Scalzo e segnato dalle cicatrici del viaggio, lo straniero uscì dal mare,
simile a uno spe ro d’acqua. Avanzava come ubriaco nella foschia
la iginosa che avvolgeva Seiiki in una tela di ragno.
Secondo le antiche leggende gli spe ri d’acqua erano destinati a
vivere nel silenzio. Le loro lingue si erano prosciugate, insieme alla
pelle, e non erano rimaste che alghe a coprire le ossa. Appostati nelle
secche, aspe avano gli incauti per trascinarli nel cuore dell’Abisso.
Tané non aveva mai avuto paura di quelle storie, neanche da
bambina. Ora, mentre fissava la figura nella no e, il suo pugnale
splendeva davanti a lei, ricurvo come un sorriso.
E la figura le parlò, facendola trasalire.
Le nubi liberarono il chiarore lunare che avevano nascosto.
Quanto bastava perché lei potesse vederlo per ciò che era. E lui lo
stesso.
Non uno spe ro, ma un forestiero. Ormai l’aveva visto, non
poteva più tornare indietro.
Aveva capelli chiari come paglia, la barba fradicia, la pelle sco ata
dal sole. I contrabbandieri dovevano averlo consegnato al mare,
costringendolo a raggiungere la riva a nuoto. Era evidente che non
conosceva la lingua del posto, ma Tané sapeva abbastanza della sua
da capire che le stava chiedendo aiuto e che voleva incontrare il
Signore della Guerra di Seiiki.
Il cuore le tuonava nel pe o. Non osava parlare, perché mostrare
di conoscere la sua lingua significava creare un legame tra loro e
tradirsi. Rivelare il fa o che si erano resi testimoni l’uno del crimine
dell’altra.
Avrebbe dovuto osservare il ritiro. Rimanere al sicuro entro le
mura della Casa di Mezzogiorno, pronta per dare inizio, purificata,
g p p p
all’alba più importante della sua vita. Ora invece era perduta,
corro a al di là di ogni redenzione. E solo per aver voluto tuffarsi in
mare un’ultima volta prima del Giorno della Chiamata. Correva
voce che il grande Kwiriki avrebbe favorito le temerarie pronte a
infrangere il ritiro per inseguire le onde. Invece le aveva mandato
quell’incubo.
La vita le aveva riservato troppe fortune.
Questo era il suo castigo.
Brandendo il pugnale, teneva a distanza lo straniero, che tremava
di fronte alla minaccia di morte.
Un vortice di possibilità, una più terribile dell’altra, invase la
mente di Tané. Consegnando il forestiero alle autorità, si sarebbe
scoperto che aveva infranto la regola.
E questo rischiava di annullare la cerimonia della Chiamata.
L’onorevole governatore della provincia seiikinese di Capo Hisan
non avrebbe mai invocato gli dèi in un luogo esposto al contagio del
morbo rosso. Potevano volerci se imane prima che la ci à fosse
dichiarata fuori pericolo, e a quel punto l’arrivo dello straniero
sarebbe stato interpretato come un ca ivo presagio e l’opportunità
di diventare cavalieri sarebbe passata alla successiva generazione di
apprendisti. Per lei avrebbe significato perdere tu o.
Non poteva denunciarlo. E nemmeno abbandonarlo. Se davvero
era affe o dal morbo rosso, lasciarlo vagare libero avrebbe costituito
un pericolo per l’intera isola.
Non c’erano alternative.
Gli avvolse una striscia di garza a orno alla bocca per impedirgli di
diffondere il contagio. Le tremavano le mani. Quando ebbe fa o, lo
accompagnò dalla sabbia nera della spiaggia fino alla ci à,
puntandogli la lama alla schiena e restandogli quanto più vicina le
consentiva il coraggio.
Capo Hisan era un porto insonne. Guidò il forestiero a raverso i
mercati no urni, i simulacri votivi intagliati nel legno di risacca,
so o i festoni di lanterne bianche e azzurre appesi in occasione del
pp
Giorno della Chiamata. Il prigioniero osservava tu o in silenzio. Il
buio gli celava i lineamenti, ma Tané lo colpì di pia o con la lama
per costringerlo ad abbassare la testa. Per tu o il tragi o si assicurò
di tenerlo il più lontano possibile dagli altri.
Aveva avuto un’idea su come nasconderlo.
Collegata al capo sorgeva un’isola artificiale. Nota come Orisima,
rappresentava una curiosità per la gente del luogo. L’avamposto era
stato costruito per alloggiare un manipolo di mercanti ed eruditi del
Libero Stato di Mentendon. A parte i Lacustrini, sulla sponda
opposta del capo, soltanto ai Mentesi era stato concesso di
commerciare a Seiiki dopo che l’isola si era chiusa al resto del
mondo.
Orisima.
Era lì che avrebbe portato il forestiero.
Il ponte illuminato che conduceva all’avamposto mercantile era
sorvegliato da guardie. A pochi Seiikinesi era concesso di entrare, e
lei non era tra questi. L’unico altro modo di superare la recinzione
era la chiusa che si apriva una volta all’anno per ricevere le merci
dalle navi mentesi.
Tané guidò il forestiero fino al canale. Non poteva introdurlo
personalmente a Orisima, ma conosceva qualcuno che sarebbe stato
in grado di farlo. Una donna che avrebbe saputo esa amente dove
nasconderlo sull’isola.
Era trascorso molto tempo dall’ultima volta che Niclays Roos aveva
ricevuto visite.
Si stava concedendo un goccio di vino, una piccola parte della sua
misera razione quotidiana, quando sentì bussare alla porta. Il vino
era uno dei pochi piaceri che gli erano rimasti al mondo, e in quel
momento, immerso negli effluvi del suo aroma, pregustava il lusso
squisito del primo sorso.
Ed ecco che lo interrompevano. Ma certo. Con un sospiro si issò
dalla sedia, gemendo per la fi a di dolore alla caviglia. Ci mancava
solo la go a.
g
Un altro colpo alla porta.
«Allora, la finite?» brontolò.
La pioggia tamburellava sul te o mentre lui cercava a tentoni il
bastone. Pioggia dei pruni, così la chiamavano in quel periodo
dell’anno i Seiikinesi, quando banchi d’aria pesante gravavano sulla
terra e i fru i si gonfiavano sugli alberi. Imprecando so ovoce,
zoppicò sulle stuoie e socchiuse appena la porta.
Fuori, al buio, c’era una donna. Indossava una veste ricamata con
fiori di sale e i lunghi capelli scuri le ricadevano sui fianchi. Non
poteva essere stata solo la pioggia a ridurla in quello stato.
«Bentrovato, sapiente do or Roos» disse.
Niclays la rimproverò con lo sguardo. «Non gradisco visite a
quest’ora. Né a nessun’altra.» Sarebbe stato opportuno inchinarsi,
ma non aveva motivo di fare buona impressione sulla sconosciuta.
«Come sapete il mio nome?»
«Me l’hanno de o.» Non sarebbe arrivata alcuna ulteriore
spiegazione. «Ho accompagnato un vostro conterraneo. Si fermerà
qui con voi questa no e e domani al tramonto passerò a
riprenderlo.»
«Un mio conterraneo.»
La visitatrice si voltò. Da un albero poco distante si staccò una
sagoma.
«I contrabbandieri l’hanno portato a Seiiki» disse la donna. «Lo
scorterò domani dall’onorevole governatore.»
Non appena la figura entrò nello spazio illuminato della casa,
Niclays si sentì gelare il sangue.
Sulla soglia apparve un uomo dai capelli dorati, grondante
quanto la donna. Un uomo che non aveva mai visto a Orisima.
L’avamposto ospitava venti persone. Le conosceva tu e di nome e
di aspe o. E non erano a ese navi da Mentendon prima di fine
stagione.
Inspiegabilmente questi due erano passati inosservati.
«No.» Niclays la fissò. «Per il Santo, donna, volete coinvolgermi in
un’operazione di contrabbando?» Armeggiò con la porta. «Non posso
nascondere un clandestino. Se qualcuno scoprisse…»
«Una no e.»
«Una no e, un anno… ci mozzerebbero comunque la testa.
Addio.»
Fece per chiudere la porta ma lei infilò il gomito nello spiraglio.
«Se acce ate,» la donna adesso era così vicina che Niclays poteva
sentirne l’alito «vi darò dell’argento. Tu o quello che riuscite a
portare.»
Niclays Roos esitò.
L’argento era un’offerta alle ante. Da sbronzo aveva giocato una
partita a carte di troppo, e ora doveva alle guardie più di quanto
sarebbe stato in grado di guadagnare in una vita intera. Finora era
riuscito a tenere a bada le minacce prome endo il carico di preziosi
della prossima nave da Mentendon, ma sapeva fin troppo bene che,
una volta a raccata, a bordo non ci sarebbe stato un singolo
pulciosissimo gioiello. Non per quelli come lui, almeno.
Il ragazzino in lui fremeva per acce are la proposta, anche
soltanto in nome dell’avventura. Prima che il Niclays più vecchio e
saggio potesse intervenire, la donna si allontanò.
«Tornerò domani sera» disse. «Fate in modo che nessuno lo
veda.»
«Un a imo» sibilò lui, furibondo. «Voi chi siete?»
Ma era già sparita. Niclays lanciò un’occhiata furtiva in strada
poi, con un grugnito, tirò dentro casa lo straniero dall’aria
spaventata.
Era una follia. Se i suoi vicini avessero scoperto che dava asilo a
un clandestino, l’avrebbero consegnato alla furia del Signore della
Guerra, non certo noto per la sua misericordia.
Eppure ormai c’era dentro.
Niclays sprangò la porta. Nonostante il caldo, il nuovo arrivato
tremava sulle stuoie. Aveva la pelle olivastra bruciata a orno agli
zigomi, gli occhi azzurri incrostati di salsedine. Tanto per fare
qualcosa, Niclays prese una coperta che aveva portato da
Mentendon e l’allungò all’uomo, il quale la prese senza una parola.
Faceva bene ad avere paura.
«Da dove vieni?» chiese brusco.
«Scusate» sussurrò quello. «Non capisco. Parlate seiikinese?»
Inysh. Era da un pezzo che non sentiva quell’idioma.
y p q
«Non era seiikinese» disse Niclays passando all’altra lingua. «Era
mentese. Pensavo fossi di laggiù.»
«No, signore. Vengo da Ascalon» rispose timidamente lo
straniero. «Posso domandare il vostro nome, dal momento che siete
tanto gentile da ospitarmi?»
Tipico degli Inysh. Prima i convenevoli. «Roos» disse Niclays tra i
denti. «Do or Niclays Roos. Mastro cerusico. L’uomo di cui stai
me endo in pericolo la vita con la tua presenza.»
Il giovane lo fissò.
«Do or…» ripeté esitante. «Do or Niclays Roos?»
«Congratulazioni, figliolo. L’acqua di mare non ti ha danneggiato
l’udito.»
L’ospite sospirò con un brivido. «Do or Roos,» disse «questo è
intervento divino. Il Cavaliere di Sodalizio ha scelto di condurmi
proprio a voi tra tu i…»
«A me?» Niclays si accigliò. «Ci conosciamo?»
Frugò tra i ricordi dei suoi giorni a Inys, ma era certo di non aver
mai visto quell’uomo. A meno di non essere stato ubriaco,
chiaramente. Si era ubriacato spesso a Inys.
«No signore, un amico mi ha fa o il vostro nome.» L’uomo si
asciugò il viso con la manica. «Ero certo che sarei morto in mare, ma
questo incontro mi riporta alla vita. Sia lode al Santo.»
«Il tuo santo non ha potere in questo luogo» borbo ò Niclays.
«Ora, ti spiace dirmi il tuo nome?»
«Sulyard. Mastro Triam Sulyard, signore, per servirvi. Ero
scudiero a corte di Sua Maestà Sabran Berethnet, regina di Inys.»
Niclays digrignò i denti. Quel nome gli risvegliò nel pe o un
furore ardente.
«Uno scudiero.» Si sede e. «Sabran si è forse stancata di te, come
di tu i i suoi sudditi?»
Sulyard parve stizzirsi. «Non osate insultare la mia regina, o io…»
«O tu cosa?» Niclays lo squadrò da sopra le lenti. «Dovrei
chiamarti Triam lo Stolto. Hai idea di cosa fanno agli stranieri qui?
Sabran ti voleva forse condannare a una morte particolarmente
atroce?»
«Sua Maestà non sa che mi trovo qui.»
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Interessante. Niclays gli versò una coppa di vino. «Ecco» disse
seccato. «Tu o d’un fiato.»
Sulyard lo trangugiò.
«Ora, mastro Sulyard, ascoltami bene» proseguì Niclays. «In
quanti ti hanno visto?»
«Mi hanno fa o nuotare fino a riva. Ho raggiunto una spiaggia.
La sabbia era nera.» Sulyard continuava a tremare. «Mi ha trovato
una donna, che mi ha condo o in ci à minacciandomi con un
coltello. Sono rimasto da solo in una stalla… poi è arrivata un’altra
donna che mi ha intimato di seguirla. Mi ha riportato in mare e
insieme abbiamo nuotato fino a un pontile. In fondo c’era una
chiusa.»
«Ed era aperta?»
«Sì.»
La donna probabilmente conosceva una delle guardie. Doveva
averla convinta a lasciare aperto il passaggio.
Sulyard si stropicciò gli occhi. I giorni in mare lo avevano segnato,
ma ora Niclays si accorse che era solo un ragazzo, a malapena di
vent’anni.
«Do or Roos,» disse «sono qui per svolgere un compito della
massima importanza. Devo conferire con…»
«Ti fermo subito, mastro Sulyard» tagliò corto Niclays. «Non mi
interessa il motivo per cui sei venuto.»
«Ma…»
«Qualunque siano le tue ragioni, sei giunto qui senza il consenso
delle autorità. Una follia. Se il Sovrintendente dovesse trovarti e
trascinarti a un interrogatorio, voglio poter dire in tu a onestà di
non avere la minima idea del motivo per cui ti sei presentato alla
mia porta nel bel mezzo della no e pensando di essere il benvenuto
a Seiiki.»
Sulyard trasalì. «Il Sovrintendente?»
«Il funzionario seiikinese a capo di questa discarica galleggiante,
per quanto lui si ritenga un semidio. Sai almeno dove ti trovi?»
«Orisima, l’ultimo avamposto mercantile occidentale in Oriente. È
il trovarmi qui che mi fa sperare di essere ricevuto dal Signore della
Guerra.»
«Ti assicuro» disse Niclays «che per nessuna ragione Pitosu
Nadama riceverà un clandestino alla sua corte. Ciò che invece farà,
se dovesse me erti le mani addosso, sarà giustiziarti.»
Sulyard non rispose.
Niclays valutò per un momento di dire al giovane che la sua
soccorritrice sarebbe tornata, forse per consegnarlo alle autorità.
Decise di non farlo. Sulyard avrebbe potuto farsi prendere dal
panico e tentare la fuga, ma per andare dove?
L’indomani. L’indomani se ne sarebbe andato.
In quel momento, Niclays udì delle voci dalla strada. Un
frastuono di passi sui gradini di legno delle case vicine. Un brivido
gli strizzò lo stomaco.
«Nasconditi» disse, afferrando il bastone.
Sulyard si acqua ò dietro un paravento. Con mano tremante,
Niclays dischiuse la porta.
Secoli addietro, il primo Signore della Guerra di Seiiki aveva
firmato il Grand’Edi o e precluso l’isola a chiunque non fosse
lacustrino o mentese, per proteggere il suo popolo dalla peste
draconica. La quarantena era rimasta in vigore anche dopo
l’estinzione del morbo. Chiunque fosse giunto senza permesso
sarebbe stato condannato a morte. Insieme a chiunque gli avesse
dato asilo.
In strada non c’era traccia delle guardie, ma dal vicinato si era
radunata una piccola folla. Niclays si unì agli altri.
«In nome di Galian, cosa sta succedendo?» domandò al cuoco, che
fissava il cielo con la bocca tanto spalancata da rischiare di
inghio ire le falene. «Per il futuro, ti sconsiglio di ado are
nuovamente quest’espressione, Harolt. La gente potrebbe scambiarti
per un idiota.»
«Guarda, Roos» balbe ò il cuoco. «Guarda!»
«Meglio per te che sia…»
Quando la vide, però, le parole gli morirono in gola.
Una testa enorme torreggiava sulla palizzata di Orisima.
Apparteneva a una creatura fa a di gemme e acqua di mare.
Nubi di vapore si levavano dalle sue scaglie, pietre di luna tanto
splendenti da apparire soffuse di luce propria. Su ciascuna
p pp p p
scintillava una miriade di gocce simili a diamanti. I suoi occhi erano
stelle di fuoco e le sue corna, rilucenti nel pallore lunare, argento
vivo. La creatura flu uò oltre il ponte con la grazia di un nastro di
seta e si librò in cielo leggera e silenziosa come un aquilone.
Un drago. Mentre il primo si levava al di sopra di Capo Hisan,
altri emergevano dalle acque, sollevando una fresca foschia. Niclays
si portò una mano al cuore impazzito.
«E questi» mormorò «cosa accidenti ci fanno qui?»
2
Occidente
Perdonami, dovevo andare. Ho preso accordi con una donna di Altarocca, e non posso
rifiutare la sua offerta. So che avevamo deciso di partire insieme e probabilmente mi
odierai per il resto della tua vita, ma questa è la soluzione migliore, tesoro mio. Mi sarai
più preziosa lì dove sei, a corte. Quando ti darò notizia del successo della missione,
persuadi la regina a benedire la nostra impresa. Falle comprendere l’entità del pericolo.
Brucia questa le era. Nessuno deve sapere cosa abbiamo in mente sino alla fine. Un
giorno tu e io entreremo nelle leggende, mia cara Truyde.
Aveva avuto appena il tempo di leggere, poi la le era gli era stata
strappata di mano e, presumibilmente, distru a.
Ciò che Loth non riusciva a capire era perché. Perché, tra tu i,
proprio lui veniva mandato a Yscalin. Inys aveva bisogno di
mormoratori a Cárscaro, ma lui non era una spia.
Il peso della disperazione gli gravava sulle spalle, ma non poteva
perme ersi di cedere. Non era solo.
«Kit,» disse «perdonami. Sei stato costre o a seguirmi in esilio, e
finora sono stato di ben misera compagnia.»
«Non osare scusarti. Ho sempre sognato l’avventura.» Kit si ge ò
alle spalle i riccioli biondi con entrambe le mani. «Già che finalmente
ne stiamo parlando, però, credo dovremmo discutere della nostra…
situazione.»
«No. Non adesso, Kit. Ormai è fa a.»
«Non puoi credere davvero che la regina Sabran abbia voluto
bandirti» replicò Kit risoluto. «Fidati di me, lei è all’oscuro di tu o.
Combe le avrà de o che hai lasciato la corte di tua spontanea
volontà, e lei nutrirà giustamente i suoi dubbi. Devi dirle la verità»
lo incoraggiò. «Scrivile. Raccontale cosa ti hanno fa o, e…»
«Combe interce a tu e le le ere.»
«Non potresti usare un codice?»
«Non esiste codice che il Rapace No urno non sappia decifrare.
C’è un motivo se Sabran lo ha nominato Maestro delle Spie.»
«E allora scrivi alla tua famiglia. Chiedi aiuto a loro.»
«Non o errebbero udienza dalla regina senza prima passare dal
vaglio di Combe. E anche se ci riuscissero,» disse Loth «sarebbe
comunque troppo tardi. A quel punto saremo già a Cárscaro.»
«Ma è giusto che sappiano dove ti trovi.» Kit scosse il capo. «Per il
Santo, comincio a pensare che tu voglia andartene.»
«Se i Duchi Spirituali confidano in me per svelare gli intrighi di
Yscalin, forse hanno ragione.»
«Oh, ma insomma, Loth. Sai benissimo cosa sta succedendo. Tu i
quanti abbiamo provato ad avvertirti.»
Loth, accigliato, non rispose. Con un sospiro, Kit vuotò il boccale
e si chinò in avanti per avvicinarsi all’amico.
«La regina Sabran è nubile» mormorò. Loth si irrigidì. «Se i Duchi
Spirituali hanno in serbo per lei un marito straniero, la tua presenza
al suo fianco, be’… complica le cose.»
«Sai benissimo che tra me e Sab non è mai…»
«Quello che so io è assai meno importante di quello che il mondo
vede» rispose Kit. «Concedimi di usare una piccola allegoria. L’arte.
L’arte non scaturisce da un unico a o creativo grandioso, bensì da
una serie di piccoli gesti. Quando leggi una delle mie poesie, non ti
rendi conto delle se imane di fatica che mi ci sono volute per
comporla, il ragionamento, le parole eliminate, le pagine distru e in
un moto di disgusto. Alla fine, vedi solo ciò che io voglio farti
vedere. La politica funziona allo stesso modo.»
Loth sollevò un sopracciglio.
«Per assicurarsi un’erede, i Duchi Spirituali devono dipingere una
certa immagine della corte di Inys e della sua capace sovrana»
spiegò Kit. «Se ritengono che il tuo rapporto con la regina Sabran
possa interferire in qualche modo, per esempio scoraggiando i
pretendenti stranieri, questo spiegherebbe il motivo per cui sei stato
scelto tu per questa missione diplomatica. Ti hanno allontanato
per… cancellarti dal quadro generale.»
Seguì un altro silenzio. Poi Loth intrecciò le dita inanellate e ci
appoggiò contro la fronte.
Che sciocco era stato.
