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Metropolis (Metropolis), regia: Fritz Lang, Germania, 1926, durata: 86 min. ca.,
B/N.
Questo film, firmato da uno dei grandi della storia della "settima arte", è uno dei
capostipiti del cinema di fantascienza tout court, e c’è chi, forse non a torto, lo
vede addirittura come il "nonno"
di Blade Runner. Da notare che la
versione originale prevedeva più
di tre ore di proiezione.
A partire dai titoli di testa e dalle primissime scene si comprende come ci si trovi
al cospetto di un maestro del cinema e ad un regista che ricorda i prodotti filmati
delle avanguardie russe (il cinema cinetico-visivo di Vertov su tutti)
riproponendoli sullo schermo, col proprio stile, in un contesto più narrativo.
http://www.futureshock-online.info/pubblicati/fsk25/html/body_metropolis.htm 12/01/2003
Metropolis di Fritz Lang, recensione di Sebastiano Ferrigni Pagina 2 di 3
film) un prato erboso con, addirittura, candidi animali svolazzanti, che fanno da
sfondo ad una ridicola schermaglia amorosa. Si tratta di uno squarcio del mondo
in superficie dei padroni, ma di nuovo il regista applica una brusca inversione
inserendo anche qui un elemento inquietante: l’improvvisa apparizione di una
donna attorniata da un nugolo di bambini visibilmente poveri, che incrina
irrimediabilmente l’idilliaca atmosfera.
Nelle catacombe al di sotto della città, intanto, si diffonde, tra candele e croci, il
nuovo verbo di una, per adesso almeno, pacifica rivolta operaia. La profetessa di
questa sovversione è naturalmente la stessa protagonista femminile che
curiosamente utilizza parabole bibliche (la torre di Babele) per sottolineare,
come un propagandista dell’ateo comunismo, l’ingiusta e crudele divisione fra le
classi sociali, ma allo stesso tempo (un po’ irragionevolmente diremmo noi)
frena chi vorrebbe andare allo scontro frontale con i dominatori. Forse anche
perché nel ’26 bisognava essere prudenti, Lang suggerisce tramite le parole di
Maria, un incitamento alla rivolta e alla sovversione dello status quo, ma poi ne
smussa (o ne nasconde) la radicalità con l’affermazione conclusiva in cui si dice
che bisognerà però aspettare un non ben specificato "intermediario" (La classe
borghese? L’amore fraterno?), citiamo: "Fra la mente che progetta e il braccio
che agisce ci deve essere un mediatore. È il cuore che ci deve far andare
d’accordo". Lang ne approfitta, sempre sviluppando la situazione, per inserire
alcune scene da capolavoro: si veda l’inseguimento tra lo scienziato e Maria,
nelle caverne, avvolti dalla più completa oscurità dove solo il fascio di luce della
torcia elettrica dell’inseguitore che taglia il buio assoluto e la telecamera
traballante bastano a trasmetterci una tensione degna di un thriller-horror dei
giorni nostri. Si tratta anche in questo caso di grandi riprese degne di un grande
regista.
Dopo la sostituzione tra donna e macchina, Lang ci offre, a riprova del suo
coraggio di osare (e della sua abilità nel farlo), la trasformazione dell’apostola
degli operai in una lasciva Salomè, poiché, per provare la sua verosimiglianza, al
robot viene richiesto di ingannare tutti; e quale migliore dimostrazione di
umanità, da parte di una macchina, del suscitare desideri prettamente carnali?
Ma il genio del regista tedesco non si ferma qui e, in un montaggio serrato,
inserisce immagini da delirio degne del miglior cinema surrealista (F. Leger,
Man Ray, tra gli altri) costringendo, in un coinvolgente incubo onirico, gli occhi
dello spettatore ad incrociarsi con le decine di occhi sullo schermo che scrutano
lascivi la robotica ballerina.
Altro momento topico del film si avverte quando gli operai, precedentemente
istigati alla rivolta, in un crescendo di immagini di distruzione, si lasciano
trasportare da un irrefrenabile moto di nichilismo luddista, mentre intanto noi
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Metropolis di Fritz Lang, recensione di Sebastiano Ferrigni Pagina 3 di 3
veniamo guidati all’interno di una grottesca scena di festa nell’alta società dove,
in una scatenata frenesia contagiosa, il robot-Maria esclama euforicamente:
"Guardiamo il mondo andare in rovina!", circondata da gaudenti sorrisi.
Sebastiano Ferrigni
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