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Settembre 2017, esplode l'emergenza Rohingya.

Un uomo sbarca dopo aver attraversato con la


famiglia il Golfo del Bengala a Shah Porir Dwip in Bangladesh (Reuters/LaPresse) Settembre 2017,
esplode l'emergenza Rohingya.

, ecco le cifre del massacro. MSF denuncia: almeno 6700 uccisi, molti bambini Sono almeno
6.700 i Rohingya uccisi nel primo mese di repressione dell'esercito del Myanmar nello Stato
del Rakhine. A denunciare questo drammatico bilancio è Medici Senza Frontiere (MSF), che
parla di stime "prudenti". Il dato è la sintesi di una serie di intervista a 11.426 persone nei
campi profughi in Bangladesh. Tweet 14 dicembre 2017 "Abbiamo incontrato e parlato con i
sopravvissuti alla violenza in Myanmar, riparati in campi sovraffollati e malsani in
Bangladesh", racconta il direttore dell'ONG, Sidney Wong. "Quello che abbiamo scoperto è
stato sconcertante, sia in termini di numeri di persone che hanno avuto un membro della
famiglia morto", sia per quanto riguarda i loro "orribili" racconti. Nelle scorse settimane,
l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, il principe giordano Zeid Ra'ad Al
Hussein, non aveva ecsluso che la repressione condotta dall'esercito birmano potesse avere gli
"elementi del genocidio". Adesso l'indagine di MSF supporta questa ipotesi con i numeri: il
69% delle vittime sono morte per ferite di armi da fuoco, un altro 9% (circa 70 persone) è
stato bruciato vivo nelle case, mentre il 5% non è sopravvissuto alle percosse subite. Quanto ai
piccoli sotto i 5 anni, oltre la metà è morta per colpa di armi da fuoco. Tutto questo prima che
molti altri morissero nella fuga verso il Bangladesh, annegati dopo aver fatto naufragio nel
braccio di mare che divide i due Paesi. Un'ecatombe. Ecco le cifre in dettaglio Sui 9 mila
decessi accertati, nel 71.7% dei casi la causa del decesso è legata direttamente alla violenza. In
un solo mese 6.700 rohingya hanno perso la vita colpiti da armi da fuoco (69% dei casi negli
adulti; 59% nei bambini), bruciati vivi nelle loro case (9% negli adulti; 15% nei bambini), per
violenti percosse (5% negli adulti; 7% nei bambini) e a causa dell’esplosione di mine (2% nei
bambini). I numeri dimostrano come la minoranza musulmana sia stata il bersaglio della
spirale di violenza iniziata il 25 agosto scorso quando l’esercito e la polizia della Birmania,
oltre ad alcune milizie locali, hanno lanciato l’operazione di sgombero nello Stato di Rakhine
in risposta agli attacchi dell’Esercito per la salvezza dei Rohingya dell'Arakan. Da allora, più
di 647mila rohingya sono fuggiti dalla Birmania per trovare rifugio in Bangladesh, dove oggi
vivono in campi sovraffollati e in scarse condizioni igieniche. I dati raccolti da Msf sono il
risultato di sei analisi retrospettive sulla mortalità condotte nei primi giorni di novembre in
diverse aree dei campi profughi Rohingya a Cox's Bazar in Bangladesh, poco oltre il confine
con la Birmania. La popolazione totale coperta dall’analisi è di 608.108 persone; tra loro
503.698 sono fuggite dal Paese dopo il 25 agosto. Il tasso di mortalità totale - tra il 25 agosto e
il 24 di settembre - tra la popolazione intervistata è di 8 persone su 10mila al giorno, che
equivale al decesso del 2,26% (con un intervallo di confidenza che va dall’1,87% al 2,73%) del
campione della popolazione. Applicando questa proporzione alla popolazione totale arrivata
in Bangladesh dal 25 agosto nei campi presi in esame dalle ricerche, il numero di rohingya
morti nel primo mese dopo l’inizio del conflitto si attesterebbe tra le 9.425 e le 13.759 persone,
includendo almeno 1.000 bambini di età inferiore ai 5 anni. "Ancora oggi molte persone
stanno fuggendo dal Myanmar verso il Bangladesh. Chi riesce ad attraversare il confine
racconta di essere stato vittima di violenza nelle ultime settimane”, aggiunge Wong spiegando
che "sono inoltre davvero pochi gli organismi di aiuto indipendenti in grado di accedere nel
distretto di Maungdaw, nello Stato di Rakhine, e per questo temiamo per il destino dei
rohingya che sono ancora lì". "La firma di un accordo per il ritorno dei Rohingya tra i
governi di Myanmar e Bangladesh è prematura. I Rohingya non possono essere costretti a
ritornare in Myanmar e la loro sicurezza e i loro diritti devono essere garantiti prima che
qualsiasi piano di rientro venga preso seriamente in considerazione”, conclude Wong. MSF
lavora in Bangladesh dal 1985. Vicino all’insediamento di Kutupalong nel distretto di Cox’s
Bazar dal 2009, l'organizzazione gestisce due cliniche che offrono cure sanitarie di base e di
emergenza, così come servizi di degenza e ambulatoriali ai rifugiati Rohingya e alla comunità
locale. In risposta all'afflusso di rifugiati nel disretto di Cox Bazar, Msf ha notevolmente
aumentato la sua presenza nell'area, estendendo le attività mediche, sanitarie e nel settore
idrico. L'organizzazione lavora inoltre nella baraccopoli di Kamrangirchar, nella capitale
Dhaka, fornendo cure di salute mentale, di salute riproduttiva, servizi di pianificazione
familiare e consultazioni prenatali, e gestendo un programma di salute sul posto di lavoro per
gli operai. Tag rohingya migranti profughi immigrazione bangladesh myanmar Le fotogallery
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Cosa ha detto Aung San Suu Kyi sui rohingya