«Ora, se il mio ragionamento è corre o, la buona notizia è che una
volta che la regina sarà sposata noi potremmo sga aiolare di nuovo
a corte» disse Kit. «Teniamo duro per le prossime se imane, se
riusciamo troviamo il povero vecchio principe Wilstan, poi torniamo
a Inys con qualunque mezzo possibile. Combe non ci fermerà. Non
quando avrà o enuto ciò che vuole.»
«Dimentichi che se tornassimo potremmo denunciarlo a Sabran.
Lui lo ha sicuramente tenuto in conto. Non arriveremmo neanche ai
cancelli del palazzo.»
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«Scriveremo a Sua Grazia in anticipo per fargli un’offerta. Il
silenzio in cambio di un ritorno tranquillo.»
«Ma io non posso starmene in silenzio» sbo ò Loth. «Sab deve
sapere che il Concilio delle Virtù trama alle sue spalle. Combe sa
bene che le parlerei. Fidati, Kit… vuole spedirci a Cárscaro per
sempre. Vuole renderci i suoi occhi nella corte più pericolosa
d’Occidente.»
«Giammai. Troveremo un modo per tornarcene a casa» disse Kit.
«Non è ciò che il Santo prome e a tu i noi? Un lieto ritorno?»
Loth scolò il fondo di idromele.
«A volte sei molto saggio, amico mio.» Poi, sospirando, aggiunse:
«Posso solo immaginare quel che sta passando Margret. A questo
punto Betulladorata toccherà a lei».
«Meg non deve offuscare la sua mente brillante con queste
angosce. Betulladorata non toccherà a lei, perché noi torneremo a
Inys prima di quanto immagini. La nostra sembra una missione senza
speranza,» commentò Kit, assumendo nuovamente un tono
scherzoso «ma chi può dirlo. Potremmo tornare vi oriosi, da sovrani
del mondo.»
«Non avrei mai immaginato che saresti stato tu un giorno
l’o imista.» Loth trasse un respiro profondo. «Andiamo a svegliare il
conducente. Abbiamo poltrito qui anche troppo.»
5
Oriente
La Torre Alabastrina era tra le più alte del Palazzo di Ascalon. Una
scala tortuosa portava alla Camera del Concilio, una stanza ampia e
rotonda con le finestre incorniciate da tende leggere.
Quando l’orologio ba é le nove e mezzo, Ead fu scortata alla
porta. Indossava la sua veste più elegante, a cui aveva abbinato una
modesta gorgiera e l’unico monile di sua proprietà.
Alla parete era appeso un ritra o del Santo, Sir Galian Berethnet,
antenato dire o di Sabran. Sollevata sul capo reggeva Ascalon, la
Vera Spada, nonché fonte di ispirazione per il nome della capitale.
A Ead sembrava un perfe o idiota.
Il Concilio delle Virtù si componeva di tre corpi. Il più potente era
quello dei Duchi Spirituali, discendenti da un membro del Santo
Seguito formato dai sei cavalieri di Galian Berethnet. Ciascuno di
loro era guardiano di una specifica Virtù. Subito dopo venivano i
Conti Provinciali, capi delle nobili famiglie che governavano le sei
province di Inys, quindi i Cavalieri Cade i, che non vantavano
sangue nobile.
Ora, a orno al tavolo che troneggiava in mezzo alla stanza, erano
riuniti qua ro membri del Concilio.
L’aralda ba é il bastone a terra.
«Madonna Ead Duryan» annunciò la donna. «Domestica
Ordinaria dell’Anticamera di Sua Maestà.»
A capotavola era seduta la regina di Inys, le labbra dipinte di
rosso scarla o.
«Madonna Duryan» la salutò.
«Maestà.» Ead fece la riverenza. «Vostre Grazie.»
«Siediti.»
Mentre prendeva posto, Ead con la coda dell’occhio scorse Sir
Tharian Lintley, capitano dei Cavalieri Prote ori, lanciarle un sorriso
rassicurante dalla sua postazione accanto alla porta. Come quasi tu i
i membri della Guardia Reale, Lintley era alto e robusto, e a corte
vantava un buon numero di ammiratrici. Era innamorato di Margret
dal giorno del suo arrivo e il sentimento era ricambiato, Ead ci
avrebbe giurato, ma li separava una differenza di posizione troppo
rilevante.
«Madonna Duryan» disse Lord Seyton Combe alzando le
sopracciglia. Il duca di Cortesia era seduto alla sinistra della regina.
«Non vi sentite bene?»
«Chiedo scusa, mio signore?»
«Avete gli occhi cerchiati.»
«Mi sento molto bene, Vostra Grazia. Solo un po’ stanca dopo la
frenesia della visita mentese.»
Combe la studiò da sopra il bordo della coppa. Il Primo
Funzionario non passava certo inosservato: sulla sessantina, occhi
tempestosi, pelle giallognola e una bocca quasi priva di labbra. Si
diceva che se al ma ino fosse stata ordita una congiura ai danni
della regina, per l’ora di pranzo Combe avrebbe messo i responsabili
sulla forca. Peccato che il capo dei tagliagole continuasse a sfuggirgli.
«Naturalmente. Una visita imprevista ma assai apprezzata.» Un
lieve sorriso affiorò alle labbra di Combe. Tu e le sue espressioni
erano lievi, come vino allungato con acqua. «Abbiamo già
interrogato molti domestici di Sua Maestà, ma ritenuto prudente
lasciare le ancelle per ultime per non distrarle durante la visita
mentese.»
Ead resse il suo sguardo. Combe poteva anche parlare la lingua
dei segreti, ma la verità era che i suoi non li conosceva.
Al fianco destro della regina sedeva Lady Igrain Crest, duchessa
di Giustizia. Era stata la principale consigliera di Sabran quando la
regina, alla morte di Rosarian, aveva ereditato il trono ancora
minorenne; a quanto pareva, era anche merito suo se la sovrana oggi
era un tale esempio di virtù.
«Ora che madonna Duryan è arrivata» disse, sorridendo a Ead
«forse possiamo cominciare.»
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Crest aveva gli stessi lineamenti aggraziati e gli stessi occhi blu
cobalto della nipote Roslain, ma i suoi capelli arricciati alle tempie
erano da tempo diventati argentei. Rughe quasi invisibili le
increspavano i lati delle labbra, pallide come il resto del viso.
«Ma certo» disse Lady Nelda Acquaferma. La duchessa di
Coraggio era una donna formosa, con la pelle marrone scuro e una
chioma di riccioli bruni. A orno al collo portava un monile di rubini
scintillanti. «Madonna Duryan, due no i fa è stato ritrovato il
cadavere di un uomo sulla soglia della Stanza del Baldacchino, con
in mano un pugnale di fa ura yscal.»
Una manosinistra, per la precisione: pugnali usati nei duelli al
posto degli scudi in modo da proteggere chi li brandiva grazie alla
loro ampia guardia, ma anche strumenti di morte. Tu i i tagliagole
ne avevano uno.
«Sembrava intenzionato a uccidere Sua Maestà,» dichiarò
Acquaferma, «ma è stato a sua volta ucciso.»
«Spaventoso» mormorò il duca di Generosità. Lord Ritshard Eller,
che doveva aver passato i novanta da un pezzo, si avvolgeva anche
in estate in pesanti pellicce. Da ciò che Ead aveva potuto constatare,
era pure uno sciocco bigo o.
Ostentò un’aria sorpresa. «Un altro tagliagole?»
«Sì» disse Acquaferma aggro ando le sopracciglia. «Come avrete
di certo sentito, è successo più volte nello scorso anno. Dei nove
aspiranti assassini riusciti a entrare nel Palazzo di Ascalon, cinque
sono stati uccisi prima ancora di venire arrestati.»
«Per quanto sembri assurdo» rifle é Combe «l’unica soluzione è
che sia stato un membro dell’Alta Servitù a uccidere la canaglia.»
«Un a o nobile» commentò Ead.
Crest sbuffò. «Non direi, mia cara» rispose. «Chiunque sia, questo
prote ore è a sua volta un assassino, e in quanto tale deve essere
smascherato.» Parlava con voce alterata dalla frustrazione. «Al pari
del tagliagole questa persona si è intrufolata negli appartamenti reali
eludendo non si sa come i Cavalieri Prote ori. Ha quindi commesso
un omicidio e lasciato il cadavere in bella vista per farlo trovare a
Sua Maestà. Aveva forse intenzione di spaventare a morte la nostra
regina?»
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«Immagino, Vostra Grazia, che il suo unico intento fosse impedire
che la regina venisse pugnalata a morte.»
Sabran sollevò un sopracciglio.
«Il Cavaliere di Giustizia disapprova qualunque spargimento di
sangue, madonna Duryan» disse Crest. «Se l’assassino dei tagliagole
fosse venuto da noi, avremmo potuto graziarlo, ma il fa o stesso di
rimanere nell’ombra rivela i suoi intenti malvagi. In ogni caso,
scopriremo di chi si tra a.»
«Stiamo cercando testimoni che possano aiutarci, madonna. Il
fa o è accaduto due no i fa, intorno a mezzano e» intervenne
Combe. «Diteci, avete visto o udito nulla di sospe o?»
«Nulla che mi venga in mente, Vostra Grazia.»
Sabran non aveva mai smesso di fissarla, e il suo sguardo
indagatore cominciava a far sudare Ead so o la gorgiera.
«Madonna Duryan,» disse Combe «finora siete sempre stata una
domestica fedele. Dubito fermamente che l’ambasciatore uq-Ispad
avrebbe introdo o a Sua Maestà una fanciulla meno che
impeccabile. Cionondimeno devo avvertirvi: il silenzio in questo
caso equivale al tradimento. Sapete nulla di questo tagliagole? Avete
sentito qualcuno esprimere ostilità per Sua Maestà, o sostegno per il
Regno Draconico di Yscalin?»
«No, Vostra Grazia,» rispose Ead «ma se mai mi giungeranno voci
simili, correrò immediatamente da voi.»
Combe e Sabran si scambiarono un’occhiata.
«Buona giornata, madonna» disse alla fine la regina. «Torna alle
tue mansioni.»
Ead fece la riverenza e uscì, mentre Lintley le chiudeva la porta
alle spalle.
Non c’erano guardie lì, aspe avano tu e in fondo alla torre. Ead
si premurò di camminare in modo ben percepibile, ma scesi i primi
gradini si arrestò.
Aveva un udito più sviluppato della media. Un beneficio della
magia che ancora persisteva nel suo sangue.
«… sembra sincera,» stava dicendo Crest «ma ho sentito che
alcuni Ersyri si cimentano nelle arti proibite.»
«Che sciocchezza» intervenne Combe. «Non crederete davvero a
quelle fandonie su alchimia e stregoneria.»
«In qualità di duchessa di Giustizia, è mio dovere considerare ogni
possibilità, Seyton. Sappiamo tu i che i tagliagole sono inviati di
Yscalin, certo… nessuno più degli Yscal brama la fine di Sua Maestà.
Ma non dobbiamo dimenticarci di questo prote ore, che si è rivelato
un assassino chiaramente esperto. Sarei molto curiosa di capire dove
ha imparato tale… arte.»
«Madonna Duryan è sempre stata una dama di corte diligente,
Igrain» disse Sabran. «Se non avete prove del suo coinvolgimento,
forse dovremmo passare ad altro.»
«Come preferite, Maestà.»
Ead si lasciò sfuggire un sospiro a lungo tra enuto.
Il suo segreto era al sicuro. Nessuno l’aveva vista intrufolarsi negli
appartamenti reali quella no e. Muoversi inosservata era un’altra
delle sue prerogative, perché al dono della fiamma si accompagnava
l’impalpabilità dell’ombra.
Rumori dal pianterreno, passi di soldati sulle scale. I Cavalieri
Prote ori impegnati nelle loro ronde.
Doveva spostarsi in un luogo più discreto per continuare a
origliare. Scese in fre a al piano inferiore e scivolò su un balcone.
«… vostro coetaneo, a de a di tu i molto piacevole e brillante,
oltre a essere un sovrano di Virtudom.» Combe. «Come sapete,
Maestà, le ultime cinque regine Berethnet hanno avuto consorti
inysh. Sono più di due secoli che non si celebrano unioni con
dinastie straniere.»
«Sembra che la cosa vi preoccupi, Vostra Grazia» commentò
Sabran. «Nutrite così poca fede nel fascino degli Inysh da
sorprendervi che le mie antenate li abbiano scelti come mariti?»
Risatine.
«Da appartenente alla categoria, perme etemi di contestare»
replicò flebilmente Combe. «Ma i tempi sono cambiati. Un’unione
tra casate è di vitale importanza. Ora che il nostro più antico alleato
ha tradito la vera fede, è nostro dovere mostrare al mondo la coesione
fra le altre tre nazioni che hanno giurato lealtà al Santo. Dobbiamo
far sapere che, qualunque cosa accada, nessuna di loro condividerà
p q q
mai con Yscalin l’errata convinzione di un prossimo ritorno del
Senza Nome.»
«Una minaccia si cela nella loro richiesta» obie ò Crest. «Gli
orientali venerano i wyrm. Un’alleanza con i territori draconici
potrebbe alle arli.»
«Penso so ovalutiate il pericolo della cosa, Igrain» intervenne
Acquaferma. «Da quanto so, gli orientali temono ancora
grandemente il morbo draconico.»
«Lo stesso valeva per Yscalin un tempo.»
«Quel che è certo» tagliò corto Combe «è che non possiamo
perme erci alcun segno di debolezza. Decidendo di sposare
Lievelyn, Maestà, dimostrerete che l’Armatura di Virtudom non è
mai stata tanto robusta.»
«Il Principe Rosso commercia con gli adoratori di draghi» disse
Sabran. «Sarebbe senz’altro poco avveduto da parte nostra concedere
un’implicita approvazione a una tale pratica. Ora più che mai. Non
siete d’accordo, Igrain?»
A quelle parole, Ead non riuscì a tra enere un sorriso. La regina
aveva già trovato da ridire sul nuovo pretendente.
«Per quanto generare un’erede il prima possibile sia il principale
compito di una Berethnet, sono effe ivamente d’accordo, Maestà.
Saggia osservazione» aggiunse Crest in tono materno. «Lievelyn non
è degno della progenie del Santo. I suoi rapporti con Seiiki ge ano
un’ombra sull’intera Virtudom. Mostrarci tolleranti nei confronti di
una simile eresia potrebbe anzi incoraggiare i seguaci del Senza
Nome. E non dimentichiamo che Lievelyn è stato fidanzato della
Donmata Marosa, a uale erede di un territorio draconico. Non si
può escludere che tra i due ci sia ancora qualche simpatia.»
Un Cavaliere Prote ore passò davanti alla porta del balcone. Ead
si appia ì contro la parete.
«Il fidanzamento è stato ro o nel momento esa o in cui Yscalin ha
tradito la fede» borbo ò Combe. «E per quanto riguarda la tra a con
l’Oriente, la Casata di Lievelyn non commercerebbe con Seiiki se non
fosse più che necessario. Il Va en avrà pure portato Mentendon sulla
re a via, ma l’ha anche rido a sul lastrico. Se offrissimo ai Mentesi
un’alleanza con condizioni vantaggiose in vista di un’unione
matrimoniale tra casate, forse la tra a potrebbe essere interro a.»
«Mio caro Seyton, a spingere i Mentesi non è il bisogno, ma
l’avidità. Loro vogliono mantenere il monopolio sulla tra a orientale.
Inoltre, non possiamo certo pensare di sostentarli per sempre» disse
Crest. «No, non ha più senso discutere di Lievelyn. Un’unione assai
più proficua, che vi raccomando da molto tempo, Maestà, è quella
con l’Illustre Capoclan di Askrdal. Dobbiamo mantenere ben saldi i
legami con Hróth.»
«Ma ha se ant’anni!» replicò sgomenta Acquaferma.
«E Glorian Cuore Invi o non sposò forse Guma Vetalda, che ne
aveva se antaqua ro?» si intromise Eller.
«Certo che sì, ed ebbero una bimba sana e forte.» Crest pareva
soddisfa a. «Askrdal porterà al reginato la saggezza e l’esperienza
che Lievelyn, principe di un giovane regno, non possiede.»
Dopo una pausa, Sabran chiese: «Non ci sono altri pretendenti?».
Seguì un lungo silenzio. «Le voci della vostra familiarità con Lord
Arteloth si sono diffuse, Maestà» spiegò Eller in tono tremulo.
«Qualcuno arriva a credere che voi due vi siate segretamente spos…»
«Risparmiatemi questi volgari pe egolezzi, Vostra Grazia. E
quanto a Lord Arteloth,» continuò Sabran «ha lasciato la corte senza
ragione né preavviso. Non voglio sentirne parlare.»
Un altro silenzio carico di tensione.
«Maestà,» disse Combe «secondo i miei mormoratori Lord
Arteloth si è imbarcato su una nave dire a a Yscalin, in compagnia
di Lord Kitston Glade. Deve aver scoperto che avevo intenzione di
inviare una spia alla ricerca di vostro padre… e ritenuto di essere
l’unico all’altezza di una missione tanto vicina al cuore di Vostra
Maestà.»
Yscalin.
Per un terribile istante, Ead non riuscì a respirare né a muoversi.
Loth.
«Potrebbe rivelarsi un bene» proseguì Combe nel silenzio
generale. «In assenza di Lord Arteloth le dicerie su un’eventuale
relazione tra voi si placheranno… inoltre è giunta l’ora di scoprire
cosa accade a Yscalin. E se il vostro illustre padre, il principe Wilstan,
è ancora tra noi.»
Combe mentiva. Loth non poteva aver scoperto per puro caso il
piano di inviare una spia a Yscalin e aver semplicemente deciso di
assumersene la responsabilità. La sola idea era assurda. Non solo
Loth non sarebbe mai stato tanto sprovveduto, ma il Rapace
No urno non avrebbe mai fa o trapelare un simile proge o.
Era tu o programmato.
«Qualcosa non quadra» disse Sabran alla fine. «Tanta imprudenza
non è da Loth. Per di più trovo assai difficile credere che nessuno di
voi abbia indovinato le sue intenzioni. Non siete forse i miei
consiglieri? Non dovreste avere occhi a ogni angolo della corte?»
Il silenzio che seguì era più denso del marzapane.
«Vi ho chiesto due anni fa di inviare qualcuno in soccorso di mio
padre, Lord Seyton» proseguì la regina a voce più bassa. «E mi avete
risposto che il rischio era troppo alto.»
«Allora era quello il mio timore, Maestà. Ma oggi ritengo sia un
rischio che vale la pena di correre in nome della verità.»
«La verità non vale Lord Arteloth.» La tensione era ben udibile
nella sua voce. «Manderete uno dei vostri a prenderlo e riportarlo
subito a Inys. Dovete fermarlo, Seyton.»
«Perdonatemi, Maestà, ma a quest’ora sarà giunto in territorio
draconico. Sarebbe impossibile mandarlo a prendere senza svelare a
Vetalda la sua presenza non autorizzata, che tra l’altro già
sospe eranno. Me eremmo la sua vita ancora più a repentaglio.»
Ead deglutì a fatica. Combe non si era limitato ad allontanare
Loth, l’aveva mandato in un luogo dove Sabran non aveva alcuna
influenza. Non c’era nulla che potesse fare laggiù. Non ora che
Yscalin si era trasformata in un nemico imprevedibile, capace di
capovolgere in un soffio un equilibrio già instabile.
«Maestà,» intervenne Acquaferma «capisco il vostro sconcerto
nell’apprendere la notizia, ma dobbiamo risolvere una volta per tu e
la questione dei pretendenti.»
«Sua Maestà ha già scartato Lievelyn» si intromise Crest.
«Dunque Askrdal è l’unico…»
«Devo insistere per riaprire la discussione, Igrain. Lievelyn è un
candidato migliore so o molti aspe i e pretendo sia almeno preso in
considerazione.» Per la foga, Acquaferma si mangiava le parole. «È
una faccenda delicata, Maestà, perdonatemi… ma dovrete avere
un’erede, e al più presto, per rassicurare i sudditi e dare continuità al
trono. L’urgenza sarebbe di gran lunga minore, se non fosse per i
ripetuti a entati alla vostra vita. Se soltanto voi aveste una figlia…»
«Grazie dell’interessamento, Vostra Grazia,» la interruppe Sabran
«ma sono ancora troppo scioccata dal cadavere che ho trovato
accanto al mio le o per pensare di utilizzarlo per una maternità.» Il
rumore di una sedia sul pavimento, seguita da altre qua ro. «Potete
interrogare Lady Linora a vostro piacimento.»
«Ma Maestà…» protestò Combe.
«Vado a desinare. Arrivederci.»
Ead rientrò e fu ai piedi della torre prima ancora che le porte della
Camera del Concilio si aprissero. A raversò il prato col cuore che le
martellava nel pe o.
Margret sarebbe stata devastata dalla notizia. Suo fratello era
troppo ingenuo, troppo gentile per insinuarsi come spia alla corte di
Vetalda.
Non sarebbe sopravvissuto a lungo.
Nella Torre della Regina, la servitù reale danzava all’inno
dell’aurora. Stallieri e cameriere facevano avanti e indietro per le
stanze, mentre dalla Cucina Privata giungeva il profumo del pane
che lievitava. Cercando di dissimulare la propria amarezza, Ead si
fece largo nella Sala delle Udienze, gremita come al solito di
questuanti in a esa della regina.
Mentre si avvicinava alla Stanza del Baldacchino, percepì
l’incantesimo scudo che vi aveva collocato. Erano disseminati per
tu o il palazzo come trappole. Aveva trascorso il primo anno a corte
coi nervi a fior di pelle: dormire le era quasi impossibile perché si
allertavano al primo movimento. Ma poi, poco per volta, aveva
imparato a riconoscere le sensazioni che le procuravano, e a
ordinarle come su un pallo oliere. Si era costre a ad allarmarsi solo
quando qualcosa non andava. O quando a corte giungeva uno
straniero.
