volta che Mal Evans, il collaboratore che seguiva i Beatles nelle
tournée, incarnava l’ideale orientale della libertà attraverso il servizio. Trovava
se stesso nell’aiuto che dava agli altri.
Se a tutti noi insegnassero a prenderci cura di noi stessi, sosteneva
Lawrence, potremmo disporre di una cultura più variegata. Ciascuno potrebbe
lavorare, vestirsi, mangiare e dormire nel modo che più gli si addice, anziché
nel modo che torna comodo al modello di regolarità industriale: «Oh, se solo
la gente potesse imparare a fare ciò che vuole e ad avere ciò che gli piace,
invece di aspirare scioccamente a fare ciò che piace a tutti e ad avere l’aspetto
che tutti vorrebbero avere». Dobbiamo rifiutare l’uniformità puritana. Cucite
cuori sulle vostre maniche, legate nastri alle vostre caviglie!
Amate voi stessi e inizierete a comportarvi con originalità, vale a dire con
autenticità e con uno stile personale. Se avete un giardino tutto vostro, per
esempio, potete coltivare le piante che volete. Allora perché ci copiamo tutti a
vicenda, e perché tutti i giardini di periferia sono identici? Ecco cosa scrive la
formidabile Violet Purton Biddle nel suo Small Gardens and How to Make
the Most of Them [I piccoli giardini, e come trarne il meglio] del 1911.
Sostituite «giardiniere dilettante» con «essere umano» e «giardino» con «vita»,
e le parole della signora Biddle vi sembreranno sagge:

«Siate originali!» è un motto che ogni giardiniere dilettante dovrebbe fare suo. La
maggior parte delle persone che hanno un giardino fanno ben pochi esperimenti.
Procedono lungo strade già battute, senza riflettere sulle straordinarie opportunità che
perdono. Ogni giardino, per quanto piccolo, dovrebbe possedere una sua individualità:
qualche caratteristica che lo salvi dalla banalità.

Come in giardino, anche nella vita in senso lato noi tutti abbiamo paura di
sperimentare. Ma la parola «esperimento» è molto utile. Invece di fare una
cosa sul serio, diciamo che stiamo «sperimentando». «I Beatles erano
drogati?» chiedevo ai miei genitori da ragazzino. «Be’» rispondevano loro
«sperimentavano le droghe.» Ma al di là della valenza eufemistica di questa
parola, è divertente trasformare le nostre vite in una serie di esperimenti. Se
l’esperimento fallisce, non importa: se ne fa un altro. Quando ci siamo
trasferiti in campagna, avevamo intenzione di fermarci solo per qualche mese.
Era un «esperimento». Ora che siamo qui da quattro anni, stiamo ancora
«sperimentando». In un mondo nel quale ci si chiede in continuazione di
«prendere un impegno», è liberatorio concedersi un po’ di dilettantismo. Non
prendetevi impegni. Provate tutto.
Nel giardinaggio, come nelle faccende domestiche, la cosa migliore è fare il
più possibile da soli. Per noi è facile, perché abbiamo un giardino piccolo,
eppure anche quello a volte ci sembra un peso. Ma imparare a conoscere i
fiori, le piante, il terriccio, e prendersene cura, piantarli, mangiarli: la vita
offre ben poche attività così piacevoli, utili e gratificanti. Quando ero giovane
non avvertivo il fascino del giardinaggio, dal momento che mi interessavo
soltanto all’alcol. Ora però capisco che tutti quei gentiluomini di mezza età e
quelle signore anziane si divertivano davvero quando lavoravano in giardino,
mentre io li ritenevo persone noiose. La mia vita è migliorata enormemente,
perché ora mi interesso di giardinaggio e di alcol: due piaceri, dove prima ce
n’era uno solo. E i due si sposano molto bene: non c’è niente come una bella
birra dopo due ore con la vanga in mano, e non c’è niente come due ore
passate a zappare dopo una nottata di stravizi. Fa meraviglie per i postumi
della sbornia. Anzi, un lettore dell’«Idler» ci ha scritto che beve apposta più
del dovuto, solo per il piacere di farsi passare il mal di testa estirpando
erbacce la mattina dopo.
Il modello di vita borghese, che prescrive di assumere degli «aiuti», come
sono eufemisticamente chiamati i servitori, è un modello difettoso. Quello che
vi serve non è aiuto pagato, ma aiuto non pagato. Nel 1900, quindici persone
vivevano nella fattoria isolata in cui vivo io ora. La coppia aveva dieci
bambini, e c’erano «uomini della casa» che mangiavano e vivevano con la
famiglia finché non si sposavano. È evidente che in molte case del Settecento
i servi erano trattati bene e il rispetto era reciproco. Il dottor Samuel Johnson,
per esempio, nella sua casa di Gough Court, aveva cinque o sei servitori
residenti. Il suo «servo» Francis Barber, di cui è ancora oggi appeso in casa
Johnson un ritratto eseguito da Joshua Reynolds, fuggì per mare, e Johnson
pagò perché fosse affrancato. Spesso i servi ereditavano una rendita annuale
alla morte dei loro padroni. William Cobbett parla della perdita dell’antico
rispetto tra padrone e servo; in Rural Rides scrive che ci si prendeva cura dei
braccianti e che tutti, padroni e servi, mangiavano assieme, seduti allo stesso
tavolo. La nozione vittoriana di «stanze per la servitù», le scale di servizio, la
segregazione tra il piano di sopra e il piano di sotto, non erano ancora state
inventate. Addirittura, nei tempi antichi, gli schiavi erano spesso parte della
famiglia; e naturalmente avevano la possibilità di diventare uomini liberi.
Prima dello scoppio della Grande guerra, nella tenuta di St Germans in
Cornovaglia vivevano 128 persone, che da quella terra traevano il
sostentamento. Ora ce ne sono due o tre. Le residenze più sontuose erano
gestite come una sorta di comune, in cui tutti i membri si dividevano il lavoro
e i frutti.
Forse non possiamo più tornare indietro a quel genere di rapporto tra servi
e padroni. È anzi meglio toglierci dalla mente quel dualismo rigido. Aiuto
senza gerarchia: questo dovrebbe essere lo scopo. E aiutarsi l’un l’altro. Non
c’è dubbio che essere in tanti alleggerisca il carico di lavoro. Quando
facciamo i grandi pranzi domenicali, ciascuno dà una mano a preparare il
cibo, oppure porta un’insalata, o il pane. Ognuno dà un contributo al servizio
in tavola e al lavaggio dei piatti. Cerchiamo anche di invitare spesso gli amici
a fermarsi qui, perché quando si è in tanti in casa, si fatica meno. Anzi, in
queste circostanze il lavoro può essere molto piacevole. Diventa divertente,
quando puoi chiacchierare mentre lavori.
Un problema del lavoro domestico è che la televisione, promotrice di
perfezione inattingibile, ci presenta uno standard assoluto; mentre le
condizioni in cui si trovano le nostre case dovrebbero essere materia di
giudizio individuale. Io stesso ammetto di aver tentato di adeguarmi a qualche
«standard» di pulizia assoluto e assurdo, che certamente non può esistere, per
quante volte mia madre possa ripetermi che invece esiste eccome. Mi dico che
è perché non sopporto il caos, perché mi sembra che il caos crei più lavoro.
Se tutti ripulissimo una cosa per volta dopo averla usata, avremmo molto più
tempo libero. Una risposta possibile sarebbe, naturalmente, un abbassamento
generale degli standard; o piuttosto, eliminare la nozione stessa di standard (e
qui mia madre non sarebbe d’accordo). Di recente, nel Regno Unito, abbiamo
dovuto patire l’obbrobrio di un programma televisivo (con relativi libri)
intitolato Quanto è pulita la tua casa? Due matriarche fasciste girano per il
Paese istillando nella gente atroci sensi di colpa per indurla a pulire.
Come in molte aree della vita, anche in questo caso sono convinto che i
vittoriani siano la radice dei nostri mali di oggi. Fu in quell’epoca buia e
razionale che prese forma l’equiparazione tra pulizia e moralità. Le persone
buone hanno case pulite, le persone cattive vivono nella sporcizia. Ma non c’è
nulla di moralmente buono nella pulizia e nulla di immorale nel suo opposto.
Anzi, abbiamo l’esempio dei «santi sporchi», che consideravano le abluzioni
una forma di vanità; e a quanto ne so i Cavalieri Templari non si cambiavano
mai le mutande, per analoghi motivi spirituali. Oggi, peraltro, si è giunti a
considerare controproducente da un punto di vista ecologico l’eccesso di
ordine negli ambienti naturali. Nel giardinaggio organico e nella Permacultura,
il giardiniere è incoraggiato a lasciare incolte alcune zone, per creare l’habitat
giusto per la fauna selvatica, e perché la natura faccia il suo corso. Nella sua
History of the Countryside [Storia della campagna], lo studioso Oliver
Rackham deplora ciò che lui definisce «la mano vandalica dell’ordine»:
quell’istinto provinciale di mettere tutto in ordine. «Ogni anno» scrive, questo
irrefrenabile desiderio di pulizia «distrugge un po’ di bellezza o di significato.»
Descrive il processo di messa in ordine come «la serie di piccoli atti vandalici
inconsci che odiano ciò che è intricato e imprevedibile, ma non creano nulla».
Rackham ama piuttosto le vecchie siepi troppo cresciute. Nel libro parla della
Legge di Hooper, secondo cui si può stabilire l’età di una siepe moltiplicando
per cento il numero di specie diverse presenti in un’area di trenta iarde.
Dunque, per esempio: la caotica e gloriosa siepe del mio orto contiene pruno
selvatico, sambuco, biancospino e agrifoglio, dunque risale circa al 1600.
L’ossessione per il bianco non aiuta. Perché, mi domando, i vestiti per
bambini sono così bianchi? Alla prima macchiolina li mettiamo in lavatrice.
L’idea che tutto debba essere candido genera un bel po’ di fatica inutile. Non
sarebbe meglio usare stoffa marrone, che assorba o addirittura nasconda lo
sporco? Anche i mobili da cucina bianchi hanno bisogno di essere puliti in
continuazione, mentre il legno assorbe le macchie e nasconde i segni. Il legno
scuro è molto più semplice da mantenere pulito rispetto alla plastica bianca.
Pulisco raramente la nostra credenza in legno di pino, mentre la nostra cucina
Ikea sembra avere costantemente bisogno di uno strofinaccio. Il legno assorbe
lo sporco, ma lo sporco resta sulla plastica bianca finché non vi decidete a
fare qualcosa. Anche le lenzuola devono essere immacolate. È come se
fingessimo di vivere in una dimora vittoriana con nove servitori, ma facendo
da soli tutto il lavoro. Non c’è da stupirsi che ogni donna e molti uomini siano
perennemente sfiniti dalle faccende domestiche. Tutto questo bisogno di
pulire genera quantità immani di lavoro, e si porta via del tempo che potrebbe
essere impiegato in modo più fruttuoso, per guardare fuori dalla finestra o per
estirpare le erbacce tra i cavoli.
L’epoca vittoriana è responsabile anche dell’invenzione delle temibili
lampadine, che spargono la loro luce severa e impietosa sul nostro disordine e
sulla nostra sporcizia. Come dovevano essere diverse le cose in età georgiana,
quando c’erano le candele. Lo sporco non si vedeva, e quindi c’era meno da
pulire. Gli abiti bianchi non erano così diffusi: ergo, meno bucato. Quella
delle lenzuola profumate di lavanda e fresche di bucato ogni giorno è
un’invenzione vittoriana, che serviva a esibire la propria ricchezza attraverso il
numero di persone di servizio adibite al lavaggio della biancheria. Lo stesso
vale per gli enormi prati rasati: queste aree verdi, piatte e aride non esistevano
prima del Settecento, così come non esistevano i campi da tennis e da croquet.
Tutto era un po’ più selvaggio, e questo significava meno fatica. Le case erano
più profumate, perché si usava la lavanda al posto della candeggina.
A pensarci bene, il problema della pulizia può essere ricondotto a un
problema di luce. Se volete una casa più pulita, basta che spegniate le luci e
accendiate una candela. La luce elettrica è il vero nemico. Dobbiamo opporci
al faro freddo e violento del razionalismo edisoniano, e abbracciare invece la
luce calda, tremolante, aggraziata, indulgente e irrazionale della candela. A
lume di candela, non c’è bisogno di tenere tutto pulito, perché lo sporco non
si vede. L’idea che tutti dobbiamo aderire a uno standard condiviso è
tirannica. Fatevi degli standard personali. Fate ciò che volete. Prendetevi cura
di voi stessi. Di questo problema bisogna parlare in termini diversi. Il mio
consiglio è: smettiamola di chiamarle «faccende domestiche» e diciamo
piuttosto «cura della casa». Vuol dire che ci prendiamo cura della nostra casa
perché vogliamo farlo, anziché lavorare per puro senso del dovere nei
confronti di un’autorità astratta che ci punta il dito contro. Vi lascio con un
proverbio dell’«Idler»: invece di lamentarti del disordine, accendi una candela
e non lo vedrai più.

ACCENDI UNA CANDELA

* Bertram Wooster e il suo valletto Jeeves sono personaggi di una celebre serie di racconti
di P.G. Wodehouse. Nel mondo anglosassone, «Jeeves» è diventato il maggiordomo per
antonomasia. (N.d.T.)
Bando alla solitudine

La società ha diviso l’uomo


dall’uomo, dimentica del cuore universale.
WORDSWORTH, Il preludio (1850)

Una delle conseguenze peggiori della Riforma e della rivoluzione protestante


fu l’introduzione su vasta scala della solitudine. La vecchia teologia cattolica
medievale promuoveva un approccio collettivo alla vita. Prendevano in senso
letterale l’affermazione per cui «Dio è gli altri»; eravamo tutti insieme, tutti
sulla stessa barca. Se le cose che fai vanno a beneficio dell’intera società, vuol
dire che stai lavorando per Dio e per la tua salvezza. Di qui l’enfasi sulla carità
e sull’ospitalità. Come nelle società primitive, anche allora era considerato
disdicevole negare aiuto a un vagabondo affamato che bussava alla porta.
Monaci e suore, come abbiamo visto, aprivano «ospizi» per aiutare i poveri
con birra, pane e un posto per dormire. I medievali, come gli antichi poeti,
agognavano la lontana età dell’oro in cui, come scriveva Gneo Pompeo
Trogo, «nessuno era schiavo e nessuno aveva proprietà privata; tutto era
messo in comune e senza divisione, come se ci fosse stata un’unica eredità per
tutti gli uomini». Nel Medioevo si tentò quindi di ricreare quel senso di
comunitarietà. Era l’epoca dell’«ama il tuo prossimo» e della «fratellanza tra
gli uomini». Idee che oggi appaiono rivoluzionarie. Il mito moderno del buon
senso, «in questo mondo ciascuno è solo», era sconosciuto. Ma oggi, «ama il
tuo prossimo» è stato rimpiazzato da «abbi un giardino più bello di quello dei
vicini»; alla fratellanza si è sostituita la cupidigia.
Gli edifici medievali erano il risultato di un vasto sforzo creativo collettivo,
coordinato dalle varie corporazioni di mestiere. «Un monumento del Medio
Evo non appariva mai uno sforzo saltuario, dove migliaia di schiavi
avrebbero eseguito la parte assegnata a essi dalla immaginazione di un solo
uomo – tutta la città vi ha contribuito» scrive Kropotkin, che cita le parole del
Consiglio comunale di Firenze: «Nessuna opera deve essere intrapresa dal
comune se non è concepita secondo il gran cuore del comune, composto dai
cuori di tutti i cittadini, uniti in una comune volontà».
Ancora oggi, nei Paesi meno sviluppati, vediamo la gente muoversi in
grandi gruppi, e non da soli come facciamo noi nelle metropolitane e sugli
autobus. In Messico, per esempio, si vedono passare camion con venti
persone a bordo. I ragazzini giocano in grandi bande di strada. Intere famiglie
siedono fuori dai loro negozi per tutto il giorno. Anche nei supermercati –
quelle orribili istituzioni che fanno dello shopping un’esperienza così solitaria
– i messicani si fermano a chiacchierare, ridere e spettegolare. Nelle società
cattoliche di vecchio stampo possiamo intravedere quella che doveva essere la
vita nell’Inghilterra medievale.
Un nuovo approccio alla vita emerse nel Seicento, quando Calvino e altri
sostennero che ogni uomo è impegnato in un lungo e solitario cammino verso
la salvezza. Il testo principale che crea, o riflette, questa nuova solitudine
britannica è il bestseller di John Bunyan Il viaggio del pellegrino (1678-84).
Bunyan visse dal 1628 al 1688 e restò in prigione per dodici anni, accusato di
predicare senza licenza. Nel Viaggio del pellegrino, probabilmente il più letto
dei testi puritani, Christian abbandona la sua famiglia per ricercare la salvezza,
urlando: «La vita, la vita eterna!…». Ricordo di aver guardato con orrore le
illustrazioni della copia che avevamo in casa: Christian piegato in due, con
quel fardello orrendo e terribile sulla schiena. Un viaggio metodico e risoluto
attraverso la vita, una lotta solitaria. Questo approccio è rispecchiato dalla
concezione borghese di lavoro e guadagno. Boswell racconta che Samuel
Johnson riteneva il Viaggio del pellegrino un grande lavoro di
immaginazione, e poteva anche essere vero: ma doveva per forza essere così
deprimente? Certamente, a esprimere approvazione per il libro era il lato
penitenziale del carattere di Johnson, non quello medievale e amante del
piacere.
Paragonate il tetro Viaggio del pellegrino con lo spigliato (benché, lo
ammetto, molto pio) poema Piero l’aratore, che nel Trecento descriveva «un
bel prato […] pieno di gente – d’uomini d’ogni tipo». Paragonatelo anche con
i Racconti di Canterbury di Chaucer. Qui, il pellegrinaggio non è
un’arrampicata solitaria come in Bunyan, ma è intrapreso come un evento
sociale. Credo che i protestanti sospettassero che qualcuno potesse trovare
divertenti i pellegrinaggi, e per questo motivo li proibirono. I pellegrini
camminano insieme in un grande gruppo, si raccontano storie, si mescolano
incuranti delle classi sociali. Manca in Chaucer la devozione cupa di Bunyan. I
Racconti di Canterbury sono una celebrazione della vita, con tutto il suo caos.
L’idea che la vita sia una lotta solitaria, addirittura paranoica, fu promossa
anche da altri pensatori protestanti, come Baxter e Bailey, come ci ricorda Max
Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo. Per Calvino la
salvezza dell’anima non passava attraverso una successione di atti creativi e
caritatevoli, come insegnavano i medievali, ma richiedeva una relazione
diretta e personale con Dio:
Il calvinista […] crea egli stesso la propria beatitudine (ma si dovrebbe dire, più
correttamente: la certezza di essa); però, diversamente dal cattolicesimo, questa
creazione non può consistere in un graduale immagazzinamento di singole opere
meritorie, bensì in un autocontrollo sistematico, che in ogni momento si trova di
fronte all’alternativa: «Eletto o dannato?».
Profonda diffidenza anche verso l’amico più intimo consiglia persino il mite Baxter, e
Bailey raccomanda direttamente di non fidarsi di nessuno e di non far sapere nulla di
compromettente a nessuno: Dio deve essere l’unico confidente.

Nella Storia della riforma protestante di Cobbett ci sono osservazioni molto


interessanti sui «tempi antichi». Naturalmente, la distruzione dei monasteri e
dei conventi significò distruggere un’istanza molto evidente di vita
comunitaria. I monaci vivevano, lavoravano, mangiavano e pregavano
insieme, e la loro vita era organizzata attorno a princìpi volontari, per cui
l’aiuto reciproco era più importante del guadagno. I monaci non erano certo
tutti isolazionisti solitari. Vivevano a fianco dei laici – anzi, erano il clero
laico, e spesso erano i proprietari delle terre che i laici lavoravano.
Wordsworth lamenta nel Preludio il nuovo isolamento, la separazione tra
uomo e uomo. L’improvviso interesse dei poeti romantici per la natura e per
l’uomo giunge in un momento storico nel quale l’antico stile di vita stava
cedendo il passo allo spirito individualista della Rivoluzione industriale. Nelle
città di oggi, ci barrichiamo in appartamenti isolati e ci combattiamo l’un
l’altro in spazi ristretti. «Ed eccoci di ritorno nei nostri piccoli, solitari
appartamenti egoisti» disse il mio amico Marcel una domenica sera, mentre
tornavamo verso Londra dopo un weekend trascorso insieme in un cottage in
affitto. È banale dirlo, ma molti di noi non conoscono più i propri vicini di
casa. Un tempo i vicini erano «il prossimo» che bisognava amare, oggi sono
diventati «i vicini rompiscatole». È per questo che mi piace l’idea delle grandi
migrazioni. Quando passeggio per il quartiere di Uxbridge, a Londra, vedo
somali, indiani e caraibici che parlano e camminano insieme. Fuori dai loro
negozi, alle loro bancarelle al mercato. Ma la maggior parte della classe media
bianca si affretta in solitudine verso la sicurezza delle proprie villette dotate di
allarme antifurto. Abbiamo perso quell’approccio cameratistico alla vita, e
siamo fortunati perché altre culture si sono trasferite nelle nostre città e ci
mettono sotto il naso un modo più umano e piacevole di vivere. La vita è più
facile se la condividiamo con altre persone. Gli ospiti sono una splendida
cosa: ci intrattengono, ci portano vino e formaggio; ci portano i loro bambini
per farli giocare con i nostri bambini. Parliamo dei nostri problemi; le donne
si lamentano degli uomini, gli uomini delle donne. I fardelli sono meno
pesanti se li si porta in compagnia.
È il rifiuto puritano della gioia che ci conduce a esagerare e poi a punirci
con il senso di colpa e l’astinenza. Le ragioni storiche di questa rottura sono
chiare. Quindi, non solo la società ha separato l’uomo dall’uomo, come scrive
Wordsworth: ha anche creato uno strappo all’interno di ciascun uomo. Siamo
radicalmente soli, perché siamo soli in noi stessi. Lasciamo fuori noi stessi. Se
questo antagonismo interno e tutta l’energia che spreca potessero essere
trasformati in gioiosa armonia, allora potremmo fare tutto ciò che vogliamo.
Vediamo infuriare una battaglia tra il nuovo desiderio di ordine, disciplina e
sobrietà, da un lato, e dall’altro l’antica accettazione del fato e del buon
vivere, che Shakespeare rappresenta nella sua Dodicesima notte nella forma
della battaglia tra il pio puritano Malvolio e il fautore del «mangia, bevi e sii
felice» Sir Toby Belch. E Max Weber dice che questa battaglia è centrale se
vogliamo comprendere gli inglesi:

Tutta la società inglese a partire dal secolo XVII è solcata dalla scissione tra la
«squirearchia», esponente della «lieta vecchia Inghilterra» e i circoli puritani, col loro
potere sociale molto variabile. Ancora oggi nell’immagine del «carattere nazionale»
inglese coesistono i due tratti: un gusto della vita ingenuo e imperturbabile, e un
dominio di sé severamente controllato, che si esprime in un grande riserbo, ed è legato
a un’etica convenzionale.

Sì, i due fattori sono combinati; competono dentro di noi. Ma certamente il


filone puritano è dominante da molto tempo a questa parte. Adesso è tempo di
vivere con le altre persone, mangiare con le altre persone, bere con le altre
persone. Siamo creature socievoli e rinneghiamo questa socievolezza a nostro
rischio e pericolo. I drammi della vita, molto semplicemente, sono più facili
da sopportare se li sopportiamo in gruppo. È per questo che i medievali
hanno inventato il sistema delle corporazioni, è per questo che vivevano in
grandi famiglie allargate. Credo che in alcune aziende moderne ci sia una
specie di memoria storica di questo bisogno dell’altro, e infatti queste aziende
provano a incoraggiare la «fedeltà al marchio» e organizzano gite sociali per
«sviluppare lo spirito di squadra» dei loro dipendenti. Ma entro queste
strutture rigide non c’è vera libertà.
Ancora oggi, la nostra innata socievolezza è messa sotto tiro. Ho appena
partecipato a un programma radiofonico sul tema della crociata del governo
contro il fumo. Dopo aver bandito i fumatori dai luoghi di lavoro, ora si sono
accorti che i colleghi non fumatori sono frustrati perché i fumatori sono
sempre sul balcone a fare le loro pause-sigaretta. Dicono che i fumatori
lavorano meno di loro. Ecco che i lavoratori si mettono uno contro l’altro:
siamo incoraggiati a competere tra di noi anziché lavorare insieme.
Bene: il modo migliore per sfuggire a questa trappola è di sviluppare spirito
comunitario. Così uccideremo la solitudine. Vicini, amici, che lavorano per
piacere. Organizzate feste. Fondate dei club. Ho scoperto che uno scopo
comune, per quanto piccolo, dà una nuova dimensione di piacere a una
bevuta al pub. Significa che il pub è qualcosa in più di una fuga dal lavoro.
Ecco perché cerco di organizzare riunioni alle cinque del pomeriggio al pub.
Così le riunioni si fanno piacevoli e sfociano con naturalezza nel divertimento
informale della serata.
La socievolezza, la gioia, la buona compagnia: ecco i rimedi contro la
solitudine, che aiutano a unire il sé spezzato.

SPALANCA LE TUE PORTE


Non sottometterti più alle macchine, usa le mani

Non è sicuro che tutte le macchine inventate finora abbiano


effettivamente alleggerito il carico di lavoro giornaliero degli uomini
[…] [le macchine] hanno permesso a una fascia più ampia della
popolazione di vivere la stessa vita di schiavitù e prigionia, e a un
ristretto numero di manifattori e altri di far fortuna.
JOHN STUART MILL, Princìpi di economia politica (1848)

[…] nella stessa misura in cui crescono l’uso delle macchine e la


divisione del lavoro, cresce anche la quantità del lavoro, sia per
l’aumento delle ore lavorative sia per l’aumento del lavoro richiesto in
una certa unità di tempo, per l’accresciuta celerità delle macchine ecc.
MARX E ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848)

Noi lavoriamo, voi vi divertite.


Slogan pubblicitario per una lavatrice (2005)

La fede nella macchina come redentrice e come una specie di schiavo


automatizzato ha generato la grande delusione del progetto industriale.
L’utopia tecnologica tanto reclamizzata, per cui i robot fanno tutto il lavoro
mentre noi leggiamo libri di filosofia, beviamo buon vino e facciamo sesso,
non si è mai avverata. Alcuni dei nostri intellettuali più radicali e anarchici
hanno sognato un paradiso tecnologico, in cui le macchine avrebbero fatto
tutto il lavoro. Oscar Wilde, che era un grande ammiratore di Kropotkin,
scrive nell’Anima dell’uomo sotto il socialismo (1891): «L’uomo è fatto per
qualche cosa di meglio che per rimuovere il fango, perciò tutti i lavori di simil
genere dovranno esser fatti da macchine […]. Tutto il lavoro non intellettuale,
il lavoro monotono, noioso, tutto il lavoro che ha rapporto con cose
spiacevoli dovrà essere fatto dalla macchina». Gli uomini, intanto, dovrebbero
oziare. Paul Lafargue, genero di Karl Marx, fa la stessa osservazione nel
Diritto alla pigrizia (1883): «La macchina è il redentore dell’umanità, il Dio
che riscatterà l’uomo dalle sordidae artes e dal lavoro salariato, il Dio che gli
donerà gli svaghi e la libertà». Nell’Utopia moderna di H.G. Wells (1905), il
grande padre della fantascienza immagina un paradiso ipertecnologico, in cui i
treni corrono a cinquecento chilometri l’ora. Nel film Sleeper, Woody Allen
immagina maggiordomi robot che lavorano mentre gli uomini ricercano
mollemente il piacere; e oggi, compriamo elettrodomestici nella speranza di
alleggerire il carico di lavoro.
Be’, le cose non sono andate proprio così. Le macchine non sono riuscite a
liberarci dalla fatica, a causa del fatto che serve un essere umano che le faccia
funzionare, e del fatto che a possederle sono i capitalisti, nelle cui mani esse
diventano strumenti di schiavitù e noia prolungata. In parole semplici: gli
esseri umani sono impiegati con paghe basse per far funzionare macchine che
producano profitto per i padroni. Inoltre, le forti spese necessarie per
l’acquisto delle macchine richiedono che se ne faccia un uso il più possibile
intensivo, il che vuol dire orari impossibili e turni disumani. Ancora oggi,
però, le macchine e la tecnologia ci sono vendute con la stessa promessa. Ma
se tentiamo di sfuggire al lavoro sporco in questo modo, ci condanniamo a
lavorare di più. Ai vecchi tempi, si andava al pozzo o al ruscello per prendere
l’acqua, e per arrivare lì si faceva una bella passeggiata immersi nella natura, e
magari ci si fermava a chiacchierare. Oggi, basta aprire il rubinetto; ma
dobbiamo andare a lavorare per pagare i rubinetti, gli idraulici, le bollette
dell’acqua corrente e il mantenimento di un complesso sistema di serbatoi,
pompe e tubature. Oppure compriamo l’acqua al supermercato: acqua
imbottigliata a mille chilometri da casa nostra, immagazzinata e portata in giro
per il Paese a bordo di enormi camion che consumano quantità industriali di
benzina, fino a smisurati centri commerciali gestiti e abitati, parrebbe, da
zombi. Quindi, oggi per ottenere l’acqua servono molta più fatica, sudore,
soldi, noia e dolore – se sommiamo il lavoro di tutti i soggetti coinvolti –
rispetto a quando la prendevamo dai pozzi. È anche innegabile che
difficilmente qualcosa possa andare storto in un pozzo, trattandosi di una
struttura molto semplice: un pozzo è molto più efficiente dei moderni impianti
idraulici. E avrei qualcosa da dire anche a Oscar Wilde e alla sua repulsione,
abbastanza patetica, verso l’atto di «rimuovere il fango»: io lo faccio ogni
giorno nel mio giardino, e mi diverto molto.
Le macchine sono tutt’altro che schiavi per noi: in realtà siamo noi i loro
schiavi. Sul posto di lavoro, ci fanno fare brutta figura. Non fanno assenze
per malattia, non chiedono aumenti di stipendio, non scioperano, non si
fermano per la pausa caffè o per il pranzo, non si deprimono, non lasciano il
fidanzato, non piangono nei bagni, non dormono neppure. È per questo che
gli industriali, i capitalisti, fanno il possibile per rendere gli uomini più simili a
macchine. Le macchine sono prese a esempio di un comportamento corretto.
Essere accusati di «scarsa professionalità» significa: «Oggi non ti sei
comportato come una macchina». I manager dei call center, scommetto, non
vedono l’ora che qualcuno inventi un computer capace di telefonare: così non
dovranno più avere a che fare con quei noiosi esseri umani che si ubriacano e
si prendono il raffreddore, e hanno testoline in cui frullano pensieri.
«L’essenza stessa, il grande fascino della fabbrica» scriveva Eric Gill in
Painting and the Public (1933) «è che lì non c’è bisogno di operai che
vogliono imporre il loro libero arbitrio, le loro idiosincrasie, le loro emozioni
e sensibilità sul design e sulla manifattura delle lame per rasoio.» E poi le
macchine possono sembrare più vivaci degli umani-robot che stanno dietro i
pulsanti. E.F. Schumacher, in Buon lavoro, ci offre questo terrificante
pensiero tratto da una lettera scritta negli anni Settanta da un lavoratore
britannico: «Le macchine hanno preso ad assomigliare agli uomini al punto
che gli uomini sono diventati come le macchine. Esse pulsano di vita, mentre
l’uomo diventa un robot».
Sotto le insegne della liberazione, le macchine entrano ormai nelle nostre
vite private. Nell’Ottocento, c’era il vapore; oggi abbiamo la tecnologia
digitale e tutte le sue promesse vane. Prendete per esempio quel nuovo
gadget, indicibilmente inquietante, che chiamano «computer palmare». Il
Blackberry [mora] ha in comune con la Apple e la Orange l’orribile crimine di
sfruttare il nome di un frutto delizioso per trarne profitto, ma c’è di peggio: il
palmare va temuto, evitato ed espulso dalla buona società perché permette che
il lavoro da schiavi invada ancor più le nostre giornate. I palmari possono
inviare e ricevere email da ogni dove. Potete portarlo in spiaggia e lavorare da
lì. Potete lavorare al pub. Il vostro capo può chiedervi di scrivergli un
rapporto mentre siete già alla terza pinta di birra, e rovinarvi la serata. Di
nuovo, la cosa davvero sorprendente è che noi compriamo di nostra
spontanea volontà, e a nostre spese, queste manette digitali, questi braccialetti
antievasione elettronici. Incrementiamo i profitti di un altro per lasciare che i
nostri già troppo brevi momenti liberi siano interrotti da qualche rompiscatole
pieno di sé dall’altra parte della città, o del mondo. I computer portatili e i
cellulari hanno già rovinato meravigliosi viaggi in treno: ora potete controllare
il palmare anche mentre camminate verso la stazione. Anni fa comprai
un’agenda digitale molto costosa. Passai ore a digitare tutti i nomi nella mia
rubrica. Due settimane dopo, mi cadde e si ruppe, e persi tutte le
informazioni. Fu allora che capii che per lo stesso prezzo avrei potuto
comprare agende Smythson Featherweight per vent’anni di seguito. La
Smythson Featherweight è una splendida agenda tascabile rilegata in pelle,
piacevolissima da usare.
Quando, a metà degli anni Novanta, iniziò la grande corsa alla tecnologia
digitale, devo ammettere che ero un fan. Amavo i computer e i primordi di
internet. Di primo acchito mi era sembrata una forma di liberazione l’idea che,
via internet, fosse possibile pubblicare qualsiasi cosa e trovare dei lettori, un
pubblico, senza dover pagare per la stampa e tutte le altre seccature legate alla
produzione e distribuzione di un oggetto fisico. All’inizio mi piacevano
persino i cellulari, perché stupidamente credevo che potessero rendere più
facile l’ozio, liberandoci dall’ufficio. Invece, naturalmente, avere un cellulare
significa portarsi dietro l’ufficio ovunque andiamo, perché ci possono
contattare in qualsiasi momento. È così che piacevoli serate al pub sono
rovinate da una telefonata del capo.
L’eccitazione febbrile scatenata dalle tecnologie digitali è identica a quella
che scatenavano le tecnologie emergenti del passato, come la ferrovia.
All’inizio, la tecnologia sembra promettere nuove emozioni e libertà dai
vincoli esistenti. Qualche pioniere miope si emoziona pensando alle astratte
possibilità. Poi arrivano i venditori, gli uomini d’affari, e la sfruttano. I
bastian contrari e i cinici sono condannati come nemici del progresso. Gli
studiosi scrivono libri sulla «nuova via». I mass media parlano dell’«alba di
una nuova epoca». La povera gente come me se la beve. Una bolla nasce, si
espande e poi scoppia. I ragazzini della City corrono a contare i dividendi, i
piccoli investitori danno la colpa a se stessi e alla propria stupidità, e il 90 per
cento delle aziende sparisce. Ma il dieci per cento rimane, e sono loro a
dominare la tecnologia. Dunque internet, un tempo definito come uno
straordinario nuovo mezzo di comunicazione, è diventato poco più di un
grande catalogo di vendita per corrispondenza. Sì, potete consultare le
enciclopedie online, ma potevate consultarle anche prima, in casa o in
biblioteca! E per andare e tornare dalla biblioteca vi sareste anche fatti una
bella passeggiata. La tecnologia digitale potrà anche fornirvi ciò che volete,
ma non vi darà ciò di cui avete bisogno. Per liberarci dalla fede cieca nelle
macchine e nella tecnologia, possiamo tornare indietro.
Ho scoperto che è facilissimo vivere come un milionario: basta tornare un
po’ indietro nel tempo. Le videocamere Super 8 degli anni Sessanta, per
esempio, costano circa una sterlina, e sono molto più divertenti delle orribili
videocamere digitali di oggi. Chi mai vuole vedere un’ora e mezzo di filmino
dei bambini che vanno sull’altalena? I filmini Super 8 sono felicemente brevi,
tre minuti al massimo, e meglio ancora: sono muti. Quando li guardo mi piace
tenere in sottofondo una canzone pop di tre minuti, qualcosa che si intoni
all’argomento del filmato. Non solo vi sentirete come Paul McCartney nel
1966, con i gadget più innovativi; tutti i protagonisti del vostro filmino
sembreranno Paul McCartney nel 1966. O Jane Asher, la sua amante. In quei
filmini, sembriamo tutti più belli.
Più a lungo siete disposti ad aspettare, più si abbassano i prezzi delle
tecnologie. Ormai i videoregistratori sono gratis. Nel 1966, invece, quando
ciascuno dei Beatles ne comprò uno, costavano l’equivalente di migliaia di
sterline di oggi. Se riuscite ad aspettare anche solo un anno o due, scoprirete
che i gadget costano molto poco. E più tornate indietro nella storia della
tecnologia, più la vita si fa divertente.
Ho appena comprato, per quattro soldi, una macchina da stampa manuale
con dieci polizze di caratteri in piombo e una scatola di accessori vari. Questa
attrezzatura permette di stampare manualmente, componendo la pagina lettera
dopo lettera. Potrà sembrare noioso, ma è davvero piacevole soppesare e
posizionare ogni carattere. Ho realizzato una splendida carta da lettere intestata
(anche se mi è venuta un po’ storta), in un paio d’ore di lavoro. Sì, certo,
avrei potuto fare qualcosa di simile in cinque minuti usando il computer, ma
tanto per cominciare sarebbe stato molto meno divertente, e poi il risultato
finale sarebbe stato ben lontano dal fascino di ciò che sono riuscito a creare.
Le lettere sono tutte storte, l’inchiostro mal distribuito; ma adoro la mia carta
da lettere. È fatta a mano, unica, personalizzata. Un’opera di artigianato. Ho
intenzione di tornare ancora indietro, alla falce invece del tosaerba, alla penna
d’oca nel calamaio. È un piacere inenarrabile scrivere una lettera con la
stilografica su ottima carta, anziché spedire un’email in cinque secondi. Ed è
una gioia ricevere una lettera vera da un amico, magari con la busta piena di
sottobicchieri, cartoline e ritagli di giornale. Addio, email; bentornate, Poste di
Sua Maestà.
Il movimento Arts and Crafts non sperava nel vapore e nelle grandi
macchine come salvatori dell’umanità. Anzi, al contrario: vedevano le
macchine come intrinsecamente schiavizzatrici. La prima volta in cui una
macchina produsse del cibo, molti dissero che si trattava di un progresso
rispetto al cibo preparato a mano. Eric Gill ricorda la scritta «Clark’s: Pane
fatto a macchina» sul tetto di una panetteria-fabbrica nei dintorni di casa sua.
Quando tornò in quella città molti anni dopo, notò che il signor Clark si era
reso conto di un errore nella propria strategia di marketing, e ora sull’insegna
si poteva leggere: «Clark’s: Pane contadino».
Il Victoria and Albert Museum di Londra ha recentemente inaugurato una
mostra sull’Arts and Crafts. La cosa che più mi ha colpito è stata il fatto che il
movimento non fu la semplice passione privata di un paio di pazzi venuti da
Ditchling, ma fu un nuovo modo di pensare che influenzò il mondo intero.
Nella mostra c’erano sale dedicate all’Arts and Crafts in Giappone e negli Stati
Uniti. Con me c’era il mio amico Matthew, della Società dei gentiluomini
amici dell’arte. Suo nonno era Valentine Kilbride, uno dei massimi esponenti
del movimento a Ditchling. Matthew ricorda che Kilbride gli diceva di aver
ricevuto visite dai giapponesi, che venivano a vedere cosa stava succedendo
in Inghilterra, e poi tornavano a casa a riscoprire la loro tradizione artigianale
e artistica. La cosa bella dell’Arts and Crafts è che non c’era un ideale
programmatico, un progetto artistico, al di fuori del realizzare cose che
fossero belle e utili, e realizzarle per quanto possibile a mano. L’idea di base
dell’Arts and Crafts era molto diversa da quella di Wilde, secondo cui le
macchine avrebbero costruito le cose utili mentre gli umani avrebbero dato
vita alle cose belle. Il movimento si prefisse invece di combinare le due cose e
di ridare dignità alla produzione di carta da parati, tessuti, ceramiche, vetro e
mobili. Arte e vita, separate con violenza dalla Rivoluzione industriale,
dovevano essere riunite.
I Distributisti, quei cattolici di buon senso degli anni Venti, ritenevano
anche che le grandi macchine fossero intrinsecamente, per loro natura, portate
a schiavizzare gli uomini. Nel mondo distributista, in cui ogni famiglia
possedeva un po’ di terra ed era libera dalla servitù dei salari, le macchine
passavano in secondo piano. Scrive Arthur J. Penty:
Crediamo che, in fin dei conti, un uomo debba essere in grado di badare a se stesso, e
ci opponiamo all’uso eccessivo delle macchine, perché esso impedisce all’uomo di
badare a se stesso; la specializzazione che le macchine richiedono mina
l’indipendenza e il rispetto di sé, perché depriva l’uomo della sua destrezza manuale
[…]. Certo non siamo così spiritualmente ricchi, perché non solo l’uso smodato delle
macchine ha introdotto una tensione che riempie le nostre vite di ansia; ma ha anche
deumanizzato e despiritualizzato gli operai, e ha dato vita a uno spirito di vendetta
che in questi giorni trova espressione in sentimenti rivoluzionari. Non inganniamo noi
stessi. C’è un legame stretto tra la crescita dello spirito rivoluzionario e la
produzione in massa.

