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PITAGORA, TRA GESÙ E NEWTON

Piergiorgio Odifreddi
Maggio 2019

La somma dei quadrati


costruiti sui cateti
e uguale a quella dell’ipotenusa.
Pitagora,
Pitagora. . .
Se l’uomo quadrato sei tu,
inventami un sistema,
il nuovo teorema,
per ogni problema d’amor.
La somma di due baci
costruiti su cuore a cuore
s’impara senza libri,
professore.
Pitagora,
Pitagora. . .
Se uomo sensato sei tu,
impara il mio sistema,
il nuovo teorema,
urlando a tempo di rock.
Qualcuno ricorderà le parole di questa canzone, cantata nel 1960 da Adri-
ano Celentano. Speriamo che nessuno ricordi invece la copertina originale
del disco, sulla quale il cantante mostrava un disegno del teorema: sbagliato,
naturalmente, con dei rettangoli al posto dei quadrati!
Mezzo secolo prima, nel 1916, il poeta Ernesto Ragazzoni aveva a sua
volta composto una poesia intitolata Il teorema di Pitagora, un po’ più seria,
ripetendone l’enunciato al termine di ogni strofa:

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I tempi sono tristi! Il vecchio mondo s’usa
a trascinarsi il fianco nel giro dei pianeti!
Le balene si fan sempre più rare, i feti
voglion dar fuoco all’alcool ove la vita han chiusa.
Per consolarti, o povera anima mia, ripeti:
il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa
è la somma di quelli fatti sui due cateti.
Anima mia, rammenti? dall’ombre d’oggi illusa,
questo non ti riporta al raggio dei dı̀ lieti?
O che non ci fiorivano nel cuor tutti i roseti
al tempo in cui a zuffa coll’algebra confusa,
sui banchi imparavamo, monelli irrequı̈eti,
che il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa
è la somma di quelli fatti sui due cateti?

A glorificare il teorema di Pitagora si è addirittura scomodata un premio


Nobel per la letteratura, la poetessa polacca Wislawa Szymborska, che nelle
sue Letture facoltative ha scritto parole che mi onorano:

Non ho difficoltà a immaginare che in un’antologia dei più bei


frammenti della poesia mondiale si possa trovare anche il teorema
di Pitagora, perché lı̀ c’è quella folgorazione che è connaturata
alla grande poesia, e una forma sapientemente ridotta ai minimi
termini, e una grazia che a non tutti i poeti è stata concessa.

Come vedete, e come già sapevate, il mio nome, il nome di Pitagora, è


stato glorificato nei secoli da questo poetico teorema. Prosaicamente e un
po’ vergognosamente, però, sono costretto a confessare che quel teorema
lo conoscevano già i Babilonesi, più di un millennio prima di me. E lo
conoscevano già anche gli Indiani, qualche secolo prima di me. Il primo
ad attribuirmene la paternità, molto tempo dopo la mia morte, fu un tal
Apollodoro, secondo il quale:

quando Pitagora scoprı̀ la famosa figura offrı̀ agli dèi un gran


sacrificio di buoi.

In seguito Diogene Laerzio precisò che si trattava di “un’ecatombe”, e da


allora sono diventato il bersaglio dell’ironia degli scettici. Ad esempio, ci fu

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nel Settecento qualcuno, che non capiva nemmeno bene la matematica, che
commentò:

Si dice che Pitagora sacrificò un’ecatombe per la scoperta dell’ipo-


tenusa. E’ ugualmente difficile che un filosofo disponga di cento
buoi, e che chi è padrone di cento buoi faccia il filosofo.

E nell’Ottocento, qualcun altro si divertı̀ a declamare:

Allorquando Pitagora trovò


Il suo gran teorema,
Cento bovi immolò.
Dopo quel giorno trema
De’ buoi la razza, se si fa
Strada al giorno una nuova verità.