Dentro la stanza, Margret stava disfacendo il le o mentre Roslain
Crest preparava alcune pezze di tela grezza. Sabran doveva essere
prossima al ciclo, promemoria mensile della mancanza di un’erede
nel suo utero.
Ead andò ad aiutare Margret. Per dirle di Loth avrebbe dovuto
a endere che fossero sole.
«Madonna Duryan» disse Roslain rompendo il silenzio.
Ead raddrizzò la schiena. «Mia signora.»
«Lady Katryen è indisposta stamane.» La Prima Gentildonna
a accò una delle pezze a una fusciacca di seta. «Assaggerai tu il cibo
di Sua Maestà.»
Margret si accigliò.
«Ma certo» rispose calma Ead.
Il castigo per aver dato una versione non conforme della storia del
Santo. Se le Ancelle del Baldacchino venivano grandemente
ricompensate per assumersi il rischio di assaggiare le pietanze reali,
per una semplice domestica si tra ava di una mansione ingrata oltre
che pericolosa.
Per Ead, tu avia, rappresentava anche un’opportunità.
Mentre si dirigeva al Solarium Reale, di opportunità se ne
presentò anche un’altra. Truyde u Zeedeur camminava dietro altre
due damigelle d’onore. Passandole accanto, Ead la trascinò in
disparte e le sussurrò nell’orecchio: «Vediamoci domani sera dopo le
orazioni, oppure farò in modo che Sua Maestà riceva le tue le ere».
Quando le altre damigelle si voltarono, Truyde sorrise come se
Ead le avesse appena raccontato una storiella buffa. Piccola volpe.
«Dove?» chiese, con le labbra ancora tirate.
«Alla Scala Privata.»
Si separarono.
Il Solarium Reale era una vera oasi di pace. Tre delle pareti
sporgevano dalla Torre della Regina, offrendo una vista mozzafiato
su Ascalon, capitale di Inys, e sul fiume che la a raversava. Colonne
di pietra e di fumo si innalzavano dalle sue strade. Più di
duecentomila anime consideravano quella ci à casa propria.
Ead ci andava di rado. Non era decoroso per una dama di corte
essere vista camminare nella sporcizia o contra are con i mercanti.
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Il sole allungava le ombre sul pavimento. Seduta al tavolo, si
intravedeva la silhoue e della regina, completamente sola fa a
eccezione per i due Cavalieri Prote ori all’ingresso. Quando Ead
fece per entrare, le sbarrarono la strada con le lance.
«Madonna,» disse uno «non spe a a voi servire il pasto a Sua
Maestà quest’oggi.»
Prima di darle il tempo di replicare, Sabran gridò: «Chi è?».
«Madonna Ead Duryan, Maestà. La vostra dama di corte.»
Silenzio, quindi: «Fatela passare».
Le guardie sca arono di lato. Camminando senza produrre il
minimo rumore, Ead si avvicinò alla regina.
«Ben ritrovata, Maestà.» Si inchinò.
Sabran era già tornata a immergersi tra le pagine dorate del suo
libro di preghiere. «Dovrebbe esserci Kate.»
«Lady Katryen è indisposta.»
«Ha dormito con me ieri no e. Lo saprei se fosse malata.»
«Me l’ha riferito Lady Roslain» disse Ead. «Se volete, assaggerò io
il vostro cibo quest’oggi.»
Non ricevendo risposta, Ead si sede e. Era abbastanza vicina alla
regina da sentire l’odore del pomo d’ambra che portava appeso al
collo, riempito con radici di giaggiolo e garofano. Secondo gli Inysh
quegli aromi tenevano lontane le mala ie.
Sede ero in silenzio per qualche tempo. Il pe o di Sabran si
alzava e abbassava a ritmo regolare, ma la mascella serrata tradiva la
sua rabbia.
«Maestà,» disse Ead alla fine «non vorrei essere indiscreta, ma
oggi non sembrate di o imo umore.»
«Sei indiscreta eccome. Il tuo compito è sincerarti che il mio cibo
non sia avvelenato, non fare considerazioni sul mio stato d’animo.»
«Perdonatemi.»
«Sono stata fin troppo tollerante con te» Sabran chiuse il volume
di sca o. «È chiaro che non sei abbastanza devota al Cavaliere di
Cortesia, madonna Duryan. Forse la tua conversione era una farsa.
Forse fingi di venerare il mio antenato, ma di nascosto sei seguace di
una qualche eresia.»
Era nella stanza da appena un minuto e già ecco le sabbie mobili.
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«Mia signora,» azzardò «la regina Cleolind, vostra antenata, era
principessa di Lasia.»
«Non ho certo bisogno che sia tu a ricordarmelo. Credi forse che
sia stupida?»
«Non mi perme erei mai» si affre ò Ead. Sabran spostò da un
lato il libro di preghiere. «La regina Cleolind aveva un cuore grande
e nobile. Non gliene si può fare una colpa se al momento della sua
nascita non sapeva nulla delle Sei Virtù. Chiamatemi ingenua, ma
ritengo che dovremmo compatire coloro che vivono nell’ignoranza
anziché punirli, e guidarli verso la luce.»
«Certo» replicò Sabran in tono asciu o. «La luce delle fiamme.»
«Se intendete mandarmi al rogo, mia signora, mi dispiace. Ho
sentito che noi Ersyri siamo ben poco infiammabili. Un po’ come la
sabbia del deserto, troppo abituati al sole per bruciare.»
La regina la squadrò a lungo, poi il suo sguardo si fissò sulla
spilla che portava appuntata alla veste.
«Hai scelto il Cavaliere di Generosità come patrono.»
Ead sfiorò il gioiello.
«Sì» rispose. «Come vostra damigella vi dono la mia fedeltà, mia
signora. E per donare bisogna essere generosi.»
«Generosità. Hai lo stesso Cavaliere patrono di Lievelyn»
mormorò Sabran, quasi a se stessa. «In effe i sei ben più altruista di
altre damigelle. Prima Ros, che ha insistito per rimanere incinta e poi
era troppo stanca per occuparsi di me, quindi Arbella, che non viene
più alle nostre passeggiate, e ora Kate, che si finge malata. Loro sì,
dimostrano ogni giorno di non aver scelto il Cavaliere di Generosità
come patrono.»
Ead sapeva che la regina era arrabbiata, eppure le ci volle un
notevole sforzo per non rovesciarle la coppa di vino in testa. Le
Ancelle del Baldacchino facevano sacrifici immani per assistere la
sovrana ventiqua r’ore su ventiqua ro. Assaggiavano il suo cibo e
provavano i suoi vestiti me endo a repentaglio le loro stesse vite.
Con tu a probabilità Katryen, una delle ragazze più desiderate a
corte, sarebbe rimasta nubile. Per non parlare di Arbella che, dopo
aver servito sia Sabran che sua madre, a se ant’anni suonati ancora
non si sognava di ritirarsi a vita privata.
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Ead stava pensando a cosa rispondere, ma l’arrivo del pasto la
salvò. Tra le damigelle d’onore che servivano a tavola c’era Truyde
u Zeedeur, che evitò per tu o il tempo lo sguardo di Ead.
Nel corso degli anni erano state molte le abitudini inysh a
lasciarla perplessa, ma non aveva mai trovato nulla di più assurdo
dei pasti regali. Per prima cosa alla regina veniva versato il vino di
sua scelta, quindi le venivano offerte non una, non due, bensì dicio o
portate diverse. Fe ine quasi trasparenti di carne arrosto. Avena
bollita nel la e con zucchero, uve a e spezie. Fri elle con miele nero,
burro di mele e uova di quaglia. Pesce del Rio Torto so o sale.
Fragoline di bosco su un le o di crema di neve.
Come al solito, Sabran scelse solo un pandorato, indicandolo con
un minimo cenno della testa.
Silenzio. Truyde fissava fuori dalla finestra. Una delle altre
damigelle, in preda al panico, le diede un colpe o col gomito per
richiamarla al dovere. Truyde raccolse la pagno a con un copripane
di lino e la depose sul pia o di Sua Maestà con una riverenza.
Un’altra damigella le servì un ricciolo di burro dolce.
Era il momento dell’assaggio. Con un sorrise o subdolo, Truyde
porse a Ead un coltello dal manico d’osso.
Per prima cosa, Ead bevve un sorso di vino, poi passò al burro.
Erano entrambi innocui. Quindi, tagliato un angolino di pagno a, lo
sfiorò con la punta della lingua. La Vedova le avrebbe informicolito
il palato, il dipsas inaridito le labbra, mentre la Polvere dell’Eternità
(il più raro tra tu i i veleni) avrebbe dato a ogni boccone un
retrogusto dolciastro.
Non sentì altro sapore che quello denso del pane. Fece scivolare il
pia o davanti alla regina e restituì il coltello dell’assaggio a Truyde,
la quale lo pulì prima di riavvolgerlo nel tovagliolo di lino.
«Lasciateci» ordinò Sabran.
Le damigelle si scambiarono un’occhiata. Di solito la regina
durante i pasti voleva essere intra enuta con chiacchiere e
divertimenti vari. Si inchinarono all’unisono e uscirono dalla stanza.
Ead fece per alzarsi dopo le altre.
«Tu no.»
Si sede e immediatamente.
Il sole era più alto adesso, riempiva di luce il Solarium Reale,
andando a rifle ersi sulla brocca di vino di rosa canina.
«Ultimamente Lady Truyde mi sembra distra a.» Sabran
continuava a guardare la porta. «Forse anche lei non sta bene, come
Kate. Ci si aspe a che le mala ie fiacchino la corte in inverno, non in
estate.»
«Senza dubbio una febbre da fieno, mia signora, nulla di più.
Anche se nel caso di Lady Truyde ritengo più probabile tra arsi di
nostalgia di casa» rispose Ead. «O… potrebbero essere pene d’amore,
come capita spesso alle giovani fanciulle.»
«Non sei abbastanza vecchia per questi discorsi. Qual è la tua
età?»
«Ho ventisei anni, Maestà.»
«Non molti meno di me, dunque. E tu soffri di pene d’amore,
come capita spesso alle giovani fanciulle?»
Pronunciata da un’altra bocca la domanda poteva suonare
maliziosa, ma gli occhi della regina rimasero freddi quanto le
gemme che portava al collo.
«Temo che un Inysh troverebbe difficile amare una persona che
un tempo osservava un’altra fede» rispose Ead dopo un a imo.
Sabran aveva sollevato un argomento delicato: il corteggiamento a
Inys era una questione di formalità.
«Sciocchezze» disse la regina, mentre un raggio di sole le
illuminava la chioma. «Ho saputo che sei vicina a Lord Arteloth. Lui
stesso mi ha riferito che vi scambiate doni a ogni Festa del
Sodalizio.»
«È così, mia signora» rispose Ead. «Siamo amici. Mi ha addolorato
sentire che ha lasciato la ci à.»
«Tornerà.» Sabran le rivolse uno sguardo indagatore. «Ti ha
corteggiata?»
«No» rispose sinceramente Ead. «Considero Lord Arteloth nulla
più che un caro amico. E anche se così non fosse, non sarei nella
posizione di sposare il futuro erede di Betulladorata.»
«Giusto. L’ambasciatore uq-Ispad mi aveva avvertita delle tue
umili origini.» Sabran bevve un sorso di vino. «Non sei innamorata,
dunque.»
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Una donna tanto pronta a insultare i suoi so oposti non poteva
che essere un facile bersaglio delle lusinghe. «No, mia signora» disse
Ead. «Non sono qui per perdere tempo nella ricerca di un
compagno, ma per servire la splendida regina di Inys. Per me è più
che sufficiente.»
Sabran non sorrise; la sua espressione, però, perse un po’ di
austerità.
«Forse mi accompagnerai tu a passeggiare nel Giardino Privato
domani» disse. «Se Lady Arbella non si sarà rimessa.»
«Come preferite, Maestà» disse Ead.
Sulyard russava. Altro motivo per cui Truyde doveva essere pazza a
impegnarsi con lui. A dirla tu a, però, se pure il suo ospite avesse
fa o silenzio, con quel tifone in corso Niclays non avrebbe chiuso
occhio comunque.
Da qualche parte, il rombare dei tuoni fece nitrire un cavallo. Il
ragazzo dormiva beato, ubriaco dopo una sola coppa di vino.
Niclays, alticcio anche lui, se ne stava sdraiato tra le lenzuola.
Avevano trascorso la serata giocando a carte e scambiandosi storie.
Sulyard aveva raccontato la triste vicenda della Mai Regina, mentre
Niclays aveva optato per quella assai più frivola di Carbonchio e
Vescica.
Il ragazzo continuava a non andargli a genio, e se lo proteggeva
era soltanto per amore di Truyde. Per amore di Jannart.
Jan.
Il cuore gli si serrò in una morsa di dispiacere. Chiuse gli occhi e
tornò alla ma ina d’autunno del loro primo incontro nel roseto del
Palazzo di Brygstad, quando la corte del giovane Edvart Secondo
ferveva di mille opportunità.
A poco più di vent’anni, ancora nient’altro che marchese di
Zeedeur, Jannart era alto e avvenente, con una magnifica chioma
rossa che gli scendeva fino alla vita. Da parte sua, a quei tempi
Niclays era uno dei pochi Mentesi con i capelli chiari, più dorati che
color rame.
Era stato quello a far avvicinare Jannart. Oro di rose l’aveva
chiamato, prima di chiedere a Niclays il permesso di fargli un
ritra o per ca urare per sempre l’unicità della sfumatura e
tramandarla ai posteri. Vanitoso come tu i i giovani cortigiani,
Niclays era stato più che lieto di accordarglielo.
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Capelli rossi e un giardino di rose. Il principio di tu o.
Avevano trascorso insieme l’intera stagione, con il cavalle o e la
musica e le risate come unici compagni. Erano rimasti fianco a fianco
anche quanto il ritra o era ormai finito.
Prima di quel momento, Niclays non era mai stato innamorato.
Jannart aveva fa o il primo passo chiedendogli di posare per lui, ma
ben presto Niclays aveva rimpianto di non saperlo ritrarre a sua
volta, di non saper ca urare le ciglia scure, il raggio di sole che gli
illuminava i capelli, l’eleganza delle sue dita sul virginale. Aveva
ammirato le sue labbra setose, il punto esa o in cui il collo diventava
mandibola; aveva osservato il suo sangue pulsare proprio lì, in
quella culla di vita. Aveva immaginato, fino all’ultimo inebriante
de aglio, la tonalità delle sue iridi alla luce del ma ino, quando il
sonno gli appesantiva le palpebre. Uno squisito ambra scuro, il
colore del miele di ape nera.
Viveva per sentire quella voce, profonda e suadente. Oh, quando
cantava le ballate da tenore, e come si infervorava ogni volta che
conversavano di arte e storia. Quei due argomenti infiammavano
Jannart, finendo per scaldare anche il suo uditorio. Con la sola forza
delle parole poteva rendere magnifico il più insulso degli ogge i, far
sorgere dalla polvere intere civiltà. Un raggio di sole che aveva
illuminato ogni aspe o del mondo di Niclays.
Sapeva bene di non avere speranza. Dopotu o, Jannart era un
marchese erede di un ducato, nonché migliore amico del principe
Edvart, mentre Niclays nient’altro che un parvenu di Rozentun.
Eppure Jannart l’aveva visto. L’aveva visto e non aveva distolto lo
sguardo.
Fuori, le onde si abba erono nuovamente sulla barriera. Niclays si
girò sul fianco, in preda ai suoi mille acciacchi.
«Jan,» disse piano «quand’è che siamo invecchiati così tanto?»
Mancava poco all’arrivo della nave mentese che avrebbe riportato
Sulyard a casa. Ancora qualche giorno e Niclays si sarebbe liberato
di quel promemoria vivente di Truyde e Jannart e della
stramalede a corte di Inys. Avrebbe ripreso ad armeggiare con le
pozioni nella sua prigione ai confini del mondo, esiliato e ignoto.
Alla fine si appisolò col cuscino stre o al pe o. Quando riaprì gli
occhi era ancora buio, ma qualcosa lo mise all’erta.
Sede e sbirciando nell’oscurità.
«Sulyard.»
Nessuna riposta. Qualcosa si mosse nel buio.
«Sulyard, sei tu?»
Quando la figura venne alla luce, si ritrovò immobile a fissarne il
volto.
«Onorevole Sovrintendente» gracchiò, mentre già veniva
trascinato fuori dal le o.
Due guardie lo spintonarono verso la porta. In preda al puro
terrore, riuscì chissà come a recuperare da terra il bastone e menare
un colpo con tu a la sua forza, che calò come una frusta sulle loro
guance. Ebbe solo un a imo per assaporarne la precisione prima di
essere abba uto da un manganello di ferro.
Non aveva mai provato tanto dolore tu o insieme. Il labbro
superiore gli esplose come un fru o maturo. Ogni singolo dente
tremò nell’alveolo. Lo stomaco gli si torse al gusto metallico che sentì
sulla lingua.
La guardia sollevò nuovamente il manganello e gli sferrò un altro
tremendo colpo sul ginocchio. Implorando pietà, Niclays sollevò le
mani sopra la testa e fece cadere il bastone. Il tacco di uno stivale di
pelle lo spaccò in due, mentre una gragnola di mazzate investiva il
vecchio da ogni parte, sulla schiena, in faccia. Cadde sulle stuoie
eme endo flebili lamenti di scuse e so omissione. Tu o intorno a
lui, la casa veniva rido a in pezzi.
Dal laboratorio giunse un frastuono di vetri infranti.
L’a rezzatura, che gli era costata una cifra che non avrebbe mai più
avuto in vita sua.
«Vi prego.» Il sangue gli colava sul mento. «Onorevoli guardie, vi
prego, voi non capite. L’opera…»
Ignorando le suppliche, lo bu arono fuori nel temporale con
nient’altro addosso che la camicia da no e. Aveva la caviglia troppo
debole per reggersi in piedi da solo, quindi lo trascinarono come un
sacco di miglio. I pochi Mentesi che lavoravano di no e stavano
uscendo dalle case.
«Do or Roos» lo chiamò qualcuno. «Che succede?»
Niclays annaspò. «Chi è là?» Ma la sua voce si perse nel rombo di
tuono. «Muste» urlò a fatica. «Muste, aiutami, stupido pel di carota!»
Una mano gli coprì la bocca insanguinata. Adesso riusciva a
sentire Sulyard gridare da qualche parte nell’oscurità.
«Niclays!»
Sollevò lo sguardo aspe andosi di vedere Muste, invece era
Panaya che accorreva nella mischia. Riuscì in qualche modo a
insinuarsi tra le guardie e si fermò davanti a Niclays come il
Cavaliere di Coraggio in persona. «Se quest’uomo è in arresto,» disse
«dov’è il mandato dell’onorevole governatore di Capo Hisan?»
Niclays le avrebbe dato un bacio. Poco lontano il Sovrintendente
osservava i suoi che me evano a soqquadro la casa.
«Tornatene dentro» sbraitò a Panaya senza nemmeno guardarla in
faccia.
«Il sapiente do or Roos merita rispe o. Se gli farete del male,
l’Illustre Principe di Mentendon lo verrà a sapere.»
«Il Principe Rosso non ha potere quaggiù.»
Panaya gli si parò davanti, e Niclays assiste e senza fiato allo
spe acolo di quella donna in camicia da no e che affrontava un
soldato in armatura.
«I Mentesi che vivono qui godono della protezione dell’onorevole
Signore della Guerra» riba é. «Cosa dirà sapendo che avete
macchiato di sangue il suolo di Orisima?»
A quelle parole, il Sovrintendente le si avvicinò di un passo.
«Forse dirà che sono stato fin troppo gentile» rispose, la voce
arrochita dal disprezzo «dato che questo traditore nascondeva un
forestiero in casa sua.»
Panaya ammutolì, paralizzata dallo shock.
«Panaya» mormorò Niclays. «Posso spiegare.»
«Niclays» esalò lei alla fine. «Oh, Niclays. Hai infranto il
Grand’Edi o.»
La caviglia dolorante gli pulsava. «Dove mi porteranno?»
Panaya scoccò un’occhiata nervosa al Sovrintendente, impegnato
a sbraitare ordini ai suoi uomini. «Dall’Onorevole governatore di
Capo Hisan. Avranno paura che tu abbia contra o il morbo rosso»
bisbigliò in mentese. Si irrigidì all’improvviso. «Lo hai toccato?»
Niclays cercò freneticamente di ricordare. «No» concluse. «Non la
pelle nuda.»
«Devi dirglielo allora. Giuralo sul vostro Santo» disse. «Se
sospe eranno che stai mentendo, useranno qualunque mezzo per
strapparti la verità.»
«Tortura?» Il sudore gli colava sulla fronte. «La tortura no. Non
intendi la tortura, vero?»
«Basta così!» urlò il Sovrintendente. «Portate via questo
traditore!»
Le guardie trascinarono Niclays come carne al macello. «Voglio
un avvocato» strepitò lui. «Malede i! Ci sarà pure un avvocato
decente da qualche parte in quest’isola dimenticata dal Santo!» Non
o enendo risposta, si rivolse nuovamente a Panaya. «Di’ a Muste di
aggiustare l’a rezzatura. E di continuare il mio lavoro!» Lei lo
fissava impotente. «E digli di salvare i libri! Per amore del Santo,
Panaya, salvate i miei libri!»