Chiunque abbia mai lavorato in una grande fabbrica, in un magazzino o in un


ufficio ha presente quel ribollire sotterraneo di risentimento nei confronti del
management. Quando ero intrappolato (o forse dovrei dire autoincarcerato,
dal momento che ero perfettamente libero di andarmene quando volevo) nella
redazione di una rivista che detestavo, trascorrevo il tempo libero
componendo nella mia mente il devastante discorso con cui un giorno avrei
annunciato al direttore le mie dimissioni. Naturalmente non pronunciai mai
quel discorso: mi accontentavo di lamentarmi al pub.
La nostra idea di futuro prevede sempre una presenza massiccia di
macchinari. Ma io non penso al futuro: penso al presente. Il futuro è un
concetto capitalista. Il passato ci insegna che il futuro ci ha delusi, e delusi
molte, molte volte. Ci è già capitato di sognare una qualche utopia tecnologica
in cui le macchine avrebbero lavorato per noi: e ci è andata male, e continua
ad andarci male anche oggi, nonostante la nostra nuova fede nella tecnologia
digitale. «Quando parliamo del futuro parliamo della speranza dell’uomo nel
futuro, che egli sta vivendo, ora»: era il ritornello di una canzone pop. Il
cosiddetto «futuro» è in realtà parte del sistema che si oppone alla vita: in
sostanza, ci tengono buoni con l’idea che, in un certo momento del «futuro»,
le cose miglioreranno, come diceva la canzone scritta per festeggiare la vittoria
del partito laburista contro i conservatori. Il futuro è parte della classica
nozione protestante di differimento dei piaceri. Le pensioni, per esempio,
sono vendute per mezzo dell’idea di un futuro più luminoso. Io invece sono
convinto che le cose possano migliorare a partire dal momento presente:
proprio ora, proprio qui.
Il movimento Arts and Crafts fu accusato di essere nostalgico e
sentimentale nei riguardi del passato. Be’, magari è vero. Ma il fatto è che il
passato è un grandioso serbatoio di buone idee per vivere, idee che sono già
state applicate e i cui risultati sono sotto i nostri occhi. Il problema delle idee
sul futuro è che non sono ancora state messe alla prova: è pura speculazione,
fantasia. Il futuro non è ancora accaduto. Quindi, in realtà, è meno confusa la
mente che guarda al passato per trovare ispirazione, rispetto a quella che si
rivolge al futuro. Oggi, per esempio, va di moda ricreare tecnologie
medievali, come i mulini a vento e ad acqua usati come fonti energetiche,
perché ci stiamo finalmente rendendo conto che comprare l’energia elettrica
da una fonte centralizzata anziché produrla per conto nostro è inutilmente
dispendioso. E se c’è qualcuno che ancora difende il sistema industriale,
provate a confrontare Firenze con Swindon. Credo che anche il relativista più
convinto sarebbe d’accordo con me che Swindon non può competere con
Firenze quanto a bellezza. Firenze fu costruita da esseri umani che usavano
macchine, non da macchine che usavano esseri umani. Sorse a partire da una
forma di governo federale, su scala ridotta. Ogni cosa buona che oggi accade
nel lavoro, nell’arte e nella vita accade nonostante il sistema in cui viviamo,
non grazie a esso.
Ecco perché dico: buttate via le macchine. Ci hanno ingannati. Sono
rumorose, costose, e generano solitudine. Non pensate: «Cosa voglio?», ma
piuttosto: «Di cosa posso fare a meno?». Oggi un fattore passa le sue giornate
su un trattore, da solo, a raccogliere letame. Lo stesso lavoro, ai vecchi tempi,
era svolto da un gruppo di uomini che lavoravano insieme, chiacchieravano,
si prendevano delle pause, usavano il proprio corpo. Le macchine ci
allontanano dalla nostra vera natura. Gli attrezzi però sono una cosa ben
diversa. La vanga, lo scalpello, la falce, il coltello pieghevole: sono strumenti
di liberazione.

USA UNA FALCE


Elogio della malinconia

Una malattia perniciosa e bizzarra, che fa degenerare gli uomini in


bestie.
MELANELIO

Grande è la forza dell’immaginazione, e la causa della malinconia


dovrebbe essere attribuita più a essa che non allo squilibrio del corpo.
ARNOLDO

Il peggior nemico dell’uomo è l’uomo, che per istigazione diabolica è


sempre pronto a far danno, a essere il boia di se stesso, un lupo, un
demonio, per sé e per gli altri.
ROBERT BURTON, Anatomia della malinconia (1621)

Per trovare una guida che ci orienti sul terreno malagevole della malinconia, o
depressione, o atra bile, dobbiamo rivolgerci a quell’esperto di fama
mondiale, rinomato studioso e intelletto sottile che fu Robert Burton.
L’Anatomia della malinconia, il più allegro e confortante dei libri, uscì nel
1621. Boswell riferisce che il malinconico Samuel Johnson lo definì «l’unico
libro che mai fosse riuscito nell’impresa di farlo alzare dal letto due ore prima
di quando progettava di alzarsi». All’epoca fu uno straordinario bestseller,
ripubblicato in almeno otto edizioni, con le quali, com’è indicato sulla mia
copia, «il libraio si comprò un podere». Gettate via gli antidepressivi e
comprate questo libro.
Le dimensioni del suo successo non devono sorprendere, perché quel
successo arrivò in un periodo orribile della storia. La lieta Inghilterra era
morta, o stava morendo. Il libro di Burton, 780 pagine della più deliziosa
sofferenza, fortunatamente scritto in un’epoca in cui il «disturbo bipolare» si
chiamava ancora «malinconia», fu pubblicato grossomodo a metà tra la
riforma di Enrico VIII e la Rivoluzione industriale: due disastri colossali per
chi ama la vita e la libertà. Gli antichi valori medievali erano ancora diffusi,
ma stava iniziando l’era dell’ansia, del puritanesimo, dell’individualismo e
dell’avidità. La lieta Inghilterra era messa sotto tiro dalle nuove classi medie
puritane. Un aumento demografico aveva condotto a un’esplosione della
povertà. I Tudor usavano la mano pesante contro i mendicanti e gli oziosi, i
suonatori ambulanti e i musici di strada. Thomas Cranmer* aveva bandito gli
antichi festival religiosi. Si metteva in dubbio il diritto di far festa alla
domenica. Ogni divertimento era risucchiato dalla vita del Paese. È dunque
plausibile supporre che ci fossero più persone malinconiche nel 1624 che non
per esempio nel Quattrocento, quando di un libro simile non ci sarebbe stato
alcun bisogno. Il libro di Burton è anche quasi coevo dell’Amleto, lo studio
shakespeariano dell’isolamento, e del Dottor Faustus, in cui Marlowe studia
l’ambizione. Fu scritto, inoltre, durante la grande espansione dei poteri del
governo che ebbe luogo nel Cinque-Seicento.
Il libro di Burton è costituito in gran parte da migliaia di citazioni sul tema
della malinconia, tratte da fonti classiche (per questo motivo è stato
tradizionalmente saccheggiato da scrittori che volevano darsi delle arie usando
citazioni latine). Questa circostanza può indurre a pensare che anche gli
antichi greci e i romani soffrissero di malinconia, il che non mi sorprende,
dato che essi, e soprattutto i romani, vivevano in un’oligarchia avida,
guerrafondaia, basata sullo sfruttamento: un po’ come l’America e la Gran
Bretagna di oggi. Ad alcuni romani forse la situazione non dispiaceva, ma su
vasta scala essa condusse alla rovina la grande massa dei cittadini e degli
schiavi. Può anche essere vero che, al di là dei fattori esterni, la malinconia sia
un semplice dato di fatto della vita. Infatti, scrive Burton, riflettendo sulle
cause della malinconia, sembra che essa sia stata una maledizione gettata
sull’uomo fin dal giorno del peccato originale. Sembra quindi che Burton
dica: la malinconia è solo sfortuna, fatevene una ragione. La malinconia è
parte di ciò che ci rende umani, ed è parte della condizione umana dal giorno
in cui Dio ci condannò a zappare la terra e filare la lana, anziché oziare nel
giardino dell’Eden:
La disobbedienza dell’uomo, il suo orgoglio, l’ambizione, l’intemperanza,
l’incredulità, la curiosità; da cui provenne il peccato originale, e quella generale
corruzione del genere umano, come da una fontana scorsero tutte le cattive
inclinazioni e le trasgressioni concrete che sono alla radice delle tante calamità a noi
inflitte per i nostri peccati […]. La malinconia, dunque, è una punizione per il male
compiuto, come scrive san Paolo nell’Epistola ai Romani, 2,9: «Tribolazione e
angoscia per ogni uomo che opera il male».

Quindi non c’è via d’uscita. Anche il saggio, il fortunato, il prospero, dice
Burton, soffrono di malinconia:

Da queste disposizioni malinconiche nessun uomo è libero: nessuno è così stoico, così
saggio, così felice, così paziente, così generoso, così caro agli dèi, così divino da
potersi difendere; nessuno così placido da non doverne prima o poi patire le
conseguenze. […] Q. Metello, che Catullo definisce colmo di ogni felicità, «l’uomo
più fortunato che allora vivesse nella rigogliosa città di Roma, di nobili natali, un
uomo d’aspetto nobile, colto, in salute, ricco, onorato, un senatore, un console, felice
con sua moglie, lieto dei suoi figli» eccetera: eppure quest’uomo non era immune alla
malinconia, e anche lui aveva il suo carico di dolori […] per ogni pinta di miele qui
troverete un gallone di bile, per ogni oncia di piacere una libbra di dolore, per ogni
pollice di gioia una iarda di pianto: come l’edera fa con le querce, così queste miserie
avvolgono tutta la nostra vita.

È un messaggio di enorme conforto: se sei depresso, dice Burton, non c’è


niente che non va in te. È una cosa naturale! Nel Medioevo, il peccato di
accidia era molto simile alla malinconia. Il termine latino acedia indicava uno
stato d’animo non lontano dalla tristezza. Come scrive Thomas Pynchon nel
suo saggio Nearer, My Couch, to Thee (1993):
In latino, acedia significa dolore, deliberatamente inflitto su di sé, rivolto lontano da
Dio, una perdita di determinazione spirituale che torna poi ad alimentare il processo,
dando luogo ben presto a ciò che oggi si chiama senso di colpa e depressione, e
infine ci conduce a un punto in cui siamo disposti a fare qualsiasi cosa, a commettere
peccati veniali ed errori di giudizio, per evitare quel disagio.

L’acedia voleva dire rinunciare alla vita, e descriveva lo stato d’animo di un


monaco che non riusciva più a percepire il valore di ogni cosa, che stava
perdendo la fede e diventando svogliato nell’osservanza, che, quando un
confratello cercava di farlo uscire dalla sua cella, si lagnava: «Oh, e a che
scopo?». L’accidia era il peccato più grave, perché avrebbe condotto a tutti gli
altri.
Dunque, in altri termini, la depressione era un peccato, il che la rendeva
doppiamente difficile da sopportare: non solo eravate depressi, ma eravate
anche coscienti di commettere un peccato mortale, e questo non avrebbe fatto
che rendervi ancor più depressi, quindi più pronti a peccare, e così via fino al
settimo girone dell’inferno.
Tra le cause della malinconia Burton annovera una dieta errata. La carne di
maiale, capra, manzo, cervo, i legumi, le radici, i cetrioli, le zucche, il pane e il
vino… Sembra che qualsiasi cibo faccia male. Forse la birra se la cava un po’
meglio: «[…] una bevanda genuina e molto piacevole, più sottile e migliore,
perché rarefatta dal luppolo, combatte egregiamente la malinconia, come
confessano i nostri erboristi». Personalmente, trovo che la birra sia anche un
ottimo antidoto contro l’atra bile.
Un’altra soluzione proposta da Burton è divertirsi: «A mio giudizio non c’è
nulla di altrettanto facile da ottenere, altrettanto potente, altrettanto opportuno,
di una tazza di qualcosa di forte, gioia, musica e buona compagnia». Definisce
la musica «un cannone puntato contro la malinconia, per spronare e ravvivare
l’anima illanguidita». È questo il potere del jazz, del rock’n’roll, della dance
music moderna. Ci fa rientrare in noi stessi; è l’esatto opposto della
distrazione. Tutte le altre cose sono distrazioni, perché riguardano speranze e
rimpianti. La musica ci conduce nel presente. Può letteralmente trasformarci.
E il blues, naturalmente, la colonna sonora della schiavitù, forgia qualcosa di
buono, un’affermazione della vita dalle materie brute della disperazione.
Un approccio simile alla malinconia appare nei testi medievali, che
raccomandano pensieri felici per la buona salute e promuovono quella che la
storica Linda Pateson chiama «una disposizione d’animo attivamente felice».
Il trovatore duecentesco Pietro d’Alvernia, per esempio, scriveva:
Perché l’angoscia e i pensieri cupi non producono il bene o atti di prodezza, ma solo
danni e distruzione; perché così come ogni frustrazione dannosa sorge dall’avidità,
così ogni cattiva azione sorge da un broncio perenne. Dunque, chiunque desideri la
gioia dovrebbe mantenersi sulla retta via, e lasciare l’angoscia e gli sguardi vili alle
canaglie e ai volgari misantropi.

Oggi, la buona compagnia, l’allegria e la birra non sono più usate come
metodi di cura. La malinconia è nelle mani dei professionisti, ridotta a merce,
industrializzata. È stata trasformata in una «indisposizione» da curarsi con
costosi prodotti chimici. Ed ecco a voi la nuova top five: Prozac, Zoloft, Paxil,
Wellbutrin ed Effexor, tutti nomi che suonano come galassie lontane in un
episodio di Star Trek. Roba di un altro mondo: manna dal cielo, e certamente
priva di ogni fascino e di ogni piacere, sterile, antisettica, freddamente
razionale, a-romantica. Queste pillole portano enormi profitti nelle tasche di
chi le vende, le grandi multinazionali farmaceutiche. La depressione è un
business enorme. Nel 2000, le vendite di antidepressivi dietro presentazione di
ricetta medica hanno superato i dieci miliardi di dollari nei soli Stati Uniti, e
questa cifra aumenta esponenzialmente ogni anno. Si stima che nel Regno
Unito una persona su 25 sia in cura con antidepressivi, oltre al mercato
emergente, ovvero sessantamila bambini. È un’industria in forte crescita.
Investi anche tu nella depressione! Fai soldi sulla sofferenza altrui! Dollari dal
dolore! Tutte ottime notizie, se siete un dirigente o un azionista di qualche
colosso farmaceutico; ma significano un conto salatissimo per il servizio
sanitario nazionale di Sua Maestà, e per quei cittadini statunitensi che
dispongono di un’assicurazione sanitaria privata (assicurazione che, a sua
volta, contribuisce a far restare le persone in impieghi che detestano). Ma poi,
queste medicine servono davvero a qualcosa? Uno studio recente ha persino
collegato l’uso degli antidepressivi all’incidenza dei suicidi, e così tante
persone ne fanno uso nel Regno Unito che i princìpi attivi di quei medicinali
sono penetrati nelle riserve idriche attraverso i nostri escrementi e la nostra
urina, aumentando il numero delle persone potenzialmente dipendenti da
queste sostanze.
Altre medicine sono vendute con l’etichetta di «ansiolitici», nel senso che
dovrebbero aiutarci a combattere il panico. A nessuno, chissà perché, viene
mai in mente che la colpa della depressione possa non essere della persona
depressa, quanto piuttosto delle aspettative imposte da questa società
ipercompetitiva, meritocratica, basata sul denaro, senza più Dio. Sì, voi siete
depressi, ma è colpa del mondo, non è colpa vostra. Quindi non cercate di
cambiare voi stessi per adattarvi a un mondo che non vi aiuta: piuttosto,
cambiate il vostro mondo.
Un mio amico che «soffre» di «depressione» è John Moore. Nel suo caso,
la diagnosi del medico è stata «disturbo bipolare», ma io trovo molto più
elegante, rispettoso, nobile e piacevole il nome di «malinconia». In un mio
libro precedente, ho descritto John come «l’uomo più pigro del mondo».
Quello che non ho detto, però, è che John ha un temperamento atrabiliare
cronico. La sua bile è nera. Quando la sua ormai ex moglie tentava di farlo
alzare dal letto la mattina, lui rispondeva: «Mi alzerò da questo letto quando ci
sarà un buon motivo per farlo». Come dice Burton: «È opinione comune che
a un uomo melanconico il sonno non basti mai […]. Nulla li fa soffrire di più,
o fa peggiorare la malattia più rapidamente, del risveglio». Sì, be’, gli oziosi lo
sanno bene: Victoria mi rimprovera ogni giorno perché sono scontroso
appena alzato.
John è in terapia con antidepressivi da più di quattro anni. Dice che ha
iniziato a prenderli perché spinto dagli altri; la sua malinconia lo rendeva
inadatto a lavorare nel mondo:

Credo di aver iniziato a prenderli perché gli altri vedessero che li prendevo, dal
momento che mi dicevano che la mia depressione era inaccettabile. Dovevo
dimostrare che stavo facendo qualcosa per diventare come tutti gli altri, che guardano
la tv. Bisogna essere in terapia farmacologica per vedere i reality show.
Vorrei smettere di prenderli, ma ormai ho sviluppato una dipendenza fisica. Quindi
dovrei smettere di colpo, ma è difficile trovare il tempo per farlo quando si è così
presi dal lavoro. Il medico mi ha detto che non è necessario smettere, che ci sono
persone che continuano ad assumerli per tutta la vita…

Sì, è proprio il genere di cose che dicono i dottori. L’industria farmaceutica


americana investe il 17 per cento del suo fatturato nel marketing e nella
pubblicità. Nel 1998 la cifra era di sette miliardi di dollari. Cioè, per la
maggior parte, tornei di golf alle Barbados e un rifornimento continuo di
penne a sfera e bloc notes a uso di quella specie di rappresentanti di
commercio, pagati con i nostri soldi, che chiamano «medici di base»:

L’effetto mentale è molto subdolo: se prima provavate emozioni profonde, le droghe


appiattiscono tutto. Ma non fanno niente per risolvere davvero il problema. Per me
sono come cerotti, una soluzione temporanea e raffazzonata: gli antidepressivi sono
sinonimo di lavoro grossolano e bassa qualità.

L’idea di un mondo intero che prende antidepressivi è in sé deprimente: gli


antidepressivi smussano quegli angoli acuti in cui risiede la vera vita. Ci
mettono i paraocchi. Cercano di plasmarci tutti in una stessa forma, così che
possiamo continuare a funzionare nella società, continuare a lavorare senza
lamentarci e senza pensare. Questo rimodellamento di sé ci fa ammalare e ci
rende depressi, e così via. Norman Mailer scrisse degli hippie ante litteram
degli anni Quaranta, che combattevano «una morte lenta per conformismo, in
cui ogni istinto ribelle e creativo è soffocato (e nessuna fondazione di ricerca
sul cancro potrà mai quantificare i danni alla mente, al cuore, al fegato, ai
nervi) […]».
Moore è dell’idea che dovremmo tutti accettare e imparare ad apprezzare la
nostra bile nera. Dice anche che, nel suo caso, come la primavera segue
l’inverno, dopo qualche mese di sofferenza tornerà un periodo di gioia e
creatività:

Vedi le cose in modo molto più chiaro. È come andare a pesca: ti immergi sotto il pelo
dell’acqua e riporti indietro cose molto utili. Keats, Byron o Shelley non sarebbero
mai esistiti, se avessero assunto il Prozac. La società ha bisogno dei maniaci-depressi,
ha bisogno di speleologi, che portino alla luce i tesori sepolti, e sappiano ripulirli e
levigarli, trasformandoli in oggetti belli e scintillanti.

Questa soluzione ortodossa, fatta di pillole e offuscamento, è ben lontana dal


riconoscere la grande verità che nella malinconia può esserci qualcosa di
piacevole, addirittura di utile. La descrizione che Burton ci offre dei piaceri
prefigura i poeti romantici che vagabondano nella foresta e nella brughiera e
poi, nella tranquillità del loro studio, rammentano le emozioni provate:
[…] all’inizio, per coloro il cui spirito è portato alla malinconia, a restare a letto per
giornate intere, a non uscire dalle proprie stanze, è così piacevole camminare da soli
in qualche bosco solitario tra legno e acqua, sulle rive di un ruscello, meditare su
qualcosa di delizioso e amabile, che più li interessa […] è una gioia incomparabile
lasciarsi andare alla malinconia, e costruire castelli in aria, andare in giro sorridendo
fra sé e sé, recitare una varietà infinita di ruoli, che costoro suppongono e
vividamente immaginano di rappresentare.

Dunque, un modo intelligente di affrontare la malinconia sarebbe quello di


non rifiutarla, ma anzi accettarla e gioirne. Anzi, credo che il semplice atto di
ribattezzare «malinconia» la depressione, con una parola molto più colorita ed
espressiva, può far miracoli per disarmarla. «Disturbo bipolare» suona come
il nemico. C’è qualcosa di cool, invece, nella malinconia: fa pensare a
candele, amore romantico, soffitte, pagine di manoscritti incompiuti che
cadono dalle mani, sospiri nostalgici, camicie bianche gonfiate dal vento. La
malinconia è la depressione reincarnata. Invece di dire: «Sono depresso», dite
piuttosto: «Oggi mi sento atrabiliare, quindi farò meglio a restarmene a casa, o
fare una passeggiata nel frutteto». Poi reincarnate il vostro dolore in un atto
creativo.
Penso anche che il problema dei farmaci, della psicoterapia e dei manuali di
auto-aiuto sia che caricano un fardello pesantissimo sulle spalle
dell’individuo. Vi dicono che voi siete squilibrati, che la colpa è vostra, che
siete strani, distorti, anormali, che soffrite di uno squilibrio chimico, che siete
deviati, e dunque avete bisogno di cure che vi reintegrino nella società. Ma
non potrebbe essere altrettanto vero che la colpa non è dell’individuo ma della
società in cui vive, fatta di suonerie a tutto volume e stakanovismo? È il
mondo che è pazzo, non io. La rivoluzione dell’individuo in quanto libero
dalla collettività ha reso ancora più strette le «catene forgiate dalla mente».
Mi si può obiettare che sto presentando una contraddizione: incolpo la
società e non l’individuo per la nostra depressione; incolpo il capitalismo, la
Cosa, la Struttura, il Sistema – comunque vogliamo chiamarlo – per la nostra
sofferenza; e poi dico che ogni uomo è responsabile della sua vita e che
bisogna smetterla di dare la colpa agli altri. Be’, la verità risiede proprio in
questo paradosso: entrambe le cose sono vere. Noi siamo al contempo la
causa e l’effetto del capitalismo. Quando do la colpa alla società, la do anche
all’individuo, perché noi, in quanto individui, siamo complici della creazione
di questa stessa società che ci opprime. Dunque, siamo noi i nostri oppressori,
ed è per questo che, nello stesso istante, siamo radicalmente colpevoli e
totalmente innocenti. A proposito, dovremmo anche congratularci con noi
stessi per aver creato quanto c’è di buono nella società.
La risposta più semplice è accettare la nostra responsabilità e agire di
conseguenza. Lasciare il lavoro, rifiutarsi di votare, non assumere farmaci:
questi non sono atti di apatia, ma testimonianze di una scelta radicale: tornare
a farci coinvolgere nella società e in noi stessi. In realtà, avere un impiego,
votare e assumere psicofarmaci sono altrettanti segni di pigrizia e apatia,
perché facendo queste cose stiamo delegando ad altri il controllo delle nostre
vite, e ammettiamo implicitamente di essere più o meno inutili a meno di
contorcere la nostra identità per renderla conforme a un modello prestabilito
di comportamento. Sono atti di rinuncia. Ma una volta che riuscite a
svincolarvi dalle strutture che vi legano, scoprirete che cominciate a ricrearvi
una vita di autosufficienza. E l’autosufficienza, ben lontana dal metodo del
cerotto da appiccicare alla bell’e meglio sulla ferita, vi aiuterà davvero ad
affrontare la malinconia, anziché cacciarla via con le medicine. In ogni caso,
le medicine non funzionano: tutti gli studi confermano che i placebo hanno lo
stesso effetto delle pillole, e che il corpo umano si cura da solo. Anche i buoni
dottori sono d’aiuto: quando il paziente ha fiducia nel suo medico, il corpo è
più propenso a curarsi da solo.
Un trucco molto semplice per chi è in cerca di un antidoto alla malinconia
consiste nel tenersi impegnati in un qualche lavoro manuale. Impastare il
pane, fare giardinaggio, intagliare il legno: tutte attività produttive, creative e
che usano il corpo. Uniscono il corpo e la mente: sono atti di armonia.
Potreste sorprendervi che un teorico dell’ozio raccomandi il lavoro fisico, ma
il fatto è che funziona. Dobbiamo sostituire il lavoro che distrugge l’anima
con quello che la crea.
Keats, nella sua Ode sulla melanconia (1820) consiglia di non rovinarsi
con le droghe (che lui chiama Lete) e di non prendere antidepressivi (che lui
chiama aconito e belladonna). Suggerisce invece di fare una camminata e
guardare i fiori, e riconoscere che la malinconia è sorella della felicità, e
bisogna gioirne:

1
No, no, non precipitarti verso il Lete; non trarre vino velenoso
Dall’aconito, torcendo le sue salde radici, no
Non lasciare che la tua pallida fronte sia baciata
Dal rosso grappolo di Proserpina, la belladonna;
No, il tuo rosario non fare con le bacche del tasso,
Né la tua lamentosa Psiche siano lo scarabeo,
O la falena della morte; non condividere
Col gufo piumato i misteri del tuo dolore,
Ché troppo assonnata l’ombra verrà all’ombra
Ad annegare la vigile angoscia dell’animo.

2
Ma quando dal cielo improvviso l’attacco cadrà
Di melanconia, come una nuvola in pianto
Che tutti i fiori nutre dal languido capo
E il verde colle nasconde in un sudario d’aprile,
Sazia allora il tuo dolore con una rosa mattutina,
Sazialo con l’arcobaleno dell’onda salata di sabbia
O con la ricchezza delle tonde peonie –
E quando mostri la tua amante una ricca ira,
La sua dolce mano imprigiona; lasciala delirare
Mentre tu ti nutri e ti sazi dai suoi occhi senza pari.

3
Sì, abita con la bellezza, lei – con la bellezza che deve morire;
E con la Gioia, che sempre una mano tiene sulle labbra
Per augurare addio: e vicino al Piacere, che fa soffrire,
E si tramuta in veleno mentre come un’ape succhia la bocca;
Sì, nel tempio stesso del Diletto
Ha il suo santuario sovrano la velata Melanconia,
Anche se nessuno la scorge se non quello la cui strenua lingua
Schiaccia il grappolo della Gioia sul palato da intenditore:
Assaggerà allora l’anima sua la tristezza di quel potere
Che rimanere la farà sospesa tra i suoi nebulosi trofei.

GETTA VIA LE PASTICCHE

* Thomas Cranmer (1489-1556) fu arcivescovo di Canterbury durante i regni di Enrico VIII


e Edoardo VI. Pose le basi teologiche e dottrinali della liturgia anglicana promuovendo la
diffusione del Book of Common Prayer (1549). Morì sul rogo, condannato per eresia dalla
cattolica Maria I d’Inghilterra (Maria «la Sanguinaria»). (N.d.T.)
Basta lamentele: sii felice

È […] insensato pensare di lamentarsi, dal momento che nessuna


entità esterna ha deciso cosa proviamo, cosa viviamo, cosa siamo.
SARTRE, L’essere e il nulla (1943)

Signore, non mi sono mai lagnato del mondo; né credo di aver motivo
per lamentarmi. C’è da meravigliarsi che io abbia così tanto.
BOSWELL, Vita di Johnson (1781)

Leggendo L’essere e il nulla di Sartre mi sono reso conto, con mia grande
sorpresa, che la filosofia esistenzialista può essere di grande utilità pratica per
le nostre vite. A prima vista, il libro sembra terribilmente astratto e tecnico,
pieno com’è di sottili distinzioni tra essere-per-sé ed essere-per-gli-altri, tra
fatticità ed essenza. Ma al cuore del progetto c’è un appello semplice, che ci
chiama ad assumerci la responsabilità delle nostre vite, e a riconoscere che
siamo noi a scegliere come reagire alle situazioni e che, se lo vogliamo,
possiamo scegliere di essere liberi. Se al cuore dell’uomo c’è il nulla –
opinione condivisa anche da Tommaso d’Aquino – allora spetta a noi creare
significati. Nella nostra pigrizia, ci convinciamo che il solo significato a nostra
disposizione sia quello che, per puro caso, è dominante nella società: i miti
che abbiamo ricevuto in eredità, la struttura borghese. Ma basta gettare lo
sguardo sulla storia e sulle altre culture in giro per il mondo, per persuaderci
che il modo in cui facciamo le cose nell’Occidente industrializzato è solo uno
di un numero infinito di modi.
Non posso lamentarmi, per esempio (anche se lo faccio) del fatto di essere
sfruttato in quanto autore di questo libro. Nell’offrire queste parole a una
grande azienda, ho accettato di ricevere il dieci per cento del prezzo di
copertina, e accetto che altre persone si spartiscano il restante 90 per cento.
Questa cifra sarà divisa tra un certo numero di profittatori, ansiosi di far soldi
con le mie parole: l’editore, il distributore e il libraio. Potrei lamentarmi di
tutto ciò, ma dal momento che ho scelto io di entrare in questo sistema, non
ha senso che ora io mi lamenti. Potrei invece decidere di assumermi la
responsabilità totale per il mio libro, e quindi scegliere di pubblicarlo in
proprio. Potrei girare il Paese in macchina, visitando tutte le librerie, e
convincerle a ordinarne qualche copia.
Lamentarsi vuol dire sottrarsi alle proprie responsabilità. E c’è gente che ci
guadagna su: gli avvocati, per dirne una. Nelle cause di divorzio, gli avvocati
incoraggiano ciascuno dei coniugi a incolpare l’altro per tutti i problemi che
hanno condotto alla rottura della relazione. Gli avvocati sono bravissimi a
togliere la responsabilità dalle spalle del querelante, dicendo al loro cliente che
lui non ha nessuna colpa e che la parte avversa è chiaramente pazza. Questo
genere di cose dà dipendenza: «Gli avvocati sono come l’eroina» dice il mio
amico Bill Drummond, e nella mia esperienza è verissimo. Ti fanno sentire
bene, vorresti dosi sempre maggiori di ciò che ti offrono, e sono molto, molto
costosi.
A mio figlio Arthur dico che non deve per forza andare a scuola se non gli
va. Ci sono altri modi di educarlo e crescerlo. Se va a scuola è perché ha
deciso di andarci. Un soldato ha scelto di accettare che possano chiamarlo per
andare in guerra, e dunque ha accettato la possibilità di morire o restare ferito.
E comunque, tutti ci lamentiamo lo stesso. Io mi lagno in continuazione,
per esempio, delle tasse e della burocrazia. Certo, lamentarsi può essere
divertente. Il mio amico Murphy obietta: «Ma a me piace lamentarmi!». Be’,
ma allora, benissimo. Se vi piace, allora vi prendete la responsabilità delle
vostre lamentele, e le riconoscete come tali, e non come una risposta obiettiva
e razionale alla realtà che vi circonda.
Abbiamo tutto il diritto di scandalizzarci per lo sfruttamento, la brutalità, il
dominio. Possiamo lamentarcene. Ma dobbiamo anche essere consapevoli
della nostra complicità nel creare questa situazione. Se vi lamentate del vostro
lavoro, allora dovreste licenziarvi e inventarvi un lavoro su misura per voi.
Di recente ho scoperto una cosa sconcertante sulle donne. Sembra che
quando si lamentano non siano in cerca di soluzioni. Vogliono solo
lamentarsi, e pretendono che i loro mariti le commiserino, le consolino,
condividano il loro dolore. L’ultima cosa che le donne vogliono è ciò che i
mariti danno loro di solito, ovvero consigli. Non vogliono sentirsi dire di
«iscriversi a un corso» o di «trovarsi un lavoro». Vogliono solo lamentarsi. Al
maschio, che per sua natura è più diretto, tutto ciò sembra una follia. Ma
tant’è. E forse, dopotutto, è bene riconoscere che lamentarsi è in un certo
senso piacevole, perché celebra l’atto di lamentarsi. Victoria dice che il mio
equivalente della lamentela è la parolaccia. Imprecando riesco a sfogarmi, e
poi torno tranquillo come prima.
La soluzione è tenere per voi alcune delle vostre lamentele, e
semplicemente rimpiazzare le cose che odiate con quelle che amate. Quindi,
invece di andare al supermercato, ora ho un orto, invito gli amici, leggo libri,
ho un cavallo e sono circondato da persone che io stesso ho scelto. Evitate la
spazzatura, ignoratela. Sì, il mondo fa schifo ed è pieno di prodotti della
peggior qualità immaginabile. Quindi ignorateli, e createvi un mondo di
prodotti di alta qualità.
Se ho un conto in banca, non posso lamentarmi se mi obbligano a pagare
gli interessi; ma è ovvio che, essendo una banca, cercherà di succhiarmi più
soldi possibile. È una banca: è la sua natura. Potrei decidere di non avere più
un conto né una carta di credito.
Una delle cose per cui mi lagno più spesso sono le stazioni di servizio.
Quando visito questi postacci zeppi di spazzatura a caro prezzo, mi assale un
senso di snobismo nei confronti del mio prossimo. Poveri babbei, mi dico,
che si fanno gabbare così. Poi però mi rendo conto che anch’io mi sto
facendo gabbare, e quindi chi mi dà il diritto di sentirmi superiore agli altri?
«Chi diavolo è tutta questa gente?» ci lagniamo quando restiamo bloccati in
un ingorgo. Be’, siamo noi. Non possiamo separare noi stessi dagli altri. Le
volte in cui, invece, ho scelto di essere di buonumore, mi accomodo su un
autobus che attraversa Oxford Street e mi godo fino in fondo la varietà di vita
che mi circonda.
Lamentarsi, forse, è il primo passo. Ma ci sono molti modi di lamentarsi.
C’è la lamentela che serve soltanto a incolpare qualcun altro e sottrarsi alle
proprie responsabilità, e poi c’è la lamentela responsabile, o lamentela
positiva, potremmo chiamarla. Come dice Penny Rimbaud: «Le nostre vite
sono precipuamente e intrinsecamente nostre. È una responsabilità che pochi
sembrano disposti ad accollarsi». Se lamentandoci giungiamo ad accettare la
nostra responsabilità, allora la lamentela può tradursi in un atto positivo, un
passo nella direzione giusta.
Negli ultimi anni, nel Regno Unito si è diffuso un nuovo modo di dire, una
piccola locuzione che compare con regolarità nelle conversazioni, e che non
avevo mai sentito fino a tre o quattro anni fa. All’inizio suona blandamente
positiva, ma, riflettendoci meglio, mi sembra che mostri una celebrazione
esistenziale, della vita in sé. L’espressione è: «It’s all good», cioè: «Va tutto
bene». Generalmente è usata subito dopo che ci si è lamentati per qualcosa.
Quindi, brontolo per dieci minuti buoni con un amico, e poi concludo: «Oh
be’, ma in fondo, va tutto bene». Vuol dire: fa tutto parte della vita, e chi sono
io per dire che una cosa è migliore di un’altra? Dove sta scritto che Firenze è
meglio di Swindon? Uno dei grandi vantaggi del mestiere di scrittore è che
quando succede qualcosa di brutto posso sempre dire: «Oh be’, almeno ho
qualcosa di cui scrivere». E perciò quando, qualche tempo fa, sono dovuto
andare in tribunale per quella faccenda della guida senza assicurazione, ho
deciso di guadagnare il più possibile da questa esperienza, anziché
lagnarmene. Celebrate il male, celebrate il bene, perché alla fin fine
potrebbero essere la stessa cosa. Ah, a proposito, mi hanno assolto.