A voi non può essere chiaro quale fosse la “famosa figura” citata da Apol-
lodoro. Ma io vi posso dire che si trattò di una dimostrazione visiva del
teorema, nello stile di quella riportata, duecento anni dopo di me, da Pla-
tone nel Menone. Anche se la sua dimostrazione mostra soltanto come il
quadrato costruito sulla diagonale di un quadrato sia uguale alla somma dei
due quadrati uguali costruiti su due lati, e dunque al doppio di uno. Qual-
cuno di voi forse ricorderà dal liceo questo brandello di dialogo tra Socrate
un servo:

socrate. Quante volte, presi tutti insieme, quattro quadrati


sono più grandi di uno?
servo. Quattro volte.
socrate. A noi serve però una superficie doppia, vero?
servo. Certo.
socrate. E le quattro diagonali dei quattro quadrati non li
dividono ciascuno in due parti uguali?
servo. Sı̀
socrate. E quante di queste metà ci sono nel quadrato costruito
su una diagonale?
servo. Quattro.

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socrate. E nel quadrato costruito su un lato?
servo. Due.
socrate. E in che rapporto sta il quattro, rispetto al due?
servo. Il doppio!

Ovviamente, la “famosa figura” a me attribuita da Apollodoro non era


l’altrettanto famoso “mulino a vento” usato, trecento anni dopo di me, da
Euclide negli Elementi . Lui sı̀ che era un bravo matematico, a differenza
di Platone, e il primo capitolo del suo libro è interamente dedicato alla di-
mostrazione assiomatica del teorema. Dopo averlo studiato con attenzione,
vi consiglio di leggere quel libro al contrario: partendo cioè dal teorema fi-
nale, e riducendolo gradualmente a proposizioni via via più semplici, fino ad
arrivare alle affermazioni evidenti che Euclide prese come assiomi. Lo stesso
consiglio l’ho trovato ripetuto nella Breve vita di Thomas Hobbes, il filosofo
inglese del Seicento:

Aveva quarant’anni, quando incominciò per caso a interessarsi di


geometria. In una biblioteca trovò gli Elementi di Euclide aperti
sulla Proposizione 47 del Primo Libro. La lesse, ed esclamò: “Mio
Dio, non è possibile!”. Lesse la dimostrazione, che lo rimandava
a un’altra proposizione. Lesse quella proposizione, che lo riman-
dava ancora a un’altra. Lesse pure quella, e cosı̀ via, e alla fine si
convinse della verità. Questo lo fece innamorare della geometria.

Ma basta con il teorema di Pitagora! Anche perché, come vi ho già


detto, non è nemmeno mio! Voi allora vi chiederete che cosa io abbia fatto
veramente, per meritare la mia fama. Purtroppo, di me sapete poco o nulla
di certo. In parte, per la mania di segretezza e l’aura di mistero che ho
coltivate e imposte nella mia setta. E in parte, perché le fonti antiche su di
me sono andate perdute. Oggi vi rimangono sostanzialmente le tre Vite di
Pitagora di Diogene Laerzio, Porfirio e Giamblico, scritte nell’ordine fra il
terzo e il quarto secolo della vostra era: cioè, sette o ottocento anni dopo i
supposti avvenimenti che essi raccontano su di me.
Da queste biografie, via via più romanzate e inaffidabili, e dai pochi fram-
menti precedenti che vi sono rimasti, posso capire che voi deduciate con bene-
ficio di inventario che io dovevo essere un po’ tocco, visto che mi ritenevo
la reincarnazione di varie persone, e sostenevo pure di ricordarmi delle loro