9
Occidente
Quando calò la sera, dopo aver ultimato le faccende nella Torre della
Regina, Ead scese la Scala Privata e uscì sul retro, dove a raccavano
le chia e con i rifornimenti dalla ci à. Si nascose nella nicchia del
pozzo e a ese.
Truyde u Zeedeur giunse poco dopo, col cappuccio ben calato in
testa.
«Quando fa buio, non mi è permesso uscire senza un
accompagnatore.» Si sistemò una ciocca ribelle di capelli rossi nel
cappuccio. «Se Lady Oliva non mi trova nella Sala del Forziere…»
«Hai incontrato il tuo innamorato più volte, mia signora.
Presumibilmente» aggiunse Ead «senza accompagnatori.»
Due occhi scuri la fissarono da so o il cappuccio. «Che cosa
vuoi?»
«Voglio sapere cosa tramate tu e Sulyard. Nelle le ere parlate di
un incarico.»
«Non ti riguarda.»
«E allora lascia che ti esponga la mia teoria. Da quel che ho visto
nutri un insolito interesse per l’Oriente. Secondo me avevi in mente
di a raversare l’Abisso insieme a Sulyard per me ere in a o chissà
quale piano oscuro, ma poi lui è partito senza aspe arti. È così?»
«No. E se proprio vuoi immischiarti, tanto vale che conosci la
verità» replicò Truyde in tono quasi annoiato. «Triam è alla Laguna
del La e. Vogliamo vivere insieme laggiù, dove né mio padre né la
regina Sabran potranno opporsi alla nostra unione.»
«Non mentirmi, mia cara. A corte mostri un volto innocente, ma
io so che ne celi un altro.»
Il cancello si aprì. Le ragazze si addossarono alla parete, mentre
una guardia si avvicinava fischie ando. La donna le superò senza
notarle, poi scomparve su per la Scala Privata.
«È ora che torni alla Sala del Forziere» sussurrò Truyde. «Già così
devo sedici confe i a quell’uccellaccio schifoso. Se non mi vede
tornare scatena il putiferio.»
«Allora dimmi cos’avete in mente tu e Sulyard.»
«E se mi rifiutassi?» Truyde scoppiò in una risatina nervosa.
«Cosa farai, madonna Duryan?»
«Potrei dire al Primo Funzionario che sospe o stiate tramando
alle spalle di Sua Maestà. Ricorda, bambina: ho le tue le ere. Anche
se» aggiunse Ead «esistono altri modi per convincerti a parlare.»
Truyde le lanciò un’occhiata torva.
«I tuoi sono discorsi molto insolenti» disse piano. «Chi sei? Perché
ti interessano tanto i segreti della corte di Inys?» Un’ombra
guardinga le oscurò il viso. «Sei una dei mormoratori di Combe,
vero? Ho sentito che arruola le spie più vili.»
«Ho il compito di proteggere Sua Maestà, non ti serve sapere
altro.»
«Sei una domestica, non un Cavaliere Prote ore. Non hai qualche
tampone da preparare?»
Ead le si avvicinò. Era una spanna più alta di Truyde, che nel
fra empo aveva portato la mano al coltello agganciato alla sua
cintura.
«Non sarò un cavaliere,» disse Ead «ma il giorno del mio arrivo a
corte ho giurato di proteggere la regina Sabran da ogni pericolo.»
«E io ho fa o lo stesso» si infervorò Truyde. «Non sono sua
nemica… e nemmeno gli orientali. Odiano il Senza Nome quanto
noi. Le nobili creature che venerano non hanno nulla in comune coi
wyrm.» Si ricompose. «Le bestie draconiche si stanno risvegliando,
Ead. Presto il Senza Nome e tu a la sua schiera si scuoteranno dal
torpore, e la loro collera sarà tremenda. Quando si scaglieranno
contro di noi, avremo bisogno di aiuto per comba erli.»
Ead fu percorsa da un brivido.
«Vorresti stringere un’alleanza militare con l’Oriente» mormorò.
«Vorresti chiedere ai loro wyrm… di affrontare al nostro fianco il
risveglio.» Truyde la fissava con gli occhi scintillanti. «Sciocca.
Sciocca e testarda. Quando la regina scoprirà che hai intenzione di
tra are con i wyrm…»
«Non sono wyrm! Sono draghi, esseri gentili. Ho le o storie su di
loro, osservato le loro raffigurazioni.»
«Su libri orientali.»
«Sì. I draghi dell’Est non discendono dal fuoco, ma dall’aria e
dall’acqua. L’Oriente è stato separato da noi troppo a lungo, ci siamo
scordati la differenza.» Notando l’espressione sce ica di Ead, Truyde
tentò un’altra strada: «Sono anch’io una straniera in questa terra,
dunque ascoltami. E se gli Inysh si sbagliassero e non fosse la
continuazione della Casata di Berethnet a impedire il risveglio del
Senza Nome?».
«Che cosa vaneggi, bambina?»
«Avrai notato anche tu il cambiamento. Le creature draconiche
che si rianimano, Yscalin che tradisce Virtudom… e siamo solo
all’inizio.» Il tono della ragazza si fece grave. «Il Senza Nome sta
tornando. E io temo che tornerà presto.»
Per un a imo Ead rimase senza parole.
E se non fosse la continuazione della Casata di Berethnet a impedire il
risveglio del Senza Nome?
Come poteva una fanciulla di Virtudom aver concepito un’ipotesi
tanto blasfema?
Naturalmente era possibile. Prima di partire per Inys, la Priora
aveva usato queste parole per spiegarle la necessità di inviare una
sorella a tutela della regina Sabran:
Potrebbe essere la Casata di Berethnet a proteggerci dal Senza Nome,
oppure no. Non ci sono prove decisive in nessun senso. Come non ci sono
prove che le sovrane di Berethnet discendano effe ivamente dalla Madre.
Ma se così è, il loro sangue è sacro e va prote o. Il ricordo della Priora era
limpido e chiaro come una fonte primaverile. È questo il problema delle
storie, bambina. Non c’è modo di valutare la verità che contengono.
Ecco il motivo per cui si trovava a Inys. Proteggere Sabran, nel
caso in cui il mito dicesse il vero e il suo sangue fosse l’antidoto al
ritorno del nemico.
«E vorresti che ci preparassimo a questa… seconda venuta» disse
Ead fingendosi divertita.
Truyde sollevò il mento. «È così. In Oriente molti draghi vivono
fianco a fianco con gli esseri umani, e non obbediscono al Senza
Nome» insisté. «Quando tornerà, avremo bisogno di loro per
sconfiggerlo. L’unico modo per evitare una seconda Era Dolente è
unirci. Io e Triam vogliamo evitare l’estinzione del genere umano.
Saremo anche giovani e insignificanti, ma i nostri principi
scuoteranno il mondo intero.»
Ovunque stesse la verità, quella ragazza aveva dalla sua il sacro
fuoco dell’illusione.
«Cosa ti rende tanto sicura che il Senza Nome tornerà?» chiese
Ead. «Non sei una figlia di Virtudom, nata per credere che la regina
Sabran ci protegge dal suo risveglio?»
Truyde raddrizzò le spalle.
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«Amo la regina,» disse «ma non sono una ragazzina che crede a
tu o ciò che le raccontano. Gli Inysh sono accecati dalla fede, ma noi
di Mentendon valutiamo le prove.»
«E hai qualche prova del ritorno del Senza Nome? O non sono
altro che conge ure?»
«Non sono conge ure. Sono ipotesi.»
«Chiamale come vuoi, si tra a di eresia.»
«Non parlarmi di eresia» sbo ò Truyde. «Una volta non eri forse
una seguace del Cantore dell’Alba?»
«La questione della mia fede è irrilevante.» Ead rifle é un
momento. «Dunque è per questo che Sulyard è partito. Si è
imbarcato in un’impresa folle, cercando un’assurda alleanza con
l’Oriente a nome di una regina che ne è del tu o all’oscuro.» Si
appoggiò al bordo del pozzo. «Il tuo amato è destinato a morire.»
«Ti sbagli, i Seiikinesi gli daranno ascolto…»
«Non è un ambasciatore ufficiale di Inys. Perché mai
dovrebbero?»
«Triam li convincerà. Nessuno parla dal cuore come lui. E una
volta persuasi i governatori orientali, andremo dalla regina Sabran, e
a quel punto anche lei si renderà conto della necessità di
un’alleanza.»
La passione la rendeva cieca. Sulyard sarebbe stato giustiziato nel
momento stesso in cui avesse messo piede in Oriente, e Sabran
avrebbe preferito mozzarsi il naso piu osto che stringere un’alleanza
con gli adoratori di wyrm, ammesso e non concesso che si
convincesse della possibilità di un risveglio del Senza Nome mentre
lei era in vita.
«Il Se entrione è debole» insisté Truyde «e il Meridione troppo
orgoglioso per tra are con Virtudom.» Le guance le si
imporporarono. «Osi biasimarmi per voler cercare aiuto altrove?»
Ead la fissò dri o negli occhi.
«Puoi pensare di essere l’unica ad avere a cuore le sorti del
mondo,» disse «ma non hai idea dei presupposti su cui fondi la tua
missione. E lo stesso vale per Sulyard.» Truyde corrugò la fronte, ma
Ead proseguì: «Sulyard ti ha chiesto di aiutarlo. Che aiuto gli hai
dato da qui? Quali sono i tuoi piani?». Truyde rimase zi a.
q p y
«Qualunque cosa tu abbia fa o a supporto della missione verrà
considerata tradimento.»
«Non dirò un’altra parola.» Si ritrasse. «Vai da Lady Oliva se vuoi.
Prima di tu o dovrai spiegarle cosa ci facevi nella Sala del Forziere.»
Fece per andarsene, ma Ead la afferrò per il polso.
«Hai scri o un nome sul tuo libro» disse. «Niclays. Credo si
riferisca a Niclays Roos, l’anatomista.» Truyde scosse il capo, ma dai
suoi occhi Ead capì che conosceva quell’uomo. «Cos’ha a che fare
Roos con questa storia?»
Prima che la ragazza potesse rispondere, una raffica di vento
sferzò i cortili del palazzo.
Ogni ramo di ogni albero si mise a tremare. Ogni uccello nella
voliera smise di cantare. Ead mollò la presa e uscì dalla nicchia.
Dalla ci à venne un rombo di cannoni seguito da raffiche di
mosche i, simili allo scoppie io delle castagne sul fuoco. Alle spalle
di Ead, Truyde rimaneva al riparo del pozzo.
«Cos’è stato?» chiese.
Ead fece un respiro profondo, col cuore che le martellava nel
pe o. Era da molto tempo che non provava più quella sensazione.
Per la prima volta dopo anni, il siden tornava ad ardere.
Qualcosa si stava avvicinando. Doveva aver aperto una breccia
nelle difese costiere per essersi spinto fin lì. Oppure averle distru e.
Ci fu un lampo, simile a un raggio di sole che irrompeva tra le
nubi, rovente al punto da seccarle occhi e labbra, quindi un wyrm
emerse volando oltre il muro di cinta. Incenerì arcieri e artiglieri,
riducendo in pezzi un’intera fila di catapulte. Truyde si ge ò a terra.
A Ead bastò valutarne la mole per capire. Un Grande dell’Ovest.
Mostruoso dalle fauci alla mazza della coda ricoperta di spine letali.
Il suo ventre martoriato di cicatrici era rosso ruggine, mentre il resto
del corpo nero come catrame. Dalle torri di guardia, il clangore di
una pioggia di frecce si abba é sulle sue scaglie.
Le frecce erano inutili. I mosche i erano inutili. Quello non era un
wyrm qualunque, e nemmeno un Grande dell’Ovest come gli altri.
Nessuno aveva mai posato gli occhi su quella creatura, ma Ead
conosceva il suo nome.
Fýredel.
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Colui che si proclamava ala destra del Senza Nome. Fýredel, che
durante l’Era Dolente aveva radunato l’Armata Draconica e l’aveva
guidata contro l’umanità.
Era sveglio.
La bestia sorvolò il Palazzo di Ascalon, proie ando su prati e
cortili la sua ombra immane. Ead, con la pelle che le sco ava, provò
un conato di nausea mentre il fetore della creatura incendiava il
siden nel suo sangue.
Aveva lasciato l’arco in camera, fuori portata. Anni di abitudine le
avevano fa o abbassare la guardia.
Fýredel a errò sulla Torre dei Sospiri, la avvolse con la coda e
piantò gli artigli nel te o. Le tegole si sgretolarono, me endo in fuga
guardie e servitori al di so o.
Aveva la testa incoronata da due tremendi corni, occhi come pozzi
di magma scintillanti nell’oscurità.
«REGINA SABRAN .»
Le sue parole riecheggiarono nella vastità del cielo, raggiungendo
mezza Ascalon.
«SEME DI GLORIAN CUORE INVITTO. » Altre pietre piovvero giù dal
te o, insieme a una cascata di frecce che gli si staccò dalle scaglie.
«VIENI AD AFFRONTARE IL TUO ANTICO NEMICO, O GUARDA BRUCIARE
LA TUA CITTÀ .»
Sabran non avrebbe accolto la sfida. Qualcuno gliel’avrebbe
impedito. Il Concilio delle Virtù avrebbe inviato un rappresentante
per tra are con lui.
Fýredel scoprì le sfavillanti zanne metalliche. La Torre
Alabastrina era troppo alta perché Ead riuscisse a scorgere il balcone
all’ultimo piano, ma le bastò tendere le orecchie per carpire il suono
di una seconda voce: «Eccomi, abominio».
Ead si sentì gelare.
Sciocca. Folle. Mostrandosi, Sabran aveva firmato la propria
condanna a morte.
Grida si levarono da ogni angolo del palazzo. Cortigiani e
servitori si sporgevano dalle finestre per osservare il male giunto tra
loro. Altri correvano impazziti ai cancelli. Ead si precipitò alla Scala
Privata.
«E così ti sei svegliato, Fýredel» disse Sabran con disprezzo.
«Perché sei qui?»
«Sono venuto a darti un avvertimento, regina di Inys. Il tempo di
scegliere da che parte stare si avvicina.» Fýredel emise un sibilo che
a Ead fece venire la pelle d’oca. «I miei simili si riscuotono nelle loro
gro e. Mio fratello Orsul ha già preso il volo e nostra sorella Valeysa
farà presto altre anto. Prima della fine dell’anno l’intera schiera si
sarà risvegliata. L’Armata Draconica risorgerà.»
«Risparmiati gli avvertimenti» rispose Sabran. «Non ho paura di
te, lucertola. Le tue minacce hanno la consistenza del fumo.»
Le loro parole rombavano come tuoni nella testa di Ead. I miasmi
emanati da Fýredel le torturavano i sensi.
«Il mio padrone freme nell’Abisso» sibilò il wyrm con un guizzo
di lingua. «I mille anni sono quasi trascorsi. La tua casata ci era
nemica prima, Sabran Berethnet, nel periodo che chiamate Era
Dolente.»
«Il mio antenato vi ha dato un assaggio della tempra di Inys, e io
ve ne darò un altro se serve» gli gridò contro Sabran. «Parli di mille
anni, wyrm. Quali menzogne va dicendo la tua lingua biforcuta?»
La sua voce era acciaio puro.
«Lo scoprirai tra non molto.» Il wyrm allungò il collo per
avvicinare il muso all’altra torre. «Ti concedo la possibilità di
piegarti al mio padrone e assumere il titolo di Simularca di Inys.» Il
fuoco gli ardeva nelle pupille. «Vieni con me. Arrenditi. Fa’ la scelta
giusta, come Yscalin. Oppure resisti e brucia.»
Ead guardò la torre dell’orologio. L’arco era fuori portata, ma non
era la sola arma che aveva.
«Le tue bugie non faranno breccia in nessun cuore inysh. Io non
sono re Sigoso. Il mio popolo sa che il tuo padrone non può
risvegliarsi finché sopravvive la stirpe del Santo. Se credi che
riba ezzerò mai questa terra “Reginato Draconico di Inys”, resterai
molto deluso, wyrm.»
«Sostieni che la tua stirpe protegga il paese,» replicò Fýredel
«eppure sei venuta fuori ad affrontarmi.» Le sue zanne eme evano
un bagliore rosso vivo. «Non temi il mio fuoco?»
«Il Santo mi proteggerà.»
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Nemmeno il più folle degli invasati poteva credere che Sir Galian
Berethnet avrebbe allungato un braccio dalla sua corte celeste e
salvato la regina da una vampata di fuoco.
«Chi ti sta di fronte conosce bene la debolezza della carne. Ho
ucciso Sabran l’Ardita il primo giorno dell’Era Dolente. Il tuo Santo»
aggiunse Fýredel in uno sbuffo di fumo «non l’ha prote a.
Inginocchiati e ti risparmierò la sua fine. Non farlo e preparati a
raggiungerla.»
Se Sabran rispose, Ead non la sentì. Il vento le ruggiva nelle
orecchie mentre a raversava di corsa il Giardino della Meridiana. Le
frecce degli arcieri si abba evano una dopo l’altra su Fýredel, ma
nessuna penetrava la sua corazza.
Sabran avrebbe continuato a provocarlo fino a farsi incenerire.
Quella testa di legno doveva davvero essere convinta che il suo
stupido Santo l’avrebbe prote a.
Ead superò la Torre Alabastrina. Una valanga di macerie piovve
dall’alto, abba endosi su una guardia proprio davanti a lei.
Maledicendo l’intralcio della gonna, raggiunse finalmente la
Biblioteca Regia, irruppe all’interno e sfrecciò tra gli scaffali fino a
raggiungere l’ingresso della torre dell’orologio.
Si sganciò mantello e cintura, quindi prese a salire le scale, sempre
più in alto.
Fuori, Fýredel era ancora occupato a deridere la regina. Ead si
fermò in cima al campanile, dove il vento ululava tra le bifore, e
assiste e a una scena surreale.
La regina di Inys era sul balcone più alto della Torre Alabastrina,
che sorgeva a sudest di quella dei Sospiri, dove Fýredel era
appollaiato, pronto a distruggerla. Su una torre il wyrm, sull’altra la
regina. La donna stringeva tra le mani il pugnale cerimoniale,
simbolo di Ascalon, la Vera Spada.
Inutile.
«Lascia la ci à senza altri morti» gridò «o, lo giuro sul sangue del
Santo che mi scorre nelle vene, preparati a una disfa a peggiore di
tu e quelle che la Casata di Berethnet abbia mai infli o alla tua
specie.» Fýredel scoprì nuovamente le zanne, ma Sabran incede e di
un altro passo. «Fosse anche l’ultima cosa che faccio, assisterò al
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vostro tracollo, vi vedrò esiliati per sempre nelle viscere della
montagna.»
Fýredel si impennò con le ali spalancate. Di fronte alla sua mole
colossale la regina di Inys non era altro che un esserino indifeso.
Eppure non si ritrasse.
Le pupille del wyrm bramavano sangue, ardenti come il fuoco
dentro il suo stomaco. Ead sapeva di avere solo un a imo per
decidere cosa fare.
Doveva essere uno scudo di vento. Incantesimi come quello
consumavano una gran quantità di siden, e a lei ne era rimasto
davvero poco… ma forse, sforzandosi al massimo, poteva generarne
uno per Sabran.
Allungò una mano verso la Torre Alabastrina, chiamò a raccolta il
siden e avvolse la regina di Inys in una spirale prote iva.
Nell’istante in cui Fýredel scatenò il suo fuoco, anche Ead liberò
un potere a lungo sopito. Le fiamme si scontrarono con la pietra
antica. Sabran scomparve in un turbine di fumo e luce. Ead ebbe la
vaga percezione di Truyde che la raggiungeva sul campanile, ma
ormai era tardi per nascondersi.
Concentrò i sensi su Sabran. Avvertì la tensione dell’intreccio
prote ivo a orno alla regina, il fuoco che lo ava per avere la meglio,
la fi a di dolore provocato dal consumarsi del siden nel suo sangue.
Aveva il corse o impregnato di sudore, il braccio le tremava per lo
sforzo di tenerlo teso.
Quando Fýredel chiuse la bocca, calò il silenzio. Dalla torre si
innalzavano pennacchi di vapore nero, che poco per volta si diradò.
Ead, col cuore come un tamburo, rimase in a esa di veder emergere
la figura dal fumo.
Sabran Berethnet era illesa.
«Ora tocca a me darti un avvertimento, dire amente dal mio avo»
disse quasi senza fiato. «Se dichiarerai guerra a Virtudom, il suo
sacro sangue estinguerà il tuo fuoco una volta per tu e.»
Fýredel non la stava ascoltando. Non più. Fissava la pietra
carbonizzata e il cerchio immacolato intorno a Sabran.
Un cerchio perfe o.
Le sue narici freme ero, gli occhi si ridussero a fessure. Sapeva
riconoscere uno scudo. Ead rimase paralizzata come una statua
mentre lo sguardo spietato del wyrm perlustrava il palazzo, e
nemmeno Sabran accennava a muoversi. Quando la bestia annusò
l’aria rivolta verso il campanile, Ead seppe che aveva riconosciuto il
suo odore e uscì dall’ombra dell’orologio.
Fýredel scoprì le zanne in un ringhio. Le spine gli si rizzarono
sulla schiena e un lungo sibilo gli fece vibrare la lingua. Reggendo il
suo sguardo, Ead estrasse il pugnale e glielo puntò contro.
«Sono qui» disse piano. «Sono qui.»
Il Grande dell’Ovest emise un ruggito di rabbia. Con uno sca o
delle zampe possenti si lanciò giù dalla Torre dei Sospiri,
trascinando con sé parte della guglia e quasi tu a la facciata
orientale. Quando una palla di fuoco esplose contro la torre
dell’orologio, Ead fece appena in tempo a ripararsi dietro una
colonna.