La premio Nobel per la Pace e leader di fatto del Myanmar ha
difeso l'esercito, nonostante le prove raccolte raccontino
tutt'altra storia
Aung San Suu Kyi durante il discorso di questa mattina a Naypyitaw, Myanmar (AP Photo/Aung
Shine Oo)
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Questa mattina Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991 e leader di fatto del
Myanmar, ha parlato di quello che sta succedendo nel suo paese alla minoranza musulmana
rohingya. Suu Kyi è intervenuta a Naypyidaw, la capitale del Myanmar, di fronte a diversi
funzionari di governo stranieri e ha fatto il suo discorso in inglese, lingua che parla fluentemente:
come si aspettavano in molti, non ha criticato i militari birmani per le violenze compiute nelle
ultime tre settimane sui rohingya, nello stato del Rakhine, e ha detto che le forze di sicurezza stanno
prendendo tutte le misure necessarie per non colpire i «civili innocenti» e per evitare «danni
collaterali». Le parole di Suu Kyi sembrano però non corrispondere alla realtà: immagini, video e
testimonianze raccolte nelle ultime tre settimane hanno mostrato le enormi violenze indiscriminate
compiute dall’esercito contro i rohingya, in quella che l’ONU ha definito “un esempio da manuale
di pulizia etnica”.

Il discorso di Suu Kyi sui rohingya, il primo dall’inizio delle ultime violenze nello stato del
Rakhine, è stato molto vago. Suu Kyi ha detto cose come: «Sono consapevole del fatto che
l’attenzione del mondo sia concentrata sulla situazione nello stato del Rakhine. Come membro
responsabile della comunità delle nazioni, il Myanmar non teme un controllo internazionale»;
«Anche noi siamo preoccupati. Vogliamo capire quali siano i veri problemi. Ci sono state accuse e
contro-accuse. Noi ascoltiamo tutti. Dobbiamo essere sicuri che queste accuse siano basate su prove
concrete, prima di prendere qualsiasi iniziativa». Suu Kyi ha anche detto che le ultime violenze non
hanno coinvolto molti dei rohingya che abitano il nord dello stato del Rakhine: anche questa
affermazione sembra essere smentita dalle testimonianze raccolte da giornalisti e organizzazioni
internazionali, secondo cui i rohingya scappati dalle loro case e rifugiati nel vicino Bangladesh sono
stati 400mila in sole tre settimane.

Altri membri del governo di cui fa parte Suu Kyi hanno minimizzato quello che sta succedendo
nello stato del Rakhine, dicendo che i rohingya stanno raccontando di finti stupri e stanno
incendiando le loro stesse case per ottenere l’appoggio della comunità internazionale. Il New York
Times ha scritto che in una pagina Facebook associata a Suu Kyi si è arrivati a sostenere che i
gruppi umanitari internazionali siano collusi con i miliziani rohingya, cioè i membri dell’Esercito
per la salvezza dei rohingya nel Rakhine (gruppo più noto con la sigla inglese ARSA), che il
governo birmano considera un’organizzazione terroristica.
Non è chiaro il motivo per cui Suu Kyi non voglia prendere una posizione più netta verso le
incredibili violenze compiute dai militari birmani, gli stessi che l’hanno tenuta agli arresti
domiciliari per anni, contro i rohingya, considerata una delle minoranze più perseguitate al mondo.

U Win Htein, membro del partito di Suu Kyi ed ex soldato, ha detto che un motivo potrebbe essere
la necessità di tenere a bada i militari, che fino a meno di due anni fa dominavano la politica
birmana e che ancora oggi influenzano il debole governo civile in carica nel paese. Questa è
un’ipotesi che era già stata fatta in passato, secondo la quale una posizione più netta di Suu Kyi sui
rohingya potrebbe spingere l’esercito a intervenire per imporre la propria volontà, interrompendo
così la transizione democratica in corso in Myanmar. Un’altra ipotesi è che Suu Kyi si stia
comportando come un qualsiasi politico in cerca di consenso. A causa della loro fede, i rohingya
vengono isolati da decenni e non sono per niente integrati nella società birmana; non hanno
nemmeno la cittadinanza, che gli fu tolta nel 1982 perché accusati di essere entrati illegalmente nel
paese più di un secolo prima. Brutalmente, significa che il loro consenso è infinitamente meno
importante di quello della comunità di etnia bamar, la più grande del Myanmar, alla quale
appartiene anche Suu Kyi.

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