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vite precedenti. E deducete anche che dovevo essere un ascetico bacchettone,
visto che predicavo di non esagerare nel bere e nel mangiare, e di evitare la
carne e le fave. Su queste ultime posso dirvi che avevo una buona ragione
per proibire di mangiarle: in quei tempi a Crotone, dove mi ero trasferito
da Samo, era infatti diffusa la fastidiosa malattia ereditaria del favismo, che
causa una crisi emolitica a chi ne soffre e mangia le fave.
A soffiare sul fuoco del mio mito contribuirono i miei accoliti. I quali
vanno capiti, però, visto che per ammetterli al mio Club li obbligavo a fare
cassa comune dei loro patrimoni. E li costringevo ad ascoltare senza parlare
per cinque anni: una regola che penso non fareste male ad adottare pure voi,
oggi, nelle vostre scuole. Dopo aver subı̀to l’esproprio del denaro e il lavaggio
del cervello, non stupisce che qualcuno di loro testimoniasse di avermi visto
nudo, con un’anca o una coscia d’oro. O di aver sentito il fiume nel quale mi
andavo a lavare, salutarmi dicendo: “Ciao, Pitagora!”.
Al di là del mito, è storia che i miei seguaci, i cosiddetti Pitagorici, furono
cacciati da Crotone, e che perirono quasi tutti. I pochi superstiti si rifugia-
rono altrove, e Porfirio dice che io morii proprio qui dove ci troviamo, a
Metaponto, verso il 500 prima della vostra era, dopo essermi rifugiato nel
tempio delle Muse e aver digiunato per quaranta giorni.
Ed è sempre Porfirio a raccontare che fui io a inventare il nome di “mate-
matici” (che deriva da mathema, “apprendimento”) per indicare gli “appren-
disti”, mentre gli altri li chiamavo invece “acusmatici” (da akousma, “suono”)
perché erano semplici “uditori”:

Infatti, duplice era l’aspetto del suo insegnamento. Dei suoi disce-
poli, alcuni venivano chiamati “matematici” e altri “acusmatici”.
E mentre i matematici apprendevano gli insegnamenti più diffi-
cili, con grande sforzo, gli acusmatici si limitavano a imparare in
maniera sommaria i fondamenti della dottrina, senza addentrarsi
in una trattazione più dettagliata.

E’ invece Giamblico a tramandare la leggenda di come io feci la mia


vera grande scoperta, trovando un insospettato e sorprendente legame tra
matematica e musica:

Una volta passò davanti all’officina di un fabbro, e gli dèi gli


offrirono la possibilità di udire i suoni consonanti e dissonanti
di vari martelli che battevano il ferro sulle incudini. Tra i suoni

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armoniosi egli riconobbe gli accordi di ottava (due do consecutivi),
di quinta (do-sol) e di quarta (do-fa).
Lieto di poter realizzare con l’aiuto divino il proprio sogno, che
era di trovare uno strumento che fosse per l’udito ciò che la riga
o il compasso sono per la vista, entrò nell’officina. E dopo vari
esperimenti capı̀ che la differenza dei suoni dipendeva dal peso
dei martelli, e non dalla forza con cui si battevano, o dalla forma
che avevano.
Tornato a casa, fissò all’angolo di due pareti un piolo, gli legò
quattro corde di uguale materiale, spessore e lunghezza, e attaccò
loro pesi diversi. Pizzicando le corde due a due, riprodusse gli
stessi suoni già uditi nell’officina, e capı̀ che i rapporti tra i pesi
erano i seguenti: 1:2 per l’ottava, 2:3 per la quinta e 3:4 per la
quarta.