Il frastuono delle ali parve allontanarsi. Ead corse alla balaustra e
vide Sabran ancora sul balcone, ferma nel cerchio di pietra chiara.
L’arma le era caduta dalle mani. Non aveva alzato lo sguardo verso il
campanile, né visto Ead che la osservava. Quando Combe la
raggiunse, si accasciò su di lui, che si affre ò a trascinarla dentro la
Torre Alabastrina.
«Cos’hai fa o?» gracchiò una voce alle spalle di Ead. Truyde. «Ti
ho vista. Cos’hai fa o?»
Ead si lasciò scivolare a terra. Le girava la testa e un tremito
violento le scuoteva il corpo.
L’essenza nel suo sangue si era esaurita. Sentì le ossa cave, la pelle
scorticata come dopo una tortura. Doveva tornare all’albero delle
arance, mordere anche un solo fru o. L’arancio l’avrebbe salvata…
«Sei una strega!» Truyde indietreggiò, pallida come un cencio.
«Strega. Pratichi la magia, io ti ho vis…»
«Tu non hai visto niente.»
«Era aeromanzia» proseguì Truyde in un sussurro. «Ora conosco
il tuo di segreto, ed è assai peggiore del mio. Chissà se anche dal
rogo riuscirai a dare la caccia a Triam.»
De o questo, si diresse verso la scala. Ead lanciò il pugnale.
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Anche così malrido a, non aveva perso la mira. Con un flebile
gemito Truyde si ritrovò il mantello inchiodato allo stipite. Prima
che potesse liberarsi, Ead la raggiunse.
«Ho il compito di uccidere i servi del Senza Nome, ma elimino
anche chiunque tradisca la casata di Berethnet» sibilò. «Se hai
intenzione di accusarmi di stregoneria davanti al Concilio delle
Virtù, ti suggerisco di recuperare delle prove… e di farlo in fre a,
prima che io mi costruisca dei feticci di te e del tuo amato e li
pugnali al cuore. Credi forse che Triam Sulyard sia al sicuro solo
perché si trova in Oriente?»
Truyde ansimava forte.
«Se alzi anche solo un dito su di lui,» mormorò «ti farò bruciare
viva in Piazza Marian.»
«Il fuoco non ha alcun potere su di me.»
Le liberò il mantello. Truyde si accasciò contro il muro
boccheggiando, una mano stre a alla gola.
Ead si volse verso la porta. Sentiva il respiro rapido e bollente, le
orecchie le fischiavano.
Riuscì a scendere un solo gradino prima di accasciarsi.
10
Oriente
Ginura era all’altezza dei sogni di Tané. Da quando era piccola, si era
figurata la capitale in mille modi diversi: a seconda di quello che le
raccontavano le sagge istru rici, la sua fantasia aveva partorito un
miraggio di torri e navi e sale da tè.
Ma la realtà rispecchiava l’immaginazione. I templi erano più
grandi di qualunque edificio di Capo Hisan, le strade luccicavano
come sabbia so o il sole, e sulla superficie dei canali galleggiavano
petali di fiori. Più abitanti, però, equivalevano a più rumore e
confusione. L’aria era nera di fumo. Buoi trainavano carri traboccanti
di merci, tra le case i corrieri sfrecciavano a piedi o a cavallo, cani
randagi si aggiravano in mezzo a cumuli di spazzatura e di tanto in
tanto un ubriacone inveiva contro la folla.
E che folla. A Tané Capo Hisan era parsa caotica, ma di fronte ai
centomila abitanti di Ginura la ragazza per la prima volta si rese
conto di quanto fosse piccolo il mondo in cui aveva vissuto.
I palanchini condussero gli apprendisti nei meandri della ci à.
Sfolgoranti di foglie giallo burro, gli alberi estivi erano straordinari
come le era stato riferito, e i musici di strada suonavano una melodia
che Susa avrebbe adorato. In cima a un te o, Tané intravide una
coppia di macachi, mentre in strada i mercanti offrivano strillando
seta, stagno, caviale verde del Nord.
Mentre oltrepassavano ponti e canali sui palanchini, la gente
voltava loro le spalle, come sentendosi indegna di guardare negli
occhi un Guardiano dei Mari. Tra la folla c’erano anche uomini-
pesce, come i ci adini di Capo Hisan li chiamavano con disprezzo:
cortigiani abbigliati quasi fossero appena emersi dalle acque
dell’oceano. Si diceva che alcuni di loro raschiassero via le squame
dei pesci arcobaleno e se le intrecciassero tra i capelli.
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Quando vide il Castello di Ginura per la prima volta, a Tané
mancò il respiro. I te i erano del colore del corallo sbiancato dal sole,
le mura simili a ossi di seppia. Era stato proge ato per assomigliare
al Palazzo delle Molte Perle, dove i draghi seiikinesi andavano in
letargo ogni anno e che si diceva costituisse un ponte tra il mare e il
piano celeste.
Un tempo, quando i draghi disponevano ancora dei loro pieni
poteri, non avevano bisogno di una stagione di riposo.
Il corteo si fermò alle porte della Scuola della Guerra di Ginura,
dove i Guardiani dei Mari avrebbero affrontato l’ultima selezione.
Era la più antica e prestigiosa istituzione di quel tipo, sede di alloggi
per i militari intenzionati a proseguire la formazione nell’arte della
guerra. Era lì che Tané avrebbe dovuto dimostrarsi all’altezza del
Clan Miduchi. Era lì che avrebbe dato prova delle abilità che affinava
fin dalla tenera infanzia.
Il cielo rombava di tuoni. Quando scese dal palanchino, le gambe,
informicolite dopo un viaggio tanto lungo, le cede ero. Turosa
scoppiò a ridere, e un servitore dove e sostenerla.
«Vi aiuto io, onorevole signora.»
«Grazie molte» disse Tané. Dopo essersi assicurato che poteva
farcela da sola, le aprì un ombrello sopra la testa.
Le prime gocce di pioggia le bagnarono gli stivali mentre si
dirigeva insieme agli altri verso il portone, gustandosi i magnifici
intarsi a foglie d’argento sul legno levigato dal mare. I grandi
guerrieri della storia seiikinese incisi sul timpano parevano cercare
riparo dal temporale. Tané riconobbe la stimata principessa Dumai e
il Primo Signore della Guerra. Eroi della sua infanzia.
Appena entrati si tolsero gli stivali. Nell’ingresso li a endeva una
donna dall’acconciatura elaborata.
«Benvenuti a Ginura» salutò in tono freddo. «Trascorrerete la
ma ina nei vostri alloggi, per lavarvi e riposarvi. A mezzogiorno
avranno inizio le prove dell’acqua, durante le quali sarete osservati
dall’onorevole Generale dei Mari e da coloro di cui potreste
diventare pari.»
Il Clan Miduchi. Tané non vedeva l’ora.
La donna li scortò per la scuola, a raverso portici e cortili. A
ciascun guardiano veniva assegnata una piccola stanza. Tané finì
all’ultimo piano, accanto agli altri tre apprendisti migliori. La sua
camera dava su un cortile o dove il temporale faceva ribollire le
acque di uno stagno abitato da pesci.
Gli abiti da viaggio puzzavano: non li cambiava dall’ultima sosta
in una pensione sulla strada, tre giorni prima.
Dietro un paravento c’era una vasca di cipresso piena d’acqua su
cui galleggiavano petali e scie di oli profumati. Immergendosi, con i
capelli sciolti che le formavano un’aureola tu o a orno, ripensò a
Capo Hisan. A Susa.
Se la sarebbe cavata. Era come un ga o, Susa, a errava sempre in
piedi. Quando erano piccole e Tané andava spesso a farle visita in
ci à, la sua amica sgraffignava radici di loto fri e e prugne salate,
dileguandosi come una volpe se qualcuno la sorprendeva. Poi
trovavano un nascondiglio dove ingozzarsi con la refurtiva e ridere a
crepapelle. Si ricordava di aver visto Susa spaventata un’unica volta,
il giorno del loro primo incontro.
L’inverno quell’anno era stato lungo e pungente. Una sera
particolarmente rigida, Tané e una delle istru rici si erano spinte
fino a Capo Hisan per comprare legna da ardere. Mentre la maestra
discuteva con un commerciante, Tané si era allontanata per scaldarsi
le mani vicino alle braci.
In quel momento aveva sentito le risate, e il grido d’aiuto
strozzato. Poco lontano, tra i cumuli di neve di un vicolo nascosto,
una bambina veniva presa a calci da una banda di teppisti. Tané
aveva sfoderato la spada di legno con un urlo. Aveva undici anni,
ma sapeva già come usarla.
I teppisti di Capo Hisan erano ossi duri. Uno di loro, nel tentativo
di cavarle un occhio, le aveva lacerato la guancia lasciandole una
cicatrice a forma di amo da pesca.
Susa, un’orfana senza casa, era stata pestata per aver rubato un
pezzo di carne dall’altare di un santuario. Una volta messi in fuga i
ragazzini, Tané aveva chiamato in aiuto la maestra. Susa aveva già
dieci anni, era troppo vecchia per entrare nelle Case
dell’Apprendimento, ma presto venne ado ata da una locandiera di
pp p
buon cuore. Lei e Tané erano amiche da allora. Ogni tanto per
scherzo dicevano che avrebbero potuto persino essere sorelle, dato
che Susa non aveva mai conosciuto i suoi genitori.
Sorelle di mare le aveva chiamate Susa una volta. Come due perle
nella stessa ostrica.
Tané uscì dalla vasca.
Quanto era cambiata da quella no e d’inverno. Se una cosa del
genere le fosse accaduta oggi, probabilmente sarebbe giunta alla
conclusione che le risse coi teppisti non si addicevano a
un’apprendista. Avrebbe persino potuto pensare che la bambina
meritava una punizione per aver rubato cibo destinato agli dèi. C’era
stato un momento nella sua vita in cui si era resa conto di quanto
fosse fortunata ad avere la possibilità di diventare cavaliere di
draghi. Era stato allora che il suo cuore si era indurito, come la
chiglia di una nave coperta di cirripedi.
Eppure, da qualche parte, conservava ancora qualcosa della
giovane Tané: era ciò che l’aveva spinta a nascondere l’uomo della
spiaggia.
Non poteva perme ersi di essere stanca il primo giorno di
addestramento. Si asciugò, infilò la vestaglia stirata che c’era sul le o
e dormì.
Quando riaprì gli occhi, fuori pioveva ancora, ma un debole
spiraglio di luce tentava di farsi strada tra le nubi. Asciu a e pulita,
si sentiva la mente fresca e sgombra.
Di lì a poco giunse un gruppe o di servitori. Nessuno la vestiva
più da quando era bambina, ma ritenne meglio lasciar fare.
La prima prova avrebbe avuto luogo nell’arena centrale della
scuola, dove li a endeva il Generale dei Mari. I guardiani presero
posto sugli spalti di pietra. I draghi erano già arrivati e osservavano
la scena dall’altro dei te i. Tané si sforzò di non fissarli.
«Benvenuti alla prima prova dell’acqua. Siete in cammino da
giorni, ma ai Guardiani dei Mari è concesso poco tempo per il
riposo» esordì il generale. «Oggi darete prova della vostra abilità con
l’alabarda. Cominciamo pure con due apprendisti altamente
raccomandati dai loro insegnanti. Onorevole Onren della Casa
d’Oriente e onorevole Tané della Casa di Mezzogiorno… vediamo
chi di voi è la migliore.»
Tané si alzò, con un nodo che le serrava la gola. Giunta ai piedi
degli spalti, un uomo le porse un’alabarda: era un’arma lunga e
leggera, col manico chiaro di quercia e una lama d’acciaio ricurva in
cima. La sfilò dal fodero laccato per sfiorarla con le dita.
Nella Casa di Mezzogiorno aveva maneggiato solo armi di legno.
Adesso finalmente era il momento dell’acciaio. Quando anche Onren
ebbe preso la sua alabarda, camminarono l’una incontro all’altra.
Onren sogghignava, mentre Tané fece di tu o per mantenere
un’espressione neutra, anche se i palmi le sudavano. Le pareva di
avere una farfalla intrappolata nel pe o. L’acqua dentro di te è fredda le
aveva de o un tempo l’istru rice. Ogni volta che tieni in mano
un’arma, ti trasformi in un fantasma senza volto. Non lasci trasparire
nulla.
Si inchinarono. Una calma assoluta si impadronì della sua mente,
come la quiete che scende al crepuscolo.
«Prego» ordinò il generale.
Senza un a imo di esitazione, Onren le si scagliò contro. Tané
roteò l’alabarda con entrambe le mani, e le lame si scontrarono con
un clangore. Onren emise un breve grido selvaggio.
Tané rimase muta.
La sua avversaria si sfilò dall’intreccio e indietreggiò di qualche
passo, con l’alabarda tesa davanti a sé. Tané aspe ava la sua
prossima mossa. Doveva esserci una ragione se Onren era
considerata la migliore apprendista della Casa d’Oriente.
Quasi leggesse nei suoi pensieri, l’altra prese a far mulinare l’arma
intorno al corpo, passandosela con scioltezza da una mano all’altra.
Tané serrò i denti davanti a quello sfoggio di disinvoltura.
Onren usava meglio la parte destra del corpo, evitava di caricare
troppo peso sul ginocchio sinistro. Tané si ricordò in quel momento
che da bambina era stata colpita da un cavallo.
Incoraggiata da quel pensiero, avanzò con l’alabarda sollevata.
Onren le andò incontro, e questa volta fu tu o più veloce. Uno, due,
tre colpi. A ogni affondo, Onren abbaiava insulti indistinti, mentre
Tané schivava in silenzio.
Qua ro, cinque, sei. Tané roteava l’alabarda usando il manico tanto
quanto la lama.
Se e, o o, nove.
Quando Onren tentò un colpo dall’alto, Tané brandì l’alabarda in
un arco ascendente: sollevò l’estremità inferiore dell’arma spingendo
di lato quella dell’avversaria, che si ritrovò esposta. Onren si riprese
appena in tempo per bloccare la stoccata successiva, e quando
a accò di nuovo Tané sentì la lama sfiorarle il viso. Portò d’istinto
una mano all’orecchio per vedere se sanguinava, ma non trovò nulla.
L’a imo di distrazione le costò caro. Onren si abba é su di lei
come una furia di legno e acciaio, scatenando tu a la sua
considerevole forza. Comba evano per l’onore, per la gloria, per il
sogno che coltivavano da quando erano bambine. Tané strinse i denti
per lo sforzo di schivare i colpi avversari, col sudore che le
inzuppava la tunica e le incollava i capelli alla nuca. Un drago
sbuffò.
Ricordarsi della loro presenza rinvigorì la sua determinazione.
Sapeva che l’unico modo per vincere lo scontro era incassare un
colpo.
Lasciò quindi che Onren le abba esse il manico dell’alabarda sul
braccio, abbastanza da ferirla. Il dolore fu tremendo. Onren
impugnava l’arma come una fiocina. Tané arretrò lasciandole largo
spazio d’azione… quindi, quando l’altra alzò le braccia per menare
l’ultimo fendente, fece una piroe a e la colpì con tu a la forza che
aveva sul ginocchio debole. A conta o con l’osso, il legno del manico
si spezzò di ne o.
Onren cadde con un gemito: il ginocchio aveva ceduto. Prima che
potesse rialzarsi, Tané le preme e la lama fra le spalle.
«In piedi» disse compiaciuto il generale. «Ben fa o. Onorevole
Tané della Casa di Mezzogiorno, la vi oria è tua.»
Applausi tra il pubblico. Tané restituì l’alabarda a un servo e
porse la mano a Onren.
«Ti ho fa o male?»
La giovane acce ò l’aiuto. «Insomma» rispose ansimando. «Mi hai
spezzato una rotula, credo.»
Un soffio di aria gelida le colpì sulla schiena. Il Lacustrino verde
sorrise a Tané da sopra il te o, mostrando la fi a dentatura. Per la
prima volta, Tané osò rispondere.
Ci mise un a imo a rendersi conto che Onren le stava ancora
parlando.
«Scusami» disse, con la testa che le ronzava di gioia. «Che cosa hai
de o?»
«Rifle evo su come dietro un faccino gentile possa nascondersi il
più feroce dei guerrieri.» Si salutarono con un inchino, quindi Onren
indicò con un cenno gli spalti dove gli altri continuavano ad
applaudire. «Guarda Turosa. Sa che gli toccherà affrontarti.»
Tané seguì il suo sguardo. Non aveva mai visto Turosa così
arrabbiato… e risoluto.
11
Occidente
Per ora le prove sono difficili come immaginavo. Oggi il mio cavallo è scivolato, e ne ho
pagato il prezzo.
Mi alleno fino allo sfinimento, ma i miei compagni sembrano raggiungere gli stessi
risultati senza bisogno di sgobbare tanto. Bevono, fumano e si divertono mentre io non
riesco a pensare ad altro che a perfezionarmi. Sono qua ordici anni che mi preparo per
questo momento, e l’acqua in me non scorre come dovrebbe… ho paura, Susa.
Questi qua ordici anni non hanno alcun valore qui. Veniamo giudicati per chi siamo
oggi, non per quello che siamo stati.
Consegnò la le era a un servitore chiedendogli di spedirla a Capo
Hisan, quindi si stese a le o ad ascoltare il suono del proprio
respiro.
Da fuori veniva il bubolare di un gufo. Dopo qualche minuto si
alzò e uscì dalla stanza.
Meglio allenarsi un altro po’.
Poi venne la prova con i coltelli. Anche in quel caso gli apprendisti si
sfidavano so o gli occhi del Generale dei Mari e di un gruppo di
sconosciuti in toga azzurra: altri membri del Clan Miduchi che
avevano sostenuto a loro volta le prove dell’acqua ormai
cinquant’anni prima. Le persone di cui Tané sperava di seguire le
orme, ammesso che il corpo non la tradisse all’ultimo momento.
Teneva gli occhi fissi e sgranati come un pesce. Mentre
impugnava i coltelli, le sembrò di avere le mani sudate e maldestre,
ma riuscì ad aggiudicarsi il secondo posto dopo Turosa, che doveva
all’abilità con i coltelli la propria fama nella Casa di Se entrione.
Turosa aveva appena o enuto il suo punteggio perfe o quando
Onren irruppe nella sala, con i capelli sciolti e arruffati. Il Generale
dei Mari si incupì, ma la ragazza si limitò a fargli un inchino e
dirigersi spedita verso i coltelli.
Quando, di lì a pochi istanti, anche Kanperu fece la sua comparsa,
il generale si accigliò sul serio. Onren impugnò il coltello, assunse la
posizione e lo scagliò contro il primo fantoccio al lato opposto della
sala.
Tu i i tiri andarono a segno.
«Punteggio perfe o,» commentò il generale «ma non presentatevi
mai più in ritardo, onorevole Onren.»
«Sì, onorevole generale.»
Quella no e i guardiani vennero svegliati dai servitori che li
scortarono, ancora in vestaglia, fino a una schiera di palanchini. Tané
prese posto sul suo, rosicchiandosi le unghie fin quasi a raggiungere
la carne viva.
I palanchini li condussero in mezzo al bosco, sulla sponda di un
vasto lago sorgivo increspato da goccioline di pioggia.
g g p g p gg
«Capita spesso che i membri della Guardia dei Mari si debbano
alzare in piena no e per proteggere Seiiki. In acqua dobbiamo essere
come pesci, perché non sempre avremo a disposizione una barca o il
nostro drago» spiegò il generale. «O o perle danzanti giacciono
so o la superficie di questo lago. Chiunque ne trovi una si mostrerà
degno di una valutazione più alta.»
Turosa aveva già iniziato a spogliarsi. Lentamente, Tané si sfilò la
vestaglia e si immerse fino al pe o.
Ventisei guardiani e o o perle soltanto. Non sarebbe stato facile
trovarne una nel buio.
Chiuse gli occhi cercando di non pensarci, quindi, al cenno del
generale, si tuffò.
L’acqua la avvolse. Dolce, pulita, fresca sulla pelle. Con i capelli
che le flu uavano a orno simili ad alghe, Tané si girò su se stessa
alla disperata ricerca di un bagliore verde-argento.
Onren entrò in acqua senza sollevare neanche uno schizzo. Si
immerse, recuperò il tesoro e affiorò in superficie con un unico
movimento fluido. Nuotava davvero come un drago.
Decisa a essere la prossima, Tané si spinse più giù. La corrente,
ragionò, avrebbe portato le perle verso ovest. Con un’abile giravolta
raggiunse il fondale del lago e da qui procede e nuotando solo con
le gambe, mentre le mani frugavano nel limo.
Quando ormai stava per mancarle il fiato, le dita incontrarono una
pallina dura. Riemerse quasi all’unisono con Turosa, che si scostò i
capelli dagli occhi per esaminare la perla appena trovata.
«Perle danzanti, degne dei prescelti» disse. «Un tempo erano
simbolo di alto lignaggio, di origini nobili.» Fece un ghigno
sprezzante. «Oggi le si vede addosso a tanti di quei plebei che
sembrano solo pacco iglia.»
Tané lo fissò dri o negli occhi. «Nuoti bene, onorevole Turosa.»
Il commento parve divertirlo. «Oh, paesano a. Ti umilierò al
punto che non perme eranno mai più a un plebeo di insozzare il
Clan Miduchi.» La superò con due bracciate. «Preparati alla
sconfi a.»
Raggiunse la sponda del lago, seguito a distanza da Tané.
A quanto si diceva, nella prova finale si sfidavano tra loro gli
apprendisti migliori. Tané aveva già comba uto contro Onren,
dunque la scelta restava fra Turosa e Dumusa.