RINGRAZIA LA SORTE
Liberati dal mutuo e diventa un allegro vagabondo

Dalle mie poche parole di spiegazione, comprenderete che le


proposizioni «Dio è male» e «La proprietà privata è un furto» non sono
meri paradossi. Benché io difenda il loro senso letterale, non per questo
voglio che sia considerato un crimine credere in Dio, o che venga
abolita la proprietà privata.
PIERRE-JOSEPH PROUDHON (1864)

Oh, riuscire a liberarsi da questo maledetto mutuo! Quando tengo conferenze


sui piaceri e i vantaggi dell’ozio, una domanda che mi viene posta molto
spesso è: «Ma il mutuo?». Per molta gente, il mutuo è la ragione principale per
cui continuano a fare un lavoro che non amano. «Tu ci dici che dovremmo
starcene seduti a non fare niente» mi dicono «ma io ho le rate del mutuo da
pagare!» È chiaro che il mutuo è ormai assurto a simbolo di repressione.
«Devo solo finire di pagare il mutuo, poi sarò libero» dicono. Eccolo, questo
mostruoso elefante che ci blocca la strada, ci impedisce di camminare. La
proprietà privata, che promette libertà e dà solo schiavitù!
Ora, che cos’è esattamente un mutuo? Nient’altro che un forte debito che
contraete per poter vivere in una casa o un appartamento. Poiché il debito è
saldato nell’arco di venticinque anni, i tassi d’interesse sono relativamente
bassi, se paragonati ai prestiti a breve scadenza. Ci impegniamo a versare una
certa somma ogni mese. Basiamo l’ammontare della rata sul nostro attuale
stipendio, o magari sulle nostre speranze di ottenere un aumento in futuro.
Contrarre un mutuo sembra la cosa più sensata da fare, perché, secondo la
teoria dominante, alla fine sarete proprietari di un immobile. Un Paese fatto di
case di proprietà è dunque la nozione alla base della mania per i mutui. Ma nel
rincorrere questo sogno di possesso, finiamo per dare la maggior parte dei
nostri averi alle banche. L’idea che siamo noi a possedere quella casa è un
mito: è la banca a possederla, e noi paghiamo la banca. Gli interessi sul
prestito finiscono per superare l’ammontare del prestito stesso. Su un prestito
di 200.000 sterline, per esempio, al termine del mutuo avrete pagato più di
240.000 sterline di interessi. Quindi la banca vi ha venduto 200.000 sterline al
modico prezzo di 240.000 sterline. Un bel margine. E tutto ciò supponendo
che i tassi di interesse siano bassi e costanti; ma nessuno vi assicura che i tassi
non aumentino, e non certo per colpa vostra. Per un po’ ci siamo lasciati
abbindolare dal sistema dei sovvenzionamenti, per cui ogni mese si pagava un
extra che veniva investito in Borsa. Questo sistema si rivelò poi (molto più
tardi, e troppo tardi per molte persone) come una gigantesca truffa. Di solito
si dice che pagare un affitto vuol dire «buttare i soldi giù per il lavandino»; ma
il business dei mutui è un sistema organizzato per buttare gli stessi soldi giù
per un altro lavandino, quello degli usurai.
La nostra casa, in cui cerchiamo sicurezza, sembra capace solo di renderci
ansiosi e di farci sentire in trappola. Ora, perché accade questo? La saggezza
popolare (che io preferisco chiamare «lavaggio del cervello», dato che nella
nostra arroganza a volte crediamo di averla ideata da soli) sostiene che è bene
contrarre il mutuo più alto possibile. Ho letto di una nauseabonda coppia di
Notting Hill, due elettori del Partito conservatore, che affermavano di aver
«teso ogni tendine finanziario» per comprare la loro modesta villetta a schiera
in un quartiere alla moda. Al di là del fatto che costoro dovrebbero essere
espulsi dal consorzio delle persone beneducate, per il solo fatto di aver
coniato una frase vomitevole come «tendere ogni tendine finanziario», è l’idea
in sé che appare disgustosa: rendete la vostra vita uno schifo, per fare finta di
avere abbastanza soldi per vivere in un quartiere da ricchi. E poiché di solito
si tende a contrarre un mutuo leggermente più alto di quanto ci si può
permettere, i ricchi finiscono per sentirsi poveri. Ho perso il conto di quante
coppie borghesi benestanti e di successo hanno scelto di vivere in sontuosi
palazzi finanziati da enormi debiti, per poi lamentarsi del mutuo e delle loro
orribili sofferenze, come se non se la fossero cercata loro.
Be’, ci sono molte alternative, sia pratiche sia attitudinali. Ora
considereremo le alternative pratiche ai mutui, ma anche il modo in cui il
mutuo è diventato una «catena forgiata dalla mente», e vedremo che liberarci
da quella catena è questione di un nanosecondo. Raccomanderò anche, qui
come altrove, l’approccio alla vita basato su poca spesa, poco sforzo e molto
divertimento, noto come Permacultura.
L’alternativa più logica al mutuo è naturalmente l’affitto. Noi siamo in
affitto nella nostra casa nel Devon da quattro anni, e intanto diamo in affitto a
terzi la casa di Londra. Un lato negativo è che una casa in affitto non si può
personalizzare e ristrutturare più di tanto; ma il vantaggio economico è
innegabile, perché, anche se l’affitto può essere pari o superiore alla rata del
mutuo, non ci sono costi di gestione, caldaie da sostituire e così via. A quelle
cose ci pensa il padrone di casa.
Se i prestiti fossero più a lungo termine e i canoni di locazione più bassi,
affittare costituirebbe un’alternativa valida all’acquisto di una casa. Negli
ultimi venti o trent’anni le forze di mercato hanno spodestato qualsiasi
considerazione di ordine umanitario. Tutti siamo esposti ai sassi e ai dardi
scagliati dall’oltraggioso mercato, e tutti dobbiamo diventare mini-capitalisti
(per esempio, costruendoci un piccolo capitale e poi contraendo enormi
prestiti per finanziare l’espansione), per giocare la nostra parte nella grintosa
società meritocratica. Gli affitti sono alle stelle, e i prestiti in genere si possono
disdire con un mese di preavviso. Come affittuari, voi siete completamente
succubi dei capricci imprevedibili del capitalismo di mercato. Questo rende
difficile piantare radici. Se avessimo un sistema di prestiti a scadenza più
lunga, diciamo trenta o quarant’anni, e affitti più bassi, l’alternativa sarebbe
fattibile.
Il gruppo Bloomsbury, per esempio, ha preso in affitto Charleston e si è
assunta la responsabilità del suo mantenimento. John Seymour ha preso in
affitto il suo cottage fatiscente da un fattore. Ha fatto da solo tutte le
riparazioni necessarie e ha pagato un affitto modesto. Il gruppo Crass paga un
affitto per Dial House nell’Essex da trent’anni. Prendere una casa in affitto,
inoltre, significa non dover versare una grossa caparra. Procurarsi i soldi per
quella caparra comporta un sacco di lavoro ingrato per un sacco di persone.
Ciò che vogliamo non è tanto il possesso in sé, quanto la consapevolezza di
poter vivere in un luogo senza timore di venir cacciati da un momento
all’altro; un posto in cui piantare alberi da frutto e coltivare ortaggi, un posto
in cui tenere le galline. Nel Medioevo, gli affitti erano tendenzialmente bassi,
perché le proprietà erano amministrate dai monasteri. Anche le case padronali
erano locatori molto meno avidi di quanto si pensi. In The Common Stream,
la storia del villaggio di Foxton nel Cambridgeshire scritta da Rowland Parker,
leggiamo di affitti annuali di un penny per un appezzamento di 27 acri,
somma pari a circa un centesimo del reddito annuale di un contadino.
Immaginate di pagare oggi 300 sterline l’anno per quattro ettari di terra. E i
terreni erano distribuiti più equamente: a Foxton, 27 famiglie si spartivano 840
acri [340 ettari]. I vassalli e i monaci erano ben diversi dai promotori
immobiliari di oggi: non facevano compravendita di proprietà terriere nella
speranza di trarne grossi profitti. Erano amministratori a lungo termine della
proprietà e della terra che di essa faceva parte. L’istituzione, famiglia o
monastero che fosse, era più longeva del singolo individuo. La sostenibilità
era inclusa nel prezzo. Rowland Parker cita esempi di canoni d’affitto rimasti
immutati per cinquecento anni; c’erano anche gli «affitti-grano-di-pepe»: vale
a dire, gratis. Come in altre aree della vita, mantenere una comunità unita era
più importante che far soldi, e gli affitti bassi e i prestiti a lunga scadenza
tendevano a promuovere l’armonia.
In Masterless Men, il suo studio del vagabondaggio tra il 1560 e il 1640,
A.L. Beir scrive:

[…] nell’Alto Medioevo, i poveri erano legati in modo piuttosto stretto alla terra.
Prima della metà del Cinquecento, avevano ancora giardini e orti da cui trarre il cibo
[…] allevavano bestiame nelle terre comuni; e arrotondavano i guadagni con lavori
saltuari e a domicilio. Nei periodi difficili, senza dubbio erano aiutati dai parenti, dai
vicini, dagli amici.

Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento questo sistema iniziò a
essere smantellato. Dice Beir: «Il sistema dell’agricoltura in campi aperti passò
da un sistema comunitario a uno individualistico». Nel Cinquecento, dice, i
nuovi proprietari terrieri alzarono i canoni di affitto e imposero nuove tasse, e
«nel 1600 al popolo inglese era ormai stata sottratta la principale risorsa del
Paese». Il Medioevo vide una diffusione della proprietà o della locazione delle
terre di tipo quasi comunistico. A Chippenham, per esempio, la percentuale di
proprietari di casa che non possedevano terra salì dal 3,5 per cento del 1279 al
32 per cento nel 1544, fino al 63 per cento nel 1712. Strappato dalla terra, il
povero contadino «non faceva più parte di un’economia vassallatica».
Prima del 1600, il contadino medio non se la passava per niente male. Era
più libero di quanto generalmente si pensi. Viveva esattamente come oggi
vorrebbero vivere gli operatori di borsa: una grande casa in campagna, con
cavalli, animali e terre. Solo che il contadino, per mantenersi, non doveva
correre in città a faticare alle sette del mattino di ogni giorno feriale: gli
bastava lavorare uno o due giorni la settimana sulla terra padronale. Ogni
contadino che affittava un pezzo di terra contraeva un accordo con la casa
padronale. Ecco due esempi, risalenti al Ducecento, tratti da Rowland Parker:
Thomas Vaccarius gestisce nove acri di terra con una casa, ed è tenuto a cento giorni
di lavoro all’anno, ad arare un acro e a espletare servizio di trasporto ove richiesto.
Riceverà una gallina, falcerà e accatasterà. I suoi servigi sono ripagati con dieci
scellini l’anno, e paga una pigione di tre pence.
John Aubrey gestisce diciotto acri di terra con una casa, ed è tenuto a cinquantadue
giorni di lavoro l’anno; deve arare due giorni, più altri due in occasione della
mietitura; deve falciare il prato per due giorni, trasportare il fieno, riparare il tetto
della casa padronale, vangare i campi d’avena insieme ai suoi compagni, e riceverà
una gallina e sedici uova. I suoi servigi sono ripagati con nove scellini e otto pence, e
paga una pigione di due scellini e sei pence.

Per l’affitto dei suoi 9 acri, Thomas Vaccarius spendeva una percentuale
minima dei suoi guadagni. Lavorava due giorni la settimana. John Aubrey
deteneva 18 acri di terra e doveva lavorare solo un giorno alla settimana, e
che, alle percentuali di oggi, gli renderebbe 30.000 sterline l’anno (a fronte di
un affitto pari a 7.000 sterline, una cifra modesta per un appezzamento così
vasto). Per i restanti cinque-sei giorni alla settimana, Thomas e John
lavoravano nei loro campi e praticavano una o più attività di artigianato, con
cui arrotondavano i guadagni.
E poi arrivò il vile attacco di Enrico VIII e dei puritani contro il vecchio
modo di vivere. Il mutuo, che sposta tutto l’onere dell’acquisto di una casa
sulle spalle di un solo individuo, è la logica conseguenza
dell’individualizzazione della proprietà privata. Ma la realtà è che quando ci
hanno venduto l’idea che tutti dovremmo possedere le case in cui viviamo, ci
siamo lasciati abbindolare dagli usurai.
Dobbiamo far diffondere il possesso della terra, proibire i mutui a tassi
d’usura, calmierare gli affitti e far scendere i prezzi delle case. Forse per fare
tutto ciò basterebbe perdere interesse nel guadagno. E i proprietari terrieri
devono reinventarsi come bonari mecenati, del tutto disinteressati al profitto.
Un buon ruolo per i ricchi sarebbe quello di concedere a noi tutti i loro
immobili, con affitti bassi. E noi dobbiamo smetterla di volere case sempre
più grandi. Uno degli aspetti più affascinanti della Permacultura è che mostra
come trarre il meglio da ciò che abbiamo e goderci il luogo in cui siamo,
anziché attribuire i nostri problemi alla scarsità di spazio, soldi, tempo.
Finché non arriverà quel giorno felice, dovreste prendere in considerazione
gli squat, le case occupate. L’occupazione abusiva è una scelta assolutamente
logica per chi insegue la libertà. Gli squatters non fanno che occupare edifici
abbandonati e viverci. La cosa può funzionare alla perfezione. Un gruppo di
miei amici ha vissuto in una casa abusiva per oltre cinque anni. Pian piano
hanno ristrutturato l’edificio, man mano che imparavano le basi della
carpenteria. Non pagavano affitto né rate del mutuo, il che toglieva loro una
delle principali motivazioni per dedicarsi a lavori sgraditi, e dunque
assicurava loro un alto livello di libertà. Il grande collettivo artistico Mutoid
Waste Company trasformò lo squatting in una forma d’arte negli anni Ottanta
e Novanta. Vivevano in case occupate in giro per Londra, poi a Berlino e in
tutta Europa. Si trasferivano in un grande magazzino, dove trascorrevano le
giornate realizzando fantastiche sculture con gli avanzi del cibo, e le nottate a
ballare e divertirsi; erano davvero la reincarnazione dei trovatori medievali.
Come san Francesco d’Assisi, rifiutavano il denaro, per poi viaggiare intorno
al mondo come pazzi e saltimbanchi.
Un’altra opzione realistica è vivere in una comune. Prendete qualche amico
e andate a vivere tutti insieme in una casa. Potreste anche comprare casa
insieme e dividere il mutuo. O unirvi a una comune già esistente. Secondo
Diggers and Dreamers, un libro che elenca gli esperimenti di vita comune
attualmente in corso nel Regno Unito, ci sono almeno 2500 persone che
vivono così, in almeno 100 comunità. Non ho dubbi che la cifra reale sia
molto più alta, perché molte comunità più informali non saranno incluse nella
lista. Trovate quattro villette a schiera in fila e buttate giù le pareti divisorie,
come i Beatles in Help!.
Molti di noi hanno condiviso appartamenti con gli amici, negli anni
dell’università; ed è un sistema che funziona, a parte la sporcizia che regna in
una casa abitata da quattro giovani adulti irresponsabili e incapaci. Quando
poi cresciamo, ci convinciamo che un appartamento tutto per noi, magari da
dividere con il partner, sia uno dei vantaggi della schiavitù retribuita, e
scappare dalla coabitazione studentesca diventa una questione di status
sociale. Ma pensate a quanto vivrebbero bene insieme dei giovani adulti,
ormai in grado di mandare avanti una casa.
Oggi, Dial House nell’Essex ci offre un esempio vivente di tutto ciò. È un
cottage con cinque camere da letto e un acro di terra, e negli anni ci hanno
vissuto fino a venti persone contemporaneamente, benché al momento siano
solo in tre. Il loro caso dimostra cosa si può ottenere con le persone anziché
con i soldi: la casa ha ottime finiture e uno splendido giardino. Gli abitanti
hanno costruito dei capanni e stanze in più nei giardini. È uno schema
efficace, ed è sorprendente che non sia stato adottato da più persone.
Dopotutto, è un’idea molto semplice: un gruppo di amici che condividono la
casa. L’edificio è oggi di proprietà di un consorzio, che l’ha comprato quando
era minacciato dai promotori immobiliari.
L’idea alla base della casa dei Crass era un approccio «aperto»: in altre
parole, si offriva ospitalità e accoglienza a chiunque. In questo senso è
l’equivalente laico di un monastero medievale, luogo di pace e rifugio, ma
anche un ambiente di lavoro stimolante: cucinare, fare il pane, coltivare, fare
cose. Penny Rimbaud è un prete laico, e l’altro artista e coinquilino Gee
Vaucher è la madre superiora. L’ultimo progetto di Penny è una capanna di
legno con un campanile e vetrate istoriate. Stranamente simile a una cappella.
Ma soprattutto, molto simile alla Fratellanza dello Spirito Libero, quei
bohémien trecenteschi che vivevano in gruppo in quelle che chiamavano Case
della povertà volontaria.
Penny Rimbaud auspicava la formazione di una rete di case simili in tutto il
Paese, tutte a meno di una giornata di cammino l’una dall’altra. Credo che
sempre più persone dovrebbero seguire il suo esempio e aprire le loro case ai
viaggiatori.
Un’altra opzione sarebbe comprare una casa molto a buon mercato, e molto
isolata. Potete sempre dormire a casa di amici, quando siete in città. Poi avrete
un piccolo mutuo, o costruirete da soli la vostra casa. Mi risulta che le case di
mattoni col tetto di paglia stiano tornando molto in voga. Compratevi un
ettaro di terra e costruiteci una casetta. Poi ingranditela, anno dopo anno.
Diventate architetti. Dividete le spese con gli amici. L’altra domanda da porvi
è: avete proprio bisogno di una casa così grande? Conosco molti londinesi di
successo che, spinti dal desiderio di una bella casa in campagna, si sono
caricati sulle spalle un mutuo colossale, che li ha resi letteralmente schiavi del
loro impiego. Pur guadagnando quello che a noi sembrerebbe uno stipendio
principesco, si sentono oppressi dal debito e quindi ricorrono a ogni sorta di
strategia machiavellica per tenersi stretto il lavoro o per ottenere una
promozione. Sono perennemente in preda all’ansia. Ma a che serve la bella
casa? Di certo significa forti spese. Più è grande la casa, più lavoro c’è da fare.
Più pulizie, più mobili, più spese, più fatica, più seccature.
Ancora una volta, consiglio di dare un’occhiata alla rivista «Permaculture»,
ricchissima di esempi di persone che si sono ritagliate stili di vita a basso
costo, a volte costruendosi da soli la casa, nel folto di una foresta. Un
problema che incontrano spesso è quello delle leggi sull’urbanistica. Per
qualche oscura ragione, come ho già detto, gli uffici preposti non hanno
nessun problema a concedere i permessi per costruire i dispendiosi
supermercati che affollano le nostre città; ma se chiedete il permesso di
costruire una capanna nel bosco, scoprirete che è praticamente impossibile. È
evidente che le autorità non sopportano chi vuole essere libero.
Un’altra alternativa è il vagabondaggio. Liberatevi dal mutuo e andate in
strada. Nel Medioevo, come abbiamo visto, il vagabondaggio era socialmente
accettabile, soprattutto grazie all’esempio offerto da san Francesco e dai frati
mendicanti. Sembra che Gesù non abbia mai dovuto combattere con le rate
mensili del mutuo: era un vagabondo, viveva dell’ospitalità altrui. In India,
oggi, abbiamo l’esempio dei sadhus, i santoni pazzi che arrivano in un
villaggio, approfittano per qualche giorno dell’ospitalità e della mensa altrui, e
poi ripartono. Gli indiani non si sognano neppure di iscrivere i sadhus
all’ufficio di collocamento. Non li sdegnano in quanto senzatetto, né si
sforzano di reinserirli nella società «normale». Così dovrebbe accadere
quando la Mutoid Waste Company arriva in città: dovremmo accoglierli a
braccia aperte, non cercare di trovar loro un impiego.
Il problema del vagabondaggio è che i governi non lo sopportano. Odiano
il caos, gli elementi di disobbedienza, l’idea che ci sia gente che se ne va in
giro per il Paese a fare ciò che gli pare. Più i governi acquistano potere, più
aumenta il loro risentimento nei confronti dei vagabondi, e più usano la mano
pesante contro di loro. I vagabondi furono lasciati in pace, o addirittura
incoraggiati, per novecento anni; ma poi, i governi centralizzati, ordinati e
autoritari del periodo Tudor introdussero una serie di leggi contro il
vagabondaggio. Era diventato un problema, e per due ragioni: la prima è che,
dopo la Riforma protestante e gli Enclosure Acts, migliaia di persone avevano
perso il lavoro a causa di un processo che oggi chiameremmo privatizzazione.
Il vecchio sistema collettivo era sotto attacco. Quindi c’erano più mendicanti.
In secondo luogo, di quei mendicanti non si prendevano più cura i monasteri
e le grandi case aristocratiche. Da un lato, i monasteri erano stati requisiti dai
nuovi arricchiti avidi; dall’altro, la tradizione cattolica dell’ospitalità era messa
in forse dal nuovo individualismo protestante.
La nuova etica del lavoro non riuscì inoltre a comprendere il ruolo del
vagabondo nella società. Nel 1565, il ministro Sir Thomas Smith scriveva:
«Non avendo rendita o reddito sufficienti per mantenersi, vive in modo così
ozioso, è messo sotto accusa, a volte mandato in prigione, a volte altrimenti
punito in quanto vagabondo recidivo: tale è l’odio del nostro governo per
l’ozio». Quando le prigioni furono piene di questi vagabondi recidivi, le
autorità decisero di mandarli nelle nuove piantagioni in Giamaica, dove
sarebbero stati a contratto per sette anni. Si narra che li trattassero peggio degli
schiavi, perché era nell’interesse degli schiavisti che gli schiavi fossero ben
nutriti e ragionevolmente sereni, dovendo essi continuare a lavorare per tutta
la vita. Gli esuli a contratto, invece, dopo sette anni se ne sarebbero andati, e
quindi non c’era interesse a tenerli in salute; o in vita, se è per questo.
Le case di correzione erano l’equivalente elisabettiano dei campi di lavoro o
di concentramento nazisti: una legge del 1576 stabilì che «i giovani possono
essere abituati e addestrati alla fatica e al lavoro»; e i bambini pigri dai cinque
ai quattordici anni erano messi alla gogna o frustati. Altre categorie di uomini
guardate con disprezzo dalle autorità erano «venditori ambulanti e stagnini,
soldati e marinai, intrattenitori, studenti, guaritori senza licenza, indovini,
maghi». Gli zingari e gli irlandesi erano trattati alla stessa stregua dei
vagabondi, e una legge del 1572 ricacciava gli irlandesi nel loro Paese,
accusandoli di «papismo» e ribellione. È sempre la solita storia: il pugno di
ferro del governo contro l’ozio.
Ma la domanda forse più importante è: cosa intendiamo con la parola
«casa»? È possibile che il vagabondo senza tetto si senta più «a casa» del
banchiere vincolato al suo mutuo. Investire tempo e soldi nei mutui e nella
«casa dei sogni» non sarà mai altro che un diversivo rispetto al vero
problema, che siete voi e il vostro stato d’animo. Il mutuo è lo sfruttamento
economico del nostro desiderio di casa. Troverete ciò che state cercando
quando smetterete di cercare.
Ma la risposta definitiva alle preoccupazioni sul mutuo è semplice: non
preoccuparsi. È tutta una finzione. Non lasciatevi deprimere dal debito. Chi se
ne importa del debito? Vi ritroverete mai senza casa e senza niente da
mangiare? Improbabile. Quindi, quanto mai può andar storto? La Cosa ama
vedervi indebitati. Gli affaristi della City, che possiedono il vostro debito,
amano il vostro debito. Non vi stanno facendo un favore, per quanto il loro
materiale promozionale cerchi di farvelo credere. Vi stanno sfruttando. Gli
usurai fanno affari e si divertono da matti. Per amor del cielo, non lasciate che
vi facciano sentire in colpa. Sono loro quelli che dovrebbero sentirsi in colpa,
perché sono peccatori, condannati alle fiamme eterne! Evviva!

APRI AGLI ALTRI LA TUA CASA


La famiglia antinucleare

Lasciate stare i bambini. Mandateli fuori in strada o al parco, e non


curatevi di loro.
D.H. LAWRENCE, Education of the People (1918)

Sentiamo parlare spesso di «famiglie disfunzionali». La famiglia dovrebbe


essere una fonte di piacere, divertimento, intimità e nutrimento; ma ovunque
sembra produrre nient’altro che miseria, fame, porte sbattute, urla, crudeltà,
lotte, morte e abusi. C’è qualcosa che proprio non va. Sono convinto che le
famiglie, in generale, siano semplicemente troppo piccole. Esse sono, inoltre,
entità non creative.
Fin troppo spesso, «famiglia» oggi significa solo quattro persone
completamente diverse e ostili l’una all’altra che vivono sotto lo stesso tetto.
Le famiglie di una volta erano unità creative, funzionanti, produttive. Cucire,
lavorare a maglia, rammendare e coltivare erbe e ortaggi non erano per forza
una faticaccia (e certo non lo sono, se paragonate al lavoro a tempo pieno in
un call center o in un supermercato). Il lavoro autogestito, il lavoro
produttivo, il lavoro autonomo, il lavoro creativo: questo sì che può essere
una gioia. La fatica è fatica solo se la chiamiamo fatica. È la mente a renderla
tale. Quando la famiglia era un organismo vivente, che forniva cibo, vestiti e
un tetto sulla testa, eravamo noi, molto spesso, a inventarci i nostri lavori. La
casa di famiglia offriva opportunità di lavoro, divertimento, vitto, alloggio e
panni puliti.
Ma più le aziende crescevano, più si restringevano le famiglie. Le
megacorporazioni hanno ormai assunto il ruolo di guida e fulcro della
comunità. La centralità della famiglia come entità produttiva è praticamente
scomparsa, e la casa oggi non è più che un pied-à-terre senza scopo, una zona
relax e un rifugio, un posto in cui guardare la tv. Un tempo, in famiglia si
lavorava tutti insieme; oggi, le famiglie sono diventate passive e
profondamente anticreative. La famiglia moderna rappresenta soltanto un
onere finanziario: in altre parole, una forza che ci spinge a fare un lavoro che
non ci piace. Di recente ho letto di una madre che iniziò a lavorare in un
supermarket – lavoro che odiava – solo perché i suoi figli potessero
comprarsi scarpe costose e videogiochi per non essere da meno dei compagni
di scuola. È proprio questo il genere di pensiero arrendevole e passivo che
dobbiamo rifuggire se vogliamo inseguire la libertà.
Che ci crediate o no, è davvero possibile armonizzare attività utili e
piacevoli con la tanto temuta «cura dei figli», la cui mercificazione è un altro
dei malefici effetti del capitalismo. Guadagnate soldi facendo qualcosa che
non vi piace, allo scopo di pagare qualcun altro perché «si occupi dei
bambini». La famiglia disfunzionale, peraltro, crea una gigantesca industria
parassitaria di professionisti, farmaci, terapie e libri bestseller che aiutano a
sopravvivere alla famiglia. Ma sono tutti palliativi, che servono a ben poco:
anzi, a forza di parlare del problema, riconoscerlo, dibatterlo e sproloquiare
vanamente, c’è anche caso che lo peggiorino. Confermando che un problema
esiste, create un mercato. Ecco perché l’industria farmaceutica non fa altro che
creare nuove malattie. Ecco perché l’industria delle assicurazioni non fa che
creare nuove paure. Ecco perché il governo non fa che inventarsi nemici. C’è
un disperato bisogno di deindustrializzare.
Molto meglio, allora, ignorare tutti questi consigli a caro prezzo, l’aiuto
degli «esperti», e introdurre in casa vostra il lavoro minorile. Fatevi aiutare dai
vostri figli. Fate di loro dei produttori, dei creatori. A casa mia, ho scoperto
che ai bambini piace aiutare in giardino, per esempio. Ogni tanto, di
pomeriggio, andiamo in laboratorio con una sega, uno scalpello e un pezzo di
legno e costruiamo qualcosa. Siamo usciti da quel laboratorio con elefanti,
aeroplani, razzi e un pezzo d’arte astratta, intitolato «Bosco Selvaggio»: due
pezzi di legno inchiodati l’uno all’altro a forma di croce e ricoperti da ritagli di
giornale. Oggi è appeso nella cucina di un artista piuttosto quotato. Questo è
ciò che sono riuscito a ottenere senza un briciolo di talento o abilità. Devo
confessare che questi giocattoli hanno riscosso un po’ meno successo, con i
ragazzi, rispetto ai robot radiocomandati e alla macchina per fare monete di
cioccolata. Ma i bambini sono costantemente a un passo dall’essere creativi e
d’aiuto. Quando finalmente trovo il coraggio di spegnere la tv, piagnucolano
per qualche minuto e poi si adattano alla situazione, e ben presto li ritrovo
intenti a giocare, disegnare o costruire qualche fantasioso macchinario con
vecchie scatole di cartone.
Un’altra soluzione semplice è dividere la famiglia in piccoli gruppi. Può
servire a disinnescare la tensione nucleare. I miei figli si comportano
benissimo quando li porto fuori da soli. Hanno tutta la mia attenzione, perché
non sto cercando di chiacchierare con Victoria. Mi assumo anche tutta la
responsabilità, e dunque, per esempio, non aspetto che sia Victoria a cambiare
il pannolino di Henry.
Evitate come la peste le Gite Fuori Porta con famiglia. È un disastro
assicurato infilare quattro-cinque persone in un’utilitaria e partire per una Gita
Fuori Porta. Le Gite Fuori Porta, di solito, significano spendere soldi (al luna
park, o al bowling) nel tentativo di salvare la famiglia, di fare la cosa giusta.
Ma sono inevitabilmente deludenti. Crediamo che i soldi significhino amore,
ma i soldi non fanno che spingere i nostri figli a battibeccare e accusarci di
ingiustizia. Come genitori, siamo diventati gravemente disabili. Chiediamo
aiuto in ginocchio. «Aiutatemi!» gridiamo, e la cultura del consumismo ci
risponde: «Per sole 9 sterline e 99 di biglietto d’ingresso (o 9,99 al mese, con
comodo bonifico bancario) ti aiuteremo!». Finiamo per fare cose ridicole. Per
esempio, invece di portare i ragazzi a giocare nel bosco, nei campi, nelle valli
e sulle spiagge vicino a casa, andiamo nella città più vicina, a mezz’ora di
macchina, e paghiamo fior di quattrini per infilarli in un enorme ammasso di
tubi di plastica imbottiti chiamato Bumper Back Yard.
Un’altra soluzione è invitare più spesso gli amici a casa propria.
Condividete il fardello. Fate cambio. Riempite la vostra casa di bambini altrui.
Restate in cucina a bere con i loro genitori, mentre i bambini scorrazzano in
casa o in giardino. Quando invitiamo due o tre bambini per giocare con i
nostri, loro si divertono insieme e io posso lavorare in santa pace. Per tre anni
abbiamo avuto una tata, e per pagarla abbiamo acceso un secondo mutuo
sulla casa. Il grande vantaggio è stato l’espansione della famiglia. Quando
c’era lei ci comportavamo tutti meglio; ha portato divertimento e buonumore;
siamo riusciti a recuperare un po’ del nostro debito di sonno. Ma io e Victoria
abbiamo scaricato su di lei la responsabilità: un amico ci ha fatto notare che i
bambini si comportavano male con noi e bene con la tata.
Uno dei maggiori problemi della famiglia nucleare è che si è sempre gomito
a gomito, ormai poco abituati a stare e a fare le cose da soli. È senz’altro
questo il problema che abbiamo avuto con Arthur. A cinque anni era
diventato dipendente da un flusso continuo di intrattenimento: aveva
costantemente bisogno della tv, di compagnia, di giocare o di usare il suo
computer. Non era autosufficiente, cercava continuamente stimoli esterni.
L’altro giorno mi ha detto, arrabbiato: «Ho bisogno di… intrattenimento!». In
altre parole, rischia di perdere le risorse interne per giocare. È un contrasto
netto rispetto ai suoi due fratelli, che hanno conosciuto la solitudine molto più
di Arthur, appunto perché sono il secondo e il terzogenito. Quindi sono
riusciti a sviluppare l’autosufficienza. Il modo di esprimersi di Arthur, la sua
dimostrazione pubblica di libertà, consiste nel gridare «No!» quando gli si
chiede di fare qualcosa.
La cosa meravigliosa dei bambini non è la loro cosiddetta innocenza, ma la
passione per la vita. Questa passione può assumere la forma di lacrime o
risate, e dobbiamo ficcarci in testa che lacrime e risate sono entrambe cose
positive. Non si può avere l’una senza l’altra. Potrebbero anche divertirsi,
come i medievali che sembravano abbracciare tutti gli estremi della passione.
Ed è la stessa passione che dobbiamo trovare in noi stessi.
Nel lungo saggio Education for the People, scritto nel 1918, D.H. Lawrence
offre consigli molto utili su come crescere i nostri bambini. Il suo è un
approccio semplice alla vita famigliare, che richiede meno lavoro e zero spese
e offre risultati migliori. «Prima regola: lasciateli in pace» dice. «Seconda
regola: lasciateli in pace. Terza regola: lasciateli in pace». Lawrence sostiene
che c’è qualcosa di sbagliato nell’amore materno sentimentale e stucchevole.
Dunque, il consiglio di «lasciarli in pace», che io mi ripeto come un mantra
ogni santo giorno, permette ai bambini di crescere a modo loro. È
l’interventismo paternalistico, perpetrato in nome dell’amore, che crea i
problemi. È il tentativo di imporre un ordine alla natura che provoca la
malattia fisica e mentale. Oggi ci dicono che dobbiamo trascorrere «tempo di
qualità» con i bambini, «lasciare spazio al gioco ogni giorno». Regole e liste di
cose da fare hanno un effetto negativo, per la semplice ragione che
trasformano l’essere genitori da qualcosa che si fa per amore in un dovere. Lo
fanno diventare un lavoro, qualcosa da schivare ed evitare. Trasformano la
cura dei figli in una gran faticaccia, quando invece l’obiettivo dovrebbe essere
quello, semplicissimo, di vivere insieme le nostre vite. Se imparate a pensare
prima di tutto al vostro piacere, ed evitate la trappola di fare le cose solo per
senso del dovere (solo per poi farvi assalire dai rimpianti), vi ritroverete a
giocare con i bambini in orari non programmati, con grande naturalezza.
Il consiglio di Lawrence, la filosofia del «lasciateli in pace», testimonia
anche un profondo rispetto per il bambino, molto più che nelle giornate piene
di impegni e nell’approccio basato sul dovere e la colpa. Non sarà mica che i
bambini non vogliono avere i genitori tra i piedi in ogni momento? Quando
un uomo politico annuncia di voler passare più tempo con la sua famiglia, io
mi domando sempre: d’accordo, ma la tua famiglia vuole passare più tempo
con te? E come i bambini dovrebbero imparare a dire: «Lasciateci in pace» ai
loro genitori, così noi adulti dovremmo dire la stessa cosa a chi ci governa.
Perché naturalmente il processo è il medesimo: se permettiamo a noi stessi di
farci guidare dall’esterno, perderemo ogni autonomia, e si consolideranno le
brutte abitudini della dipendenza e dell’inutilità.
Una cosa che mi deprime molto è l’argomentazione che, con tediosa
regolarità, sento provenire dagli altri genitori, di solito a proposito dei figli
maschi: «Farà meglio a crescere forte, perché il mondo là fuori è difficile, c’è
competizione…». Perché allora non dire: «Il mondo là fuori è meraviglioso,
quindi rendiamo meraviglioso nostro figlio!». La soluzione al fatto che il
mondo è pieno di coglioni non è rendere coglione vostro figlio. Date il buon
esempio!
In realtà, il mondo là fuori diventa difficile solo se scegliete di renderlo tale.
Se vedete la vita come una gara o una competizione, questo sarà. Se, invece,
scegliete di vederla come un luogo di meraviglie e magie, lo diventerà. Se
diciamo ai nostri bambini che tutto è orribile, ingiusto e difficile, non
facciamo che peggiorare il problema.
Stiamo uccidendo i nostri figli soffocandoli negli impegni extracurriculari; e
così facendo stiamo dando vita a una nazione di persone non autosufficienti,
incapaci di fare alcunché da soli, a parte alcune costose e straordinariamente
inutili occupazioni come i videogiochi, il tennis e la danza classica. Stiamo
creando una generazione di bambini che non sanno più come si fa a giocare.
Ricordo una vignetta del «New Yorker» in cui due ragazzini si fronteggiano
armati di computer palmare. «Ok» dice uno di loro. «Posso trovare una
finestra per una sessione speciale di gioco, questo giovedì alle quattro.» Molte
di queste cosiddette attività non sono che distrazioni, diversivi, bagattelle.
Dovremmo semplicemente lasciare che i nostri bambini giochino tra loro e
creino i loro giochi, cosa che prontamente faranno se solo li lasciamo
organizzarsi da soli. E mentre loro fanno le loro cose voi potete fare le vostre.
Perché la cura dei figli non diventi una fonte di frustrazione, di solito io mi
porto dietro un libro. Mentre i ragazzini giocano serenamente tra di loro, io mi
godo un paio di pagine della Vita di Johnson di Boswell, o qualunque altra
cosa io abbia in tasca quel giorno.
Un esempio di follia programmatoria infantile tratto dalla mia vita privata è
quella volta in cui Victoria fissò delle lezioni di tennis per Arthur, a mezz’ora
di macchina da casa nostra, per il sabato mattina alle 9! Voglio dire, per una
volta che non ci dobbiamo alzare presto per mandarlo a scuola, arriva lei e gli
fissa un appuntamento di mattina presto, e spendendo parecchio, anche! Ha
trovato un rimpiazzo per la scuola! Quanto è folle tutto ciò?
L’iperprogrammazione dilagante deve morire! Lasciateli in pace!
Il nostro modo di risolvere questo problema è di spenderci su molti soldi e
sperare che questo basti. Scegliamo di delegare la cura dei nostri figli a degli
esperti. Le madri gridano: «Sono una pessima madre!». I padri girano per
casa lamentandosi e sbraitando contro i neonati. E perché? Perché siamo
inermi e impotenti; le famiglie sono troppo piccole; non conosciamo le buone
maniere. Il mio consiglio è: fate lavorare i vostri figli per voi! Ma in realtà,
poiché tutto è futile, non importa cosa fate. Ci penseranno i ragazzi a mettere
le cose a posto. Quindi non stressatevi più.