I numeri consecutivi 1, 2, 3 e 4 acquistarono in tal modo per me un’aura


mistica: li disposi in forma triangolare, a costituire la famosa tetrachtys,
e l’adottai come logo per la confraternita dei Pitagorici. Più in generale,
iniziai a rappresentare geometricamente anche gli altri numeri: ad esempio,
i numeri 4 0 9 come “quadrati”, e i numeri 8 e 27 come “cubi”. E ancor oggi
voi continuate a chiamarli cosı̀, in memoria di me.
Dal fatto che i rapporti numerici misurassero, da un lato, i rapporti fisici
tra le lunghezze delle corde, e dall’altro lato, i rapporti armonici tra le altezze
delle note, estrapolai poi un ruolo fondamentale della matematica per la
comprensione della natura e dell’umanesimo. Sono orgoglioso di dire che
quel ruolo è diventato fin da allora l’indiscusso credo della scienza. E vedo
che ora lo state lentamente e finalmente adottando anche per l’umanesimo,
dalla psicologia alla politica.
Sono stati poi i miei seguaci di prima, seconda e terza generazione, in par-
ticolare Ippaso di Metaponto, Filolao di Crotone e Archita di Taranto, a fare
una prima applicazione di questo credo all’astronomia, coniando espressioni
memorabili quali “armonia del mondo” e “musica delle sfere”. In particolare,
sono stati loro ad assegnare ai corpi celesti i rapporti numerici e armonici
che Platone divulgò nel pitagorico dialogo Timeo, dopo averli imparati dalla
viva voce di Archita nel 389. Racconta infatti Cicerone, nella Repubblica:

Dopo la morte di Socrate, Platone fece viaggi di studio per im-

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parare le dottrine pitagoriche, dapprima in Egitto e poi in Italia.
Poiché a quei tempi e in quei luoghi la fama di Pitagora era ancora
ben viva, Platone poté incontrare vari Pitagorici e studiarne le
opere: in particolare, si intrattenne a lungo con Archita a Taranto
e con Timeo a Locri, e lesse i trattati di Filolao. Ma poiché
prediligeva Socrate, e voleva attribuire tutto a lui, nelle proprie
opere nascose l’oscurità e la profondità del pensiero pitagorico
dietro l’arguzia e la sottigliezza del metodo socratico.
Uno di questi nascondimenti è la trasposizione del mito di Orfeo nel mito
di Er, al termine della Repubblica. Cosa Platone celasse era comunque chiaro,
e quando la storia venne musicata nel 1589 dalla Camerata de’ Bardi, per
il matrimonio di Cosimo de’ Medici e Cristina di Lorena, il brano fu aper-
tamente intitolato Armonia delle sfere. Platone immagina che il soldato Er
muoia in battaglia, ma gli dèi gli permettano di ritornare dal regno dei morti
per raccontare agli uomini cosa li aspetta nell’aldilà. E una delle cose che
narra è il passaggio obbligato che le anime dei morti devono effettuare dal
Fuso della Necessità:
Una colonna di luce univa il cielo e la Terra come un arcobaleno
purissimo e splendente. Avvolgeva la volta celeste come le fasce
della chiglia in una triremi. E ai suoi estremi era teso il Fuso della
Necessità, che girando sulle ginocchia della dea generava tutti i
moti rotatori celesti.
Il fusaiolo era cavo, e ne conteneva un altro più piccolo, che ne
conteneva un altro più piccolo, e cosı̀ via: ce n’erano otto in tutto,
come una serie di scatole una dentro l’altra. Ciascuno aveva un
bordo circolare, di diverso raggio e colore, e tutti si avvolgevano
attorno al fusto centrale, che trapassava l’ottavo.
Il fusaiolo esterno ruotava su se stesso velocemente, mentre i sette
interni ruotavano più lentamente in direzione opposta, ma con
velocità via via crescenti. Su ogni bordo circolare si muoveva
una Sirena che, emettendo un’unica nota, contribuiva all’armonia
collettiva.
Attorno al fuso, a uguale distanza, stavano sedute in trono tre
donne: erano le Parche, figlie della Necessità, vestite di bianco
e col capo cinto di bende. Mentre le Sirene cantavano, Lachesi

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filava il passato, Cloto il presente e Atropo il futuro. Cloto faceva
girare con la mano destra il cerchio del fusaiolo esterno, Atropo
con la mano sinistra i cerchi dei sette fusaioli interni, e Lachesi le
accompagnava con entrambe le mani.

Un’ulteriore trasposizione del mito di Er fu effettuata da Cicerone nel


Sogno di Scipione, che nel 1771 ispirò l’omonima serenata di Mozart, con
libretto di Metastasio. Questa volta è Scipione l’Africano ad apparire in
sogno al nipote, e a mostrargli la disposizione, il moto e il suono delle sfere
celesti:

Eccoti sotto gli occhi l’intero l’universo, suddiviso in nove sfere.