Dei due, il primo era disposto a tu o pur di annientarla.
Cárscaro.
Capitale del Regno Draconico di Yscalin.
La ci à, che sorgeva tra le montagne al di sopra di una vasta
pianura, era arroccata in cima a una cresta dei Fusi, la catena
innevata che divideva Yscalin dall’Ersyr.
Mentre la carrozza si avvicinava ai monti, Loth sbirciò fuori dal
finestrino. Nella sua vita aveva sentito molte storie su Cárscaro, ma
non avrebbe mai immaginato che un giorno l’avrebbe vista di
persona.
Yscalin era diventata la seconda componente dell’Armatura di
Virtudom quando re Isalarico Quarto aveva sposato la regina
Glorian Seconda. Per amore della moglie, aveva rinnegato gli antichi
dèi della sua nazione e giurato fedeltà al Santo. A quei tempi
Cárscaro era celebre per i balli in maschera, la musica, gli alberi di
pere rosse che ornavano le sue strade.
Niente di simile esisteva più. Da quanto Yscalin aveva ripudiato la
secolare devozione al Santo e cominciato a venerare il Senza Nome
come un dio, si era fa o tu o il possibile per indebolire Virtudom.
L’alba stava per sorgere, luminosi filamenti di nuvole apparvero
al di sopra della Grande Piana di Yscalin. Una volta, quell’immensa
distesa di terra era tappezzata di lavanda e al primo soffio di vento la
ci à intera veniva pervasa da un dolce aroma.
Loth rimpianse di non averla vista all’epoca; oggi non rimaneva
altro che una landa desolata.
«Quante anime conta Cárscaro?» chiese a Lady Priessa, giusto per
distrarsi un po’.
«Circa cinquantamila. È una capitale piccola, la nostra» rispose lei.
«Quando arriveremo, vi verranno mostrate le vostre stanze nella
galleria degli ambasciatori. Quindi, appena sarà disponibile, sarete
ricevuti da Sua Radiosità e potrete esporle le vostre qualifiche.»
«Incontreremo anche re Sigoso?»
«Sua Maestà non si sente bene.»
«Mi dispiace molto.»
Loth preme e la fronte contro il finestrino per osservare la ci à
tra le montagne. Ben presto avrebbe raggiunto il cuore del mistero
che si celava dietro al tradimento di Yscalin.
Un movimento confuso ca urò la sua a enzione. Fece per aprire
la portiera in modo da poter guardare il cielo, ma una mano
guantata glielo impedì.
«Cos’è stato?» chiese Loth nervoso.
«Una coccatrice» rispose Lady Priessa incrociando le mani in
grembo. «Vi consiglio di non allontanarvi mai troppo dal palazzo,
Lord Arteloth. Molte creature draconiche abitano queste montagne.»
Coccatrici. Incroci tra uccelli e viverne. «Costituiscono un pericolo
per gli abitanti?»
«Quando sono affamate a accano qualunque cosa si muova, a
parte chi ha già contra o il morbo. Per questo ci assicuriamo che
siano sempre sazie.»
«E come fate?»
Nessuna risposta.
La carrozza iniziò a inerpicarsi su per il sentiero tra le montagne.
Accanto a Loth, Kit si era appena svegliato dal pisolino e si
stropicciava gli occhi. Si raddrizzò con un sorriso stampato in faccia,
ma Loth intuiva i suoi timori.
Era ormai calata la no e quando il Cancello di Niunda si profilò
all’orizzonte. Colossale quanto la divinità da cui prendeva il nome,
scavato nel granito verde e nero e illuminato da torce, era l’unico
accesso possibile a Cárscaro. Man mano che si avvicinavano, Loth
intravide delle sagome so o l’architrave.
«Cosa sono quelle cose lassù?»
Kit fu più rapido a capire.
«Guarderei da un’altra parte, Arteloth.» Tornò ad appoggiarsi allo
schienale. «Se non vuoi che quest’immagine ti perseguiti per ogni
no e della tua vita.»
Troppo tardi. Ormai aveva visto gli uomini e le donne appesi per i
polsi al cancello. Alcuni parevano già cadaveri o mezzi morti,
mentre altri si diba evano ancora vivi e coperti di sangue.
«È così che manteniamo sazie le creature, Lord Arteloth» spiegò
Lady Priessa. «Con criminali e traditori.»
Per un atroce momento, Loth pensò che avrebbe rimesso il suo
ultimo pasto sui sedili della carrozza.
«Capisco» riuscì a dire, con la bocca inondata di saliva. «O imo.»
Provò l’impulso di farsi il segno della spada, ma da quelle parti
gli sarebbe costato carissimo.
Mentre la carrozza si avvicinava, il Cancello di Niunda si aprì. A
fare la guardia c’erano non meno di sei viverne. Erano più piccole
del loro padrone, il Grande dell’Ovest, e avevano solo due zampe,
ma nei loro occhi ardeva il medesimo fuoco. Loth, superandole,
distolse lo sguardo.
Gli pareva di essere in un incubo: a Yscalin i bestiari e le antiche
storie prendevano vita.
Nel cuore della ci à sorgeva una torre di vetro e roccia vulcanica.
Doveva tra arsi del Palazzo della Salvezza, sede della Casata di
Vetalda. La montagna su cui era stata costruita Cárscaro era tra le
più basse dei Fusi, ma comunque alta abbastanza da avere la cima
nascosta nella nebbia.
Il palazzo era un edificio spaventoso, ma fu il fiume di lava a
sconvolgere Loth. Si biforcava sei volte serpeggiando intorno e
a raverso Cárscaro prima di confluire in una pozza e riversarsi sul
pendio so ostante, dove si raffreddava trasformandosi in vetro
vulcanico.
Le cascate di magma erano apparse per la prima volta una decina
di anni prima. Agli Yscal c’era voluto un po’ di tempo per ricavare
dei canali dal fiume di fuoco. Ormai ad Ascalon correva voce che
fossero un monito inviato dal Santo alla popolazione per avvertirla
che un giorno il Senza Nome sarebbe stato il loro falso idolo.
Le strade si snodavano tra gli edifici come code di ra o, e Loth si
rese conto che a collegarle erano alti ponti di pietra. Gruppi di
persone in abiti pesanti si accalcavano intorno a padiglioni con tende
rosse. Molti avevano il volto coperto da veli. Ovunque si scorgevano
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le più disparate protezioni contro il contagio, dagli amuleti appesi
negli androni alle maschere con gli occhi di vetro culminanti in
lunghi becchi, eppure certe case erano ancora marchiate con la
vernice rossa.
La carrozza li condusse alle grandiose porte del Palazzo della
Salvezza, dove li a endeva una schiera di servitori. Rilievi di
creature draconiche a grandezza naturale formavano un arco sopra
l’ingresso. Sembrava di entrare dri i nel collo dell’Utero di Fuoco.
Loth scese dalla carrozza e porse rigidamente la mano a Lady
Priessa, che la rifiutò. Era stato un gesto sciocco. Melaugo l’aveva
avvertito di tenersi sempre a distanza.
Gli iaculi ringhiarono mentre il trio si allontanava dalla carrozza.
Loth si affiancò a Kit, e insieme seguirono i servitori in un atrio
dall’alto soffi o, cui era appeso un lampadario imponente. Avrebbe
giurato che le fiamme delle candele fossero rosso sangue.
Lady Priessa scomparve dietro una porta laterale. Loth e Kit si
scambiarono un’occhiata perplessa.
Ai fianchi della maestosa scalinata ardeva una coppia di bracieri,
da cui un servitore a inse per accendere la torcia. Scortò Loth e Kit
lungo corridoi deserti e passaggi nascosti dietro arazzi e finte pareti,
su per scale ripide e anguste che lasciarono Loth ancora più nauseato
di quanto già non fosse, oltre ritra i a olio di antichi monarchi di
Vetalda, quindi finalmente dentro una galleria con il soffi o a volta.
Il servo indicò una porta, poi un’altra, e diede loro due chiavi.
«Potremmo per caso avere qualcosa da…» iniziò a dire Kit, ma
l’uomo era già scomparso dietro un arazzo. «… mangiare.»
«Mangeremo domani» disse Loth. In quel corridoio ogni parola
rimbombava. «Chi altri credi che alloggi qui?»
«Non me ne intendo molto di ambasciatori stranieri, ma
immagino ci sarà qualcuno da Mentendon.» Kit si massaggiò lo
stomaco brontolante. «Hanno le mani in pasta ovunque.»
Vero. Si diceva che non esistesse alcun posto al mondo dove un
Mentese si sarebbe rifiutato di andare.
«Vediamoci qui a mezzogiorno» propose Loth. «Dobbiamo
confrontarci sul da farsi.»
Kit lo salutò con una pacca sulla spalla prima di ritirarsi in una
delle due stanze. Loth infilò la chiave nella serratura dell’altra.
Gli ci volle qualche minuto per ada are la vista all’oscurità della
camera da le o. Gli Yscal potevano anche aver giurato fedeltà al
Senza Nome, ma chiaramente non risparmiavano sulla
manutenzione degli alloggi degli ambasciatori. Sulla parete a ovest
erano allineate nove finestre, di cui una più piccola; a uno sguardo
più a ento, quest’ultima si rivelò la porta di accesso a un balcone
coperto.
Un le o a baldacchino troneggiava all’estremità se entrionale
della stanza, e accanto a questo un candeliere di ferro. Le candele
erano di cera madreperlacea, con fiamme effe ivamente rosse. Rosso
sangue. Poco lontano giaceva il suo bagaglio. Sulla parete opposta al
le o, dietro una tenda di velluto, scoprì una vasca di pietra piena
fino all’orlo di acqua fumante.
Le finestre davano l’impressione che l’intera Yscalin potesse
vedere dentro la stanza. Tirò le tende e soffiò sulle candele per
lasciarne accesa giusto qualcuna. Spegnendosi, emanarono uno
sbuffo di fumo nero.
Si immerse nell’acqua e fece un lungo bagno. Quando i dolori alle
ossa cominciarono ad affievolirsi, usò una sapone a all’olio d’oliva
per togliersi la cenere dai capelli.
Era possibile che Wilstan Fynch avesse dormito in quella stessa
stanza mentre investigava sull’omicidio della regina Rosarian, la sua
amata. Forse si trovava lì durante l’incendio dei campi di lavanda, e
quando gli uccelli avevano diffuso la notizia che una componente
dell’Armatura di Virtudom era venuta meno.
Loth si versò dell’acqua sul capo. Se dietro l’assassinio della regina
Rosarian si nascondeva qualcuno di Cárscaro, forse la stessa persona
voleva uccidere Sabran. Eliminarla prima che potesse donare
un’erede a Virtudom e far risorgere il Senza Nome.
Con un brivido, Loth uscì dalla vasca e prese l’asciugamano
piegato che trovò lì accanto. Usò il coltello per radersi, lasciando
appena un’ombra di barba e baffi. Nel fra empo il suo pensiero volò
a Ead.
Insieme a lei Sabran era al sicuro, ne era certo. Dal primo
momento in cui l’aveva vista nella Sala dei Banche i, una donna
dalla pelle ambrata, gli occhi guardinghi e il portamento degno di
una regina, era stato invaso da un calore interno. Niente a che vedere
con le fiamme di drago, qualcosa di dolce e dorato come il primo
raggio di luce di un ma ino estivo.
Da più di un anno Margret lo esortava a sposare Ead. Lei era
splendida, lo faceva ridere, potevano parlare per ore. Loth aveva
liquidato quei discorsi, e non solo perché il futuro conte di
Betulladorata non poteva sposare una popolana, come sua sorella
ben sapeva, ma sopra u o perché amava Ead allo stesso modo in
cui amava anche Margret e Sabran. Come una sorella.
Non aveva mai sperimentato il sentimento bruciante riservato ai
compagni di vita. A trent’anni era decisamente maturo per il
matrimonio, e desiderava onorare il Cavaliere di Sodalizio
prendendo parte a quella sacra istituzione.
Ora, forse, non ne avrebbe più avuto la possibilità.
Sul le o era appoggiata una vestaglia di seta, ma lui preferì
indossare la sua, per quanto spiegazzata dal viaggio, prima di uscire
sul balcone.
L’aria era rinfrescante. Loth appoggiò le mani sulla ringhiera.
So o di lui, Cárscaro si estendeva fino al ripido pendio
dell’altopiano. Il bagliore del magma tingeva ogni singola strada.
Loth scorse la sagoma di un essere che scendeva in picchiata dal
cielo per andare ad abbeverarsi al fiume di fuoco.
A mezzano e si distese cauto sul le o tirandosi le coperte fino al
mento.
Quando il sonno lo vinse, sognò lenzuola avvelenate.
La prova finale avrebbe avuto luogo nel cortile. Tané fece colazione
prima dell’alba e andò subito a prendere posto sugli spalti.
Poco tempo dopo la raggiunse Onren. Ascoltarono in silenzio il
rombo remoto di un tuono.
«Allora,» disse infine Onren «ti senti pronta?»
Tané annui, ma poi scosse il capo.
«Anch’io.» Onren offrì il volto alla pioggia sferzante. «Sarai
cavaliere, Tané. I Miduchi giudicano il rendimento complessivo delle
prove dell’acqua, e tu te la sei cavata egregiamente.»
«Questa è la più importante» mormorò Tané. «Useremo
sopra u o la spada. Se non riusciamo a vincere un duello adesso
p p
che siamo a scuola…»
«Sappiamo tu i quanto sei brava con la lama. Andrà benissimo.»
Tané si preme e i palmi tra le ginocchia.
Gli altri cominciavano ad arrivare, e quando furono tu i presenti
comparve anche il Generale dei Mari. Al suo fianco un servitore col
compito di ripararlo dalla pioggia saltellava in punta di piedi
tenendo l’ombrello.
«L’ultima prova è con la spada» annunciò il generale. «Chiamo
per prima l’onorevole Tané, della Casa di Mezzogiorno.»
La ragazza si alzò.
«Onorevole Tané,» disse il generale «oggi comba erai contro
l’onorevole Turosa, della Casa di Se entrione.»
Turosa sca ò in piedi senza un a imo di esitazione.
«Si vince al primo sangue.»
Si incamminarono ai lati opposti del cortile per prendere le spade.
Quindi, con gli occhi fissi in quelli dell’avversario e le lame
sguainate, si ricongiunsero al centro.
Gli avrebbe dimostrato lei di cosa era capace la feccia.
Gli inchini furono rapidi e legnosi. Tané impugnò la spada con
entrambe le mani. Vedeva solo Turosa, i suoi capelli gocciolanti, le
narici dilatate.
Al segnale del Generale dei Mari, Tané si scagliò sull’avversario.
Le loro lame si incrociarono. Il viso di Turosa era tanto vicino al suo
che poteva sentirne il fiato e inalare l’odore pungente del sudore che
gli impregnava la tunica.
«Quando sarò il comandante dei cavalieri» sibilò il ragazzo «farò
in modo che nessun plebeo si avvicini mai più a un drago.» Clangore
di spade. «Tra poco te ne tornerai nella topaia in cui ti hanno
pescata.»
Tané tentò un affondo, e lui parò il colpo a meno di una spanna
dal pe o.
«Ricordami,» continuò a voce bassa «da dov’è che vieni di
preciso?» Spinse via la sua spada. «Ce l’hanno un nome quei cumuli
di merda che considerate villaggi?»
Se sperava di infastidirla insultando una famiglia che non aveva
mai conosciuto, avrebbe dovuto a endere un migliaio d’anni.
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Si avventò su di lei. Tané schivò il colpo e il duello ebbe inizio sul
serio.
La danza con le spade di legno non contava. Qui non c’era alcuna
lezione da imparare, nessuna abilità da perfezionare. Alla fine, il
confronto fu rapido e brutale come l’estrazione di un dente.
Il mondo di Tané si ridusse a un torrente di pioggia e metallo.
Turosa saltò. Tané scartò, deviando il suo fendente, e lui cadde
accovacciato. Fu di nuovo su di lei prima di darle il tempo di
respirare, con la spada lampeggiante come un pesce tra le onde.
Rispose a ogni a acco, finché lui fece una finta e le sferrò un pugno
so o il mento. Un violento calcio nello stomaco la costrinse a terra.
Era una finta facilissima da prevedere, ma la stanchezza aveva
avuto la meglio. Intravide, a raverso la cortina di pioggia, il
Generale dei Mari che la osservava col volto privo di emozione.
«È giusto così, paesana» sogghignò Turosa. «Sta ene per terra. Il
posto della feccia.»
Come un condannato in a esa dell’esecuzione, Tané abbassò il
capo. Turosa la studiò dall’alto, indeciso su dove colpirla per farle
più male. Un passo ancora e fu a portata.
E qui Tané sollevò la testa di sca o, e slanciò le gambe verso
Turosa costringendolo a fare un saltello per evitarle. Si diede la
spinta e volteggiò come un uragano ritrovandosi di nuovo in piedi.
Turosa riuscì a respingere il primo a acco, ma la mossa l’aveva colto
di sorpresa, glielo si leggeva negli occhi. Il suo gioco di piedi si fece
goffo sulle lastre di pietra bagnata, e quando la lama avversaria
tornò ad abba ersi su di lui, fu troppo lento a sollevare il braccio per
pararla.
Un graffio, so ile come un filo d’erba, si disegnò sulla mascella di
Turosa.
Meno di un secondo dopo la sua spada squarciò la spalla di Tané.
La ragazza trasalì mentre lui barcollava via, il volto contra o in un
ringhio schiumante.
Gli altri guardiani allungarono il collo per osservare la scena.
Tané, ansimando, non perdeva di vista l’avversario.
Se non era riuscita a farlo sanguinare, il comba imento era perso.
Lentamente, dal graffio sulla guancia di Turosa fuoriuscì un
rivole o color rubino. Fradicio e tremante, il ragazzo si portò un dito
al volto e trovò la macchia, accesa come un bocciolo di mela cotogna.
Il primo sangue.
«Onorevole Tané della Casa di Mezzogiorno,» annunciò il
Generale dei Mari, e lo fece sorridendo, «la vi oria è vostra.»
Non aveva mai udito parole più dolci.
Quando si inchinò, il sangue le sgorgò dalla spalla come rame
fuso. Il volto di Turosa era una maschera di rabbia. Era caduto nel
tranello, un tranello che non avrebbe ingannato nessuno, perché
aveva so ovalutato l’avversaria. Mentre lui la fissava, Tané comprese
finalmente che non l’avrebbe mai più chiamata “feccia plebea”:
quell’appellativo avrebbe dimostrato che la feccia poteva essere
migliore del vino più pregiato.
L’unico modo per salvarsi la faccia era tra arla da pari.
Uno squarcio di luce si aprì nel cielo mentre il rampollo di
cavalieri si inchinava davanti a lei, più profondamente di quanto
Turosa avesse mai fa o.
17
Occidente
Solo a distanza di molti giorni dal loro arrivo e una volta dichiarati
liberi dal morbo, Loth e Kit vennero ammessi alla presenza della
Donmata Marosa. Durante tu o quel tempo erano rimasti confinati
nelle loro stanze, con guardie schierate in corridoio che impedivano
loro di uscire. Loth ancora rabbrividiva al ricordo del Medico di
Corte, che gli aveva piazzato sanguisughe negli ultimi posti dove le
sanguisughe dovrebbero mai stare.
Fu così che alla fine si ritrovò ad avanzare al fianco di Kit nella
cavernosa sala del trono del Palazzo della Salvezza. Lo stanzone era
gremito di nobili e cortigiani, ma tra loro non c’era traccia del
principe Wilstan.
Al di so o di un sontuoso baldacchino, la Donmata Marosa,
principessa ereditaria del Regno Draconico di Yscalin, stava assisa su
un trono di vetro vulcanico. Aveva il volto coperto da una maschera
di ferro che riproduceva il cranio cornuto di un Grande dell’Ovest. Il
peso di quell’affare doveva essere incredibile.
«Per il Santo,» sussurrò Kit in modo che solo Loth potesse sentirlo
«quello è il muso di Fýredel.»
Di fronte al trono era schierato un manipolo di guardie in
armatura d’oro. Sul baldacchino campeggiava lo stemma della
Casata di Vetalda: una doppia viverna nera con in mezzo una spada
spezzata.
Non una spada qualsiasi: Ascalon, simbolo di Virtudom.
Le dame di corte avevano sollevato i veli neri prote ivi, fissati alla
testa con piccole coroncine elaborate. Lady Priessa Yelarigas stava
alla destra della principessa. Ora che si era scoperta il volto, Loth
poté cogliere l’incarnato pallido e lentigginoso, gli occhi infossati, la
linea fiera della mascella.
Il brusio scemò appena giunsero al cospe o della regina.
«Radiosità,» annunciò il ciambellano «vi presento due
gentiluomini inysh. Lord Arteloth Beck, figlio del conte e della
contessa di Betulladorata, e Lord Kitston Glade, figlio del conte e
della contessa di Fontedimiele. Ambasciatori del Reginato di Inys.»
Il silenzio calò nella stanza, seguito repentinamente da un
mormorio indistinto. Loth si mise in ginocchio e piegò il capo.
«Radiosità,» disse «grazie per averci accolti a corte.»
A un gesto della principessa, i sussurri si interruppero
bruscamente.
«Lord Arteloth e Lord Kitston» li salutò. La maschera di ferro
aggiungeva una strana eco alle sue parole. «Il mio amato padre e io
vi diamo il benvenuto nel Regno Draconico di Yscalin, insieme alle
mie più sincere scuse per il ritardo di questa udienza… altri impegni
mi hanno tenuta occupata.»