LASCIA IN PACE I TUOI FIGLI


Disarma il dolore

Il nostro contributo più importante alla società è la scoperta e lo


sviluppo di medicinali che aiutano le persone a fare di più, sentirsi
meglio e vivere più a lungo.
Dal sito web di una multinazionale farmaceutica

La vita, sempre piena di dolore, è ancor più dolorosa oggi di quanto


non fosse nei due secoli precedenti. Il tentativo di sfuggire al dolore
conduce gli uomini alla volgarità, all’autoinganno, a inventare vasti
miti collettivi. Ma questi sollievi temporanei, nel lungo periodo, non
fanno che aumentare le fonti di sofferenza.
BERTRAND RUSSELL, «Useless» Knowledge (1935)

Dolore vuol dire profitto: in una società più onesta della nostra, sarebbe
questo lo slogan dei colossi farmaceutici. Perché questa è la semplice e nuda
verità: più dolore sentite, più pillole ingurgiterete; e più pillole ingurgitate, più
sale il valore di mercato delle azioni di quell’azienda. E più dolore c’è nel
mondo, più sarà alto il profitto. Il passo logicamente conseguente, dunque, è
di creare il dolore: di provocare sofferenza, depressione, disturbi bipolari allo
scopo di venderne il rimedio. Le nuove malattie creano nuovi mercati. E in un
certo senso, accade proprio questo. Siamo oppressi da impieghi noiosi,
monitor che sbraitano, desideri impossibili. C’è una splendida installazione di
Damien Hirst intitolata Looking Forward to the Total and Absolute
Suppression of Pain [Auspicando la totale e assoluta soppressione del
dolore], in cui quattro monitor trasmettono simultaneamente, e a volume
assordante, altrettanti diversi spot pubblicitari di analgesici per il mal di testa.
Le soluzioni proposte per il dolore sono esattamente ciò che ci provoca quel
dolore. Il sistema che ci fa soffrire promette di liberarci dalla sofferenza.
L’obiettivo, che non si raggiunge mai, di una soppressione totale del dolore
è un obiettivo molto redditizio. Il presidente di una delle maggiori aziende
farmaceutiche inglesi riceve un salario annuale (bonus inclusi) di quattro
milioni e mezzo di dollari. In aggiunta, l’azienda versa ingenti contributi
annuali al suo piano pensionistico e, naturalmente, questo signore possiede
moltissime azioni. Il fatturato annuo della sua multinazionale è di 20 miliardi
di sterline, e i profitti ammontano a 6,1 miliardi, la maggior parte dei quali
proviene da un singolo farmaco, un antidepressivo molto diffuso.
Dei 100.000 dipendenti, 40.000 lavorano alle vendite e nel marketing. Le
grandi case farmaceutiche hanno anche un esercito di venditori «non
retribuiti»: i medici di famiglia, che in realtà sono retribuiti eccome con i soldi
dei contribuenti. Non si fanno pregare per scarabocchiare una ricetta per gli
antidepressivi.
Lo slogan della casa farmaceutica in questione, citato all’inizio di questo
capitolo, riassume le sordide ambizioni dell’uomo moderno: «Fai di più,
sentiti meglio, vivi più a lungo». Al di là del fatto che sono tutte parole
fumose e relative, e quindi del tutto prive di significato, la mancanza di
passione per la vita che dimostrano è estremamente preoccupante. «Fai di
più»: come se «fare» fosse in sé una cosa buona, e più si fa, meglio è. Direi
che a questo mondo si «fa» sin troppo. La reazione responsabile a un mondo
attanagliato da problemi medici e ambientali che noi stessi abbiamo creato,
intervenendo troppo, sarebbe semmai quella di «fare» di meno, non certo di
più. È il «fare» che ha creato tutti questi problemi. E perché mai un «fare di
più» fine a se stesso dovrebbe essere un obiettivo valido? Hitler e Stalin
hanno «fatto di più», ma mi sembra chiaro che le cose sarebbero finite molto
meglio se avessero «fatto» di meno. «Sentiti meglio»: be’, qui c’è l’idea di
sopprimere il dolore. Il dolore è visto come un intralcio che ostacola il «fare».
Io invece lo vedo come una gradita opportunità per non «fare» nulla per
qualche giorno o qualche ora. Se stiamo male, la cosa più logica non sarebbe
infilarci sotto le coperte con una pila di libri e una scodella di macedonia? E
quanto al «vivi più a lungo», qui sta un altro problema. La qualità della vita è
stata sacrificata sull’altare della quantità di vita. Lo scopo è diventato vivere
più a lungo possibile, anziché vivere con pienezza.
Il presidente di quella casa farmaceutica, oltre a decantare i suoi profitti, si
vanta anche delle intenzioni caritatevoli dell’azienda. Il mondo delle pillole, il
sacramento della modernità, è vasto e spaventoso. La corruzione della Chiesa
cattolica medievale è una goccia nell’oceano, se paragonata alle dimensioni
smisurate, ai profitti inimmaginabili e alle porcherie che tirano fuori questi
piazzisti su scala globale, afflitti da un desiderio insaziabile di crescita e
impazienti di aprire nuovi mercati per i loro rimedi per l’artrite e veleni vari.
Ma ora basta parlare del profitto che deriva dal dolore; l’ho menzionato
solo nella speranza che liberarci dal dolore ci sarà più facile quando capiremo
che la sua creazione va a vantaggio del sistema del profitto. Essere felici e
divertirci, allora, diventa una forma di ribellione.
Ma la paura del dolore può anche diventare un ostacolo alla vita. Anzi, la
paura della sofferenza fisica può essere vista come paura della vita, dal
momento che la vita è dolore. Sarebbe logico allora accettare il dolore e la
sofferenza. Se vi fermate a parlare con Damien Hirst, a un certo punto vi
chiederà cosa amate della vita. «Ehm, non saprei» direte voi. E lui ribatterà:
«Io amo tutto della vita». Lui ama tutto, gli alti e i bassi. Si ribella all’ideale
perfezionista di rimuovere tutto il male e la sofferenza del mondo. La vita è
dolore, e tribolazioni. Per ogni pro sembra esserci un contro. Come scrive,
con la sua consueta cupezza, Robert Burton:

Nelle avversità desidero la prosperità, nella prosperità temo le avversità […]. Quale
condizione di vita è libera? La saggezza è inscindibile dalla fatica, la gloria
dall’invidia; ricchezze e preoccupazioni, figli e seccature, piaceri e malattie, riposo e
povertà vanno insieme, come se l’uomo fosse nato per essere punito in questa vita per
qualche peccato atavico.

Mi chiedo se sia mai possibile trovare piacevole il dolore. Certo sembrava


essere così nel Medioevo, quando le persone si crogiolavano letteralmente
nelle loro pene. La vita era vissuta con un’intensità che è difficile immaginare
per noi, repubblicani razionali. C’erano i flagellanti duecenteschi che si
infliggevano deliberatamente dolore fisico per godere delle sue mistiche
proprietà. Erano anche molto scenografici. Ed è vero che il loro dolore aveva
effetti positivi, come ricorda Norman Cohn:
Fu nelle affollate città italiane che le processioni organizzate dei flagellanti
comparvero per la prima volta. Il movimento nacque nel 1260 per iniziativa di un
eremita perugino, e si diffuse a Sud verso Roma e a Nord verso le città lombarde, con
una rapidità che ai contemporanei dovette sembrare un’improvvisa epidemia di
rimorso. Generalmente guidate da preti, queste masse di uomini, giovani e ragazzi
marciavano giorno e notte, con stendardi e candele accese, di città in città. E ogni
volta che giungevano in un centro urbano, si disponevano in gruppi davanti alla
chiesa e si flagellavano per ore. L’impatto che questa penitenza pubblica aveva sulla
popolazione era straordinario. I criminali confessavano, i ladri restituivano il
maltolto e gli usurai l’interesse sui prestiti; i nemici si riconciliavano e le faide erano
dimenticate.

Il dolore pubblico si traduceva in vantaggi per la comunità. Non so perché,


ma non riesco proprio a immaginare come la stessa cosa potrebbe ripetersi
oggi, nella nostra società, che del dolore ha una vera fobia. Non ce li vedo,
Bono Vox e Bob Geldof, a frustarsi davanti all’abbazia di Westminster.
Nietzsche diceva che rifiutare il dolore significa rifiutare la vita. In Ecce
Homo, scrive:

Ero il primo a vedere il vero contrasto: da una parte l’istinto degenerante, che si
rivolta contro la vita con rancore sotterraneo (il cristianesimo, la filosofia di
Schopenhauer, in un certo senso già la filosofia di Platone, tutto l’idealismo ne sono
forme tipiche), e dall’altra una formula della affermazione suprema, nata dalla
pienezza, dalla sovrabbondanza, un dire sì senza riserve, al dolore stesso, alla colpa
stessa, a tutto ciò che l’esistenza ha di problematico e di ignoto…

È il dire «no», sostiene Nietzsche, il rifiuto di tutto ciò che è scomodo,


doloroso e difficile, che toglie colore alle nostre vite. Anche la crudeltà, dice,
era in qualche modo parte della gioia di vivere:

Non è trascorso molto tempo da quando i matrimoni principeschi e le più sontuose


cerimonie pubbliche erano impensabili senza esecuzioni, torture o magari un auto-da-
fé, e nessuna casa nobile era priva di creature contro le quali riversare senza freni la
propria malizia e gli scherzi più crudeli.

Agli occhi di noi moderni, questo genere di comportamento sembra


intollerabile e crudele, ma Nietzsche offre una briciola di conforto: «Forse in
quei giorni – chi ha lo spirito delicato potrà trovare conforto in questo
pensiero – il dolore faceva meno male di oggi».
Non molto tempo fa ho deciso che, anziché scansare le avversità e
respingerle a forza di riscaldamento centralizzato e aria condizionata, la cosa
più sensata da fare è accettarle. Sì, può suonare un’idea strana, soprattutto se
proviene dalla penna di un ozioso, ma accettare le tribolazioni non potrebbe
essere, dopotutto, la strada che conduce alla libertà? Per esempio, di recente
ho pensato di comprare una vecchia Land Rover piena di spifferi, al posto del
mio vecchio furgone americano di lusso; in parte perché nella Land Rover si è
più esposti agli elementi. Non voglio negare i piaceri del caminetto; anzi, i
piaceri del caminetto sono ancora più intensi quando si è appena stati fuori
nella neve a tagliare la legna. Questo è un piacere che chi ha il riscaldamento
sotto le doghe del parquet non può comprendere. È questo che piaceva ai
medievali: il contrasto stridente fra le difficoltà e il piacere. Il caminetto è
molto più accogliente dopo una lunga passeggiata al freddo.
Ci sono tipi di dolore dei quali faccio volentieri a meno, e grazie al cielo
hanno inventato le pillole per il mal di testa; anche se starsene a letto per ore
può farci ottenere lo stesso risultato. In un’epoca meno incentrata sul lavoro,
come indubitabilmente era il Medioevo, avremmo forse avuto il tempo di
metterci a letto con il nostro mal di testa, invece di prendere una pillola e
tornare al lavoro a passo di marcia. C’era più tempo per riprendersi. Ci voleva
più tempo per fare le cose. Senza dubbio, c’erano anche allora medicine per
combattere il dolore: erbe, infusi e così via. Oggi ci facciamo beffe di questi
metodi; ma domandatevi: a chi giova la beffa? Chi deride e schernisce non è
che un fantoccio in mano al progetto capitalista. Quando vi burlate delle
medicine gratis che crescono sulla siepe, in realtà state facendo il gioco di chi
vuol farvi spendere, spendere, spendere vendendovi il suo rimedio (chimico)
per la tosse. In ogni caso, l’arte medica è sempre la stessa, e consiste nel
mettere di buonumore il paziente mentre il corpo si cura da solo. I placebo, lo
ripeto, sono forse altrettanto efficaci e certamente meno dannosi delle
medicine vere, almeno finché riponete fiducia nel vostro dottore o gli
attribuite qualche potere magico. Quindi, molti farmaci moderni non sono
altro che sciocchezze, ma costose e pericolose.
Il dolore non ci abbandonerà mai. Imparate a conviverci. Invece di
sprecare energie per distruggere il dolore, dobbiamo usarle per creare piacere.
Piacere per voi stessi e per chi vi sta accanto. Il sesso, la musica, il ballo, la
birra e il vino, la buona compagnia, un lavoro che vi piace, la gioia e la
serenità: sono questi gli antidoti al dolore, e naturalmente li percepiamo come
piaceri soltanto perché conosciamo già il dolore. Senza dolore non ci sarebbe
piacere.

ACCOGLI LE AVVERSITÀ
Smettila di preoccuparti per la pensione e fatti una vita

L’umanità non sa assolutamente nulla.


Nessuna cosa ha valore in se stessa, e ogni azione è inutile, senza senso.
MASANOBU FUKUOKA, La rivoluzione del filo di paglia (1978)

Un tempo, la parola «pensione» indicava una somma che qualche munifico


benefattore versava a un individuo, con cadenza annuale, come
riconoscimento per un servizio reso alla comunità. Nel 1762, per esempio, re
Giorgio III assegnò a Samuel Johnson una pensione di 300 sterline l’anno. La
rendita remunerava in primo luogo la composizione del celebre dizionario, e
non era soggetta ad alcun vincolo. Il Primo ministro, Lord Bute, spiegò a
Johnson che la pensione «non vi è assegnata per ciò che farete, ma come
compenso per ciò che avete già fatto». Anche i soldati ricevevano un vitalizio,
ed è giusto: solo perché un soldato è troppo vecchio per essere utile al suo
esercito, dovremmo disinteressarci di lui?
Non ho nulla contro il denaro gratis. L’idea di essere pagati senza dover
lavorare è molto allettante. Però mi domando se i sistemi pensionistici gestiti
dallo Stato e dalle banche vanno davvero a beneficio delle persone che
dovrebbero favorire. In entrambi i casi, c’è un’industria fiorente che procura
posti di lavoro e ricchezza a chi ne fa parte, ma sembra non offrire nulla a chi
in essa investe i suoi soldi. Nel caso del governo, sentiamo spesso parlare di
«crisi delle pensioni» (ma mai di «crisi della difesa» o di «crisi provocata dai
troppi impiegati statali»). Il che, ancora una volta, significa che colui il quale,
in buona fede e stupidamente, si è illuso che lo Stato si sarebbe preso cura di
lui con una consistente mensilità al momento della pensione, dovrà subire le
conseguenze di un altro grossolano errore.
Nel caso delle pensioni private, c’è sempre il rischio che arrivi un affarista
senza scrupoli a rubarvi i risparmi. Se non altro, è evidente che i giovani
manager rampanti guadagnano profumatamente con i fondi pensione. Basta
che paragoniate la vostra umile dimora con la casa (o le case) di uno
qualunque tra loro: ecco, è con i vostri soldi che costui si compra lo
champagne. E poi c’è una questione morale: le montagne di soldi generate dai
fondi pensione provengono dai versamenti mensili della povera gente, e poi si
spostano qua e là per i mercati mondiali, da una multinazionale farmaceutica a
una grande banca, passando per le mani di trafficanti d’armi e altre macchine
sfornasoldi di dubbia eticità. Voi non avete idea della fine che fanno i vostri
piccoli, sudati risparmi. Molto meglio, allora, ignorare le promesse vane dello
Stato e dei banchieri, e provvedere da soli a noi stessi. O meglio ancora,
organizzare la nostra vita in modo da non aver voglia di andare in pensione.
Coloro tra noi che hanno velleità artistiche dovrebbero rivolgersi a privati
generosi. Provvedere pensioni, nel senso originario del termine – soldi gratis
– dovrebbe essere il compito precipuo della monarchia e dell’aristocrazia di
oggi. Osteggiati dagli ideali meritocratici delle classi medie, costretti a pagare
le tasse di successione, i nobiluomini di oggi si aggirano confusi e sperduti,
alla ricerca di un nuovo ruolo, e la soluzione è semplice: dovrebbero pagare
rendite ai grandi scrittori, poeti, filosofi, musicisti, artisti; in altre parole, alle
persone oziose. Nel Settecento andava di moda ospitare un eremita nel
proprio giardino, in una caverna artificiale costruita per l’occasione.
Immagino che quello di «eremita» non fosse poi un brutto mestiere. I ricchi
dovrebbero anche spalancare i portoni dei loro palazzi e distribuire pane, birra
e dolcetti, nella nobile tradizione dell’ospitalità. Il loro ruolo è stato usurpato
dai professionisti delle grandi aziende, dai magnati dei media, dai rivenditori
di cellulari.
L’industria delle pensioni fa di tutto per instillare in noi poveri consumatori
la paura del futuro. Intrappolati su una banchina ferroviaria o su un autobus,
siamo martellati dai loro messaggi ansiogeni. Potrebbe succedervi di tutto,
dicono, quindi dovete farvi trovare preparati. Ma certo, è facile vendere
prodotti sulla base di eventi non ancora accaduti, perché si ha a disposizione
un territorio vergine in cui seminare ogni genere di paura. Il futuro può essere
modellato a piacimento dagli agenti pubblicitari. La frase «Cosa succederebbe
se…» dovrebbe essere bandita dalla buona società. La semplice realtà dei fatti
è che potreste morire domani in un incidente d’auto e tutti i vostri piani
pensionistici, i vostri pazienti risparmi, andrebbero persi. Allora, l’unica cosa
responsabile da fare è gridare: «Al diavolo la pensione!»; Philip Larkin
sognava di avere il coraggio di farlo nella sua celebre poesia Toads. Più di
recente, ha suscitato indignazione l’innalzamento dell’età pensionabile, deciso
dal governo inglese in seguito – così hanno detto – alla «crisi delle pensioni».
Di questa «crisi delle pensioni» si parla da anni, e poi, proprio quando tutti
iniziavamo a preoccuparci seriamente… Bum! Arriva lo Stato a proporci una
soluzione, ovvero: lavorare di più e più a lungo! (Ecco che di nuovo lo Stato
interviene a risolvere problemi che lui stesso ha creato.) Riuscite a figurarvi
come si sente una persona che credeva di poter andare in pensione fra tre anni
e all’improvviso scopre che gli anni sono diventati sei? Ed eccoci di fronte
allo spettacolo indegno di ottantenni che lavorano alle casse del supermercato:
persone che dovrebbero trascorrere le loro giornate facendo sonnellini,
bevendo birra ed estirpando le erbacce dall’orto. A ciò si accompagnano le
chiacchiere condiscendenti dei giornali di destra, che sottolineano quanto
sono contenti questi «arzilli ottantenni» quando vanno a lavorare (avete mai
notato che gli ottantenni sono sempre «arzilli»?). È umiliante.
E comunque, cosa c’entra il governo con l’età pensionabile? La mia
decisione di andare o meno in pensione non li riguarda. Dovrebbe essere una
faccenda privata fra noi e il nostro datore di lavoro; o, ancora meglio, una
decisione interamente nostra.
Che ora la pensione sia vista come una specie di ricompensa terrena per
aver sofferto quaranta e più anni in un lavoro che non ci piaceva è un
fenomeno nuovo. Ed è nuova anche l’idea di pensione come diritto nazionale.
La pensione è diventata qualcosa per cui lavoriamo, anziché qualcosa che ci
spetta dopo aver lavorato. In altri termini, è un attestato di stima da parte delle
autorità per il nostro lavoro: «l’aldilà secolare», come lo chiama il mio amico
Matthew de Abaitua. Soffri oggi, e andrai in Paradiso domani.
I piani pensionistici privati sostengono di venderci «la serenità», ossia la
libertà dalla paura, ma è vero il contrario: è paura quella che ci vendono, e poi
ci vendono il presunto antidoto a quella paura: i soldi. Ma è un antidoto che
non funziona mai. Nel caso delle pensioni, metterete diligentemente da parte
piccole somme di denaro, soffrendo oggi nella speranza di un domani
migliore, perché avete creduto al fraudolento messaggio pubblicitario. Mentre
siamo bombardati da spot sulle pensioni, dovremmo ripeterci le sagge parole
del trovatore Cercamon, che nel 1140 cantava:

Tutte le tue belle parole per me non valgono un soldo. Meglio una quaglia stretta qui al
mio petto che un intero pollaio messo sotto chiave da qualcun altro. Se ti fidi dei
regali altrui, ti ritroverai con un pugno di mosche.

Sì, anch’io preferirei una quaglia oggi che la vaga possibilità di un pollaio
domani. Le pensioni sono fatte di promesse vuote. Sono qualcosa di
demoniaco. Nel frattempo, i capitalisti si pavoneggiano esibendo infernali
computer palmari comprati con i vostri soldi, e viaggiano in taxi dandosi un
sacco di arie. Ma non sono che speculatori! È tempo di cambiare le cose.
Elevatevi al di sopra dei manager senza scrupoli! No, non sottoscriverò un
fondo pensione. I soldi che guadagno vorrei tenerli ben stretti. Nascondili nel
materasso! Comprati qualcosa di bello! Nel mio caso, questo vuol dire libri.
Preferirò sempre spendere cinquanta sterline al mese in libri che dare
cinquanta sterline al mese a un broker. L’innata avidità dei manager di fondi
pensione li rende anche vulnerabili agli imbrogli. Un mio amico, che di
mestiere fa l’avvocato, mi ha appena raccontato che un gruppo di giovanotti
in carriera della City è riuscito a sottrarre ottanta milioni di sterline da un
fondo che prometteva dividendi principeschi. Quindi, la vostra pensione è
l’esatto opposto di ciò che dice di essere: non solo non è sicura, è il posto
meno sicuro al mondo dove mettere i vostri soldi. Investire in una pensione,
di fatto, è indice di irresponsabile avventatezza.
Quindi, quando si parla di pensioni, io appartengo alla scuola di pensiero
del «mangia, bevi e sii felice, perché domani potresti essere morto». Credere
nelle pensioni ci imprigiona in una sorta di schiavitù. Se non credi nelle
pensioni, vuol dire che credi in te stesso e ti prendi cura di te. E questo ti
rende libero. Preferisco avere il mio denaro ora, e al domani ci penserò
domani. Ripeto: non possiamo lamentarci se, nella nostra avidità, affidiamo i
nostri soldi a una cricca di speculatori che li usa per riempirsi il garage di
Ferrari rosso fiamma.
L’altro punto da sottolineare a proposito di pensione è che lo stesso
concetto di «sicurezza» è una parvenza fantasmatica. La sicurezza non esiste,
punto e basta. È un parto della mente, una pia illusione, un fuoco fatuo. Le
cose sono imprevedibili. Come facciamo a sapere cosa accadrà domani, o
anche tra un minuto? Un disastro naturale, o un crollo in Borsa, potrebbero
spazzar via i vostri risparmi. Se avete dei soldi, per Giove, spendeteli. La vita
è mutamento, flusso, corrente, processo. La sicurezza è desiderio di stabilità,
certezza, protezione. È una finzione; e anche se la preoccupazione per questo
genere di cose è solitamente definita «il mondo reale», è in realtà l’esatto
opposto. Il mondo reale è quello in cui viviamo; quel posto caotico, confuso,
incerto e meraviglioso.
Preoccuparsi per il futuro è inutile: non ci aiuta a migliorare il presente.
L’ironia della sorte è che le persone che più vi incoraggiano a pensare al
futuro sono proprio quelle che vogliono i vostri soldi adesso. Non si
preoccupano del loro futuro: vogliono massimizzare oggi i loro profitti.
Provvedete da soli a voi stessi. Per esempio, continuando a lavorare.
Oppure investendo negli immobili. O vendendo la vostra casa. Un’altra
possibilità è semplicemente affidarsi alla Provvidenza divina, e con
«Provvidenza» intendo i vostri amici, parenti e vicini. I gruppi finanziari ci
fanno sentire soli e abbandonati, per convincerci a comprare da loro la nostra
sicurezza. Ma dimentichiamo il potere della famiglia, degli amici e della
comunità, che possono aiutarci quando le cose si mettono male.
Se vi preoccupate di come farete a sopravvivere nel futuro, allora perché
non vendete la vostra casa quando andate in pensione? Se pensate che il 40
per cento del suo valore finirà comunque al ministero del Tesoro, la cosa più
logica da fare è venderla e mantenervi con il ricavato. Non ci sarà molto da
lasciare in eredità, ma anche i vostri figli dovranno pur provvedere a se stessi.
Al diavolo la prudenza. Se anche guardate alle pensioni da un’ottica
razionale e di buon senso, sono comunque pericolose, proprio perché il
mercato è così imprevedibile. La vostra pensione è frantumata e sparsa qua e
là per il mercato azionario; e se la Borsa crolla, i vostri sudati risparmi
svaniranno nel nulla, lasciandovi con inutili pezzetti di carta da sventolare allo
sportello della banca. Investire in azioni è il trionfo della speranza
sull’esperienza, come Dickens e Edward Chancellor ci hanno mostrato
chiaramente.
Proporrei di abolire l’istituto del pensionamento. È un concetto assurdo: se
mi piace lavorare, perché dovrei voler andare in pensione? Nelle situazioni in
cui non possiamo più lavorare, il nostro settore d’impiego dovrebbe passarci
un vitalizio; e questo sarebbe un altro argomento a favore del ripristino delle
antiche corporazioni professionali. Ogni corporazione si prendeva cura dei
suoi membri: quando uno di loro si ammalava e non poteva più lavorare, gli
altri lavoravano al posto suo. I membri delle corporazioni pagavano tasse che
servivano a mantenere le vedove e gli orfani dei loro colleghi. Si prendevano
cura di sé, affrontando le emergenze a livello locale e tramite accordi privati
tra gruppi: non con campagne pubblicitarie mirate a indurre la paura nel
prossimo.
Nel mio caso, in un certo senso, sono andato in pensione a trentacinque
anni per scrivere un libro; e, se Dio vuole, non avrò mai più bisogno di
lavorare. Credo che questa debba essere la nostra responsabilità: anziché
aspettare i giorni felici della pensione, godiamoci oggi i nostri piaceri. Non
deleghiamo il nostro futuro a un soggetto esterno, sia esso il governo o il
manager di un fondo pensione. Non lasciamo che sia un altro a gestire i nostri
soldi. Farlo non ci garantirà sicurezza, sarebbe anzi un’operazione
estremamente rischiosa.
Dobbiamo prenderci cura di noi stessi, e un modo per farlo è rifiutare le
vane promesse della diabolica industria delle pensioni. Dire no alle pensioni
significa iniziare ad amare noi stessi. Significa mandare a quel paese i
finanzieri con la lingua lunga.

DI’ SÌ ALLA VITA


Rifuggi dalla maleducazione e salpa verso una nuova era di
cortesia, civiltà e grazia

Gli uomini sono malvagi, maliziosi, traditori, e insignificanti, non si


amano l’un l’altro né amano se stessi, non sono ospitali, caritatevoli o
socievoli come dovrebbero essere, ma falsi, dissimulatori,
doppiogiochisti, disposti a tutto per raggiungere i loro fini, senza pietà,
senza compassione, e per trarre un beneficio non esitano a procurar
danno al prossimo.
ROBERT BURTON, Anatomia della malinconia (1621)

Qualcuno dovrebbe proprio scrivere un libro intitolato L’etica della


maleducazione e lo spirito del capitalismo. Le due cose sono praticamente
sinonimi. Il puritanesimo e sua sorella, l’avidità, sono maleducati per natura,
perché richiedono la totale incapacità di riconoscere il punto di vista di un
altro, che consegue da una sfrenata esaltazione del profitto di contro a ogni
altra considerazione. Questo difetto conduce i puritani a compiere atti di
inaudita scortesia. Abolire il Natale, come fecero nel 1649, è una cosa
straordinariamente maleducata da fare. I puritani più estremisti, in realtà,
erano così maleducati che alla fine abbiamo cacciato alcuni di loro negli Stati
Uniti, dove, nonostante un’eccellente costituzione, sono riusciti a costruire dal
nulla una nuova nazione libera di essere maleducata quanto voleva. Hanno
continuato laggiù la loro battaglia contro il divertimento e la vita, nella Guerra
civile, il Nord maleducato contro il Sud cortese.
Credo che ciascuno di noi conosca qualcuno che corrisponde alla seguente
descrizione della forma mentis del puritano, tratteggiata dal gentile Bertrand
Russell, nel suo saggio La recrudescenza del puritanesimo: il puritano è
invadente, si crede moralmente superiore, è ascetico e del tutto privo di senso
dell’umorismo. Certamente descrive molto bene il Primo ministro britannico
tra gli anni Novanta e il Duemila:

Dobbiamo imparare ciascuno a rispettare la sfera privata dell’altro, e a non imporre a


nessuno i nostri criteri morali. I puritani immaginano che il loro sia il criterio morale,
l’unico legittimo; non concepiscono che altre epoche e altri Paesi, e persino altri
gruppi del loro stesso Paese, seguano criteri morali diversi dal proprio, e li seguano
con diritto pari al loro. Sfortunatamente, l’amore per il potere, che è il naturale frutto
dell’abnegazione puritana, dà al puritano maggiore autorità degli altri, e rende difficile
agli altri resistergli.

Sostituite la parola «influente» con «maledettamente cafone». Può essere


letteralmente maleducato fare cose, perché le cose che voi fate non sono
necessariamente le stesse che vanno bene agli altri. E soprattutto, l’ozio è
beneducato. È buona educazione non brillare troppo, non avere troppo
successo, non lavorare troppo; è buona educazione lasciare in pace gli altri.
L’ozioso dà serenità a chi gli sta vicino, perché si comporta come se fosse
peggiore di loro, non migliore. Comportarci come se fossimo meglio degli
altri mostra scarso rispetto per loro. L’ambizione sfrenata è scortese; Homer
Simpson è beneducato. Il governo, che iniziò come un fenomeno beneducato,
con l’intenzione di proteggere il popolo dal saccheggio, si è tramutato in
un’istituzione sommamente maleducata che uccide le persone, dice loro cosa
fare e come vivere, e le spia. Tutte le ricerche che avete fatto su internet, tutte
le email che avete spedito: tra non molto, il governo si arrogherà il diritto di
esaminarle ogni volta che vorrà. E la gente si è stufata di tutte queste
interferenze. Parlavo con il nostro postino, laburista convinto, e anche lui è
arrabbiatissimo per come il potere dello Stato si insinua in ogni angolo delle
nostre vite. «Sono dappertutto» dice. «Non puoi sfuggire!» Computer,
telecamere a circuito chiuso, tessere fedeltà, carte di credito: ogni mossa che
fate, loro sono lì a spiarvi, e registrano tutto nelle loro enormi banche dati.
Come l’etica capitalista è cresciuta fianco a fianco con il puritanesimo, così
anche il denaro e la maleducazione sono amanti. Le buone maniere vengono
dopo i soldi. Il fatto che dobbiate soldi a qualcuno sembra dargli la licenza di
trattarvi con il più assoluto disprezzo. Quando siete in ritardo con i pagamenti,
i capitalisti si incattiviscono molto in fretta. Le stesse persone che prima vi
hanno corteggiato, lusingato e sedotto con tanta assiduità, finché avete ceduto
e avete dato loro il numero della vostra carta di credito, o avete compilato il
modulo per l’addebito diretto su conto corrente, non appena dovete loro dei
soldi perdono tutta la cortesia e il rispetto nei vostri confronti. Le maniere
gentili spariscono, e al loro posto piovono lettere di minaccia ed email di
sollecito. Quando il compagno di mia madre morì, lei chiamò l’azienda del
gas per dir loro che la bolletta sarebbe stata pagata non appena il testamento
fosse stato omologato. Le sue lettere furono ignorate, e nella cassetta delle
lettere del morto iniziò a rovesciarsi un fiume in piena di lettere sempre più
spiacevoli, che minacciavano la sospensione del servizio, visite dell’ufficiale
giudiziario, convocazioni in tribunale, azzeramento del credito e tutto
l’arsenale del potere moderno. L’ammontare della bolletta in questione? 34
sterline e 80 pence.
I venditori sono maleducati. Chiamare la gente a casa di domenica mattina
per vendere loro un contratto telefonico è un comportamento incivile, oltre
che un attentato alla libertà. La vera libertà non è libertà di interferire con i
piaceri degli altri. È il diritto di godere dei propri piaceri e creare la propria
vita; e comporta anche l’obbligo di garantire agli altri lo stesso diritto.
Mentre scrivevo questa pagina, ho ricevuto una telefonata inattesa. Di
venerdì, a mezzogiorno.
«Buongiorno, parlo con il signor Hoss-king-son?» La linea era disturbata,
l’accento era indiano. Ovviamente era qualche poveretto in un call center di
Delhi.
«Ehm… sì?»
«Posso chiederle se usa un telefono cellulare?»
Cosa rispondergli? In quel momento avrei voluto non possedere un
cellulare, così da poter dire «no» senza mentire. Questi operatori di call center
mi mettono davanti a un dilemma molto scomodo: vorresti dirgli di
andarsene, ma non vuoi essere scortese con un altro essere umano. Quindi,
come si fa a liberarsi di loro senza gridare: «Lasciami in pace!» e senza
sbattergli il telefono in faccia, cosa che tendo a fare quando sono di
malumore?
«Mi spiace, ma non desidero ricevere queste telefonate. Mi ha disturbato
mentre cercavo di lavorare. Grazie. Arrivederci.»
Mentre appoggiavo il ricevitore sentivo che proseguiva nel suo monologo
imbonitore.
Un’altra telefonata che capita spesso di ricevere riguarda i lavori di
miglioria della casa. Qualche ragazza madre povera e disperata, pagata su
commissione, ti chiama di domenica mattina e ti dice: «Alcuni nostri
rappresentanti si trovano nella sua zona, e ci chiedevamo se poteva
interessarle un consulto gratuito». Fanno di tutto per suonare allegre e
convincenti mentre leggono dal loro copione. Mi fa venire voglia di mettermi
a piangere. Un manager ha fatto loro un discorsetto motivazionale: appena sei
mesi fa, non aveva un soldo; poi ha iniziato a vendere, e ora guida una
Porsche. Una volta, sul treno, ho sentito i discorsi di un gruppo di ragazzi che,
ho dedotto, facevano i venditori porta a porta di servizi telefonici. La
conversazione verteva su una figura quasi mitologica di loro conoscenza che
stava «tirando su una quantità oscena di soldi». Funziona così nel settore delle
vendite: nella mente si crea una pentola d’oro, una pila enorme di soldi alla
fine di questo arcobaleno di maleducazione e spersonalizzazione: una pentola
che resta perennemente irraggiungibile. E nel Regno Unito, il reparto vendite è
l’area in cui gli stipendi sono più bassi. Il settore migliore invece è quello
sanitario. I dottori, questi spacciatori di antibiotici, pillole e sciroppi, si sono
sistemati.
L’email sembra inventata per generare malumore. Senza dubbio il medium
influenza la qualità del messaggio, e nelle nostre email ci permettiamo molte
libertà, abbandoniamo le regole della grammatica, dell’ortografia e della
sintassi in favore di abbreviazioni telegrafiche. Ogni eleganza espressiva è
sacrificata. Difficile immaginarsi le email di Seamus Heaney raccolte in
volume.* E poiché questo medium non trasmette bene le sfumature, è facile
che chi legge le vostre email vi consideri più spiccio e sgarbato di quanto voi
non intendeste essere. A volte, in una conversazione via email, percepite che
c’è qualcosa che non va, e decidete di telefonare all’altra persona. E parlando
davvero, la sensazione sgradevole evaporerà. La risposta è semplice:
riportiamo nelle nostre email le vecchie forme di cortesia elaborate, iniziando
sempre con «Mio caro…» e chiudendo con «Rimango vostro servo
devotissimo…». La perdita di formalità che oggi constatiamo nelle
comunicazioni quotidiane può ferire i sentimenti di qualcuno. La buona
educazione rispetta la sensibilità delle altre persone. Riportiamo in voga anche
le lettere scritte a mano: che gioia scrivere e ricevere una lettera vera! Penna,
inchiostro, carta, francobollo: gioie a poco prezzo. Ci si lamenta dei servizi
postali, ma io li ho sempre trovati straordinariamente efficienti. Una copia
cartacea della vostra lettera, consegnata in qualunque angolo del Paese in
ventiquattr’ore, al modico prezzo di un francobollo! E nella busta potete
inserire degli oggetti: adesivi, spillette, ritagli di giornale. Molti miei amici non
leggono più le email. Lo trovano liberatorio.
Nelle società in cui il denaro non gioca un ruolo così centrale, le buone
maniere sono più diffuse. Per esempio, in Messico, quando si va a dormire
bisogna dire: «Con su permiso», cioè «Con il vostro permesso»: una frase
deliziosa. Nelle buone maniere, nel saper vivere, c’è un elemento linguistico
giocoso. Kropotkin parla del fascino e delle buone maniere delle società
primitive, e nella civiltà Maya la cortesia era della massima importanza.
Confucio, naturalmente, pone l’accento sulle buone maniere, definendole il
lubrificante che assicura il corretto funzionamento della società. È
perfettamente logico dunque che, nelle società basate su un ideale collettivo,
le buone maniere e i rituali siano così importanti, mentre nelle società basate
sulla competizione le maniere servono solo come mezzo per ottenere ciò che
si vuole. Leggiamo in Cobbett e Hardy delle «vecchie maniere», cioè la
cortesia e il rispetto con cui la gente si trattava prima che arrivassero i
calvinisti intraprendenti, impiccioni e avidi a rovinare tutto.
L’uomo più beneducato della storia fu probabilmente quel grande
visionario vagabondo del Duecento, san Francesco d’Assisi. Era un ragazzo
intelligente e vivace, e da giovane fece parte dell’affascinante movimento
letterario-musicale dei trovatori dell’Occitania, nel Sud della Francia. In
seguito, però, contrasse un voto di castità e povertà e rifiutò il denaro. Questo
è un atto di suprema cortesia, perché dà felicità a chi vi sta intorno, mentre il
milionario che ostenta e gira a braccetto con una bella ragazza suscita invidia e
si comporta con villania. Secondo Chesterton, una delle grandi qualità di san
Francesco erano le sue maniere cortesi: era sempre gentile con tutti e si
mostrava sinceramente interessato alla loro vita interiore. «Potremmo dire che
san Francesco, nella semplicità nuda e austera della sua vita, si era aggrappato
a un brandello di nobiltà: le raffinate maniere di un cortigiano.» Non si
considerava superiore agli altri; era parte del mondo, e sapeva che nel mondo
c’era spazio per una varietà illimitata di persone. Si muoveva
nell’intercapedine che separa questo mondo dall’altro.
Nel Sud della Francia, patria dei trovatori, anche la buona ospitalità era
obbligatoria. I trovatori non erano solo menestrelli ambulanti, ma un nutrito
gruppo di compositori e musicisti di tutte le estrazioni sociali, che vedevano
l’amor cortese come un ideale. Il loro nome deriva dal latino tropator, che
significa «scopritore». E ciò che inventarono fu un nuovo genere di poesia in
volgare accompagnata da musica. I testi erano a volte satirici, a volte pastorali,
a volte licenziosi; a volte parlavano di cavalieri, molto spesso di gioia. Erano
poeti romantici ante litteram, le pop star della loro epoca. Suonavano
tamburi, liuti, cornamuse e organetti, o versioni primitive di quegli strumenti.
E nel loro peregrinare, giudicavano le case e le corti in base all’ospitalità che
sapevano offrire. Una cena ideale consisteva di cervo, cinghiale, cacciagione e
pesce, vino normale e speziato, frittelle e biscotti, ma anche cicogne, cigni,
gru, pernici, anatre, capponi, oche, galline e pavoni, conigli, lepri, orsi, radici
e frutta. I trovatori si lamentano spesso, nelle loro poesie, del ricco tirchio che
offre un pranzo misero. Per fortuna oggi ci sono artisti che tentano di ricreare
la loro musica piena di energia, e di sera mi piace sedere nel mio pub, il Green
Man, accompagnato dal ritmo dei trovatori che rimbomba nelle casse del mio
stereo (raccomando soprattutto i dischi dell’Unicorn Ensemble).
I trovatori, soprattutto, predicavano la felicità e la cortesia. Nelle parole di
Tant m’abelis, del trovatore Berenguier de Palou (XII secolo):
Tant m’abelis jois et amors et chans
Ert alegrier deports e cortezia.

[Così tanto amo la gioia e l’amore e il canto


l’allegria, i giochi e la cortesia.]

Le buone maniere e l’ospitalità erano importanti anche per i primi esponenti


della classe media artigianale, che, come abbiamo visto, si organizzarono in
corporazioni. La nuova borghesia di commercianti e artigiani doveva
dimostrare ai nobili e ai chierici che si poteva lavorare senza offendere i
costumi e le norme della cortesia. Uno standard elevato di qualità artigianale,
in cambio di un prezzo equo, era beneducato; truffare la gente con merce di
scarso valore era da screanzati.
Anche prendersi cura dei poveri e del prossimo era questione di semplici
buone maniere. Enrico VIII, Cranmer e il Lord Protettore Somerset
introdussero nuovi e inauditi standard di maleducazione. Smantellarono
sistematicamente tutte le innovazioni cortesi della società medievale: i campi
condivisi, i monasteri, le terre delle corporazioni, l’istituto dell’open house.
Una delle maggiori attrazioni dell’età medievale è la combinazione di
un’infantile intensità di vita con uno sforzo immane per comportarsi bene gli
uni con gli altri.
Il problema che oggi i ribelli devono fronteggiare è che, a partire dall’età
vittoriana, le buone maniere sono state associate al servilismo. Purtroppo,
nell’Ottocento il concetto si deformò, a causa di un’enfasi eccessiva
sull’etichetta, basata più sul rispetto per i superiori che non sulla cortesia
sincera. Mentre alle classi inferiori si richiedeva cortesia nei riguardi dei loro
superiori, sembra che le élite non fossero soggette a questo obbligo. E così, da
dimostrazione di rispetto per gli altri, le buone maniere divennero
un’espressione di sottomissione. Dunque, essere maleducati era visto come
segno di ribellione contro i valori autoritari.
Un attimo di riflessione, però, è sufficiente per rendersi conto che le cose
stanno esattamente al contrario e che, in realtà, è ribelle e anarchico essere
beneducati. Le buone maniere sono anticapitaliste. Il mio amico Gavin Clarke,
sempre vestito in modo inappuntabile, dirige una bella rivista intitolata «The
Chap»;* già il nome evoca un mondo di gentiluomini che fumano la pipa e si
tolgono i cappelli in segno di saluto. Eppure, i redattori e i lettori di quella
rivista non disdegnano di compiere azioni ribelli, come entrare in un fast food
americano e ordinare cibo indiano e tè cinese. Tra gli slogan del «Chap» ce
n’è uno che dice «Civilizza la città»; e per loro, indossare tweed e scarpe di
vernice è un segno di sfida contro la cultura delle suonerie, delle tute firmate e
dello sconfortante, insipido mondo moderno. «The Chap» predica
l’eccentricità in un mondo di uniformità.
Ripongo speranze anche nei grandi movimenti migratori. Gli immigrati che
provengono da culture più conservatrici portano nel Regno Unito la loro
cortesia, in un processo che va avanti da secoli: Sir William Temple osserva
che, attraverso la conquista normanna, abbiamo «guadagnato più cultura, più
civiltà, più raffinatezza nel linguaggio, negli usi e nelle maniere, dalla grande
risorsa degli altri stranieri, come dall’unione di francesi e normanni». Gli
stranieri possono aiutarci a vivere bene.
Dobbiamo riappropriarci delle buone maniere. Josh Glenn teneva una
rubrica di galateo sull’«Idler», in cui per esempio promuoveva l’uso dei
«biglietti di scuse», da inviare il giorno dopo una festa in cui abbiamo messo
in imbarazzo noi e il nostro ospite. In qualche modo, dobbiamo imparare a
comportarci bene: il fascino, la cortesia, la considerazione per l’altro. Troppo
spesso queste sono considerate virtù solo se sono utili per un fine
commerciale. Ma dovrebbero essere coltivate e perseguite per se stesse.
A casa mia ho cercato (finora senza successo) di organizzare concorsi di
buona educazione. L’idea è di incanalare le nostre energie competitive in una
battaglia di buone maniere: chi riesce a essere più educato di tutti?
«Buongiorno, padre. Potrei importunarvi per chiedervi di aiutarmi a trovare le
mie mutande? La signora madre sembra averle smarrite.» «Ma certo, figliolo.
Sarà per me un piacere e un privilegio, non dovete scusarvi. A proposito,
quando desiderate, senza fretta, la colazione sarebbe in tavola.»
La crisi delle buone maniere è sintomo di una disgregazione della società. I
romani del Tardo Impero erano maleducati; l’attuale governo degli Stati Uniti
è maleducato. È una gran villania uccidere 27.000 civili iracheni. L’ingerenza è
scortese; i governi sono scortesi; i professionisti sono scortesi. Mentre la
vecchia società crolla in pezzi, tocca a noi, in silenzio e con modestia, crearne
una nuova. Il vecchio e combattivo sistema si distruggerà da solo, la
competizione divorerà se stessa. Il nostro compito è quello di dar vita a una
società beneducata. Quando vi dichiarate liberi, allo stesso tempo dichiarate
liberi gli altri, e questo significa che non interferirete con loro. Non abuserete
di loro.
Non perdete tempo a fondare libere repubbliche o a trasferirvi in un Paese
che offre più libertà. Basta che vi dichiariate Stato indipendente. Non
coinvolgete, non forzate gli altri. È questo l’unico modo per mettere in atto
una vera rivoluzione. Quando ciascuno di noi avrà riconosciuto la sua libertà
e la sua responsabilità, allora le catene che ci imprigionano cadranno da sole.
Per liberarci dalle cattive maniere, noi per primi dobbiamo essere beneducati,
e poi dobbiamo ignorare la maleducazione altrui.
L’ospitalità è premio a se stessa. Se accogliamo qualcuno a casa nostra, loro
ci apriranno la porta quando saremo noi ad averne bisogno. Essere buoni con
la gente è l’unica polizza assicurativa di cui abbiate bisogno; come voi aiutate
amici e vicini nel momento del bisogno, così loro aiuteranno voi quando le
parti saranno invertite. Uno dei miei progetti è aprire la mia casa ogni mese, a
ogni luna piena. Gli amici e i vicini sapranno di poter venire quel giorno per
godersi buona compagnia, buon vino, buona birra, buon cibo e buonumore.
Essere gentili vuol dire protestare attivamente contro la maleducazione della
vita quotidiana. I telefoni cellulari sono maleducati. L’altro giorno ero al pub
con un amico, che mi cantava le lodi della straordinaria rivoluzione
comunicativa introdotta dai cellulari. A un certo punto ha ricevuto un
messaggio, e siamo rimasti seduti in silenzio, mentre lui digitava la risposta.
Un nuovo orrore, forse ancora peggio dei cellulari in treno, è la televisione in
treno. I viaggi in treno offrivano un’oasi di calma, un tempo in cui leggere e
guardare fuori dal finestrino. Ora, hanno iniziato a installare schermi televisivi
sullo schienale dei sedili, che ti bombardano di notizie e pubblicità durante il
viaggio. Non è maleducato? È come avere un commesso viaggiatore seduto
vicino per tutto il tempo, che cerca di venderti roba. Sembra che ovunque
andiamo qualcuno ci urli in faccia.
Possiamo facilmente porre fine a tutto questo, evitando di urlare, noi per
primi. Siate cordiali. Trovate la libertà nelle buone maniere.

SII AGGRAZIATO

* Seamus Heaney: poeta irlandese, premio Nobel nel 1995. (N.d.T.)


* Lett. «il tizio», «l’amico», «il compagno». (N.d.T.)
A morte i puritani presuntuosi

Uno dei sintomi di un incipiente esaurimento nervoso è la convinzione


che il proprio lavoro sia estremamente importante, e che se ci si
prendesse una vacanza accadrebbero le peggiori sventure.
BERTRAND RUSSELL

Il puritanesimo genera presunzione. Una volta accolta la dottrina della


predestinazione, ovvero l’idea che alcune persone sono elette, e al diavolo
tutti gli altri; e una volta accettata la nozione per cui il successo mondano e la
ricchezza sono i segni esteriori che la propria condotta è approvata da Dio; a
quel punto, è molto facile diventare un insopportabile, pedante, fanatico
ebbro di potere.
Lo scaricatore di porto medievale, esistenzialista e anarchico, aveva un
approccio ben diverso alla vita. Se ogni cosa è vanità, se la vita è assurda,
perché allora non vivere per l’attimo? Il medievale affronta la vita ridendo:
non ha l’arroganza spirituale del puritano. La teologia medievale era vicina
alla filosofia dell’inazione promossa dal taoismo. Per il taoista, l’obiettivo è
cessare ogni sforzo, poiché ogni azione è futile e vana. L’uomo è
sommamente irrilevante. La battaglia fra queste due tendenze dello spirito
umano infiamma ormai da molti secoli, e trovò una rappresentazione
simbolica durante la Guerra civile inglese, nella contrapposizione fra i
Cavalieri amanti della vita e le seriose e compassate Teste Rotonde. «Nel
nostro esercito» disse un generale dei Cavalieri all’esponente delle Teste
Rotonde Lord Fairfax «abbiamo i peccati degli uomini: l’ubriachezza e la
lussuria; ma nel vostro ci sono i peccati dei diavoli: l’orgoglio dello spirito e la
ribellione.»
Nella Dodicesima notte di Shakespeare, l’arroganza puritana è incarnata
dalla figura del pedante Malvolio, la cui presunzione gli impedisce di vedere
quanto è assurda l’idea che Viola possa innamorarsi di lui. Malvolio diventa
dunque preda facile per lo scherzo che decidono di fargli Sir Toby Belch e
Maria, che rappresentano quell’atteggiamento verso la vita che è riassumibile
con «mangia, bevi e sii felice, perché domani potresti essere morto». Ecco
come Maria descrive Malvolio:
È un diavolo di puritano, ovvero, se m’è permesso dirlo senza contraddizione, è un
opportunista. Un somaro dalle maniere affettate che impara a memoria il modo di
condursi, senza testo, e lo partecipa altrui con grandi bracciate. Egli è pieno di fiducia
nel suo proprio valore, e crede d’esser così fornito d’ogni più eccellente virtù, che a
fondamento di tal persuasione si ritrova la sua assoluta certezza che non si possa
vederlo senza subito innamorarsene. Codesto vizio ch’è in lui procurerà alla mia
vendetta la migliore occasione di funzionare.

Il «dogma» di fede di Malvolio consiste nel credersi una sorta di essere


superiore. Maria e Belch scrivono una finta lettera d’amore da Viola a
Malvolio, in cui la donna confessa al puritano che le piacerebbe vederlo con
indosso calze gialle e giarrettiere incrociate. Ed è così che i medievali umiliano
pubblicamente il puritano; ma Malvolio ci lascia con una minaccia da far
gelare il sangue: «Saprò vendicarmi su tutta la vostra banda». E così fu: da
quell’epoca in poi, la tendenza puritana ha prevalso su quella medievale.
Questo non vuol dire che l’antipuritano non alzi la testa, di tanto in tanto.
Un uomo che nessuno potrebbe mai chiamare pedante è il già menzionato
Lord Wilmot, conte di Rochester. Wilmot era un dandy della Restaurazione,
un libertino sfrenato e sessuomane; era amico di Carlo II e faceva parte della
«lieta brigata», come il contemporaneo Andrew Marvell chiamava Rochester e
i suoi amici letterati. Di recente ho avuto la fortuna di sentirmi recitare a
memoria da un visitatore la poesia di Rochester intitolata Régime de Vivre:

Mi alzo alle undici, pranzo intorno alle due,


sono ubriaco prima delle sette; e subito dopo
mando a chiamare la mia prostituta, e per paura di uno scolo
le vengo in mano e le vomito in grembo.

Il che vi dà un’idea di quali fossero per Rochester le priorità nella vita. Ma


quest’uomo sapeva fare ben più che scrivere versi licenziosi. Propugnava
anche un’ideologia sottilmente nichilista, sartriana direi, per la quale il mondo
era essenzialmente assurdo e insensato. In Fine del coro del second’atto delle
Troiane di Seneca, sostiene che tutti i miti dell’aldilà non sono che illusioni
fantastiche, plasmate dall’immaginazione umana. Condanna inoltre la
presunzione malvoliana incarnata nella figura del «fanatico ambizioso»:
Dopo la morte nulla è, e nulla è morte;
gli estremi limiti d'un rantolo,
che il bigotto ambizioso metta da parte
le sue speranze in un cielo (la sua fede non è che
il suo orgoglio);
che gli animi servili depongano le loro paure,
e non si preoccupino del come o del dove
saranno scaraventati dopo questa vita;
morti, il rifiuto del mondo diventiamo;
e in quella massa di materia saremo spazzati
dove le cose distrutte sono tenute con quelle non nate;
il tempo divoratore ci ingoia in un boccone,
morte imparziale confonde anima e corpo.
Perché l'inferno, e l'orrido demonio che governa
i fieri eterni carceri
divisati da furfanti, da sciocchi paventati,
col suo fiero cagnaccio a guardar l'uscio,
sono storie senza senso, vane fole,
sogni, capricci, e nient'altro.

Qui vediamo la connessione tra il libertinaggio e la libertà: il libertino crede


che le norme morali siano finzioni costruite dall’uomo, e che dunque tutto è
lecito. Ci dicono che un altro nichilista, Samuel Beckett, amasse l’alcol e le
prostitute. E dal momento che tutti finiremo comunque nel nulla, perché
preoccuparsi? Il tratto fondamentale del libertino è la sua mancanza di
presunzione.
È un mistero come abbia fatto la tendenza puritana a imporsi. Credo che la
causa sia il risentimento. Il puritanesimo diede alle classi inferiori, piene di
rancore e astio, un modo per sentirsi potenti. E i nuovi borghesi sfruttarono
proprio quell’astio per acquistare potere. A suggerire questa conclusione è la
popolarità del monaco fiorentino Savonarola, antesignano dei puritani. Alla
fine del Quattrocento, Savonarola divenne famoso per i suoi roboanti
sermoni, che si scagliavano contro la corruzione, la degenerazione e la vanità
della Chiesa, della società in generale e della famiglia Medici, che dominava
Firenze. «Badate, voi ricchi» tuonava «perché la sventura si abbatterà su di
voi. Questa città non sarà più Firenze, ma un covo di ladri, turpitudini e
spargimento di sangue.» Spronava i suoi seguaci, che divennero noti come
Piagnoni, a tornare a casa, raccogliere tutti i manoscritti di Dante e Petrarca, i
quadri che raffiguravano donne nude, tutte le saponette, le sete, gli specchi, le
scacchiere, le arpe e i gioielli, per ammucchiarli al centro della piazza e
bruciarli. Questo simbolico rifiuto di ogni ricchezza prendeva il nome di Falò
delle vanità. Ma ben presto la gente cambiò idea e, il 23 maggio 1498,
Savonarola fu processato per eresia, impiccato e poi arso sul rogo, nello
stesso punto di piazza della Signoria in cui aveva acceso i suoi falò.
Il successo di Savonarola fu determinato dalla sua abilità nel manipolare il
risentimento del popolo, e la stessa cosa avvenne con la Riforma. Calvino,
Lutero e i primi metodisti arringavano le folle condannando la corruzione dei
preti e denunciando il lusso in cui viveva il clero. Ma l’ostilità nei confronti
dei sacerdoti – definiti pigri e tronfi, sfruttatori del lavoro del popolo e
commercianti di indulgenze, e così via – era diffusa in Europa già dal
Trecento, come dimostrano gli scritti di Chaucer. Questo punto debole del
sistema permise ai tanti Malvolio di imporsi. Ma avvenne che una nuova élite
meritocratica e borghese rimpiazzò quella aristocratica e clericale e, come
scrivono Bertrand Russell, Chesterton e molti altri, i nuovi puritani erano
ancor più brutali e sfruttatori dei vecchi medievali.
Dunque, il risentimento conduce dritto alla presunzione. Se non avete una
forma mentis improntata sul risentimento, è improbabile che invidiate le
ricchezze altrui. In questo senso, le rivoluzioni sono puritane nello spirito.
Nella Fattoria degli animali di Orwell, i maiali fomentano il risentimento
degli animali contro gli uomini: perché dovreste faticare per far vivere loro
nel lusso? Alla fine, come sappiamo, uomini e porci diventano indistinguibili
gli uni dagli altri. Il puritano è soltanto un uomo geloso.
Oggi, il consumismo e il mercato del lavoro hanno preso il posto dei
puritani. Promettono di farci diventare «qualcuno», di farci sentire importanti.
Guidare una bella macchina vuol dire essere una persona di valore. È un
segno esteriore del favore di Dio. Il mercato del lavoro, con le sue rigide
gerarchie di junior e senior, vice e direttori, manager e amministratori delegati,
non fa che stimolare la presunzione. No, tu non sei solo un granello di
polvere, un frammento di nulla: tu sei il Direttore Responsabile del Punto
Vendita! Sei un Direttore! Tu sei qualcuno!
Il vecchio sistema aristocratico di lignaggio e titolo ha lasciato il posto a un
sistema borghese, basato sulla promozione e sull’autopromozione. Chiunque
creda che viviamo in un’età nella quale non esistono più gerarchie non ha mai
lavorato in un ufficio: gli uffici e le aziende pullulano di gerarchie. A quante
riunioni di marketing ho assistito, e quante volte a quella gente sembrava di
fare qualcosa di davvero importante! Follia! E, come saggiamente fa notare
Bertrand Russell, questa follia, quella errata impressione di essere
indispensabili può facilmente condurre a un esaurimento nervoso. Anche i
telefoni cellulari hanno lo stesso effetto: ci fanno sembrare qualcuno. Qui sta
la genialità del marketing dei telefonini: approfittano della nostra presunzione.
All’inizio solo i ricchi e le persone molto impegnate possedevano un telefono
portatile. Ma gradualmente, tutti ci siamo convinti di essere abbastanza
importanti da dover comprare un cellulare, anche se per tutta la vita ce
l’eravamo cavata benissimo anche senza. Ora, siamo incatenati a questi
aggeggi assurdi e costosi.
Comunque, non dobbiamo fare come Savonarola e bruciare i cellulari. Se
lo facessimo ci trasformeremmo nel nostro nemico. Seguire i capipopolo
conduce solo a grandi delusioni. Le loro promesse sono vane, e loro sono
diavoli, scialacquatori sotto mentite spoglie, arrampicatori. Piuttosto, è molto
più sensato riconoscere l’idea anarchica per cui «non c’è altra autorità se non
te stesso», e, nelle parole di Kropotkin, «agire per conto proprio» e bere,
mangiare ed essere felici.
La presunzione è una trappola, perché è nell’esatto istante in cui iniziamo a
pensare di essere davvero importanti che le cose cominciano a precipitare. La
verità è che voi siete del tutto irrilevanti, e che nulla importa davvero. Tutti gli
sforzi dell’uomo sono vani; ogni fatica è sprecata. Comprendere che nulla ha
senso è meravigliosamente liberatorio, perché ci lascia pienamente liberi di
creare da soli le nostre vite e di ignorare i progetti che gli altri hanno fatto per
noi.

NOI SIAMO NIENTE


Emancipati dal supermercato

Il consumatore non può e non deve mai raggiungere la soddisfazione.


RAOUL VANEIGEM, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani
generazioni (1967)

I supermercati sono il male. È un dato di fatto. Una volta un amico mi ha


detto: «Tom, credo che le cose siano un po’ più complicate di così». Ma più ci
penso, più analizzo la questione, e più le mie idee su questo argomento si
fanno semplici. I supermercati uniscono molti mali in un solo grosso male.
Sono ingordi, e ora hanno aggiunto l’usura alla loro lista di peccati, offrendo
prestiti e conti correnti. La principale catena di supermercati della Gran
Bretagna gestisce quasi cinque milioni di conti correnti personali. Vogliono
tutto. Vogliono controllare cosa mangiamo e dove facciamo la spesa, e ora
vogliono fare soldi sulla nostra povertà. Secondo una recente intervista del
direttore generale della catena, ora vorrebbero aprire anche delle agenzie di
viaggi: insomma, i supermercati vogliono sfruttare anche il nostro tempo
libero. Non gli è bastato distruggere le nostre città e far chiudere tutti i piccoli
negozi di quartiere; non gli è bastato creare centinaia di migliaia di posti di
lavoro deprimenti: ora vogliono anche spedirci a fare vacanze a buon
mercato. Dove viviamo, dove lavoriamo, dove andiamo a divertirci: vogliono
tutto. Sfruttano il lavoro. Dissimulano e mentono. Producono merci scadenti.
Costano un occhio della testa. Offrono un servizio carente: anzi, nessun
servizio, essendo soltanto enormi magazzini di cash-and-carry ma con prezzi
da negozio vero. Vendono cibo insapore e probabilmente dannoso per la
salute. Un rapporto presentato al parlamento inglese mostra che i piccoli
dettaglianti stanno abbassando le saracinesche al ritmo di duemila esercizi
l’anno e che entro il 2015 l’intero settore sarà spazzato via. I supermercati
sono diavoli avidi, mostri che divorano tutto ciò che incontrano sul loro
cammino. Spendono milioni su milioni in pubblicità ogni anno, per
convincerci che, ben lungi dall’essere predatori affamati di profitto, sono in
realtà un servizio pubblico, una specie di opera pia che ha a cuore soltanto
l’interesse del consumatore. Di recente, quella grande catena ha affermato di
compiere un’opera meritevole di «rigenerazione della società», con i suoi
piccoli negozi in città. «I nostri nuovi dipendenti vanno al lavoro a piedi, e a
loro piace» dicono. Dopo aver distrutto le comunità, si reclamizzano come
centri di aggregazione della comunità.
È così che va il mondo. La nostra interferenza crea problemi, che
cerchiamo di risolvere interferendo ulteriormente. La risposta è smettere di
interferire. Lo scrive il saggio Masanobu Fukuoka nella sua Rivoluzione del
filo di paglia, libro che raccomando a ciascuno dei miei lettori. È il libro più
saggio che io abbia mai letto. Racconta gli esperimenti di Fukuoka con
l’agricoltura naturale in Giappone fra il 1935 e il 1978, un periodo in cui quel
Paese stava introducendo i concimi chimici e meccanizzando l’agricoltura.
Con i suoi metodi fondati sul «non-lavoro», ossia sul lasciare che la natura
facesse la maggior parte del lavoro, astenendosi dall’intervenire, Fukuoka
ottenne gli stessi raccolti dei campi più fertili della zona, con l’ulteriore
vantaggio di arricchire sempre più il terreno. Bene, ecco cos’ha da dirci sulle
tecniche moderne:
Gli esseri umani con le loro manomissioni fanno il danno, non riparano l’errore e
quando i risultati negativi si accumulano, lavorano con tutte le energie per
correggerli. Quando le azioni correttive sembrano avere successo, arrivano a
considerare queste misure come splendide realizzazioni. La gente cocciutamente
insiste sempre ad agire così.
È come se uno scemo saltasse sulle tegole del suo tetto e le rompesse. Quando poi
comincia a piovere e il soffitto inizia a marcire, sale in fretta a riparare il danno, tutto
contento alla fine di aver trovato una soluzione miracolosa.

I supermercati non fanno che ripeterci quanto sono meravigliosi, attraverso le


loro pubblicità ipnotiche, e noi ci crediamo. Neppure Enrico VIII, mentre
saccheggiava l’Inghilterra, si sognò di fare una campagna pubblicitaria per
raccontare ai suoi sudditi che grand’uomo fosse. Lo stesso Cobbett, o Morris
o Ruskin, nessuno di costoro poteva immaginare l’orrore della cultura dei
supermarket. Vicino a casa nostra, nel Devonshire, c’è una splendida azienda
agricola di nome Rivenford, che opera un sistema di vendita diretta. Ogni
settimana ci consegnano a casa una cassetta di verdura, frutta, latte e uova
della migliore qualità. Guy Watson, che gestisce Rivenford, racconta di
quando una grande catena di supermercati gli aveva proposto di diventare
uno dei loro fornitori. Era stata fissata una riunione di venerdì. Watson
telefona e chiede di spostare l’incontro a giovedì, perché poi deve tornare a
occuparsi della sua fattoria. Cade la linea telefonica. Pensando a un guasto,
Watson richiama e dice: «Oh, penso sia caduta la linea…». «Senta» sbraita la
voce all’altro capo. «Qui è la Sainsbury’s. Quando noi chiamiamo, lei si
precipita qui.» Watson giurò che non avrebbe mai più avuto a che fare con un
supermercato per il resto della vita.
Ecco alcuni dati interessanti sulla principale catena di supermercati inglese:

Profitto lordo 2004-2005: 2,03 miliardi di sterline


Numero punti vendita nel Regno Unito: 1779
Dipendenti: 251.000 (il doppio dell’esercito)
Valore in Borsa: 24,7 miliardi di sterline
Conti correnti per i privati: 4,9 milioni
Stipendio annuale dell’amministratore delegato: 2,97 milioni di sterline
Percentuale della popolazione britannica che fa acquisti in questa catena
ogni mese: 66.

I negozi di questa catena sono onnipresenti, onnipotenti, onnivori e, grazie


alle carte fedeltà che registrano ogni acquisto, sono anche onniscienti. Il clero
medievale non era nulla, in confronto. Di recente ho visto su una rivista
satirica una simpatica vignetta, in cui un negozio diceva ai suoi clienti: «Siamo
sulla via principale della città, fra Tesco’s e Tesco’s».
Nel Regno Unito, questa catena guadagna una sterlina per ogni tre sterline
spese in generi alimentari. I poveri lavorano per loro e poi spendono da loro
lo stipendio. Fatichiamo tutto il giorno e poi, dopo il lavoro, riversiamo i
nostri stipendi nel Sistema, facendo la spesa al supermercato. Dobbiamo
smetterla, subito! Siamo forse pecore? Ci siamo forse dimenticati che
«piccolo è bello»? Ernst Schumacher non è mai esistito? Come abbiamo
potuto ridurci così?
In primo luogo, dobbiamo ammettere di essere complici nella creazione di
questa situazione di dipendenza. Facendo la spesa da loro negli ultimi
vent’anni, comprando le loro polizze di assicurazione e cadendo nelle loro
innumerevoli trappole, abbiamo dato noi ai supermercati quel potere di cui
ora iniziano ad abusare così minuziosamente. Il sistema dei supermarket è una
schiavitù, perché è motivato unicamente da un continuo aumento dei profitti;
e gli azionisti amorali sono interessati alla crescita solo perché permette loro di
rivendere le azioni a un prezzo più alto. Felicity Lawrence, autrice di Non c’è
sull’etichetta. Quello che mangiamo senza saperlo, cita le parole del
direttore della Soil Association sulle dinamiche di funzionamento dei
supermercati:
Più che una catena di approvvigionamento, è una catena del terrore: i direttori dei
supermercati vivono con l’angoscia di perdere quote di mercato e di non essere più
in grado di assicurare ai propri azionisti una crescita infinita degli utili, il
responsabile acquisti del supermercato vive con l’angoscia di non raggiungere i
propri obiettivi e pretende sempre di comprare a poco e vendere a molto, l’azienda
di imballaggio vive nel terrore di essere depennata dai supermercati e il coltivatore
vive nel terrore che i propri prodotti vengano respinti o di vedere scendere il prezzo
al di sotto dei costi di produzione. Come si ripristina la fiducia in una struttura
dominata da soggetti e sistemi tanto aggressivi? Questo è il risultato della duplice
pressione esercitata dalla globalizzazione e dalla concentrazione del potere. È una
crisi che colpisce tutti gli agricoltori.