«Non avete alcun bisogno di giustificarvi, Radiosità» replicò Loth.
«Sta a voi decidere quando riceverci.» Si schiarì la gola. «Lord
Kitston ha le nostre referenze, se vorrete acce arle.»
«Ma certo.»
Lady Priessa fece segno a un servitore, che prese le le ere da Kit.
«Quando il duca di Cortesia ha scri o a mio padre, il desiderio di
Inys di rafforzare i rapporti diplomatici con Yscalin ci ha rallegrati»
proseguì la Donmata. «Sarebbe un vero peccato se la regina Sabran
anteponesse a un’amicizia di vecchia data semplici… divergenze
religiose.»
Divergenze religiose.
«A proposito di Sabran, sono anni che non ho sue notizie»
aggiunse la Donmata. «Ditemi, ha già una bambina?»
Un muscolo del volto di Loth si contrasse. Trovava ripugnante
che la donna seduta al di so o di quel marchio blasfemo fingesse di
provare affe o per Sabran.
«Sua Maestà non ha ancora preso marito, signora» rispose Kit.
«Manca poco, però.» Appoggiò le mani sui braccioli del trono. Dal
momento che nessuno dei due uomini le rispose, proseguì: «Deduco
che non siate a conoscenza della lieta notizia, miei signori. Di recente
Sabran si è fidanzata con Aubrecht Lievelyn, Illustre Principe del
Libero Stato di Mentendon. Un tempo era il mio promesso sposo».
Loth non poté far altro che restare a fissarla.
Naturalmente sapeva che Sabran prima o poi avrebbe scelto un
compagno, e d’altra parte una regina non aveva alternativa, ma
aveva sempre dato per scontato che avrebbe scelto un uomo di
Hróth, la più rispe ata tra le altre due nazioni di Virtudom. E invece
aveva optato per Aubrecht Lievelyn, bisnipote del defunto principe
Leovart, lo stesso che, malgrado i decenni di differenza anagrafica,
aveva tentato a sua volta di corteggiarla.
«Purtroppo» continuò la Donmata «non sono stata invitata al
matrimonio.» Tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Sembrate
turbato, Lord Arteloth. Avanti, condividete con noi i vostri pensieri.
Temete forse che il Principe Rosso non meriti di dividere il le o con
la sovrana?»
«I sentimenti della regina Sabran sono questioni private» sbo ò
Loth. «Non è questo il luogo in cui discuterne.»
Quando il silenzio della sala venne soppiantato da un’eco di
risate, Loth sentì un brivido risalirgli la spina dorsale. Anche la
Donmata, da dietro la maschera mostruosa, si unì gioiosamente al
coro. «I sentimenti di Sua Maestà saranno pure questioni private, ma
le sue lenzuola no. Dopotu o, si dice che nel momento in cui la
discendenza Berethnet dovesse esaurirsi il Senza Nome farà ritorno.
Se Sabran vuole tenerlo a bada, è dunque meglio che si impegni
nell’aprire le… porte del reginato al principe Aubrecht.»
Altre risate.
«Prego che la discendenza Berethnet prosegua fino alla fine dei
tempi,» si lasciò scappare Loth prima ancora di rendersene conto
«poiché solo questo ci protegge dal caos.»
Con un unico movimento fluido, le guardie sguainarono lo stocco.
Le risate cessarono bruscamente.
«A ento, Lord Arteloth» lo ammonì la Donmata. «Non dite nulla
che possa essere inteso come un’offesa al Senza Nome.» Fece un
cenno alle guardie, che rinfoderarono le spade. «Sapete, mi è giunta
voce che il principe consorte avreste dovuto essere voi. Non vi siete
dimostrato all’altezza di amare una regina?» Prima di dargli il tempo
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di replicare, la donna ba é le mani. «Non ha importanza. Possiamo
porre rimedio e trovarvi una compagna qui a Yscalin. Musici, le
trenta giravolte! Lady Priessa danzerà con Lord Arteloth.»
La dama scese all’istante sul pavimento di marmo, e Loth si
costrinse ad andarle incontro.
Un tempo il ballo delle trenta giravolte era diffuso in molte corti.
Considerandolo eccessivamente promiscuo, Jillian Quinta l’aveva
proibito in quella di Inys, ma le regine dopo di lei si erano
dimostrate più indulgenti. In un modo o nell’altro, quasi tu i i
cortigiani conoscevano i passi.
Lady Priessa fece la riverenza mentre i musici a accavano un
motivo vivace. Anche Loth si inchinò, quindi entrambi si voltarono
verso la Donmata e intrecciarono le dita.
I primi movimenti di Loth furono rigidi, mentre Lady Priessa
danzava leggiadra. Le saltellò a orno in cerchio senza mai toccare
terra coi talloni.
Era un’o ima danzatrice. Si spostavano da una parte all’altra a
passi e balzelli, ora di fronte ora di lato quindi, al crescendo della
musica, con una mano sulla schiena e una sulla vita della ballerina,
Loth la sollevò da terra. Ripeté la mossa più e più volte, finché non
gli dolsero le braccia e il sudore non cominciò a colargli sulla fronte e
sulla nuca.
Sentiva l’affanno di Lady Priessa. Una ciocca di capelli neri le
sfuggì dalla cuffia mentre giravano l’uno a orno all’altra, sempre più
lentamente, finché non si ritrovarono di nuovo per mano di fronte
alla Donmata.
Qualcosa si insinuò tra i loro palmi. Prendendo ciò che la dama gli
passava, Loth non ebbe il coraggio di guardarla in faccia. La
Donmata applaudì, seguita a ruota dai cortigiani.
«Sembrate stanco, Lord Arteloth» disse da dietro la maschera.
«Lady Priessa era forse troppo pesante?»
«Ho l’impressione che a Yscalin pesino più le gonne delle dame,
Radiosità» rispose Loth ansimando.
«Oh, no, mio signore. Sono effe ivamente le dame, e i gentiluomini,
tu i quanti. L’angoscia per la prolungata assenza del Senza Nome
appesantisce i nostri cuori.» La Donmata si alzò. «Vi auguro una
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no e lunga e serena.» Esitò un istante. «A meno che non ci sia
dell’altro.»
Loth, per quanto dolorosamente consapevole del biglie ino che
stringeva in mano, decise di cogliere l’opportunità.
«Un’ultima cosa, Radiosità.» Si schiarì la voce. «Dovrebbe
risiedere alla vostra corte un altro ambasciatore che per anni ha
servito Sabran da qui. Wilstan Fynch, duca di Temperanza. Potreste
indicarci i suoi alloggi? Vorremmo salutarlo.»
Nessuno parlò né si mosse.
«L’ambasciatore Fynch» disse la Donmata alla fine. «Ebbene, Lord
Arteloth, su questo fronte brancoliamo entrambi nel buio. Sua
Grazia è partito se imane fa, dire o a Córvugar.»
«Córvugar» ripeté Loth. Un porto all’estremità meridionale di
Yscalin. «Come mai fin laggiù?»
«Ha de o di avere degli affari da sbrigare, senza specificarne la
natura. Mi sorprende che non abbia scri o a Sabran per avvertirla.»
«Sorprende anche me, Radiosità,» replicò Loth «al punto che
faccio fatica a crederlo.»
L’insinuazione rimase sospesa a mezz’aria nel breve silenzio che
seguì.
«Spero, Lord Arteloth,» replicò poi la Donmata «che non mi stiate
accusando di mentire.»
La folla di cortigiani si strinse più vicina, come una muta di
segugi all’odore del sangue. Kit abbrancò l’amico per la spalla, e
Loth chiuse gli occhi.
Se volevano scoprire la verità dovevano sopravvivere in quella
corte, e per sopravvivere dovevano so ostare alle sue regole.
«No, Radiosità» disse. «Naturalmente no. Perdonatemi.»
Senza degnarlo di una risposta, la Donmata Marosa scivolò fuori
dalla sala col suo seguito di dame.
I cortigiani iniziarono subito a mormorare. Loth, con le mascelle
serrate, volse le spalle alle guardie e marciò verso la porta con Kit
che gli correva dietro.
«Avrebbe potuto farti strappare la lingua» sussurrò. «Per il Santo,
amico, come ti è saltato in mente di dare della bugiarda alla
principessa nella sua sala del trono?»
p p
«Non la reggo, Kit. La blasfemia. La menzogna. Il disprezzo
sfacciato per Inys.»
«Non puoi mostrarti turbato dalle loro provocazioni. Il tuo
patrono è il Cavaliere di Sodalizio: cerca di dare a questa gente
l’impressione di condividere i suoi principi.» Kit lo afferrò per il
braccio impedendogli di proseguire. «Ascoltami, Arteloth. Da morti
non potremmo fare nulla per Inys.»
Aveva la fronte imperlata di sudore, e una vena sul collo che
pulsava rapidamente. Loth non l’aveva mai visto così angosciato.
«Il tuo patrono invece è il Cavaliere di Cortesia, Kit.» Loth
sospirò. «Speriamo che almeno la tua dama prote rice mi aiuti a
mascherare le mie reali intenzioni.»
«Non sarà comunque un’impresa facile.»
Kit si diresse verso le finestre della galleria.
«È tu a la vita che maschero la rabbia nei confronti di mio padre»
disse piano. «Ho imparato a sorridere quando scherniva le mie
poesie. Quando mi dava dell’edonista smidollato. Quando malediva
il destino e la mia povera madre per non avergli dato altri eredi.»
Riprese fiato. «Ed è grazie a te che ci sono riuscito, Loth: fintanto che
avevo qualcuno con cui poter essere me stesso sopportavo di fingere
davanti a lui.»
«Lo so» mormorò Loth. «E giuro che, da questo momento in poi,
tu sarai l’unico cui mostrerò il mio vero volto.»
«O imo.» Kit gli rivolse un sorriso. «Abbi fede, come sempre;
sopravvivremo anche a questo. La regina Sabran sta per sposarsi. Il
nostro esilio non durerà a lungo.» Gli diede una pacca sulla spalla.
«Ma nel fra empo vado a procurarci qualcosa per cena.»
Si separarono. Solo una volta che si fu chiuso la porta della
camera alle spalle, Loth diede un’occhiata al biglie o che Priessa
Yelarigas gli aveva passato di nascosto.
Quella sera, intorno alle undici, Kit fece ritorno con coscio i di
agnello brasati nel vino, un pezzo di formaggio alle spezie e del pane
alle olive profumato all’aglio. Si sistemarono a mangiare sul balcone,
con le torce di Cárscaro che tremolavano in lontananza.
«Ora come ora non mi dispiacerebbe avere un assaggiatore»
commentò Loth piluccando dai pia i.
«A me sembra tu o buonissimo» rispose Kit cacciandosi in bocca
un morso di pane inzuppato nell’olio. Quindi si pulì le labbra. «Ora,
siamo abbastanza sicuri che il principe Wilstan non sia andato a
prendere il sole a Córvugar. Nessuno con un briciolo di buon senso
andrebbe a Córvugar. Non c’è niente, laggiù, a parte lapidi e
cornacchie.»
«Pensi che Sua Grazia sia morto?»
«Temo di sì.»
«Dobbiamo accertarcene.» Loth lanciò uno sguardo alla porta e
abbassò la voce. «Mentre ballavamo Lady Priessa mi ha passato un
biglie o. Vuole che la incontri stano e, forse deve dirmi qualcosa.»
«O forse ha un pugnale che vuole fare amicizia con la tua
schiena.» Kit sollevò un sopracciglio. «Aspe a, non avrai intenzione
di andarci, vero?»
«A meno che tu non abbia altri indizi, devo. E prima che tu me lo
chieda, ha scri o che dovrò essere solo.»
Kit fece una smorfia, poi bevve. «Il Cavaliere di Coraggio deve
averti prestato la sua spada, amico mio.»
Da qualche parte tra le montagne, una viverna lanciò il suo grido
di guerra. Loth sentì un brivido di morte giù per la schiena.
«Dunque,» riprese Kit schiarendosi la gola «Aubrecht Lievelyn.
Un tempo promesso della nostra amica mascherata da wyrm.»
«Già.» Loth scrutò il cielo privo di stelle. «Lievelyn mi sembra un
candidato rispe abile. Da quel che so è virtuoso e gentile. Sarà un
buon compagno per Sab.»
«Non lo me o in dubbio, ma durante la cerimonia la regina dovrà
rinunciare all’appoggio del suo migliore amico.»
Loth annuì, immerso nei ricordi. Lui e Sabran si erano promessi
che ai rispe ivi matrimoni si sarebbero accompagnati all’altare a
vicenda, e perdere la possibilità di farlo era il colpo di grazia.
Notando l’espressione sul volto dell’amico, Kit esalò un sospiro
teatrale. «Poveri noi» disse. «Avevo giurato a me stesso che, se mai la
regina Sabran si fosse sposata, avrei chiesto a Kate Withy di danzare.
A quel punto le avrei rivelato di essere l’autore di tu e le poesie
d’amore che ha ricevuto negli scorsi tre anni. Ora non sapremo mai
se avrei il fegato di farlo.»
Loth lasciò che Kit cercasse di distrarlo mentre terminavano di
cenare. Per fortuna l’amico l’aveva seguito in quel viaggio, altrimenti
avrebbe già dato di ma o.
Intorno a mezzano e gli Yscal cominciarono a ritirarsi nelle loro
stanze e sul palazzo calò lentamente il silenzio. Prima di andare a
le o, Kit si fece prome ere che, di ritorno dall’incontro con la dama,
Loth avrebbe bussato alla sua porta.
A Cárscaro le ore erano scandite dal rintocco remoto di una
campana. Quando furono quasi le tre, Loth si alzò e infilò la
basilarda nella fodera alla cintura. Prese una candela dalla fiamma
purpurea e uscì dal colonnato.
La Biblioteca di Isalarico era situata nel cuore del Palazzo della
Salvezza. Avvicinandosi all’ingresso, Loth rischiò di non vedere il
corridoio sulla sinistra. Giunse alla porta sul fondo, e dopo aver
girato la chiave si fece largo nell’oscurità del Santuario Reale.
Il bagliore tremulo della candela illuminò la volta del soffi o.
Accatastati sul pavimento c’erano libri di preghiere e statue
frantumate. In mezzo alle rovine spiccava un dipinto della regina
Rosarian: qualcuno, a furia di pugnalate, aveva reso il ritra o quasi
irriconoscibile. Tu o ciò che rimaneva di Virtudom era stato stipato
là dentro e chiuso a chiave.
In fondo al santuario una figura si stagliava contro il vetro
colorato della finestra. La candela che reggeva in mano era
sormontata da una fiamma che pareva normale. Loth a ese di
trovarsi vicinissimo a lei per rompere il silenzio.
«Lady Priessa.»
«No, Lord Arteloth.» Si abbassò il cappuccio. «Chi vi parla è una
principessa d’Occidente.»
Le sue fa ezze divennero riconoscibili alla luce chiara della
fiamma. Pelle scura e sopracciglia marcate. Naso aquilino. Capelli di
velluto nero, lunghi abbastanza da sfiorarle i gomiti, occhi di un
color ambra così lucente da assomigliare a topazi. Gli occhi della
Casata di Vetalda.
«Donmata» mormorò Loth.
Lei ricambiò lo sguardo.
L’unica erede di re Sigoso e della defunta regina Sahar. Aveva già
visto Marosa Vetalda in un’altra occasione, quando si era recata in
visita a Inys per il millesimo anniversario della fondazione di
Ascalon. All’epoca era ancora fidanzata con Aubrecht Lievelyn.
«Non capisco.» Strinse la candela tra le dita. «Perché indossate gli
abiti della vostra dama di corte?»
«Priessa è la sola persona di cui mi fido. Mi presta i suoi vestiti
quando voglio girare di nascosto per il palazzo.»
«Dunque siete venuta voi a prenderci a Perunta?»
«No. Quella era davvero Priessa.» Loth fece per rispondere, ma lei
si portò un dito guantato alle labbra. «Ascoltatemi bene, Lord
Arteloth. Yscalin non si limita a venerare il Senza Nome. So ostiamo
anche al regime draconico. È Fýredel il vero re di Yscalin e le sue
spie sono dappertu o. Questo è il motivo del mio comportamento
nella sala del trono: era tu a una recita.»
«Ma…»
«Voi cercate il duca di Temperanza. Fynch è morto, saranno mesi
ormai. L’avevo inviato in missione a nome di Virtudom, ma… non
ha più fa o ritorno.»
«Virtudom.» Loth la fissò. «Cosa volete da me?»
«Il vostro aiuto, Lord Arteloth. Voglio che riusciate là dove
Wilstan Fynch ha fallito.»
Loth lasciò per l’ultima volta le sue stanze nel Palazzo della Salvezza
nel cuore della no e.
Il morbo draconico gli si era infiltrato nel sangue. Era stato
sufficiente sfiorare la fronte del Simularca per sentire un formicolio
sulle dita e una clessidra che gli si ribaltava nel cervello. Ben presto i
granelli della salute si sarebbero esauriti.
In spalla portava una sacca di pelle con dentro il necessario per
affrontare il viaggio in montagna, mentre dal fianco, coperte con un
mantello pesante, gli pendevano spada e basilarda.
Kit lo seguì giù per la scala a chiocciola. «Spero proprio che sia
una buona idea, Arteloth» disse.
«È il contrario di una buona idea.»
«Sarebbe stato meglio darsi alla pirateria.»
«Senza alcun dubbio.»
Si inoltrarono nelle viscere di Cárscaro. La Donmata Marosa
aveva spiegato a Loth come accedere dal Santuario Reale a una scala
segreta, che scendendo si faceva sempre più stre a. Si asciugò il
sudore gelido dalla fronte. Aveva supplicato Kit in tu i i modi di
rimanere a palazzo, ma l’amico non aveva voluto sentire ragioni.
Sembrò trascorrere un’eternità prima che i tacchi dei loro stivali
toccassero di nuovo un terreno pianeggiante. Loth sollevò la torcia.
In fondo alle scale, il volto seminascosto dall’ombra del
cappuccio, li a endeva la Donmata Marosa. Nel muro alle sue spalle
si spalancava una grossa crepa.
«Che cos’è questo posto?» domandò Loth.
«Una via di fuga dimenticata. Si usava in caso di assedio,
immagino» rispose lei. «Era da qui che mamma e io intendevamo
scappare.»
pp
«Perché non avete usato il passaggio per diffondere la verità?»
«Ci ho provato.» Abbassò il cappuccio. «Lord Kitston. Siete
malato anche voi?»
Kit si inchinò. «Sì, Radiosità. Oppresso dal morbo al punto
giusto.»
«Molto bene.» Riportò lo sguardo su Loth. «Ho provato a
mandare in missione una delle mie ancelle. All’epoca non sapevo
quante creature draconiche infestassero le montagne.»
Le implicazioni erano chiare.
La Donmata porse loro due bastoni identici, culminanti con un
uncino. «Ramponi da ghiaccio. Vi aiuteranno a mantenere
l’equilibrio.»
Li presero. Quindi la donna consegnò a Loth un’altra sacca con
dentro la scatola di ferro.
«Vi supplico: portate a termine il compito che vi ho affidato, Lord
Arteloth.» Il fuoco delle torce le faceva risplendere gli occhi come
gemme. «Confido che lo farete per me. Per Virtudom.»
E, con queste parole, si fece da parte.
«Manderemo rinforzi» rispose piano Loth. «Tenete in vita vostro
padre il più a lungo possibile, e se muore nascondetevi da Fýredel.
Una volta compiuta la missione, racconteremo ai sovrani di
Virtudom che cosa accade in questa terra. Non vi lasceremo qui a
morire da sola.»
Alla fine la Donmata Marosa si concesse un sorriso, ma incerto,
quasi avesse dimenticato come si faceva.
«Avete un cuore nobile, Lord Arteloth» disse. «Se davvero
riuscirete a tornare a Inys, portate i miei omaggi a Sabran e
Aubrecht.»
«Non mancherò.» Fece un inchino. «Arrivederci, Radiosità.»
«Arrivederci, mio signore.»
I loro sguardi si incrociarono il tempo di un ba ito cardiaco.
Quindi Loth chinò il capo e si infilò nella crepa del muro.
«Che il Cavaliere di Coraggio possa recarvi conforto in queste ore
cupe» disse Kit.
«Anche a voi, Lord Kitston.»
Mentre i passi della donna riecheggiavano in lontananza, Loth
avvertì una fi a di dispiacere al pensiero di doverla lasciare: Marosa
Vetalda, Donmata di Yscalin, imprigionata nella sua stessa torre.
Il tunnel era immerso nel buio totale, solo una brezza so ile
guidava Loth come una mano che gli indicasse la via. Pestava i piedi
sul terreno sconnesso rischiando a ogni passo di infilarsi la torcia
negli occhi. Tu o intorno nient’altro che il baluginio del vetro
vulcanico e i pori della pietra pomice. Alla luce della fiamma il vetro
diventava rifle ente, e proie ava centinaia di riverberi diversi.
Continuarono a camminare per quelle che parvero ore, a volte
incontrando una curva, ma per il resto sempre dri i. Il ticche io dei
loro bastoni generava un ritmo monotono.
A un certo punto Kit si lasciò sfuggire un colpo di tosse, e Loth si
innervosì. «Silenzio» disse. «Preferirei non destare qualunque cosa si
annidi qui so o.»
«Un uomo dovrà pur tossire. E qui so o non si annida un bel
niente.»
«Hai il coraggio di dire che questa galleria non sembra scavata da
un basilisco?»
«Oh, piantala di fare il vate della rovina. Vedila come una nuova
avventura.»
«A me l’avventura non è mai piaciuta» replicò stancamente Loth.