E non abbiamo ancora parlato di quanto sia orribile fare la spesa in un


supermercato. Spingere il nostro solitario carrello giù per i corridoi, centinaia
di persone che camminano fianco a fianco in totale isolamento, senza
rivolgere la parola a nessuno. E il contegno mesto, rassegnato dei cassieri,
anche loro isolati l’uno dall’altro. Non riesco a immaginare quanto sia
stressante lavorare a una cassa; immagino ci si senta inutili, impotenti,
annoiati. Paragonate i volti impassibili e tristi delle cassiere con le facce
allegre che vediamo dietro le bancarelle del mercato: donne e uomini
indipendenti, ancora convinti che «piccolo è bello». Sono liberi, e glielo si
legge in faccia. Quando passeggio al mercato londinese di Leather Lane, vedo
intelligenza e vita. I loro volti sono vivi, perché hanno il controllo dei loro
affari.
I supermercati ci hanno venduto un sogno di prezzi stracciati, convenienza
e varietà. Ma la realtà è ben diversa: sono costosi, complicati e ci obbligano a
comprare ciò che qualcun altro ha selezionato. E la cosa peggiore è che
condannano migliaia di persone a fare un lavoro noioso.
Com’erano diverse le cose, nei tempi in cui le corporazioni controllavano la
qualità e i prezzi, e i profitti non servivano a pagare lo stipendio
dell’amministratore delegato, ma a finanziare feste, divertimenti, splendidi
edifici, opere d’arte ed elemosine. Il debole equivalente moderno di quello
spirito comunitario è la promessa dei supermercati di «dare un posto di lavoro
ai ragazzi disoccupati» in cambio di permessi edilizi per costruire altri
supermercati.
Quindi: non vendete i vostri prodotti ai supermercati, non acquistate niente
da loro, non guardateli neppure. Dimenticatevi che esistono. Sono uno strano
contrattempo della storia recente, di cui un giorno, auspicabilmente,
leggeremo nei libri scuotendo la testa; e non capiremo come sia stato possibile
lasciar accadere una cosa così palesemente contraria alla natura. Mi piacerebbe
bombardarli, ma forse è più efficace un boicottaggio.
La cosa meravigliosa è che liberarsi dai supermercati è così divertente.
L’alternativa non è uno stile di vita costoso, scomodo, una perdita di tempo,
passare la vita a far la spesa in negozi di cibi macrobiotici. Anzi: è un’esistenza
ricca, fatta di piacere, comodità, qualità e molti meno tragitti in auto. Rifiutate
i supermarket e dite sì alla vita.
Non fate le vostre compere dove lavoratori sfruttati smerciano robaccia;
fatele in negozi veri, in cui il proprietario e i commessi sono orgogliosi di ciò
che producono e vendono. È facile riconoscerli: offrono merce di qualità e
combinano la produzione con la vendita. Rivolgiamoci allo storico
dell’artigianato Norman Wymer, che nel suo studio English Town Crafts ci
racconta come andavano le cose un tempo:
Fino al periodo della Rivoluzione industriale, e per parecchio tempo ancora, i negozi
al dettaglio di una media città offrivano uno spettacolo molto diverso da quello cui
siamo abituati oggi. Non solo la maggior parte della merce in vendita era prodotta sul
momento, ma, in molti casi, si potevano vedere gli artigiani al lavoro. A volte,
quando le condizioni lo permettevano, li si vedeva seduti alle vetrine dei loro negozi,
in piena vista dei passanti; ma più spesso li si trovava nel retrobottega, o magari in
una stanza in cima a una ripida scala, al piano di sopra. In ogni caso, erano sempre
disponibili, pronti a soddisfare le esigenze particolari di un cliente, e a creare un
oggetto su misura e strettamente conforme a quelle esigenze […]. Il loro codice
deontologico, dall’inizio alla fine, era sempre quello di produrre il meglio e di
soddisfare tutti i clienti, anche se questo voleva dire dover lavorare due volte e trarne
un profitto minimo, o addirittura una perdita. Le stesse insegne dei negozi, dipinte
spesso da un pittore locale, sembravano offrire una sorta di garanzia di
quell’orgoglio che, senza dubbio, si sarebbe trovato all’interno.

Questo stile di commercio non è definitivamente morto. Nel quartiere


londinese di Clerkenwell, vicino al mio ufficio, ci sono orologiai che siedono
alle vetrine dei loro piccoli laboratori. Ci sono sarti. Ci sono ottimi negozi
indipendenti di specialità culinarie italiane. C’è un negozio di articoli per
prestigiatori in cui tutti i commessi sono maghi esperti. Per un anno ho
lavorato in un negozio di skateboard a gestione indipendente, e tutti noi soci
contribuivamo al rifornimento della merce. Questo genere di negozi può
funzionare come centro sociale. Nel villaggio più vicino a casa mia ci sono un
fantastico macellaio e una sarta che lavora alla finestra di casa. Anche i piccoli
negozi di ferramenta sembrano aver mantenuto la loro indipendenza,
nonostante l’invasione degli orribili megastore del fai-da-te. In campagna,
l’antica arte del fabbro sta conoscendo una rinascita, e i loro oggetti fatti a
mano sono venduti a caro prezzo.
È proprio vero che piccolo è bello.
Se volete vivere liberi dai supermercati, provate a fare così: Fate il pane da
soli! Versate un litro d’acqua tiepida in una scodella. Aggiungete una manciata
di lievito, una di zucchero e una di sale. Aggiungete circa un chilo di farina.
Mescolate bene finché tutta la farina è bagnata. Lasciate riposare per qualche
ora. Spargete farina su un tavolo. Versateci sopra il composto. Impastate,
aggiungendo farina un po’ per volta. Quando l’impasto si fa appiccicoso,
aggiungete altra farina. Non lavatevi le mani. Aggiungete farina. Ora dividete
l’impasto in sei parti e riempite per metà sei forme per il pane. Lasciate
riposare in un luogo tiepido per un’ora circa, finché l’impasto non sarà
lievitato. Ed ecco a voi: il pane. E se imparate a fare il pane, potete fare
qualunque cosa. È incredibile quanta fiducia in voi stessi vi darà imparare a
fare il pane.
Tutto il processo è facile e piacevole, e alla fine mi ritrovo con sei deliziose
pagnotte che ci bastano per due settimane, al costo di circa una sterlina,
ovvero meno di venti pence a pagnotta. Ed è pane vero, pane di Cobbett, pane
che sfama, non pappa chimica.
Coltivate ortaggi. Produrre da soli le verdure che mangiamo – almeno
alcune di esse – è stata per me una delle più grandi scoperte degli ultimi due
anni. Non avrei mai immaginato che potesse essere così divertente, facile e
appagante. Ed è anche molto terapeutico. Quando ho iniziato a vangare un
pezzo di terra per piantarvi dei semi, ero in una fase molto stressante della mia
vita, impegnato in un progetto editoriale. C’erano di mezzo gli avvocati, e
ogni volta che squillava il telefono arrivavano altre brutte notizie. Be’, in
mezzo a tutto questo, mi è stato di grande conforto dedicarmi per un’ora o
due al lavoro fisico in giardino. Lavorare all’aria aperta dona armonia allo
spirito. E poi accadde una cosa magica e sorprendente: i semi si
trasformarono in qualcosa di commestibile. Mentre i progetti mediatici
londinesi collassavano, ecco qualcosa che funzionava davvero. Praticamente a
costo zero, in quel primo anno coltivai cipolle, aglio, patate, porri, pastinache,
carote, radicchi, barbabietole. In un mondo nel quale di solito il divertimento
ha un cartellino con il prezzo, coltivare l’orto unisce il divertimento alla
produttività. È piacevole e utile, e ti regala la piacevole sensazione che ti stai
prendendo cura di te.
Coltivare l’orto è anche un sistema molto più efficiente rispetto alla
dipendenza dai supermercati. Tanto per cominciare, potete scegliere le varietà
da coltivare, magari il fagiolo bianco di Spagna, che i supermercati snobbano
perché costa troppo. Ecco quindi un’improvvisa, nuova libertà.
E poi non c’è bisogno di andare a far la spesa: le verdure sono lì, pronte,
appena fuori casa. Non dovrete più andare fuori città in auto, prendere
qualche ortaggio avvolto nella plastica, lucido e insapore, e poi portarlo alla
cassa e consegnare altri soldi alla megamacchina. Non più: ora fare la spesa
per voi significa farvi una bella passeggiata in giardino. E non dipendete da
nessuno: niente grossisti, niente magazzini, niente commessi, niente camion,
niente fattorie in Nuova Zelanda, niente food miles.*
L’altra bella cosa è che il vostro orto è soltanto vostro: non ci sono al
mondo due orti identici; sono come le impronte digitali. Siete voi a scegliere
le verdure, le varietà, la disposizione, la frutta. Ci siete voi in ogni lombrico,
in ogni granello di terra, ogni ortica e ogni erbaccia.
Diventare giardinieri, inoltre, vi varrà l’ingresso in una nuova comunità di
altri giardinieri. Andrete a chiedere consigli, vi scambierete i semi, vi
scambierete gli ortaggi. È qualcosa di profondamente creativo, mentre lo
shopping al supermercato è profondamente non-creativo. Nell’orto siete voi a
fare tutto. Al supermarket, ogni cosa è stata già fatta per voi. Vi resta solo da
porgere la carta di credito. Ormai appare decisamente ridicolo comprare frutta
e verdura in un supermercato: è una perdita di tempo e di soldi, e la qualità è
scadente. Le verdure cresciute davanti a casa vostra non solo sono le più
gustose che mai mangerete, ma sono una medicina, oltre che semplice cibo.
Comprate all’ingrosso. È uno dei grandi segreti dell’età moderna. Grazie
all’iniziativa di un vicino, ci siamo accordati con un paio di altre famiglie e,
una volta al mese circa, facciamo un grosso ordine. Compriamo sacchi di
farina, conserve, pasta, riso: tutti gli alimenti di base. Offrono anche scorte
per la casa come detersivo e carta igienica. Alcuni grossisti permettono un
ordine minimo di sole cento sterline. Pubblicano cataloghi, che potete
sfogliarvi comodamente seduti in poltrona. Decidete cosa comprare, e loro ve
lo portano a casa. Niente compere! Niente file! Niente traffico! Niente
parcheggi! Più tempo per oziare!
Unire le forze con altre persone può semplificarvi la vita e renderla meno
costosa. Questo atteggiamento verso la vita, un atteggiamento di condivisione,
è esattamente ciò che le grandi aziende vogliono mantenere segreto. Loro
vogliono comunicare direttamente con voi, attraverso la televisione. Non
vogliono che ci associamo liberamente in piccoli gruppi. Si oppongono
all’autogoverno e al federalismo. Dobbiamo liberarci dalla morsa delle grandi
istituzioni, siano esse supermercati o governi.
Comprate sui mercati locali. È così ovvio che non ci sarebbe neanche
bisogno di ripeterlo. Diventate clienti fissi del vostro macellaio più vicino, del
fruttivendolo, del negozietto di alimentari e del mercato di quartiere, e fatelo
subito, o potreste vederli scomparire, fagocitati dall’ennesimo ipermercato.
Ricordate anche che se acquistate sotto casa i soldi resteranno all’interno della
comunità. Quando invece comprate in una grande catena, i soldi sono
risucchiati e finiscono nelle tasche dei direttori e degli azionisti, che ridono di
noi poveri illusi mentre ordinano vini pregiati e comprano nuove case.
Damien Hirst una volta ha scritto un articolo per l’«Idler» intitolato Perché gli
stronzi vendono merda ai coglioni. Credo che il titolo dia un’idea del
contenuto. La risposta? Non siate coglioni e non comprate merda.
Dovremmo buttar giù i supermercati, perlomeno nelle nostre teste.
Boicottateli per sempre. Dimenticate che esistono. Faremmo meglio a radere al
suolo questi templi dell’oppressione e della schiavitù, e sostituirli con orti.
Togliete la bruttezza e la dipendenza, e rimpiazzateli con la bellezza e
l’autosufficienza. Che la terra sia dolce e verde. Prendetevi cura del suolo.

COLTIVA LE TUE VERDURE

* Espressione usata nei Paesi anglosassoni per calcolare l’impatto ambientale del cibo,
basato sulle miglia percorse per giungere dal produttore fino alla nostra tavola. (N.d.T.)
Il regno del brutto è finito: lunga vita alla bellezza, alla qualità,
alla fratellanza!

[…] bellezza è verità


e verità bellezza; e questo è tutto quel che sappiamo
al mondo, e tutto quel che dobbiamo sapere.
JOHN KEATS, Ode a un’urna greca (1819)

E tornate a contemplare l’antica facciata della cattedrale […].


Esaminate ancora quegli orribili goblin, quei mostri informi […]
perché in loro sono i segni della vita, la vita e la libertà di ciascun
operaio che ha colpito la pietra; una libertà di pensiero e di rango nella
scala dell’essere, che nessuna legge, nessun editto, nessuna carità può
assicurare; ma che l’Europa deve oggi, come suo scopo supremo, riconquistare per i suoi
figli.
JOHN RUSKIN, Le pietre di Venezia (1906)

Un tempo le cose erano più belle. È un dato di fatto. Il processo industriale


può essere visto come processo di imbruttimento, dal momento che ogni cosa
diventa oggettivamente più brutta quando si sottomette al dominio della
manifattura di massa, dello sfruttamento del lavoro e del profitto. La nobile e
contemplativa Qualità è assassinata dall’avida e venale Quantità. Nel Regno
Unito, nell’Ottocento, le cose iniziarono a farsi veramente brutte. Fu allora che
l’arte venne sottratta al popolo; fu allora che le persone si ridussero a semplici
operatori di macchine, e le classi professionali rivendicarono per sé sole la
responsabilità di costruire e creare. I cosiddetti miracoli della scienza
produssero orrendi ponti di ferro, senza gioia e senza vita. Fu nell’Ottocento,
il secolo più prosaico e stakanovista, che i nostri romanzieri iniziarono a
inveire contro la bruttezza. Prima del 1800 non se ne parlava, in letteratura.
Ma cent’anni dopo, quant’era diventato brutto il mondo. Nelle parole di uno
sconcertato D.H. Lawrence:
La vera tragedia dell’Inghilterra […] è la tragedia della bruttezza.
La campagna è così adorabile; l’Inghilterra fatta dall’uomo è
così orribile […]. È stata la bruttezza, nel diciannovesimo secolo,
a tradire davvero lo spirito dell’uomo. Il grande crimine che
le classi ricche e i fautori dell’industria hanno commesso nella felice
età vittoriana è consistito nel condannare i lavoratori alla bruttezza, alla
bruttezza […]. L’anima umana ha bisogno di vera
bellezza, ancor più che del pane.

Siamo in debito con la Bellezza. L’abbiamo disprezzata, l’abbiamo lasciata


marcire al freddo; la sua vendetta sui creatori del brutto sarà rapida,
improvvisa e terribile.
Ma se le cose si imbruttiscono, ci imbruttiamo anche noi. Dopo aver
raggiunto l’apice della raffinatezza nel Quattrocento, i vestiti sono diventati
sempre più semplici, con il trascorrere dei secoli. Le curve drappeggiate, le
tuniche e gli abiti multicolori, le sontuose vesti verdi decorate con uccelli e
corone d’oro, le ampie maniche ricamate «come un prato», i bordi
d’ermellino, le scarpe a punta, i cappelli elaborati e i colori squillanti furono
sostituiti, nell’Ottocento, da cappelli a cilindro neri. Ovunque, cilindri, tubi e
tubature, ciminiere: i cappelli sembravano ciminiere, i pantaloni sembravano
ciminiere. I medievali invece erano come bambini: amavano travestirsi. Non
conoscevano i pantaloni e non indossavano mai il nero. Le curve
scomparivano alla vista, sostituite da linee rette. I vestiti di oggi sono divise da
lavoro. L’abbigliamento sportivo ha preso il sopravvento. Il nero puritano è il
colore preferito da tutti, benché la moda si ostini ogni stagione a proporci «il
nuovo nero». Dobbiamo tornare ai vestiti scomodi di una volta. E allora,
grazie a Dio per averci donato Vivienne Westwood. Grazie a Dio per i punk e
gli hippie, che amavano vestire di colori fantastici, come i medievali, come i
bambini.
Anche stavolta, la colpa è dei puritani. Hanno sferrato un attacco diretto agli
abiti colorati che i medievali amavano, e hanno introdotto il nero. I colori
erano fronzoli inutili e vanitosi. Ma guardate gli antichi dipinti a tema
religioso, e gioite dei colori e della vita che traspaiono dagli abiti; e ricordate
che gli artisti medievali avevano l’abitudine di rappresentare le figure bibliche
in abbigliamento contemporaneo. Allora, nelle parole di Max Weber:
Certamente qui l’ascesi si posò come brina sulla vita della lieta vecchia Inghilterra.
[…]. Il collerico odio dei puritani contro tutto ciò che odorasse di «superstition»,
contro tutte le reminiscenze di elargizione magica o rituale della grazia, perseguitò la
festa cristiana del Natale proprio come l’Albero di maggio e la pratica candida e
spontanea dell’arte religiosa. […] Il puritano condannava il teatro […] per favorire
decisamente la fredda funzionalità, contro ogni impiego di motivi artistici. Ciò si
verificava più che mai quando si trattava dell’ornamento diretto della persona, per
esempio dell’abbigliamento. Quella potente tendenza a uniformare lo stile di vita che
oggi è incoraggiata dall’interesse capitalistico alla «standardization» della
produzione allora aveva la sua base ideale nel rifiuto della «divinizzazione della
creatura».

In altre parole, prima Enrico VIII e poi i puritani hanno promosso la


Rivoluzione del Brutto, la Rivoluzione della Noia, la Rivoluzione ascetica, la
Rivoluzione senza divertimento: addio colore, benvenuto nero. Lui e
Cranmer, e in seguito il Lord Protettore Somerset, hanno letteralmente
strappato la bellezza dal cuore della nazione, distruggendo o rubando tutta
l’arte che da secoli giaceva indisturbata nelle chiese: pale, altari, statue,
ornamenti d’oro e d’argento, vetrate istoriate, croci eccetera. Il pretesto era
che simili bellezze erano vanità e idolatria, e inutili per la religione, che
sarebbe dovuta diventare semplice e sgombra da fronzoli. Vediamo bene,
allora, perché artisti e scrittori tendono tradizionalmente verso il cattolicesimo
romano, mentre il protestantesimo è la religione adatta per il serio uomo
d’affari, l’uomo pragmatico.
La bellezza e la varietà furono attaccate anche dal movimento delle
enclosures, che impose vasti e monotoni pascoli per le pecore al posto dei
campi variegati e delle terre comuni medievali. La Rivoluzione industriale si
scagliò nuovamente contro la bellezza, rimpiazzandola con l’utilità. Enormi
fabbriche che sputavano fumo, alimentate da combustibili fossili, presero il
posto dei mulini ad acqua e a vento che avevano punteggiato la campagna
inglese fino a quel momento. Penso spesso a quanto doveva essere bella la
campagna, quando era piena di mulini a vento. Crediamo di essere furbi
quando parliamo di energia eolica, ma naturalmente per i medievali amanti
della natura, che vissero prima del carbone, del nucleare e dell’elettricità,
questa era una parte centrale della vita.
William Morris lamentava l’orrore estetico dell’età vittoriana. In Notizie da
nessun luogo, descrive la metropolitana di Londra come «quel bagno turco di
umanità frettolosa e scontenta», e possiamo constatare che ben poco è
cambiato da allora. Morris criticava anche i brutti ponti di ferro sul Tamigi.
Quando il suo eroe si risveglia nell’Inghilterra postrivoluzionaria del 2005,
vede che tutti i ponti di ferro sono stati abbattuti. Anzi, le pecore pascolano a
Piccadilly Circus, e il denaro è stato abolito. Una bellissima fiaba.
Le macchine creano la bruttezza; le mani degli uomini creano il bello. E
credere che l’utilità sia superiore alla bellezza distrugge la bellezza. Ecco cosa
dice John Seymour sulla differenza tra le latte di benzina e i vasi:
Un tempo pensavo che, per trasportare l’acqua, una vecchia latta di benzina fosse
equivalente a un vaso di terracotta. Ma un giorno lessi alcuni versi del poeta Tagore,
in cui egli istituiva proprio questo paragone. Diceva che, sì, una vecchia latta di
benzina trasporta l’acqua altrettanto bene di un chatti, ovvero uno di quegli splendidi
vasi che le donne indiane portano sulla testa, eccetto che per una cosa: la latta di
benzina è misera. È gretta. Perché assolve solo lo scopo utilitaristico, e nient’altro.
Serve a trasportare l’acqua, e lo fa bene. Proprio come il chatti. Ma il chatti è
delizioso a vedersi, delizioso da toccare e tastare, piacevole da avere intorno. Ogni
volta che lo guardi pensi all’amore e alla dedizione con cui è stato realizzato, dalle
mani di un essere umano. Ogni volta che guardi la latta di benzina pensi a un’enorme
macchina mostruosa e sferragliante e sporca, che sputa fuori cose brutte senza alcuna
intenzionalità. Perché nessun oggetto creato da una macchina può essere bello. La
bellezza negli artefatti può essere introdotta solo dalle mani degli artigiani, e nessuna
macchina potrà mai rimpiazzarli.

So che nelle porcellane cinesi c’è la tradizione di introdurre in ogni oggetto


una piccola imperfezione, così che ogni pezzo sia diverso dagli altri, e unico.
Il perfezionismo è in sé una forma di morte: la macchina può produrre
migliaia di pezzi perfetti, ma non ha vita propria.
Dunque, come possiamo opporci all’imbruttimento della vita? Be’, c’è una
risposta semplice. Evitate le cose brutte, ignoratele e dedicatevi invece
all’artigianato; è proprio ciò che ha tentato di fare il movimento Arts and
Crafts. Ogni uomo e ogni donna dovrebbero padroneggiare una, due o tre
arti. Auspico un revival dell’artigianato. L’artigianato è basato sulle persone,
sul piacere; rappresenta una società giusta, rappresenta la qualità e la gioia del
creare. L’artigianato è il trionfo della qualità sulla quantità, dell’autogoverno
sullo sfruttamento. Portate bellezza nelle vostre case. Un vaso di gerani sul
davanzale; un libro ben rilegato, dalla copertina colorata. Fatevi da soli i
vestiti. Cucite diamanti rossi sulle maniche. Se dedicate meno tempo al lavoro
e alla Cosa, al Sistema, all’Uomo, avrete più tempo per voi stessi, più tempo
per essere creativi, più tempo per produrre anziché consumare.
Comprate soltanto cose belle. Create soltanto cose belle. Di certo, è meglio
comprare una sola camicia l’anno, ma di ottima qualità, che non comprarne
cinque a buon mercato, che nel giro di qualche mese finiranno nella
spazzatura. E le cose che producete, per quanto brutte, sono sempre più belle
dell’alternativa prodotta in massa, semplicemente perché irradiano cura e
attenzione, anche se sono storte, strane e malfatte.
Per dirne una: ogni cosa – ogni singola cosa – oggigiorno sembra fatta di
plastica. Proprio come Woody Guthrie aveva previsto nella canzone Talking
Columbia: i treni, i vestiti, i mobili. La plastica bianca sta rivestendo la
nazione, come un sudario non biodegradabile. La plastica è il trionfo della
quantità sulla qualità, della fabbrica sul lavoro manuale. La plastica è fredda,
sterile, senz’anima, velenosa, brutta, dispendiosa, immarcescibile,
indistruttibile: è un nulla puzzolente fatto di petrolio e soldi. La plastica
gronda avidità, come quell’amico dei genitori di Ben nel Laureato che gli
suggerisce il settore in cui cercare lavoro: «La plastica, Ben, la plastica». Di
recente, un tizio ha venduto tetrapak a tutto il mondo, facendo una montagna
di soldi e creando un’orrenda montagna di spazzatura indistruttibile. Non
molto tempo fa, tutti avevamo i nostri bei bidoni del latte personali, che
portavamo alla fattoria. In alcune zone della Francia funziona ancora così.
Creiamo un mondo su misura per noi, fatto di legno e intagliato con il cesello.
È una delle ironie più tragiche della nostra era, che un materiale costoso
come la plastica, che dipende da scorte limitate di petrolio, sia diventato più
economico del legno, che è perennemente rinnovabile. Tuttavia, con un po’
d’ingegno, ci si può procurare legna a buon mercato se non addirittura gratis.
Noi raccogliamo pezzi di legname dai boschi del circondario. Raccogliamo
legno sulla spiaggia. Poi lo usiamo per costruire oggetti. L’altro giorno ho
intagliato un elefante come giocattolo per i bambini, da un pezzo di legno
trovato sulla spiaggia. Il mio elefante non sarà elegantissimo, ma scommetto
che durerà più a lungo della robaccia di plastica con cui giocano oggi i
bambini.
La bellezza ci nutre. L’anarchia è bellezza. Noi ci opponiamo alla gente
grigia. Vogliamo decorare, come quei fantastici camion indiani ricoperti di
fiori. La bellezza deve conquistare l’ossessione per l’ordine: l’ordine è brutto.
I nazisti erano brutti, e Firenze è bellissima. La Germania nazista era una
burocrazia, e Firenze fu creata da un sistema federale di autogoverno. È una
dimostrazione sufficiente: l’industrializzazione ha creato Swindon, e
l’indipendenza medievale ha creato Firenze. A voi la scelta.
Spetta all’individuo, o al gruppo di individui, trasformare il brutto in bello.
È esattamente ciò che fa lo skateboard: prende le linee rette e i blocchi di
cemento della modernità, apparentemente poco attraenti, e li sottopone a una
specie di procedimento alchemico, trasformando i parcheggi, i corrimano e le
scalinate dei palazzi del potere in oggetti di fascino, promessa e divertimento.
Lo skateboard porta bellezza nella città. In altre parole, non dovete uscire dalla
città per fuggire dalla città, perché potete ricreare la vostra città. La stessa idea
ritorna anche nell’approccio della Permacultura alla coltivazione di frutta e
verdura: un davanzale al quattordicesimo piano può diventare un giardino; un
appezzamento di terra incolta può diventare un orto. Circondiamo i
condomini con carote e cipolle; mettiamo al bando gli aridi prati verdi che
punteggiano i nostri quartieri. Scavate la terra, fatevi un orto. Fatevi una città
su misura.

LUNGA VITA ALLO SCALPELLO


Deponi la ricchezza tiranna

Tolle querelas
pauper enim non est cui rerum suppetit usus.

[Cessa dunque
di lamentarti, perché non è povero
chi ha quanto gli basta.]
ORAZIO (65-68 a.C.)

A volte penso che ciò di cui abbiamo bisogno non è più ricchezza, ma
più povertà. È la ricchezza che provoca i problemi, è la ricchezza che
causa l’ineguaglianza.
SATISH KUMAR

Non ho niente – niente! – e lo adoro.


KEITH ALLEN

A livello superficiale, per chi ricerca la libertà, i soldi sono molto attraenti. È
senz’altro piacevole poter disporre di soldi. Il denaro sembra promettere
comodità, agio, abbondanza, divertimento, felicità e, soprattutto, sembra
promettere libertà. Libertà di movimento, libertà dall’ingerenza altrui, libertà
dall’obbligo di fare un lavoro che non ci piace fare. O perlomeno, una grossa
cifra di denaro – la cifra esatta è ignota – sembra offrirci la libertà. Cosa
fareste se aveste un milione di sterline? Questione dibattuta nel cortile di ogni
scuola elementare. Potreste smettere di lavorare, fare la vacanza di una vita,
comprare una Ferrari. Potreste vivere come il fantastico Michael Carroll,
piccolo criminale arricchitosi con la lotteria nazionale, che colleziona
reprimende della polizia per comportamento antisociale, continua a mostrare il
dito medio all’autorità e si fa dipingere pupazzi da cartone animato sul cofano
della Bmw.
E che dire del fuck-off money?* Questa espressione volgare ma efficace
significa possedere così tanti soldi, essere così sfacciatamente ricchi, da non
aver più bisogno di pensare ai soldi, da poter uscire dal mondo delle
presentazioni in Powerpoint, dei piani strategici e della parlantina dei
venditori e di tutta la deferenza che di solito è necessaria per fare soldi. Un
ampio patrimonio, in teoria, vi garantirebbe di non essere più schiavi di un
altro, dato che avreste abbastanza soldi per fare quel che vi pare; non dovreste
strisciare e prostrarvi per ottenere un impiego o perché qualcuno faccia un
lavoro per voi. Potete dire di no. In altri termini, l’idea di fondo è quella di
fare un sacco di soldi per sfuggire alla tirannia dei soldi. Immagino che possa
essere un approccio efficace. Conosco un paio di persone per le quali ha
funzionato benissimo. Ma è un gioco pericoloso. La maggior parte dei sistemi
per fare soldi in fretta fallisce miseramente, e sarete comunque sempre alla
mercé delle imprevedibili forze del mercato. Oggi nel Regno Unito ci sono
circa 8000 persone con questo livello di ricchezza, su 30 milioni di persone in
età lavorativa. Il che equivale a una possibilità su 4000 di entrare in
quell’esclusivo club: una percentuale che nessun allibratore prenderebbe in
considerazione. E se i numeri giocano così a vostro sfavore, vale davvero la
pena di sforzarsi?
Da un punto di vista razionale non ha molto senso proporre l’arricchimento
come una soluzione valida per tutti, perché è nella natura della ricchezza che
solo in pochi possano essere ricchi, dal momento che la ricchezza di uno
dipende dalla non ricchezza degli altri. Non possiamo essere tutti ricchi. Come
dice Ruskin in A quest’ultimo: «La ricchezza è una forza che, al pari
dell’elettricità, non agisce se non per ineguaglianze e negazioni di se stessa. Il
potere di una ghinea che abbiate in tasca dipende esclusivamente dalla
mancanza di una ghinea nella tasca del vostro vicino». Ruskin prosegue:
«L’arte di diventare ricchi […] è l’arte di stabilire il massimo di disuguaglianza
in nostro favore».
Si dà per scontato che tutti noi vogliamo diventare ricchi. Voler essere
ricchi è una delle forze motrici di un mondo competitivo. Il desiderio di
essere ricchi è ciò che ci fa sforzare, lavorare, lottare, combattere, competere,
ingannare e abbandonare la morale. Ed è esattamente l’impulso su cui fanno
leva le persone che davvero diventano ricche – gli usurai e gli investitori, i
manipolatori del mercato – perché sfruttano la nostra avidità per i loro scopi.
Volere più soldi di quanti ne abbiamo ci impedisce di godere del presente; è
dunque un tratto puritano. Dovremmo piuttosto gioire di ciò che abbiamo.
Nella ricerca della libertà, la brama di ricchezza è anzi il primo desiderio da
eliminare.
Il problema è che oggi, a differenza del Medioevo, nessuno vuole essere
povero. È visto come sintomo di fallimento. Come scrive William Godwin:
«Gli usi prevalenti in molti Paesi sono accuratamente predisposti per inculcare
la convinzione che l’integrità, la virtù, la comprensione e la laboriosità sono
nulla, e l’opulenza è tutto». Ciò che nel 1793 Godwin chiamava «gli usi», cioè
i mezzi attraverso i quali un’ideologia dominante viene diffusa tra la
popolazione, oggi li chiameremmo «i mass media». C’è un altro modo di
guardare a questo problema, e si chiama «essere grati per ciò che si ha». La
vera ricchezza è questione di atteggiamento mentale. Come scrive Robert
Burton:
Una delle più grandi sventure che possono colpire un uomo, nella considerazione che
il mondo ha di lui, è la povertà e l’indigenza […]. Eppure, se intesa correttamente,
essa è in sé una grande benedizione, una condizione felice, e non reca in quanto tale
cause di malcontento, né obbliga chi ne è colpito a considerarsi ignobile, odiato da
Dio, abbandonato, miserabile, sfortunato. Cristo stesso era povero, nato in una
mangiatoia, e per tutta la vita non ebbe una casa in cui rifugiarsi, «nel caso qualcuno
pensasse che la povertà era effetto di un giudizio divino, o una condizione odiosa». E
come lui, così disse ai suoi apostoli e discepoli, tutti loro erano poveri, i profeti
poveri, gli apostoli poveri […]. «Afflitti (dice san Paolo) ma sempre lieti; gente che
non ha nulla e invece possediamo tutto!».

Ci sono i ricchi e ci sono i poveri; ci sono i ricchi buoni, i poveri buoni, i


ricchi cattivi e i poveri cattivi. L’una o l’altra condizione non dovrebbe
comportare un giudizio morale. È assolutamente irrilevante ai fini della
libertà. La frase più importante in questo brano è «se intesa correttamente».
Essere poveri è una sventura solo se decidete che lo è: se noi, come società,
decidiamo di considerarla una sventura. Non ci sono verità assolute in questo
campo. Anzi, c’è una posizione morale piuttosto diffusa, secondo cui essere
poveri è un bene, e siamo egualmente liberi di seguire quella morale.
In ogni caso, la ricchezza porta con sé molti oneri. Ci sono i parenti che
litigano, le persone a carico, gli squali che vi appestano con generose offerte
di liberarvi dal fardello del contante, i club per ricchi, la sanità privata, i piani
pensionistici e i programmi d’investimento. Quando ripenso alle fasi delle mia
vita in cui ho avuto dei soldi, il modo in cui li ho sprecati mi dà la nausea.
Per i puritani, il successo in questo mondo era segno del successo
nell’altro. Se eri ricco voleva dire che Dio ti aveva favorito. Però non dovevi
goderti i tuoi soldi; meglio tenerli da parte, accumularli. Ecco la descrizione
che Max Weber fornisce dell’atteggiamento dei puritani verso la ricchezza:
La ricchezza è pericolosa solo e precisamente come tentazione di adagiarsi nell’ozio
e di godersi peccaminosamente la vita, e la sua ricerca lo è solo quando ha luogo per
poter vivere, più tardi, senza preoccupazioni e allegramente. Ma in quanto esercizio
del dovere professionale non è solo moralmente lecita, è addirittura obbligatoria. E
la parabola di quel servo che veniva scacciato perché non aveva fatto fruttare il
talento affidatogli pareva anche esprimere direttamente questo. Voler essere povero
equivarrebbe a voler essere malato – si argomentava spesso; si tratterebbe di
santificazione di opera, riprovevole e nociva alla gloria di Dio. E, soprattutto, chi
chiede l’elemosina mentre è in grado di lavorare non solo commette il peccato della
pigrizia, ma si comporta anche contro l’amore del prossimo, secondo le parole
dell’apostolo.

Io ribalterei l’atteggiamento puritano per come è espresso all’inizio di questo


brano, e direi piuttosto che la ricchezza è un bene solo quando conduce a
«vivere senza preoccupazioni e allegramente». C’è un famoso aforisma di
Picasso, che diceva di voler vivere «come un poveruomo con molti soldi»;
intendeva dire che li avrebbe spesi con generosità, liberalità, gioia. Un
banchetto per i mendicanti. Questo vuol dire vivere liberi con la ricchezza,
mentre, per i puritani, la ricchezza e la proprietà erano un fardello ulteriore.
Il malvagio leader metodista John Wesley disse: «Dobbiamo esortare ogni
cristiano a guadagnare tutto ciò che può, e a risparmiare il più possibile;
ovvero, di fatto, a diventare ricco». Oggi riscontriamo lo stesso atteggiamento
verso il denaro nella destra cristiana in America: le ricchezze testimoniano
l’amore di Dio, esattamente l’inverso dell’atteggiamento proposto da Gesù.
Quello a cui io mi oppongo in tutto ciò è lo sforzo continuo e l’avidità, più
che le ricchezze in sé. Se i soldi vi arrivano come effetto collaterale del fare
ciò che volete, forse sarebbe sciocco rispedirli al mittente, per quanto possiate
essere convinti dei vantaggi che la povertà offre alla salvezza della vostra
anima. Ma ricercare la ricchezza fine a se stessa – anche se, Dio solo sa,
potrebbe togliervi parecchi guai – sembra pericoloso, se è la libertà quello che
veramente cercate. Per Burton, il desiderio di contanti era in sé schiavizzante,
e per questo scrisse dei mercanti:
[…] sono tutti pazzi, stupidi, stolti, miserabili relitti umani, che vivono fuori da se
stessi, sine arte fruendi, in perpetua schiavitù, paura, sospetto, dolore e malcontento,
plus aloes quam mellis habent; e sono in verità «più posseduti che possessori del
loro denaro» come scrive Cipriano, mancipati pecuniis.

Anziché cercare di essere ricchi, potremmo cercare di essere poveri,


semplicemente optando per la parsimonia e rifiutando i gingilli del
consumismo. Non aver bisogno di soldi perché abbiamo ridotto le nostre
esigenze può essere altrettanto liberatorio che non aver bisogno di soldi
perché ne abbiamo già tanti. Dà un grande senso di sicurezza imparare a
vivere con mezzi limitati, perché ci liberiamo dai desideri e quindi dagli sforzi.
E poi, se avete bisogno di meno soldi, potrete lavorare di meno. Questo modo
per sfuggire al denaro presenta un grande vantaggio rispetto all’altro sistema,
quello di fare molti soldi, perché è molto più semplice da ottenere. Quando si
è poveri non si corrono rischi, e molti di noi troverebbero più semplice la
strada di lavorare meno e guadagnare meno.
Oggi guadagno meno della metà di quanto guadagnavo quattro anni fa; ma
ho imparato a vivere con questa cifra e sono libero di portare avanti il mio
lavoro. Certo, bisogna fare qualche rinuncia. Ma ce la caviamo. La nostra
relativa povertà, come ho già detto, ha avuto un’origine involontaria, ma
abbiamo imparato ad accettarla e anzi ad abbracciarla e gioirne. Vivere con
meno necessità, vivere in modo umile, lascia libero molto tempo per la
riflessione e il piacere. Già questa è una condizione piacevole in cui trovarsi.
Se riesco ad andare avanti così, a vivere senza un impiego, potrò considerarmi
molto fortunato.
Per liberarci dalla povertà, dunque, paradossalmente dobbiamo accogliere
la povertà. Se fossimo tutti poveri saremmo tutti ricchi. La risposta è essere
creativi con ciò che abbiamo, piuttosto che rassegnarci alla schiavitù di volere
sempre qualcosa di nuovo.
Eric Gill ha abbracciato questa sorta di povertà autosufficiente, che lui
chiamava «povertà positiva». Nella sua autobiografia ricorda che suo padre,
caduto in miseria, tagliava le salsicce in undici fette perché ognuno dei figli
potesse mangiarne un pezzo. Cose come questa vanno ammirate, non
compatite. Dice Godwin: «Se l’ammirazione non fosse generalmente
considerata appannaggio esclusivo dei ricchi, e il disprezzo l’onnipresente
lacchè della povertà, l’amore per il guadagno smetterebbe di essere una
passione universale». Accadeva proprio questo nel mondo medievale, con la
sua costante condanna del capitalismo (l’usura) e dell’industrialismo (la
schiavitù). Non è che le ricchezze non esistessero; esistevano eccome. Alcuni
mercanti divennero estremamente ricchi; l’esempio di Dick Whittington* non
è che il più famoso. Ma la brama di guadagno non era ancora diventata una
«passione universale».
La povertà volontaria deve tornare a essere un fine desiderabile. Oggi,
ammiro i collaboratori dell’«Idler» Chris Yates, Mark Manning, Jack Stot e
Keith Allen, che hanno tutti più o meno volontariamente abbracciato
Madonna Povertà, come la chiamava san Francesco d’Assisi. Dico
«volontariamente» perché ciascuno di loro avrebbe potuto benissimo
guadagnare un mucchio di soldi, se avesse voluto, dato che sono tutte persone
di talento. Ma per loro vivere ogni giorno, l’arte e la poesia e la vita, sono più
importanti dei soldi. Sono queste le persone che dovremmo venerare, come
suggerisce Godwin. Rendete cool la povertà! (Spero sia chiaro, a proposito,
che non sto promuovendo la carestia.)
La libertà dalle preoccupazioni e dai grattacapi legati al denaro dev’essere
stata una delle motivazioni che hanno spinto Bill Drummond e Jimmy Cauty,
della band acid-house The KLF, a dare vita al collettivo artistico K
Foundation. Nel 1997, ritirarono un milione di sterline dal loro conto in
banca, soldi guadagnati con le vendite dei loro dischi di successo, li portarono
in un cottage sperduto nelle Highlands scozzesi e bruciarono il tutto. Fu un
atto spettacolare, nella tradizione di Gesù e i mercanti del Tempio. Qualcosa di
simile fecero Abbie Hoffman e Jerry Rubin, che entrarono a Wall Street e
diedero fuoco a banconote da cinque dollari, suscitando reazioni disgustate
nei broker. Ma ciò che ha fatto la K Foundation è stato più coraggioso, in un
certo senso, delle azioni dimostrative di entrambi quegli attivisti. Hanno
bruciato un milione di sterline! La loro azione ricorda anche il Falò delle
vanità di Savonarola. Ma mentre quest’ultimo fu un attacco sferrato dalla
devozione contro il piacere, il rogo della K Foundation voleva scagliarsi
contro l’idolatria del denaro, in nome della libertà.
Una delle conseguenze positive di un orto privato è che si riesce a sfuggire
dal mondo del denaro. Inoltre, è frequente che avanzi qualcosa, quindi si può
dar via un po’ di frutta e verdura. Ci sono mille modi per sfuggire alle catene
del denaro. Per esempio, il progetto Freecycle: un nuovo sistema in cui le
persone si scambiano oggetti di cui non hanno più bisogno. Un altro è il
sistema Lets, in cui ci si scambiano prestazioni lavorative con il principio del
baratto. Il movimento della Permacultura intende promuovere proprio questa
creazione di libertà e sostentamento con i propri mezzi, invece di continuare a
nutrire vane speranze che un bel giorno vinceremo la lotteria. Fatelo ora. Date
via gratis le vostre cose, e il denaro non avrà più potere su di voi.
La risposta al problema dei soldi è semplice: ridurre la sua importanza e il
suo ruolo nella vostra vita, e iniziare invece a crearvi una vita su misura per
voi. Forse dovrete portare avanti molti progetti contemporaneamente, alcuni
dei quali vi fruttano un guadagno e altri no. Per quanto mi riguarda, svolgo
un gran numero di attività, tutte definibili come lavoro e tutte definibili come
vita. Alcune di esse – la stesura di libri e il giornalismo – mi procurano un
reddito, mentre altre – la rivista «Idler», il comitato del villaggio, giocare con i
bambini – non generano un guadagno. Altre ancora, come coltivare l’orto e
fare il pane, non portano soldi ma producono cose utili. Fanno risparmiare.
Altre ancora – suonare l’ukulele o lavorare il legno – sono fini a se stesse, e
tutto il resto – lavare i piatti, pulire, cucinare, guidare – è parimenti
necessario. E un modo molto semplice per ridurre la vostra dipendenza dal
denaro è abbracciare l’ideale della frugalità, che sarà oggetto del prossimo
capitolo.

DESIDERA MENO

* Lett. «denaro per mandare a fare in culo». (N.d.T.)

* Personaggio del folklore inglese, tipico delle rappresentazioni pantomimiche natalizie. Un


ragazzo di famiglia poverissima fa fortuna come mercante e sposa la ricca figlia del
padrone. (N.d.T.)
Rifiuta lo spreco e scegli la frugalità

Vi dico che l’essenza stessa del commercio competitivo è lo spreco.


WILLIAM MORRIS, Art, Labour and Socialism (1884)

Lo spreco non è poetico, la frugalità è creativa.


G.K. CHESTERTON, The Romance of Thrift (1910)

Fate il concime, non fate la guerra.


GRAHAM BURNETT, Slogan su spiralseed.com (2005)

In qualità di piccolo proprietario terriero dilettante – o sarebbe meglio dire


«caotico mini-proprietario» – c’è una frase di Self-Sufficiency di John
Seymour che mi risuona nelle orecchie. Dice: «Chi possiede terra non ha mai
bisogno che i netturbini vengano a fargli visita». La prima volta che ho letto
questa affermazione, io e la mia famiglia producevamo tre o quattro sacchi
neri di spazzatura ogni settimana. Iniziai a riflettere profondamente su quanto
lavoro inutile richiedeva quest’immondizia. Bisognava mettere i rifiuti nel
cestino, poi faticare ancora per portare il sacco pieno fino al bidone, e poi
lasciare i bidoni in strada il giorno giusto della settimana, perché li portassero
via. C’era poi la fatica degli operatori ecologici, la benzina, le ore di lavoro,
gli enormi e rumorosi camion della nettezza urbana da costruire. E poi la
fatica di guidare quei camion fino alla discarica, per poi buttare tutta la
spazzatura in una buca enorme dalla quale altri camion l’avrebbero portata in
qualche discarica per rifiuti tossici in piena campagna. E lì sarebbe rimasta per
l’eternità, amata soltanto dai topi, a inquinare il terreno. Questo è il risultato
dello spreco: spreco di tempo, spreco di energia, spreco di vita.
L’antidoto allo spreco è la frugalità. Ora, nell’epoca dello shopping e delle
carte di credito, quello di frugalità non è un concetto alla moda. Ce lo
presentano come un atteggiamento ipocrita, bigotto e meschino: la filosofia
dell’avaro e del tirchio. Nel pregiudizio contro la frugalità c’è forse un residuo
dell’antico pregiudizio dei medievali contro i ricchi, contro chi accumula
denaro: una figura resa oggetto di satira nelle statue dell’epoca, che guadagna
ma non spende, che con i suoi soldi non fa nulla di utile per la società.
Essere frugali, però, non è sinonimo di essere avari. Vuol dire soltanto non
sprecare soldi in cose inutili. Vuol dire, molto semplicemente, essere creativi
con i soldi, ed essere creativi in casa e in famiglia. Il termine inglese thrifty
(frugale) deriva da thriving, che vuol dire «prospero, fiorente». Una gallina
fornisce molti pasti. Brodo, ripieno per i panini e, qualche giorno dopo,
stufato e curry.
E dato che oggi lo shopping è visto come un dovere patriottico, essere
parsimoniosi equivale a essere antipatriottici, e dunque ci regala una piacevole
sensazione di disobbedienza all’ordine costituito. In quanto persone che
cercano la libertà, è vostro precipuo dovere rifiutare lo spreco, perché lo
spreco è parte integrante del sistema capitalistico. Pensate al cibo che ogni
giorno supermercati e paninerie gettano via. È sorto da poco un nuovo
movimento, chiamato freeganism: consiste nel procurarsi il cibo gratis
recuperandolo dai bidoni della spazzatura alla fine della giornata. Sembra un
sistema eccellente. Vivi in una casa occupata, ti procuri da mangiare gratis e
non avrai nessun bisogno di sprecare tempo lavorando. È incredibile vedere
cosa la gente butta via. La frugalità vi permette di sfuggire alla cultura del
consumismo e di creare anziché lavorare-guadagnare-spendere.
In un superbo saggio sul romanticismo della parsimonia, Chesterton
sostiene che le economie e la frugalità sono tutt’altro che prosaiche e noiose,
ma sono anzi concetti romantici:
L’economia, se intesa correttamente, è la più poetica. La frugalità è poetica perché è
creativa; lo spreco non è poetico perché è spreco. È prosaico gettar via il denaro,
perché è prosaico buttar via qualsiasi cosa; è un atto negativo; è un’ammissione di
indifferenza, ovvero, l’ammissione di un fallimento.

Questo genere di frugalità appassionata è qualcosa di ben diverso dalla


nozione che della frugalità avevano i puritani, gli smilesiani, i metodisti. La
loro era soltanto un’espressione dell’avidità degli industriali. Predicavano una
vita spartana ai loro operai, perché imparassero a vivere dei loro magri salari,
così i padroni potevano aumentare i loro profitti. La frugalità che io consiglio
non è quella basata sull’abnegazione, sul predicare alle classi inferiori la
sobrietà, la parsimonia, la laboriosità e la virtù. È piuttosto la scelta coraggiosa
di rivendicare il controllo delle proprie finanze. Più siete frugali, meno soldi
vi serviranno; e meno soldi vi servono, meno dovrete lavorare. Ergo, frugalità
significa ozio. La frugalità rende liberi, liberi dal capufficio, dall’ansia e dai
debiti.
Dovremmo anche usare con parsimonia il nostro tempo: ovvero non fare
tutto di fretta e non sprecare il tempo che abbiamo regalandolo a un datore di
lavoro. Questo è l’aspetto che più di ogni altro trovavo frustrante quando ero
impiegato a tempo pieno: la perdita di tempo. Che ci fossero o non ci fossero
sette ore di lavoro da sbrigare, bisognava comunque starsene seduti lì per sette
ore. Mi sembrava folle dover fissare un monitor fingendo di lavorare, mentre
fuori splendeva il sole. In quelle ore avrei potuto fare qualcosa di utile, come
intrecciare ghirlande con le margherite o imparare a suonare l’ukulele.
Nell’ambito della moda, la mia amica Kira Jolliffe, sulla sua rivista «Cheap
Date», sostiene che non dovremmo andare tutti in giro vestiti allo stesso
modo, come un gregge di pecore; suggerisce invece di comprare abiti di
seconda mano. Riuscire a trovare un bel vestito in un negozietto di
abbigliamento vintage, o in un emporio di abiti usati, distingue le persone che
hanno stile da quelle che seguono soltanto la moda. Lo stile consiste
nell’essere se stessi, mentre la moda consiste nell’essere uguali agli altri.
La Mutoid Waste Company ha dimostrato il potere creativo della frugalità.
Si è opposta radicalmente allo spreco, prendendo veicoli destinati alla
rottamazione e trasformandoli in sculture straordinarie.
La battuta di John Seymour a proposito degli spazzini e dei proprietari
terrieri mi ha indotto a riflettere; e da quel giorno io e la mia famiglia abbiamo
deciso di provare a produrre meno rifiuti. L’idea di fondo, per Seymour, è che
chi possiede un po’ di terra crea un circolo virtuoso nel quale nulla viene
sprecato. I rifiuti alimentari diventano concime, o mangime per gli animali,
così come la carne avanzata; gli escrementi degli animali concimano i campi;
praticamente non si usano imballaggi, perché quasi tutto è prodotto in loco; i
barattoli di vetro per la marmellata tornano utili in mille modi, carta e cartone
possono essere bruciati o fatti a pezzi e usati come concime; le bottiglie si
riutilizzano o si riciclano. Gli abiti smessi possono diventare copriletti
patchwork. Con il legno si fanno sculture, oppure lo si brucia. Persino la
risciacquatura dei piatti può servire a bagnare le piante, invece di finire
risucchiata in costose fognature. Così andavano le cose nel podere medievale:
niente spreco, niente spazzatura; niente dipendenza dalle amministrazioni
comunali e dai loro elaborati sistemi di gestione dei rifiuti. La spazzatura ci
fornisce un altro esempio di come il Sistema lavori sodo per riparare i danni
da lui stesso creati. Siamo noi a dar vita a problemi come i rifiuti e la plastica,
e poi ci congratuliamo con noi stessi per aver inventato ingombranti strutture
per smaltire quei rifiuti. Faremmo molto prima a non crearli affatto.
Per noi, il primo passo è stato produrre concime, risultato che si ottiene
conservando i rifiuti organici e lasciandoli decomporre, per trasformarli in
prezioso cibo per la terra. Ci sono molti libri su questo argomento; se seguite
bene le istruzioni, il mucchio di rifiuti produrrà calore e la spazzatura
diventerà succoso concime nel giro di poche settimane. E anche se non
seguite bene le istruzioni, nel giro di un anno avrete comunque il vostro
concime. E se anche non avete la pazienza per star dietro a tutto ciò, vi basterà
scavare una buca nell’orto e buttarci dentro la spazzatura. Il materiale
organico marcirà sottoterra e restituirà al terreno tutto il suo organico
splendore.
La plastica può essere un problema. Ma può anche rivelarsi utile. Io uso le
scodelle di plastica trasparente come campane protettive per i germogli. Se
piantate germogli di lattuga, per esempio, le lumache li divoreranno. Ma se li
proteggete con un vasetto di plastica di quelli per lo yogurt, cresceranno
rigogliosi. Anche il cartone non andrebbe gettato via. Le scatole possono
essere ritagliate in forme meravigliose. Il cartone tagliato a pezzi si rivela utile
anche nei mucchi di concime, perché assorbe l’umidità in eccesso. È utile per
predisporre il terreno per una nuova coltura: basta disporre uno strato di
cartone sopra il prato e le erbacce, seguito da uno strato di concime, paglia e
altro materiale organico. I giornali vecchi tornano utili per accendere il fuoco
e per la lettiera degli animali domestici. Un altro bonus per l’ozioso
responsabile è che, più si perseguono queste sane abitudini, meno ore di
lavoro infliggeremo al resto del mondo. È dovere del perfetto ozioso non
soltanto eliminare il più possibile il lavoro dalla propria vita, ma anche evitare
di caricare fardelli troppo onerosi sulle spalle altrui. La maggior parte del
lavoro è spreco, e dunque l’ozioso è estremamente efficiente.
Naturalmente, va da sé che i medievali erano fautori della Permacultura: in
un’era senza petrolio, ogni forma di energia era rinnovabile, il denaro era
tenuto in circolazione nella comunità locale, non c’era spreco. Ogni cosa
tornava utile e veniva riciclata in casa, in un perfetto circolo virtuoso.
L’obiezione classica alle idee anarchiche è: «Chi farà il lavoro sporco?».
Be’, la risposta più semplice è che sarai tu a fare il lavoro sporco. Tutti faremo
il nostro lavoro sporco. E se il lavoro che fai lo fai per te, non ti sembra tanto
sporco.
Per esempio, spalare la merda. Nella mia esperienza, spalare la merda non è
l’incombenza più spiacevole che esista. C’è anche un mondo di differenza tra
spalare la propria merda e spalare quella altrui. Se mi obbligaste a spalare
merda in una fattoria per sette ore al giorno, ben presto non potrei più
vederla, odierei il lavoro, odierei ogni momento. Ma spalare la vostra merda,
sul vostro podere, nell’ora del giorno che voi avete scelto, e farne buon uso:
questo sì che è un piacere. Sono deliziato quando vedo escrementi di gallina e
di cavallo sui miei campi, perché so che farà molto bene al terreno. Ed è
gratis. Dunque, raccoglierla sarà un piacere.
Dopotutto, è straordinario pensare che la roba che esce dal posteriore di un
cavallo o di una mucca è proprio ciò di cui la terra ha bisogno per restare
fertile. Faremmo meglio a sfruttare questa circostanza. Per essere liberi, usate
ciò che è gratis. Scegliere la frugalità vuol dire scegliere di essere liberi; lo
spreco è per gli schiavi e gli stolti, gli zimbelli del capitalismo.

SPALA LA MERDA
Smetti di lavorare, inizia a vivere

«Idler»: Si può vivere senza lavorare?


Vaneigem: L’unico modo in cui si può vivere è senza lavorare.
Conversazione con Raoul Vaneigem, «Idler» (2004)

E quale sarà allora il retto modo di vivere? Sarà quello di fare il proprio
gioco, sacrificando, cantando e danzando, per vedere se con ciò si
riesca a rendere propizi gli dèi e a tenere lontano i nemici,
sconfiggendoli in guerra.
PLATONE

Se vi piace davvero il vostro lavoro, se andate a letto pieni di gioia ogni


domenica sera, se saltate su dal letto il lunedì mattina colmi di entusiasmo e
trepidazione per i piaceri che la giornata vi regalerà, se amate il vostro capo e
il vostro lavoro, allora potete saltare questo capitolo. Se invece il vostro
lavoro è una barba, se lo trovate stancante, noioso, frustrante, malpagato,
stressante, fonte di rabbia e umiliazioni, allora continuate a leggere. Non siete
costretti a restar lì per sempre. Non siete tenuti a farlo. Esistono alternative. Il
lavoro e la vita non devono per forza essere in competizione. Possono
incontrarsi sul terreno comune del gioco.
La tragedia del XIX secolo è consistita nel fatto che l’uomo occidentale ha
iniziato a considerare se stesso, prima di tutto, come un lavoratore. La vita è
diventata una questione seria. La frivolezza, il buonumore, il gioco, i riti, il
ballo, la musica, il divertimento, mettersi in ghingheri: tutti questi piaceri
infantili, che erano elementi costitutivi della vita dei nobili, dei preti e dei
contadini di un tempo, sono stati oggetto di un attacco continuo fin dalla metà
del Cinquecento.
Prima della Riforma, l’Inghilterra era un party continuo. Era davvero felice.
Ronald Hutton, autore di uno splendido libro intitolato The Rise and Fall of
Merry England [Ascesa e declino della Lieta Inghilterra], descrive le feste e le
ricorrenze che punteggiavano ogni mese dell’anno per i felici inglesi. Il
Natale, per esempio, durava dodici interi giorni, durante i quali non si poteva
lavorare. Seguiva, il 2 febbraio, la festa della Candelora, e poi altro
divertimento a San Valentino, il 14. Poi arrivava lo Shrovetide, la versione
inglese del carnevale, che iniziava la settima domenica prima di Pasqua e si
protraeva per tre giorni. La Pasqua durava dieci giorni interi, fino alla festa di
Hocktide, la domenica successiva. Giusto il tempo di lavorare un po’, e subito
arrivava la festa di san Giorgio, il 23 aprile: altro giorno di vacanza. Una
settimana dopo, naturalmente, era il May Day [Calendimaggio], che segnava
l’inizio di due mesi interi di spensieratezza e sesso nei boschi. Poi arrivava il
24 giugno, Notte di Mezza Estate, e la ricorrenza del Corpus Christi. Il 28
giugno era St. Peter’s Eve, cui faceva seguito, il primo agosto, il Lammas, la
«festa dei pani» che dava il via a una stagione di fiere estive e banchetti per
festeggiare la mietitura. A novembre era la volta di Martinmas [festa di san
Martino], seguito dal digiuno dell’Avvento, e si ricominciava daccapo con il
Natale.
La bucolica lieta Inghilterra della tradizione, spiega Hutton, era «una società
in cui la ritualità e le feste erano usate per molti scopi a molti livelli». Ma poi
«il protestantesimo ingaggiò una sfida ideologica diretta, nel tentativo non
solo di riformare il contesto fisico e ideologico del culto, ma di distruggere
gran parte della cultura festiva che aveva rappresentato un elemento essenziale
della vecchia Chiesa».
Dopo l’attacco puritano contro il divertimento, il XIX secolo se ne uscì con
un’altra idea: anziché bandire il divertimento decisero di metterlo in vendita, e
dunque guadagnarci sopra. Quindi hanno trasformato il nostro bisogno di
divertirci in un prodotto e ce l’hanno rivenduto. Le case discografiche, per
esempio, rappresentano l’industrializzazione e la commercializzazione della
musica. Trasformano in lavoro qualcosa che è, per sua natura, non-lavoro.
L’industrializzazione consiste nel prendere la vita, farla a pezzettini e
trasformare ogni pezzetto in un’industria basata sul profitto. Altri esempi:
l’industria delle telecomunicazioni (pagare per parlare), la fornitura di energia
elettrica (pagare per il vento), l’industria alimentare (pagare per ciò che la
natura offre gratis), l’industria dell’intrattenimento (pagare per distrarsi),
l’industria del tempo libero (pagare per giocare) e così via. Tutti servizi che,
un tempo, erano volontari, ad accesso libero, domestici e in molti casi
letteralmente gratuiti.
La linea che demarca l’arte e la vita è sfumata ancora oggi in molte società
più primitive, meno seriose, più giocose come il Messico rurale, dove la gente
scende in città dalle fattorie di montagna per vendere i propri prodotti al
mercato. Questi oggetti sono utili e belli: tappeti, ceramiche, cappelli,
giocattoli di legno. La loro non è un’esistenza da schiavi, perché l’artigiano,
come chi possiede la terra che coltiva, si assume la responsabilità della sua
vita. Scrive Eric Gill che un tempo ogni lavoratore era in qualche misura un
lavoratore responsabile: responsabile non solo di fare ciò che gli veniva detto,
ma responsabile della qualità: della qualità intellettuale di ciò che conseguiva
dalle sue azioni. Era una persona più o meno indipendente da cui ci si
attendeva che usasse, e che era pagata per usare, la propria intelligenza, e
dunque (anche se solo per rendere piacevole lo svolgimento del suo lavoro –
perché è scritto nell’Ecclesiaste: «L’uomo dovrà godere delle sue fatiche: è
questa la sua sorte») era una persona che in certo grado, di più o di meno,
riteneva di dover creare un oggetto che desse gioia oltre che utilità.
Gill parlava di «integrità», intendendo con questo termine non «essere
fedeli ai propri princìpi» ma «integrare, armonizzare diverse parti della
propria vita». L’atto di separare le nostre vite in aree ben distinte e in
reciproca competizione è proprio ciò che causa i problemi, le ansie, le
malattie, i debiti. Il nostro obiettivo dovrebbe essere riportarle a unità,
integrarle, armonizzarle, così che vita e lavoro diventino una e una sola cosa.
Cercate di guadagnare facendo ciò che fareste comunque. Nel mio caso, passo
ogni mattina a scrivere e leggere, e il resto del giorno trascorre fra i lavori
domestici: giardinaggio, pulizie, cucina. Il giardinaggio, in particolare, è
un’ottima cosa, perché si passa la maggior parte del tempo a bighellonare.
Direi che in un’ora di giardinaggio, almeno la metà la trascorro semplicemente
guardando. A volte riesco a portare con me i bambini nell’orto, combinando
così la cura dei figli con l’utile e piacevole attività della coltivazione di cibo.
Di sera si beve, si mangia e si parla.
In realtà, prima dell’industrializzazione, «bello» e «utile» non erano ancora
stati trasformati in categorie opposte e nemiche. Erano la stessa cosa. Il
contadino/artigiano aveva anche qualche acro di terra di proprietà, e poteva
produrre da solo parte del suo cibo. Questa responsabilità per il proprio
lavoro è stata rimossa dall’equazione, e il lavoro è diventato la rinuncia a parti
della propria vita per consegnarle a un padrone e averne in cambio del
denaro; turni di lavoro, peraltro, assai più lunghi e numerosi di quanto si
richiedesse al più succube dei servi della gleba medievali.
In Homo ludens, il venerabile Huizinga sostiene che tutte le culture, in
fondo, sono basate su un’idea della vita come gioco, più che come lavoro. I
giapponesi per esempio apprezzano il loro asobi e asobu, parole che
significano «gioco in generale, ricreazione, riposo, divertimento, passatempo,
gita o escursione, svago, gioco d’azzardo, ozio, inerzia, disoccupazione».
Potremmo notare la somiglianza di questa definizione con quella del
fenomeno sociale inglese noto con l’acronimo Asbo, ovvero Anti-Social
Behaviour Disorder. Si tratta dell’ultimo tentativo (fallito) di controllare i
giovani delinquenti da parte delle forze dell’ordine. Il gioco e suo fratello,
l’ozio, un tempo erano parte integrante del lavoro. Anche gli antichi giudici
non si affaticavano troppo. Nel De laudibus legum Angliae, scritto nel 1470,
Fortescue addirittura si vantava di quanto poco lavorassero i giudici. Questo
lasciava loro più tempo per riflettere, il che li rendeva giudici migliori:
Devi sapere che i giudici non siedono in tribunale più di tre ore al giorno, ovvero
dalle otto alle undici del mattino. Dopo aver mangiato qualcosa, la prassi è
trascorrere il resto della giornata studiando i codici, leggendo le Sacre Scritture,
oppure impiegare il tempo in altri svaghi innocenti, a proprio piacimento; è dunque
una vita di contemplazione, piuttosto che di azione; e libera dalle preoccupazioni e
dagli oneri del mondo.

Scrivere un brano simile sarebbe pressoché inconcepibile oggi, quando la


maggior parte di noi trascorre il tempo a correre qua e là dicendo a tutti
quanto siamo impegnati e quanto lavoro abbiamo da sbrigare. Nella lotta
interiore tra Mondo e Sogno, tra il quotidiano e l’oltremondano, il mondo ha
avuto la meglio troppo a lungo. Dobbiamo riequilibrare le cose. «Soltanto
connettere la prosa e la passione» scrisse E.M. Forster in Casa Howard, «ed
ambedue saranno esaltate, e l’amore umano apparirà al suo culmine. Non
vivere più frammentariamente.» Siamo caduti giù dal muro e abbiamo
bisogno di rialzarci in piedi e rimetterci in sesto.
Abbiamo perso il gioco, l’anima, la creatività. Il grande beatnik eroinomane
Alexander Trocchi scrive nel suo Invisible Insurrection:
L’uomo ha disimparato a giocare. E se si pensa ai lavori monotoni cui l’industria
costringe ogni uomo, al fatto che l’educazione è diventata sempre più tecnologica, e
per l’uomo comune non è ormai altro che un mezzo per rendersi adatto a un «lavoro»,
non può sorprendere che l’uomo sia perduto. Ha quasi paura di avere altro tempo
libero […]. La sua creatività è rachitica, è interamente proiettato verso l’esterno…