«Mai. Al momento vorrei solo essere a Casa del Rovo con in mano
una coppa di vino speziato, pronto a scortare la mia regina
all’altare.»
«Se è per questo, io vorrei svegliarmi accanto a Kate Withy, ma
ahimè non si può avere tu o dalla vita.»
Loth sorrise. «Sono contento che tu sia con me, Kit.»
«Lo credo bene» replicò l’altro con gli occhi lucidi.
A Loth, quel luogo ricordava il Senza Nome, il modo in cui si era
rivoltato nei meandri della montagna fino a trovare una via d’uscita
verso la superficie. Quand’era piccolo sua madre gli aveva raccontato
la storia più di una volta, interpretando diverse voci per spaventarlo
e per farlo ridere.
Fece un altro passo. La terra risuonò di un rimbombo cupo, come
il ventre di un gigante.
gg
Loth rimase pietrificato, con la torcia stre a in mano. Un’altra
raffica di vento gelido proveniente dal fondo del tunnel fece
tremolare la fiamma.
«Un terremoto?» mormorò Kit. Visto che l’amico non rispondeva,
lo domandò a voce più alta: «Loth, è un terremoto?».
«Zi o. Non lo so.»
Un altro rombo, ancora più forte, e la terra parve inclinarsi da un
lato. Loth perse l’equilibrio. Nell’a imo in cui si rimise in piedi iniziò
una serie tremenda di scosse… prima lievi, come un brivido di
paura, poi sempre più violente, finché i due uomini non si sentirono
i denti oscillare negli alveoli.
«Un terremoto!» gridò Loth a quel punto. «Corri. Kit, corri,
muoviti! Corri!»
La scatola gli sobbalzava sulla schiena. Arrancarono nell’oscurità
alla ricerca disperata di una qualsiasi fonte di luce. Sembrava che
tu o il manto terrestre fosse in preda alle convulsioni.
«Loth!» Kit lanciò un grido di puro terrore. «La torcia… la mia
torcia si è spenta!»
Senza fiato, Loth tornò indietro di corsa con la torcia tesa davanti
a sé. Vide l’amico per terra, a metri di distanza.
«Kit!» Si precipitò da lui. «In piedi, amico, muoviti. Segui la mia
voce!»
Uno scricchiolio. Come ghiaccio che si spacca so o i piedi. Una
pioggia di ghiaia sulla schiena. Si riparò la testa con le braccia
mentre il soffi o del tunnel crollava.
Per un lungo istante fu certo che sarebbe morto. Il Cavaliere di
Coraggio lo abbandonò, lasciandolo a singhiozzare come un
bambino. Il buio lo accecò. Le rocce gli si infrangevano tu o intorno.
Rumore di vetri scossi e infranti. Una nube di fumo tossico gli
impediva di respirare.
E poi tu o finì, all’improvviso com’era iniziato.
«Kit» urlò Loth. «Kit!»
Ansimando recuperò la torcia, miracolosamente rimasta accesa, e
la agitò nella direzione da cui aveva sentito il grido dell’amico. Il
passaggio era bloccato da una valanga di rocce e vetro vulcanico.
«Kitston!»
Non poteva essere morto. Non doveva essere morto. Loth spinse il
muro di detriti con tu e le sue forze, ci si bu ò contro ancora e
ancora, tentò di abba erlo con il rampone e lo tempestò di pugni
fino a farsi sanguinare le nocche. Quando il cumulo finalmente
cede e, si ge ò tra le macerie e spostò i massi a mani nude, e là so o
l’aria era densa e vischiosa come miele, gli si a accava in gola…
Le sue dita si strinsero a orno a una mano floscia. Si fece largo tra
le pietre, con i muscoli tesi per lo sforzo.
E là in mezzo, alla fine, trovò Kit. Vide gli occhi che conosceva
così bene, ormai spenti. Vide la bocca che, così pronta al sorriso, non
avrebbe sorriso mai più. Vide il medaglione che portava al collo,
gemello di quello che gli aveva regalato all’ultima Festa del
Sodalizio. Il resto era sommerso dalle macerie: Loth riusciva a
scorgere solo il sangue che scorreva tra le rocce.
Emise un singhiozzo disperato. Aveva le guance rigate di lacrime
e sudore, le nocche sanguinanti, in bocca un sapore di ferro.
«Perdonami» geme e. «Perdonami, Kitston Glade.»
22
Occidente
La Priora ti concede di restare a Inys finché la regina non avrà partorito. Tornerò da te
appena ci giungerà notizia della nascita.
Niente discussioni, la prossima volta.
Chassar ce l’aveva fa a.
Ead si sentì di nuovo invadere dalla stanchezza. Ge ò il
messaggio nel fuoco. Appena fu so o le coperte, Sarsun le si
accovacciò nell’incavo del braccio come un pulcino nel nido. Ead gli
gra ò la testa con un dito.
Il messaggio l’aveva colmata di sollievo, ma anche di tristezza. Le
era stata offerta su un pia o d’argento la possibilità di tornare a
casa… e invece eccola ancora lì, volontariamente per giunta, proprio
nel luogo che da tempo sognava di lasciare. D’altro canto era l’unico
modo per non sprecare tu i gli anni trascorsi a corte. Sarebbe
rimasta accanto a Sabran fino al momento del parto.
In fin dei conti il tempo non importava: il mantello rosso era il suo
destino, e nulla e nessuno avrebbe potuto portarglielo via.
Ripensò alla mano fredda di Sabran sulla sua. Quando il sonno la
vinse, sognò petali di rosa rosso sangue che le sfioravano le labbra.
Signore,
apprendo dalle ultime cronache del mio prozio che state ancora scontando il vostro
esilio nell’avamposto di Orisima, e che avete richiesto la grazia della Casata di Lievelyn.
Dopo aver studiato il vostro caso, tu avia, mi duole informarvi che non posso
concedervi di tornare a Mentendon. Con la vostra condo a avete recato grande offesa
alla regina Sabran di Inys, e nella presente circostanza invitarvi a rientrare a corte
rischierebbe di alimentare i suoi rancori.
Se concepirete un modo per riappacificarvi con la regina, sarò più che lieto di
riconsiderare questa infelice decisione.
Servo vostro,
(Per l’Ufficio Doganale di Zeedeur: vi sarei grata se questa le era giungesse alle
Autorità Portuali di Ostendeur con la massima priorità. Cordialmente, la vostra
marchesa.)
Quella sera, dopo aver cenato con Eizaru e Purumé, Niclays finse di
voler andare a le o. Quindi, nel cuore della no e, sga aiolò fuori da
camera sua, si calò in testa un cappello di Eizaru e si avventurò per
le strade buie.
Sapeva come raggiungere la spiaggia evitando le guardie.
A raversò rapidamente il mercato no urno, con il capo chino e il
bastone stre o in mano.
Le lanterne erano spente, riuscì ad arrivare in spiaggia
inosservato. La distesa di sabbia, a parte la donna, era deserta.
Tané Miduchi lo a endeva accanto a una pozza tra le rocce. Il
bordo dell’elmo le disegnava un’ombra inquietante sul volto. Niclays
preferì sedersi a una certa distanza da lei.
«Mi avete onorato della vostra presenza, Lady Tané.»
Non ripose subito. «Voi parlate seiikinese.»
«Certo.»
«Cosa volete da me?»
«Un favore.»
«Io non vi devo nulla.» La sua voce era bassa e fredda. «Potrei
uccidervi seduta stante.»
«Sospe avo che mi avreste minacciato: per questo ho lasciato al
do or Moyaka un biglie o che racconta il vostro crimine.» Una
menzogna, ma lei non poteva saperlo. «In casa dormono, ora, ma se
non torno in tempo per distruggerlo tu i quanti verranno a sapere
ciò che avete fa o. Dubito che il Generale dei Mari vorrà tra i suoi
cavalieri una persona che potrebbe aver riportato il morbo rosso a
Seiiki.»
«Non avete nemmeno idea di ciò che sarei capace di fare per non
perdere quel posto.»
Niclays ridacchiò. «Avete permesso che un uomo innocente e una
giovane donna morissero in carcere tra piscio e merda, solo perché la
vostra bella cerimonia potesse avere luogo come desideravate» le
ricordò. «Quindi, Lady Tané, credo di avere un’idea piu osto precisa
di cosa siete disposta a fare.»
La ragazza rimase in silenzio per un po’. Quindi disse: «Avete
de o una giovane donna?».
Ma certo, non poteva saperlo. «So che non vi importa nulla del
povero Sulyard,» rispose Niclays «ma sappiate che anche la vostra
amica del teatro è stata arrestata. Non oso immaginare con quali
metodi abbiano provato a estorcerle il vostro nome.»
«Voi mentite.»
Niclays osservò le labbra tese della donna, l’unica parte del suo
viso che riuscisse a scorgere.
«Vi propongo un buon affare» si limitò a dire. «Stano e ci
salutiamo così, e io non dirò niente del vostro coinvolgimento con il
forestiero. In cambio del mio silenzio, mi porterete sangue e scaglie
del vostro drago.»
La donna fu rapida come un uccello in volo; prima di rendersene
conto, Niclays si ritrovò la lama aguzza di un pugnale puntata alla
gola.
«Sangue» ripeté Tané in un soffio «e scaglie.»
Le tremavano le mani. Per quanto l’istinto gli gridasse di
indietreggiare, Niclays rimase con i piedi radicati al suolo.
«Mi state chiedendo di mutilare un drago. Di profanare la carne
di un dio» continuò il cavaliere. Ora riusciva a vederle anche gli
occhi, più affilati persino del pugnale. «Le autorità non si
limiteranno a decapitarvi, verrete bruciato vivo. L’acqua dentro di
voi è troppo sporca per essere purificata.»
«Mi chiedo cosa faranno a voi per i vostri crimini. Aiutare un
clandestino. Infrangere un divieto del mare. Me ere in pericolo
l’intera Seiiki.» Niclays digrignò i denti sentendo la lama premere
sul collo. «Sulyard testimonierà contro di voi; ricorda la vostra faccia
nei minimi de agli, temo, a partire dalla cicatrice. Per ora nessuno
gli ha creduto, naturalmente, ma con il mio supporto…»
Tané adesso tremava dalla testa ai piedi.
«E così» disse «siete voi che minacciate me adesso.» Ripose in
pugnale. «E non certo per salvare Sulyard. Voi lucrate sulla
sofferenza altrui. Siete un servo del Senza Nome.»
«Oh, niente di così eccitante, Lady Tané. Sono solo un povero
vecchio che vuole andarsene da quest’isola per poter morire in
patria.» Aveva il colle o fradicio di sudore caldo. «Capisco che serva
del tempo per o enere ciò che vi ho domandato. Per qua ro giorni a
partire da oggi mi recherò su questa spiaggia al tramonto. Se non
avete intenzione di venire, vi consiglio di andarvene da Ginura in
tu a fre a.»
Fece un profondo inchino e la lasciò lì, sola so o le stelle.
Il sole sgorgò dal mare come sangue da una ferita. Tané era seduta in
punta alla scogliera sulla Baia di Ginura, intenta a scrutare le onde
infrangersi in bianchi cristalli contro le rocce so ostanti.
Le pulsava la spalla, nel punto in cui era affondata la spada di
Turosa. Bevve un sorso del vino trafugato dalle cucine, lasciando che
le bruciasse pe o e palato.
Quelle sarebbero state le sue ultime ore come Lady Tané del Clan
Miduchi. Aveva ricevuto il titolo da pochi giorni, e già se lo vedeva
strappare via.
Si accarezzò la cicatrice sulla guancia, quella che si era procurata
salvando la vita di Susa e che era rimasta impressa nella memoria di
Sulyard. Non era l’unica: sul fianco recava il segno di un altro taglio,
ancora più profondo, che non ricordava di essersi fa a.
Immaginò Susa rinchiusa in carcere. Poi pensò alla richiesta di
Roos, e lo stomaco le guizzò come un pesce sulla spiaggia.
Persino imbra are l’icona di un drago costituiva un reato punibile
con la morte. Trafugare sangue e scaglie degli dèi era più di un
semplice crimine. Certi pirati usavano il potere della nuvola di fuoco
per addormentare i draghi, trascinarli sulle loro navi e depredarli di
p g p
tu o ciò che potevano rivendere al mercato delle ombre di
Kawontay, dal grasso alle zanne. In Oriente non esisteva deli o più
grave, e alcuni Signori della Guerra erano passati alla storia per le
brutali esecuzioni pubbliche riservate a chi se ne macchiava.
Non avrebbe preso parte a una simile crudeltà. Dopo tu e le
ba aglie che Nayimathun aveva comba uto durante il Grande
Cordoglio, dopo tu e le cicatrici che si era già procurata, Tané non
poteva farle una cosa del genere. Qualunque intruglio volesse
preparare Niclays con il suo sangue sacro, per Seiiki non si
preannunciava nulla di buono.
D’altra parte non poteva rischiare di perdere Susa… l’aveva
trascinata lei in quel pantano.
Si gra ò il capo tormentandosi i capelli come faceva a volte da
bambina, quando le istru rici la sgridavano e le davano colpe i sulle
mani.
Ma no. Non avrebbe ceduto al rica o di Roos. Si sarebbe costituita
al Generale dei Mari, a costo di perdere Nayimathun e il Clan
Miduchi. A costo di perdere tu o ciò per cui lo ava fin da
bambina… ma non solo se lo meritava, era l’unico modo per salvare
la sua migliore amica.
«Tané.»
Sollevò lo sguardo.
Nayimathun volava oltre il bordo della scogliera, con la corona
pulsante di luce.
«Potente Nayimathun» mormorò Tané.
Il drago inclinò il muso, l’enorme corpo che ondeggiava nel vento,
leggero come un foglio di carta. Tané stese le braccia e si inchinò
finché la fronte non sfiorò la terra.
«Non sei venuta all’Orfano Affli o stano e» disse Nayimathun.
«Perdonami.» Poiché non arrivava a toccare il drago, la ragazza
so olineò a gesti il senso delle proprie parole. «Non possiamo più
vederci. Mi dispiace davvero, potente Nayimathun.» La voce le si
spezzò come legno marcio so oposto al minimo sforzo. «C’è una
cosa che devo confessare al Generale dei Mari.»
«Vorrei che volassi con me, Tané. Così potremo parlare di ciò che
ti affligge.»
gg
«Ti disonorerei.»
«Intendi anche disobbedirmi, figlia della carne?»
I suoi occhi erano cerchi di fuoco ardente, la bocca un rifugio per
zanne che non amme evano replica. Tané non poteva ribellarsi al
volere di un dio. L’acqua scorreva nel suo corpo, e tu a l’acqua
apparteneva agli dèi.
Per quanto pericoloso, si poteva cavalcare un drago anche senza
sella. Si alzò in piedi e si avvicinò al precipizio. Quando Nayimathun
piegò il muso per consentirle di aggrapparsi alla criniera, a Tané
vennero i brividi, ma piantò comunque uno stivale sul collo della
creatura e le si sede e a cavalcioni. Nayimathun si alzò nel cielo,
allontanandosi dalla fortezza…
… e si tuffò.
Un fremito percorse la schiena di Tané mentre calavano in
picchiata verso il mare. Non riusciva a respirare, vuoi per il panico,
vuoi per la gioia, come se qualcuno le avesse preso all’amo il cuore e
ora fosse deciso a cavarglielo dalla bocca.
Una cresta di scogli si impennò verso di loro. Il vento le ululava
nelle orecchie e un secondo prima di entrare in acqua l’istinto le fece
abbassare la testa.
Per poco l’impa o non la disarcionò. L’acqua le riempì naso e
bocca. Aveva le cosce doloranti e le dita indolenzite per lo sforzo di
reggersi mentre Nayimathun nuotava aggraziata come un’orca,
spingendosi con la coda e le possenti zampe piegate. Tané si
costrinse ad aprire gli occhi. Sentiva le spalle bruciare del fuoco
purificatore che solo il mare era in grado di accendere.
La circondava un vortice di bolle grandi come lune di mare.
Nayimathun riemerse, con Tané sempre in groppa.
«Su» chiese il drago «o giù?»
«Su.»
Un fle ersi di scaglie e muscoli. Tané si aggrappò con più forza
alla criniera. Con un solo balzo vigoroso, Nayimathun si slanciò nel
cielo sopra la baia rovesciando una cascata di gocce sulle onde.
Tané si voltò: Ginura era già lontana. Assomigliava a un quadro,
insieme finto e reale, un mondo galleggiante in bilico sull’oceano. Si
sentiva viva, viva davvero, come se avesse tra enuto il fiato sino a
quel momento. Lassù non era più Lady Tané del Clan Miduchi, né
qualunque altra persona; la sua identità sfumava nel tramonto,
nient’altro che un refolo di vento sopra il mare.
Era così che immaginava la propria morte. Lucenti tartarughe
marine avrebbero scortato il suo spirito fino al Palazzo delle Molte
Perle, mentre il corpo veniva affidato alle onde. Di lei non sarebbe
rimasto altro che semplice spuma.
O almeno, questo se non avesse trasgredito le regole: ai cavalieri
era concesso l’eterno riposo insieme ai draghi, mentre lei si era
condannata a un’eternità di tormentato vagare per l’oceano.
Sentiva il sangue appesantito dal vino. Nayimathun si librò più in
alto, intonando un canto in lingua antica, mentre il respiro del drago
e quello dell’umana si trasformavano in nuvole.
Il mare si estendeva so o di loro a perdita d’occhio. Tané si
accoccolò nella criniera per ripararsi dal vento e ammirare la miriade
di stelle che si stagliavano luminose come cristalli contro la scura
volta celeste senza nubi. Occhi di draghi mai nati. Quando il sonno
la vinse, li sognò, un’armata che piombava dal cielo per sconfiggere
le ombre. Sognò di essere piccola come una piantina, con rami che
nascevano da ogni sua speranza, fino a trasformarla in un albero.
Riaprì gli occhi, fiacca e accaldata, con un dolore sordo che le
martellava le tempie.
Le ci volle un a imo per uscire del tu o dalle profondità del
sonno. Quando i ricordi la investirono e comprese di trovarsi su una
roccia, il freddo la assalì di nuovo.
Rotolò sul fianco. Riusciva a malapena a scorgere la sagoma del
suo drago immersa nell’oscurità.
«Dove siamo, Nayimathun?»
Un sibilo di scaglie e roccia.
«Da qualche parte» rimbombò la voce del drago. «Da nessuna
parte.»
Erano dentro una gro a scavata dalle maree e sferzata dalle onde.
Si infrangevano contro gli scogli, accendendo per un a imo pallide
scintille simili ai minuscoli calamari fosforescenti che a volte si
spiaggiavano lungo le coste di Capo Hisan.
«Ora dimmi,» disse Nayimathun «in che modo mi avresti
disonorata?»
Tané si strinse le ginocchia al pe o. Ammesso che dentro di lei
fosse rimasta un briciolo di coraggio, non era abbastanza per
resistere al volere di un drago.
Parlò a bassa voce, senza ome ere nulla. Raccontò quanto era
accaduto dal momento della comparsa dello straniero sulla spiaggia,
mentre Nayimathun ascoltava in silenzio. Alla fine Tané preme e la
fronte a terra, in a esa del suo giudizio.
«Alzati» ordinò il drago.
Tané obbedì.
«Ciò che è successo non disonora me» disse la creatura. «Disonora
il mondo.»
Tané chinò il capo. Si era ripromessa di non piangere di nuovo.
«So di non meritare il tuo perdono, potente Nayimathun.» Teneva
lo sguardo fisso sulle punte degli stivali, cercando di controllare il
tremore nella voce. «Andrò dal Generale dei Mari doma ina. C-così
potrai scegliere un altro cavaliere.»
«No, figlia della carne. Il mio cavaliere sei tu, l’hai giurato in riva
al mare. E hai ragione, non meriti il perdono» proseguì Nayimathun
«giacché non hai commesso alcun crimine.»
Tané sollevò lo sguardo. «Invece sì, più di uno» disse con voce
ro a. «Ho infranto il ritiro. Ho nascosto uno straniero. Ho
disobbedito al Grand’Edi o.»
«No.» Un sibilo riecheggiò nella caverna. «Ovest o Est, Nord o
Sud… il fuoco non fa differenza. La minaccia proviene da so o, non
da lontano.» Il drago si appia ì a terra, in modo da avere gli occhi
alla stessa altezza di quelli di Tané. «Hai dato asilo a un ragazzo. Gli
hai risparmiato la vita.»
«Non ero mossa da compassione» ammise Tané. «L’ho fa o
per…» Un vuoto allo stomaco. «Perché volevo che la mia vita
prendesse un certo corso e pensavo che lo straniero l’avrebbe
impedito.»
«Questo delude me e disonora te. Ma non è imperdonabile.»
Nayimathun inclinò il muso. «Dimmi, piccola mia. Perché l’uomo
inysh è venuto a Seiiki?»
y
«Voleva incontrare lo stimabile Signore della Guerra.» Tané si
inumidì le labbra. «Sembrava disperato.»
«Allora lo deve incontrare. E anche l’imperatore dei Dodici Laghi
dovrà dargli udienza.» Gli aculei sulla schiena del drago si
drizzarono. «La terra tremerà so o l’oceano. Egli si agita.»
Tané non osò chiedere spiegazioni. «Cosa devo fare,
Nayimathun?»
«Non è questa la domanda che devi pormi. Chiedimi piu osto
cosa dobbiamo fare.»
28
Meridione
Carissima M, non posso dire molto per paura che questa mia venga interce ata. A
Cárscaro le cose non sono come sembrano. Kit è morto, e temo che Neve sia in pericolo.
Guardati dal Coppiere.