La stessa educazione non è che un rimandare, un rinvio: ci dicono che


dobbiamo lavorare sodo per ottenere buoni risultati. Perché? Perché così
troveremo un buon lavoro. E cos’è un buon lavoro? Un lavoro che paga bene.
Oh. Tutto qui? Tutta questa sofferenza, solo per riuscire a guadagnare un
sacco di soldi, che poi, se anche riuscissimo a guadagnarli, non risolverebbero
comunque i nostri problemi? È un’idea tragicamente limitata di cos’è la vita.
Ma non dovremmo far altro che bighellonare, perché bighellonare significa
godersi la vita per quello che è, ora, e non in attesa di un futuro immaginario.
È ovvio che l’uomo gioioso, l’anima lieta, l’adulto bambino è colui che deve
temere meno dalla vita. Ogni volta che organizzo una festa, a casa o nel centro
sociale del villaggio, uno dei miei vicini, un uomo adulto, trova sempre da
lamentarsi. È uno di quegli uomini timorosi, privi di ogni letizia, prigionieri
della loro serietà. Gli altri, per lui, esistono solo come barriere che minacciano
il suo bozzolo, attentano alla sua «pace e tranquillità». È fuggito dalla vita.
Ci hanno insegnato a credere che il nuovo sistema, in cui un’industria dei
servizi ha rimpiazzato il servizio – o, in altri termini, non lavoriamo più per le
grandi case padronali, ma per le grandi aziende – è migliore del precedente, in
termini di libertà personale. Ma vorrei revocare in dubbio questo presupposto.
Nessun vassallo feudale ha mai avuto il potere, la forza e la ricchezza di Terry
Leahy, il Conte dei Supermercati. Costui guadagna 10.000 sterline al giorno,
1500 all’ora, ed è signore e padrone di oltre 250.000 vassalli: circa un
lavoratore britannico su cento, tutti alla mercé di Sua Maestà il Supermercato,
e la maggior parte di loro impiega un anno a guadagnare ciò che lui guadagna
in un giorno. Mi stupisce che tutti ci mettiamo in fila per servire lui e la sua
cricca di mega-azionisti. Non c’è autonomia nel lavoro dipendente; non c’è
grazia, non c’è eleganza, non c’è ospitalità. Di certo il più umile dei lavapiatti
non era oppresso dal lavoro quanto lo è il commesso di un supermarket. Gli
ipermercati strappano alla vita tutto il romanticismo e l’anima.
Noi ridiamo e ci facciamo beffe del sistema feudale, ritenendoci molto
fortunati di vivere oggi; ma una spassionata analisi del sistema economico di
un castello medievale, tra l’XI e il XV secolo, ci mostrerà che i contadini che
riteniamo analfabeti e in catene erano molto più liberi, più ricchi e più
autosufficienti del salariato medio di oggi. Qualche capitolo fa abbiamo visto
come John Aubrey di Foxton dovesse al suo padrone un solo giorno di lavoro
la settimana. Il resto del suo tempo era di sua proprietà. In proporzione, il suo
reddito oggi sarebbe di circa 150.000 sterline l’anno. Ovvero, guadagnava tre
o quattro volte l’ammontare annuo del suo affitto lavorando un solo giorno a
settimana. Aveva diciotto acri di terra e una casa di proprietà. Probabilmente
era in grado di svolgere una o più attività artigianali: ogni villaggio ha bisogno
di un ciabattino, un muratore, un carpentiere, un fabbro. Ora, paragonate quel
tipo di vita con il tedio dell’operatore di call center che guadagna 12.000
sterline l’anno per cinque giorni di lavoro alla settimana. Il telefonista deve
lavorare cinque volte di più per un salario di meno della metà. E che dire di
uno degli altri (teorici) grandi vantaggi della modernità, ossia il fatto che molti
possiedono la casa in cui vivono? È un’altra truffa. Se chi vi ha concesso il
mutuo possiede il novanta per cento della casa, come fate a dire che è casa
vostra? Dite piuttosto che siete schiavi di due padroni, il datore di lavoro e la
banca che vi ha fatto il mutuo. Provate a restare indietro con i pagamenti, e la
banca si impadronirà letteralmente della vostra casa. Dunque vi sottometterete
a ogni sorta di umiliazione al lavoro, per paura di perdere l’impiego. Direi che
è una forma di schiavitù molto più barbara del sistema medievale.
Se state pensando di lasciare il lavoro, permettetemi di incoraggiarvi a farlo.
Secondo me è molto più facile vivere senza un impiego. Tanto per
cominciare, si lavora molto meno. Un’ora di lavoro svolto a casa equivale a
due ore sprecate in ufficio o in fabbrica. Nei luoghi di lavoro istituzionali,
perfezioniamo l’arte di svolgere la quantità minima di lavoro nella quantità
massima di tempo. Si spreca tantissimo tempo. A casa, invece, il processo si
inverte: facciamo più lavoro possibile nel più breve tempo possibile. Quindi,
quattro ore di lavoro a casa equivalgono a una giornata intera in ufficio. In un
altro senso, però, quando lavorate da casa e quando riuscite a fondere insieme
vita e lavoro, allora lavorate sempre. Oppure non lavorate mai: dipende da
voi. Per me, scrivere un articolo non è più importante, né meno importante,
che coltivare una carota. Fa tutto parte della vita; tutto si equivale, il bene e il
male, ciò che porta un guadagno e ciò che non lo porta.
Scoprirete anche che, se non avete un lavoro, cominciate a spendere di
meno. Niente più spese per i trasporti, niente più caffè tripli – finalmente
liberi dalla schiavitù del bar! –, niente più panini a mezzogiorno, niente più
aperitivi con i colleghi dopo il lavoro. Vi serviranno anche meno vestiti. Le
vostre uscite mensili crolleranno. Chi lavora da casa può facilmente
risparmiare cento sterline alla settimana. Già questo è sufficiente a ridurre la
pressione che ci obbliga a lavorare.
Immagino una possibile obiezione, un’altra catena forgiata dalla mente:
«Non avrei l’autodisciplina necessaria a lavorare per conto mio». Questo è un
altro mito. Ci incoraggiano a credere di essere inutili, incapaci di prenderci
cura di noi stessi, e quindi bisognosi di un datore di lavoro che domi il nostro
io selvaggio e lo irregimenti in un orario rigido. Quando vi rendete conto che,
di fatto, voi siete liberi, anche questo problema svanisce.
Un aspetto positivo del non avere un lavoro è il fantastico senso di libertà e
autonomia che si percepisce ogni giorno. Personalmente, preferirei
guadagnare 10.000 sterline l’anno senza un lavoro fisso che guadagnarne
500.000 e passare dieci ore al giorno a una scrivania. Per me non c’è
paragone.
La disoccupazione attiva, inoltre, lascia tempo ed energie da impiegare in
progetti per la comunità. Da quando ho smesso di lavorare, sono entrato nel
comitato di gestione della sala comune del villaggio, che organizza concerti e
cene. Mi sono associato al festival musicale della zona e mi occupo di
ingaggiare complessi rock ogni anno. È tutto lavoro non retribuito, e appunto
perché non è retribuito è molto più divertente.
Liberarsi dalla morsa del lavoro e sostituirla con il gioco può essere un
processo lento e graduale. Il segreto per godersi la vita al di là del lavoro full
time sta nel rendersi conto che, quando si smette di lavorare full time, si inizia
a diventare un produttore, una persona creativa, e si smette di essere un
consumatore. Le prime forme di lavoro dichiarate accettabili dalla Chiesa
cattolica erano di tipo creativo. L’idea era che il lavoro, secondo i chierici,
doveva riflettere l’atto creativo di Dio. E avevano ragione loro: queste tre
forme di lavoro sono le più piacevoli. I giardinieri, i fornai e i birrai tendono
a essere persone felici.
È anche vero che si può essere uno schiavo salariato senza essere schiavo
del salario. Non dovete necessariamente licenziarvi, per essere felici. Potete
trasformare il vostro lavoro in qualcosa di più adatto a voi. Un mio amico che
lavora nei servizi sociali, per esempio, ha deciso di restare nel suo ruolo attivo
anziché passare a una posizione di manager nella stessa società. L’ha fatto
perché così poteva lavorare di meno (trentatré ore la settimana, nel suo caso),
e il lavoro era meno stressante. Facendo ciò che fa ora, cioè prendendosi cura
di adulti con problemi di apprendimento, fa cose che gli piacciono, come il
giardinaggio e suonare la chitarra. E ha ancora tempo ed energia per lavorare
nel suo giardino e creare oggetti a casa e aggiornare il suo sito web e stampare
riviste. Dunque, ha un lavoro, ma non ne è interamente dipendente; e ha
scelto un approccio creativo al suo lavoro, nel senso che lo ha adattato alla
sua vita, e non viceversa.
Molte persone che conosco hanno scelto il part time. Lavorare tre giorni a
settimana offre un vantaggio psicologico, perché il numero di giorni che
dedichiamo a noi stessi supera il numero di giorni che vendiamo a un datore
di lavoro. Riducete le vostre ore di vassallaggio; riducete il vostro servizio.
Fate di meno.
Un altro argomento a favore del lavoro free-lance è che è molto più sicuro
di un impiego normale. Lavorare è pericoloso. Nel Regno Unito gli incidenti
mortali sul lavoro sono 400 all’anno. La grande maggioranza di questi
incidenti vede coinvolti i livelli più bassi della scala: camionisti, magazzinieri,
installatori, scaricatori di porto eccetera. Sul lavoro si feriscono in modo non
mortale 30.000 persone all’anno, metà delle quali sono nel settore dei servizi.
E secondo il Centre for Corporate Accountability, un’organizzazione no profit
che promuove la sicurezza sul posto di lavoro, gli oziosi sono al sicuro: le
cifre relative agli incidenti occorsi ai lavoratori autonomi sono minime.
Ogni cosa che contribuisca a ridurre la nostra dipendenza dal salario è una
buona cosa. La mia nuova idea è il sistema dei turni di tre ore. La giornata
lavorativa standard dovrebbe essere di sette ore, e dovrebbe essere divisa in
due turni di tre ore o tre ore e mezza. Dunque ogni settimana sarebbe
composta da dieci turni. Ora, in diverse fasi della vostra vita, potreste lavorare
di più o di meno. Quindi in un certo periodo potreste fare tutti e dieci i turni;
in altri momenti potreste scegliere di ridurre il numero di turni. Un’economia
free-lance di questo tipo aprirebbe ogni sorta di prospettive. Ora, con una
settimana lavorativa di quaranta ore, è troppo difficile vedere le cose in
prospettiva, e si arriva alla fine della giornata senza più energie per fare
alcunché di creativo, come preparare il concime o allevare galline o fare il
miele o il pane, o la birra, o qualunque piccolo piacere vi dia soddisfazione.
L’altra mia idea è quella degli Odd Jobs, o «lavori saltuari». È un nuovo
servizio che ho istituito sul sito web dell’«Idler». Ho notato che i lettori della
rivista non riuscivano a decidersi a lasciare completamente il lavoro e a
cercare di mantenersi solo con la propria creatività; allora ho inventato questo
sistema per permettere agli oziosi di trovare un impiego temporaneo o part
time per finanziare le loro altre attività. Dunque, su Odd Jobs, potete
pubblicare inserzioni in cui mettete a disposizione i vostri servizi oppure
offrite un lavoro ad altri. Un esempio è quello di un musicista classico
freelance, un suonatore di tuba, che ha imparato a fare l’imbianchino per
mantenersi durante i periodi di magra nel mondo dei suonatori di tuba. Ha
risposto a un’inserzione su Odd Jobs, e ora si trasferirà in Italia per vivere
due settimane a casa di una coppia che ha bisogno di farsi intonacare le pareti,
in cambio di una vacanza gratis. È questo il genere di approccio creativo che
dobbiamo portare nel mondo del lavoro. Il sistema Odd Jobs si svincola
completamente dallo sfruttamento perpetrato dalle agenzie di lavoro
temporaneo, e dalla deleteria professionalizzazione del lavoro, perché
funziona sulla semplice base di un contratto privato tra due individui. È anche
un modo per dire: «Non staremo qui seduti ad aspettare che il governo e i
sindacati migliorino le condizioni di lavoro. Preferiamo disinteressarci
dell’intera faccenda e inventarci da soli dei nuovi sistemi per vivere e
lavorare».
Specializzarsi è una maledizione. «Oh, non sono bravo in quel genere di
cose» diciamo a noi stessi, con il nostro senso di inutilità acquisito. Ma le
abilità artigianali sono facilissime da apprendere. Victoria, per esempio, ha
frequentato un corso, organizzato qui vicino, in cui ha imparato a intrecciare il
giunco per costruire sedie alla Van Gogh. Ogni istante è stato un piacere, e alla
fine ci siamo ritrovati con una sedia riparata, un oggetto bello e utile.
L’artigianato unisce lavoro e gioco, arte e vita.
Diventate factotum, abbandonate il perfezionismo. Abbracciate il culto del
dilettantismo. Fatelo per amore, non per denaro. Una vanga, una sega e un
cesello: è tutto ciò di cui avete bisogno per essere liberi.
Nel gioco c’è la libertà, dice Huizinga, perché è indipendente e volontario:
Il bambino e l’animale giocano perché ne hanno diletto, e in ciò sta la loro libertà.
Comunque sia, per l’uomo adulto e responsabile, il gioco è una funzione che egli
potrebbe anche tralasciare. Il gioco è superfluo. Il bisogno di esso è urgente solo in
quanto il desiderio lo rende tale. Il gioco può in qualunque momento essere differito o
non aver luogo. Non è imposto da una necessità fisica, e tanto meno da un dovere
morale. Non è un compito. Si fa nell’ozio, nel momento del loisir dopo il lavoro. Solo
in un secondo momento, facendosi il gioco funzione culturale, i concetti dovere,
compito, impegno, vi si congiungono.
Ecco dunque una prima caratteristica del gioco: esso è libero, è libertà.

Dobbiamo rendere libero tutto il nostro tempo. Fare ciò che vogliamo, tutto il
santo giorno. Non fare niente, per tutto il giorno. Bighellonare tutto il giorno.
Se vi piace il vostro lavoro, allora non è lavoro. Come dice la mia amica
Sarah, il segreto per vivere liberi è svegliarsi ogni mattina e gridare:
«Buongiorno, Signore, cos’hai in serbo per me oggi?». Lei sostiene che
funzioni davvero. La libertà può iniziare oggi, proprio ora. Potete cambiare la
vostra vita in un secondo. La libertà è uno stato d’animo.

GIOCA
Bibliografia
Ecco alcuni libri che ho letto durante la stesura di questo libro. Li raccomando a tutti
coloro tra voi che cercano la libertà.

Aquino, san Tommaso di, Opere, Esd, Bologna 2002.


–, Somma contro i Gentili, Utet, Torino 1997).
Tommaso, che scrisse nella seconda metà del Duecento, era il Jean-Paul Sartre dei suoi
tempi. Sosteneva che «tutto è vanità».
Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 2005.
Aristotele (384-322 a.C.) era noto ai medievali come «il Filosofo», e il suo approccio
sereno offrì lo stimolo intellettuale per secoli di amore fraterno ed elogio della vita
contemplativa.
W.H.G. Armytage, Heavens Below: Utopian Experiments in England 1560-1960,
Routledge and Kegan Paul, London 1961.
Dalla Riforma in poi, i britannici in cerca di libertà hanno portato avanti nobili tentativi
di sfuggire alla tirannia, istituendo sistemi di vita comunitaria. Questo libro ripercorre i
loro esperimenti.
Arnold, Matthew, Poetical Works, Macmillan, London 1890.
Il cupo Arnold è una lettura che mette stranamente di buonumore.

Beat, Alan, A Start in Smallholding, Smallholding Press, Holsworthy 2004.


Illuminante storia di una famiglia e del suo tentativo (riuscito) di vivere bene.
Beckwith, John, Early Medieval Art, Thames and Hudson, London 1969.
Scritto male, ma pieno di belle immagini dei dipinti e delle sculture a tema religioso dei
cosiddetti Secoli Bui, ma che invece hanno un’aria moderna, a volte comica e spesso simile
a un fumetto.
Beir, A.L., Masterless Men: The Vagrancy Problem in England 1560-1640, Methuen,
London 1985.
La Riforma generò un problema di vagabondaggio di enormi dimensioni, che diede al
governo elisabettiano una buona scusa per introdurre ogni genere di legge contro i
mendicanti e gli errabondi. Questo studio eccellente ripercorre un attacco decisivo contro
la lieta Inghilterra.
Belloc, Hilaire, et al., Distributist Perspectives, IHS Press, Norfolk, VA 2004.
Il distributismo è l’idea anarchica per cui ogni famiglia dovrebbe possedere il suo
appezzamento di terra per produrre parte del proprio cibo e dunque essere indipendente.
L’idea fu popolare negli anni Venti, quando fu promossa da autori cattolici come Belloc e
Chesterton.
Benton, Janetta Rebold, Medieval Mischief: Wit and Humour in the Art of the Middle
Ages, Sutton Publishing, Stroud 2004.
Natiche nude, coppie che copulano, asini che suonano l’arpa: questo libro getta uno
sguardo negli angoli nascosti delle cattedrali e delle chiese medievali.
Biddle, Violet, Small Gardens and How to Make the Most of Them, C. Arthur Pearson,
London 1911.
Una guida al giardinaggio dell’epoca dell’Arts and Crafts, che promuove l’originalità e
il divertimento.
Blythman, Joanna, Shopped: The Shocking Power of British Supermarkets, Fourth Estate,
London 2004.
Rivelazioni sorprendenti su quanto i supermercati dominano le nostre vite.
Boswell, James, Vita di Samuel Johnson, Rizzoli, Milano 1993).
Sempre una splendida lettura.
Bulley, Margaret, Ancient and Medieval Art, Methuen, London 1996.
Ottimo per le corporazioni artigiane e le chiese medievali. Originariamente pubblicato
nel 1926.
Bunker, Sarah – Charnock, Christine – Coates, Chris – Hodgson, David & How, Jonathan (a
cura di), Diggers and Dreamers: The Guide to Communal Living 2004/2005, D&D
Publications, London 2003.
Elenco delle esperienze di vita comune attive oggi nel Regno Unito.
Burnett, Graham, Permaculture: A Beginner’s Guide, Land and Liberty, Westcliffe-on-Sea
2002.
Un agile pamphlet che presenta i princìpi alla base della Permacultura: giardinaggio con
poco sforzo e grandi risultati.
Burton, Robert, Anatomia della malinconia. Marsilio, Venezia 2003.
La bibbia dell’auto-aiuto secentesco e un libro paradossalmente gioioso.

Cash, Arthur H., John Wilkes: The Scandalous Father of Civil Liberty, Yale, Boston 2006.
Biografia di uno dei massimi spiriti liberi del Settecento.
Chancellor, Edward, Un mondo di bolle, Carocci, Roma 2000.
Illuminante storia delle «bolle» finanziarie, dai tulipani alla mania del punto com.
Chaucer, Geoffrey, I racconti di Canterbury, Bur, Milano 2000.
Ritratti di figure trecentesche, scritti con tocco leggero e umorismo ribaldo.
Chesterton, L’uomo che fu giovedì, Nord, Milano 1993.
Storia di anarchici calcolatori, con colpo di scena. Originariamente pubblicato nel 1908.
–, La Chiesa viva, Paoline, Alba 1966.
Saggi sulla religione e su come sfuggire al programma industriale. Graham Green lo
inseriva tra «i grandi libri dell’epoca».
–, Francesco d’Assisi, Guida, Napoli 1990.
Ritratto dell’uomo più beneducato che sia mai vissuto, «Stella del Mattino del
Rinascimento».
–, William Cobbett, Hause of Stratus, London 2000.
Brillante saggio sull’importanza di Cobbett come pensatore dal volto umano.
Clayton, Antony, Decadent London, Historical Publications Ltd, London 2005.
Le vite degli esteti londinesi fin de siècle: Wilde, Beardsley eccetera.
Coates, Chris, Utopia Britannica: British Utopian Experiments 1325-1945, D&D
Publications, London 2001.
Tentativi di costruire Gerusalemme sul verdeggiante e felice suolo d’Inghilterra.
Cobbett, William, Cottage Economy, Peter Davies, London 1926.
–, Storia della Riforma Protestante in Inghilterra ed in Irlanda, Biblioteca cattolica,
Napoli 1825.
Un attacco feroce contro Enrico VIII e la sua distruzione del vecchio modo di vivere.
Cohn, Norman, I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Milano 1965.
Studio dei movimenti bohèmien e amorali del Medioevo: dai Sufi agli Amalriciani.

Dante, La Divina Commedia, La Nuova Italia, Firenze 1964.


L’apice della poesia medievale.
Debord, Guy, La società dello spettacolo, Stampa Alternativa, Viterbo 1995.
Lo scatenato situazionista si scaglia contro la cultura delle merci.
Donkin, Richard, Blood, Sweat and Tears: The Evolution of Work, Texere, London and
New York 2001.
Un libro pieno di ritmo sulla storia del lavoro e su come è cambiato il nostro
atteggiamento nei suoi confronti.

Fattorusso, J. e Florence, M.L., The City of Flowers, The Medici Series, Firenze 1950.
Eccentrica guida turistica.
Fearnley-Whittingstall, Hugh, The River Cottage Cookbook, HarperCollins, London 2001.
Un illuminante manuale per vivere bene e mangiare meglio.
Fortescue, Sir John, De Laudibus Legum Angliae, Hall, London 1775.
La classica celebrazione quattrocentesca del sistema giuridico inglese.
Fukuoka, Masanobu, La rivoluzione del filo di paglia. Un’introduzione all’agricoltura
naturale, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1980.
Saggio e illuminante resoconto di un esperimento di «agricoltura dell’ozio»: ovvero,
lasciare che la natura lavori per noi.

Gandhi, Mohandas K., La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma 1983.
Testo in cui Mohandas scopre la libertà nella servitù.
Gardner, Edmund G., The Story of Florence, J.M. Dent & Co., London 1908.
Utile storia della grande e libera città-Stato.
Gill, Eric, Autobiography, Jonathan Cape, London 1947.
Pensieri sull’arte e la vita dell’incisore di caratteri tipografici che si reinventò come
scultore.
Godwin, William, Caleb Williams. Il primo romanzo giallo della storia, Vallecchi, Firenze
1976.
Appassionante racconto di una vita passata a fuggire.
–, Indagine sulla giustizia politica, Assandri, Torino 1978.
Antica teoria anarchica, dal padre di Mary Shelley.
Gombrich, E.H., Breve storia del mondo, Salani, Firenze 2003.
Pubblicato per la prima volta nel 1936 dal celebre storico dell’arte, questo libro spiega
in modo semplice e accessibile come siamo giunti a essere dove siamo ora.
Griffiths, Jay, Pip Pip: A Sideways Look at Time, Flamingo, London 1999.
Breve storia della politica del tempo.

Hesiod and Theognis [Esiodo e Teognide], Penguin, London 1973.


Dai greci, consigli sull’agricoltura e poesie d’amore gay.
Hibbert, Christopher, Ascesa e caduta di casa Medici, Mondadori, Milano 1988.
Storia della grande famiglia di banchieri che dominò Firenze nel Medioevo e nel
Rinascimento.
Hills, Lawrence D., How to Grow Your Own Fruit and Vegetables, Faber & Faber, London
1974.
Bibbia dei coltivatori di frutta e verdura organici, scritta dal fondatore della Henry
Doubleday Research Association.
Hoffman, Abbie, Revolution for the Hell of It, Pocket Books, New York 1970.
Abbasso gli inquadrati e i conformisti!
Hoggart, Richard, Proletariato e industria culturale. Aspetti di vita operaia inglese con
particolare riferimento al mondo della stampa e dello spettacolo, Officina, Roma 1970.
Studio degli atteggiamenti della classe lavoratrice.
Houston, Mary G., Medieval Costume in England and France, Dover, Mineola, N.Y. 1996.
Scarpe a punta, campanelle e colori vivaci: il meglio del Medioevo è qui.
Huizinga, J., Homo ludens, Il Saggiatore, Milano 1967.
L’importanza dello spirito del gioco per la civiltà.
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Brillante ritratto di un’età più appassionata, pubblicato per la prima volta nel 1924.
Hutton, Ronald, The Rise and Fall of Merry England: The Ritual Year 1400-1700, Oxford
University Press 1993.
Dimostra come la cultura festosa del Medioevo fu gradualmente erosa dalla Riforma e
dai puritani.
Hyams, Edward, Pierre-Joseph Proudhon: His Revolutionary Life, Mind and Works, John
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Biografia del grande anarchico francese.

Illich, Ivan, Rovesciare le istituzioni, Armando, Roma 1973.


Idee per un futuro più luminoso.
–, Disoccupazione creativa, Boroli, Milano 2005.
Un attacco sferrato contro il culto della professionalità.
Ingrams, Richard, The Life and Adventures of William Cobbett, Harper-Collins, London
2005.
Uno studio contemporaneo del guastafeste autodidatta e radicale, scritto dal fondatore di
Private Eye.
Innes, Jocasta, Le cucine rustiche, Tecniche nuove, Milano 1993.
Come fare il pane, la birra, la marmellata e molto altro.
Jameson, Storm, The Decline of Merry England, Cassell, London 1930.
Lungo saggio contro il puritanesimo.

Keen, M.H., England in the Later Middle Ages, Methuen, London 1980.
Libro di testo, un po’ noioso ma con osservazioni interessanti.
Kesey, Ken, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Bur, Milano 1988.
L’infermiera Ratched e le autorità mediche tarpano lo spirito libero, nel capolavoro di
Kesey.
Kropotkin, Prince Peter, Act for Yourselves, Freedom Press, London 1998.
Raccolta di articoli dalla rivista «Freedom», 1886-1907.
–, Il mutuo appoggio, Ennesse, Roma 1970.
Lo spirito di cooperazione negli animali e nell’uomo.

Lawrence, D.H., Phoenix: The Posthumous Papers of D.H. Lawrence, Heinemann, London
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Raccolta di saggi di un lungimirante cercatore di libertà.
Lawrence, Felicity, Non è sull’etichetta. Quello che mangiamo senza saperlo, Einaudi,
Torino 2005.
Leggetelo e non comprerete mai più cibo in un supermercato.
Le Goff, Jacques (a cura di), The Medieval World, Collins & Brown, London 1990.
Saggi accademici scritti da medievisti, sui cavalieri, i chierici e gli intellettuali.
–, Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel
Medioevo, Einaudi, Torino 1986.
La nascita della cultura mercantile e la sua battaglia con la Chiesa.
–, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, Roma-Bari 1987.
L’usura nel Medioevo.
Lindsay, Jack, The Troubadours and Their World of the Twelfth and Thirteenth Centuries,
Frederick Muller Ltd, London 1976.
Ritratto delle pop star dei loro giorni, i musicisti letterari che vagavano da corte a corte.
Livingstone, Karen, e Parry, Linda (a cura di), International Arts and Crafts, V&A
Publications, London 2005.
McCarthy, Fiona, Eric Gill, Faber & Faber, London 2003.
La migliore biografia di Gill, che documenta i suoi contributi alla cultura inglese, ma
anche la sua complicata sessualità.
Marcus, Greil, Tracce di rossetto. Percorsi segreti nella cultura del Novecento dal dada
ai Sex Pistols, Leonardo, Milano 1991.
Il punk e i suoi antenati, dagli amalriciani ai dadaisti ai situazionisti. Marsh, Jan, Back to
the Land: The Pastoral Impulse in Victorian England from 1880 to 1914, Quartet Books
Ltd, London 1982.
I vittoriani resistono all’industrializzazione.
Marx, Karl, Il capitale, Utet, Torino 1960.
Vale sempre la pena di dargli un’occhiata.
Michel, John, Eccentric Lives and Peculiar Notions, Thames and Hudson, London 1984.
Vite di alcuni spiriti liberi.
Mill, John Stuart, Utilitarianism, Liberty and Representative Government, J.M. Dent,
London 1944.
Un altro spirito libero travestito da razionalista.
Morris, William, Notizie da nessun luogo, o Un’epoca di quiete, Garzanti, Milano 1984.
L’affascinante utopia di Morris, in cui il denaro non esiste e i pascoli ricoprono
Piccadilly Circus.
–, Art, Labour and Socialism, Socialist Party of Great Britain, London 1962.
Un appello accorato per riunire arte e vita.
Mumford, Lewis, Il mito della macchina, Il Saggiatore, Milano 1969.
Come le macchine hanno separato l’uomo dalla natura.

Nietzsche, Friedrich, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1984.


Dove si scopre che anche le norme morali sono «forgiate dalla mente». Nuttal, Jeff,
Bomb Culture, MacGibbon & Kee, London 1968.
Studio esaustivo dei movimenti underground anni Sessanta.

O’Brien, George, The Economic Effects of the Reformation, IHS Press, Norfolk, VA 2003.
Ristampa di un libro del 1923, che attacca da parte cattolica Enrico VIII e compagnia, e
celebra l’approccio dei medievali all’economia.

Parker, Rowland, The Common Stream: Two Thousand Years of the English Village,
Paladin, St. Albans 1976.
La storia di un villaggio, tratta dai registri parrocchiali e dai verbali dei processi; di
grande fascino, e utile per conoscere meglio la storia dei sistemi giuridici e sociali.
Parry, A.W., Education in England in the Middle Ages, W.B. Clive, London 1920.
Mostra come l’educazione libera non sia un’invenzione di noi moderni.
Paterson, Linda M., The World of the Troubadours: Medieval Occitan Society, c.1100-
c.1300, Cambridge University Press 1993.
Studio accademico con pagine molto interessanti sulla cura dei bambini nel Medioevo.
Penty, Arthur, The Gauntlet: A Challenge to the Myth of Progress, HIS Press, Norfolk, VA
2003.
Lo scrittore cristiano (1875-1937) attacca l’industrializzazione.
Piano, Stefano, Bhagavad-gita. Il canto del glorioso signore, Fabbri, Milano 1996.
Proudhon, Pierre-Joseph, Selected Writings, a cura di Stewart Edwards, trad. di Elisabeth
Fraser, Macmillan, London 1970.
Dove Proudhon dichiara: «Sono un anarchico» e «La proprietà privata è un furto».

Rackham, Oliver, The History of the Countryside, Phoenix Press, London 2000.
Un viaggio nella storia delle siepi, degli stagni, della selvaggina, dei boschi e delle terre
desolate, in compagnia di un professore di Cambridge che ama la natura incontaminata.
Rubin, Jerry, Do it. Sceneggiatura per la rivoluzione, Milano Libri Edizioni, Milano 1971.
La bibbia degli hippie, che dice: «Fatevi, prima di leggere questo libro!». Un po’ datato
ma resta una buona fonte di ispirazione.
Ruskin, John, The Stones of Venice, voll. I, II, III, George Allen, London 1906 (trad. it. Le
pietre di Venezia, Utet, Torino 1962).
Il classico studio di Ruskin sull’architettura medievale.
–, A quest’ultimo, M. Valerio, Torino 2003.
Saggi sulla vita e sull’arte.
Russell, Bertrand, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano 1953.
Manuale utile, anche se un po’ severo con il grande Nietzsche. Russell era sempre un po’
troppo moderato.
–, Saggi Scettici, Tea, Milano 1995.
Bertie, che amava divertirsi, parla dei puritani, dell’educazione e dei cinesi fannulloni.
Sartre, Jean-Paul, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991.
Lungo e tecnico, ma vale la pena di leggerlo, soprattutto se volete imparare a divertirvi
quando lavate i piatti.
–, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 2004.
In cui Sartre sembra dire che le emozioni non esistono.
Schama, Simon, A History of Britain, 3000 BC-AD 1603, Bbc Worldwide, London 2000.
Il famoso storico se la prende, in maniera molto godibile, con Thomas Cromwell ed
Enrico VIII.
Schumacher, E.F., Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse
qualcosa, Mondadori, Milano 1978.
Illuminante celebrazione delle istituzioni a misura d’uomo, di cui oggi, nell’era dei
supermercati, abbiamo più bisogno che mai.
–, Buon lavoro, Red, Como 1995.
Idee su come il lavoro potrebbe essere divertente, creativo e gratificante. Seymour, John,
The Countryside Explained, Faber & Faber, London 1977.
Storia dell’agricoltura e dell’allevamento.
–, The Fat of the Land, Faber & Faber, London 1961.
Il primo libro del grande Seymour, piccolo proprietario terriero, che qui descrive i suoi
esordi come allevatore.
–, Self-Sufficiency, Faber & Faber, London 1973.
Una lettura molto piacevole, ma anche molto utile per chi voglia vivere libero.
Simons, Arthur J., The New Vegetable Grower’s Handbook, Penguin, London 1975.
Il classico che si è imposto tra le tante guide per gli orticultori in tempo di guerra.
Svendsen, Lars, Filosofia della noia, Guanda, Milano 2004.
Uno studio ironico che sostiene che la noia è un sintomo della vita moderna.

Tacito, Agricola, Germania, Garzanti, Milano 2004.


In cui il soldato romano Tacito loda le istituzioni sociali dei cosiddetti barbari.
Tawney, R.H., La religione e la genesi del capitalismo. Studio storico, Feltrinelli, Milano
1977.
Un libro sulla transizione dal modo di vita federale e comunitario del Medioevo al modo
di vita moderno, basato sul profitto; e il ruolo giocato dal protestantesimo in quella
transizione.
Thompson, E.P., The Romantics: England in a Revolutionary Age, The New Press, New
York 1997.
Sulle idee politiche radicali dei poeti romantici.
Thompson, J. Eric S., La civiltà Maya, Einaudi, Torino 1973.
Ritratto di un popolo rilassato e creativo.
Tolstoj, Lev, Il regno di Dio è in voi, Manca, Genova 1991.
Il grande saggio pacifista e anarchico di Tolstoj.
Trocchi, Alexander, Invisible Insurrection of a Million Minds: A Trocchi Reader,
Polygon, London 1991.
Il meglio del poeta beat.

Vaneigem, Raoul, Trattato di saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni, Castelvecchi,
Roma 2006.
L’arguto attacco del situazionista contro le vuote promesse del capitalismo.

Weber, Max, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bur, Milano 2000.
Come i protestanti competitivi hanno spodestato i cattolici cooperativi.
Wells, H.G., Una utopia moderna, Mursia, Milano 1990.
Fantasia tecnologica di «treni che scivolano a gran velocità» e «unità tra i popoli, una
sola lingua, viaggi in tutto il mondo».
Wenner, Jann S., Lennon Remembers, Verso, London 2000.
Lennon in versione sincera.
Whitehead, A.N., Simbolismo, Raffaello Cortina, Milano 1998.
Whitehead era un amico filosofico di Bertrand Russell, e questo libro parla del nostro
amore per i simboli.
Wilde, Oscar, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Tea, Milano 1989.
Il celebre saggio di Wilde sulla libertà politica, influenzato da Kropotkin.
Wymer, Norman, English Town Crafts: A Survey of Their Development from Early Times
to the Present Day, B.T. Batsford Ltd, London 1949.
L’importanza che un tempo avevano le arti e l’artigianato nella vita di ogni giorno degli
inglesi.
Ecco alcuni indirizzi web e consigli utili per guidarvi nella ricerca della libertà. La cosa
migliore è fondare una rivista o un sito per condividere le vostre idee. E poi, internet è una
gran bella cosa, ma non può sostituire il dialogo con gli altri esseri umani.

Bandisci l’ansia: sii spensierato


www.anxietyculture.com è il sobrio e saggio sito internet di Brian Dean, che dimostra
che l’ansia generata dalla criminalità è solo una comoda finzione.
Per un’ammirevole celebrazione dell’arte di fregarsene, ascoltate Pretty Vacant dei Sex
Pistols
Per farvi portare a casa della buona birra, provate la Majestic Wine Warehouse.

Spezza le catene della noia


Per comprare un ukulele, date un’occhiata al negozio Duke of Uke di Londra:
www.dukeofuke.co.uk
Per comprare uno skateboard di qualità, visitate il sito della Slam city Skates, il negozio
in cui lavoravo: www.slamcity.com
Per consigli sul fai-da-te, visitate www.readymademag.com
La tirannia delle bollette, ovvero: la semplicità ti farà libero
Un bel sito è www.geocities.com/livingsimplynow
Da’ un calcio alla carriera e alle sue vuote promesse
Il nostro sito web, www.idler.co.uk, vi aiuterà a trovare il coraggio e la fiducia in voi
stessi per liberarvi da una vita dedita alla carriera e all’inseguimento della promozione.

Fuga dalla città


Il movimento della Permacultura vi aiuterà a trasformare la vostra casa in un’entità
produttiva e dunque a portare la natura nella vostra vita di ogni giorno, ovunque abitiate.
Iniziate da www.permaculture.org oppure www.permaculture.org.uk.

Porre fine alla guerra di classe


Per visitare le grandi dimore storiche inglesi, contattate il National Trust su
www.nationaltrust.org.uk

Togliti l’orologio
Per saperne di più sul fantastico movimento di protesta contro la cultura della fretta,
andate su www.longnow.org e leggete cosa scrivono a proposito del computer più lento del
mondo, il Clock of the Long Now [Orologio del Lungo Adesso].

Smetti di competere
L’Associazione britannica delle Corporazioni di filatori, tessitori e tintori è reperibile
all’indirizzo web www.wsd.org.uk. Se non siete filatori, tessitori né tintori, vi toccherà
fondare una vostra corporazione.

Scappa dai debiti


Per un’eccellente definizione dell’usura, «regina dei peccati», visitate
www.newadvent.org/cathen/15235c.htm.
Per consigli su come uscire dai debiti, provate www.nationaldebtline.co.uk, o
rivolgetevi al più vicino Sportello consulenza cittadini. Sul forum online dell’“Idler”
discutiamo spesso di questi argomenti.

Morte allo shopping: evadere dalla prigione del consumismo


Basta che buttiate via il televisore e la smettiate di comprare riviste patinate.

Sfuggi alla morsa della paura


Andate a cavallo.

Al diavolo il governo
Visitate la splendida Freedom Bookshop [Libreria della Libertà] di Londra, che ha anche
un sito: www.libcom.org/hosted/freedom: ogni spirito libero troverà qualcosa su cui
riflettere.

Di’ no al senso di colpa e libera il tuo spirito


Un ottimo saggio sugli Amalriciani e la loro teoria secondo cui «niente è peccato» si
trova su www.totse.com/en/fringe/fringescience/freesprt.html.
Altrimenti, fare buone letture sui grandi libertini e le grandi canaglie può aiutarvi a
incrinare quella moralità borghese, e il modo migliore per scoprire che il senso di colpa è
un complotto capitalista è leggere L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max
Weber.

Niente più faccende domestiche, o il potere della candela


Obbligate i bambini a lavare i piatti. Provate l’eccellente www.lazywoman.com per
consigli su questo mutamento così importante nel vostro modo di pensare; qui troverete
anche un attacco contro il perfezionismo della «perfetta padrona di casa».

Bando alla solitudine


Fondate un’associazione o un club. Organizzate riunioni nella vostra cucina.

Non sottometterti più alle macchine, usa le mani


Andate su www.luddite.meetup.com per incontrare persone che come voi pensano che la
tecnologia sia andata troppo oltre. Date un’occhiata anche alla Arts and Crafts Society, su
www.arts-crafts.com, e il sito di Danielle Proud sull’artigianato,
www.houseproudcraft.com.

Elogio della malinconia


Leggete i poeti romantici.

Basta lamentele: sii felice


Un’ottima introduzione all’esistenzialismo: www.interchange.ubc.ca/cree/index.htm.
Liberati dal mutuo e diventa un allegro vagabondo
Per consigli e informazioni sulla vita comunitaria, visitate
www.diggersanddreamers.org.uk; sullo squatting, www.squatter.org.uk; e sulla vita
nomade, www.gypsytraveller.org, o telefonate allo 01273 234777.

La famiglia antinucleare
La Alliance for Childhood [Alleanza per l’Infanzia] (www.allianceforchildhood.org.uk)
sembra fondarsi sull’ideale positivo «Lasciateli in pace».

Disarma il dolore
Visitate i siti web delle grandi multinazionali farmaceutiche per familiarizzarvi con
l’entità dell’orrore provocato dal commercio internazionale del dolore.

Smettila di preoccuparti per la pensione e fatti una vita


Non c’è nessuna crisi delle pensioni. Per saperne di più leggete gli articoli del «Socialist
Worker» su www.socialistworker.co.uk/article.php?articleid=7907.

Rifuggi dalla maleducazione e salpa verso una nuova era di cortesia, civiltà e grazia
Ascoltate la musica dei trovatori, nella registrazione dell’Unicorn Ensemble di Vienna:
www.unicornensemble.at.

A morte i puritani presuntuosi


Per informazioni sull’allegro nichilista Samuel Beckett, andate su
www.themodernword.com/beckett

Emanciparsi dal supermercato


Un buon sito da cui partire per coltivare ortaggi è www.spiralseed.co.uk, e quella che un
tempo si chiamava The Henry Doubleday Research Organization ma ora è nota come
www.gardenorganic.org.uk. Provate www.suma.co.uk e siti analoghi per comprare alimenti
integrali a prezzi da ingrosso. Vi consiglio anche il sito di Hugh Fearnley-Whittingstall,
www.rivercottage.net; e ovviamente i siti dedicati alla Permacultura. Ma la cosa migliore
è: parlatene con i vostri vicini, e fatelo insieme!

Il regno del brutto è finito: lunga vita alla bellezza, alla qualità, alla fratellanza!
Comprate uno scalpello. Imparate un’arte. I Comuni e le organizzazioni locali tengono
corsi a prezzi modici.

Deponi la ricchezza tiranna


Per consigli su come spendere meno e vivere di più, provate www.frugal.org.uk.

Rifiuta lo spreco e scegli la frugalità


Allevate galline; producete concime. Andate su www.smallholder.co.uk o
www.countrysmallholding.co.uk

Smetti di lavorare, inizia a vivere


Odd Jobs è un servizio gestito dai forum dell’«Idler» in cui potrete trovare lavori part
time o temporanei. Provate anche www.theplayethic.com di Pat Kane per idee sul lavoro
come gioco.
Sommario

Introduzione
Bandisci l’ansia: sii spensierato
Spezza le catene della noia
La tirannia delle bollette, ovvero: la semplicità ti farà libero
Da’ un calcio alla carriera e alle sue vuote promesse
Fuga dalla città
Porre fine alla guerra di classe
Togliti l’orologio
Smetti di competere
Scappa dai debiti
Morte allo shopping: evadere dalla prigione del consumismo
Sfuggi alla morsa della paura
Al diavolo il governo
Di’ no al senso di colpa e libera il tuo spirito
Niente più faccende domestiche, o il potere della candela
Bando alla solitudine
Non sottometterti più alle macchine, usa le mani
Elogio della malinconia
Basta lamentele: sii felice
Liberati dal mutuo e diventa un allegro vagabondo
La famiglia antinucleare
Disarma il dolore
Smettila di preoccuparti per la pensione e fatti una vita
Rifuggi dalla maleducazione e salpa verso una nuova era di
cortesia, civiltà e grazia
A morte i puritani
Emancipati dal supermercato
Il regno del brutto è finito: lunga vita alla bellezza, alla
qualità, alla fratellanza!
Deponi la ricchezza tiranna
Rifiuta lo spreco e scegli la frugalità
Smetti di lavorare, inizia a vivere
Bibliografia

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