La più esterna, in cui sono conficcate le stelle eterne, abbraccia
e racchiude divinamente tutte le altre. Vedi poi le sette sfere
del Sole, dei cinque pianeti e della Luna, che ruotano tutte in
direzione opposta alla precedente. Sotto di loro, sulla sfera ter-
restre, tutto è mortale ed effimero, eccetto le anime di cui gli dèi
hanno dotato il genere umano.
E senti questo suono, cosı̀ intenso e armonioso, che avvolge le
orecchie? E’ il suono prodotto dalla pressione e dal moto delle
sfere: d’altronde, dei movimenti cosı̀ grandiosi non potrebbero
certo essere silenziosi. Le note emesse dalle singole sfere vari-
ano uniformemente in base alle loro distanze, decrescendo dal più
acuto delle Stelle al più grave della Luna. E l’accordo complessivo
le armonizza tutte, secondo proporzioni coltivate dai matematici
e imitate dai musicisti: questi esperti di cose divine si spianano
in tal modo la via per tornare qui.
Le orecchie degli uomini si sono assuefatte a questo suono inces-
sante, cosı̀ come gli abitanti delle cateratte sono diventati sordi
per lo strepito del Nilo, che irrompe a precipizio dagli alti monti.
La musica provocata dal vorticare delle sfere dell’universo è tal-
mente forte, che il debole orecchio umano non può udirla, cosı̀
come la debole vista umana non può fissare i raggi del Sole.

La mia idea, che la musica potesse descrivere la struttura fisica, del mondo
prosperò per due millenni: dalle Armoniche di Tolomeo, nel secondo secolo,
a L’armonia del mondo di Keplero, nel 1619. Per noi Greci, però, la musica

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era monofonica, e consisteva di scale alle quali il moto circolare uniforme di
ciascun pianeta contribuiva una singola nota. Per Keplero, invece, la musica
era polifonica, e consisteva di accordi risultanti dalle scale suonate simul-
taneamente dai vari pianeti, nel loro moto ellittico variabile. Questa sintesi
troverà poi nel 1957 una degna rappresentazione musicale nell’Armonia del
mondo di Paul Hindemith, un’opera pitagorica basata esplicitamente sul li-
bro di Keplero.
Oltre che la musica, il mio concetto di armonia matematica rivoluzionò
anche l’architettura e la scultura, imponendo l’uso non solo della tetrachtys,
ma anche di un’altra nostra scoperta: la famosa “proporzione aurea”. Sotto
Pericle, Policleto scrisse un Canone per fissare le proporzioni matematiche
del corpo umano. Sotto Augusto, Vitruvio le codificò nel cosiddetto “uomo
vitruviano”, descritto nel suo manuale Sull’architettura, in cui propose anche
l’adozione delle solite proporzioni 1:2, 2:3 e 3:4 per la costruzione di case,
templi e teatri. Poco dopo, sotto Nerone e Adriano, si costruirono secondo
canoni pitagorici la Basilica sotterranea di Porta Maggiore e il Pantheon.
Nel Rinascimento, le proposte di Vitruvio furono riprese da Leon Battista
Alberti e Leonardo. Quest’ultimo ridisegnò da par suo l’“uomo vitruviano”
nel 1490. E l’Alberti ripropose le proporzioni della tetrachtys nel trattato
Sull’edilizia del 1450, con questa motivazione:
Sono ogni giorno sempre più convinto del detto pitagorico che la
natura agisce sempre con coerenza, e dovunque allo stesso modo.
Ne concludo che i numeri per mezzo dei quali l’accordo dei suoni
delizia il nostro orecchio, sono gli stessi che piacciono ai nostri
occhi e alla nostra mente. Noi attingeremo perciò tutte le nostre
regole per la rifinitura delle nostre proporzioni dai musicisti, che
sono i massimi maestri di questa sorta di numeri, e dalla musica,
in cui la natura si mostra più eccellente e più completa.
Il culmine del pitagorismo architettonico fu poi raggiunto nel Cinquecento
da Palladio. Da un lato, nella teoria dei Quattro libri dell’architettura. E
dall’altro lato, nella pratica delle ville palladiane costruite in Veneto, che
ispirarono molti edifici pubblici e privati nei nascenti Stati Uniti d’America.
Anche la scienza moderna nacque sotto il mio segno. Già Filolao aveva
proposto un sistema astronomico in cui c’erano dieci corpi celesti, compreso
il Sole e la Terra, che giravano attorno a un fuoco centrale. Aristotele se ne
prese gioco nella Metafisica, dicendo:

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I Pitagorici concepivano i numeri come i princı̀pi di tutte le cose,
e credevano che in cielo ci fosse un’armonia matematica. Quando
trovavano conferme numeriche e armoniche alle proprietà del cielo
e dell’ordine universale, le accoglievano inglobandole nel loro sis-
tema. Ma quando si imbattevano in qualche difetto, non avevano
problemi a fare delle addizioni per adattarlo alla teoria.
Ad esempio, poiché il 10 era perfetto, in quanto somma dei nu-
meri 1, 2, 3 e 4 della tetrachtys, e riassumeva l’intero sistema
armonico, essi ritenevano che dovessero esserci dieci corpi celesti
in movimento. E poiché se ne vedevano solo nove, ne inventarono
un decimo nascosto e invisibile, e lo chiamarono Antiterra.

Ma nel 1543 Copernico citò il sistema di Filolao come un predecessore del


proprio, che voi oggi chiamate Astronomia Copernicana, ma che lui chiamava
allora Astronomia Pitagorica, o Filolaica:

Mi misi a rileggere le opere di tutti i filosofi che avevo a dispo-


sizione, per vedere se mai qualcuno di essi avesse pensato che i
movimenti delle sfere celesti fossero diversi da quelli che ammet-
tono gli insegnanti di astronomia. Scoprii in Plutarco che alcuni
avevano già intuito che la Terra si muove: trascrivo qui le sue
parole affinché divengano note a tutti.
“E’ opinione comune che la Terra stia ferma. Ma il pitagorico
Filolao dice che gira attorno al fuoco in un’orbita obliqua, e che
cosı̀ fanno anche il Sole e la Luna. Anche il platonico Eraclide
e il pitagorico Ecfanto fanno muovere la Terra, ma di un diverso
moto rotatorio: alla maniera di una ruota infilata in un asse, che
gira attorno al proprio centro da Occidente a Oriente.”

Nel 1619 Keplero derivò la sua terza legge sul moto dei pianeti all’interno
della teoria astronomico-musicale da lui sviluppata nell’Armonia del mondo.
E nel 1687 Newton, moderna reincarnazione della mia duplice natura di ge-
nio e cialatano, sostenne in un commento a suoi Principi matematici della
filosofia naturale che, dietro alla mia teoria musicale, io avevo nascosto (udite,
udite!) niente meno che una formulazione della legge di gravitazione univer-
sale.

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Gli antichi non hanno sufficientemente spiegato con quale inten-
sità decresce la gravità, allontandosi dai pianeti. Ma sembra che
l’abbiano adombrata nell’armonia delle sfere celesti, rappresen-
tando il Sole e gli altri sei pianeti mediante Apollo con la lira
dalle sette corde, e misurando gli intervalli tra le sfere mediante
gli intervalli delle note.
Questo argomento è sottile, eppure era noto agli antichi. Pitagora,
infatti, mise in tensione intestini di pecora e nervi di bue, attac-
cando loro pesi diversi, e scoprı̀ in tal modo i rapporti dell’armonia
celeste. Da un lato, con questi esperimenti scoprı̀ che la ten-
sione prodotta da un peso sulle varie corde è inversamente pro-
porzionale al quadrato delle lunghezze delle corde. Dall’altro lato,
applicando ai cieli la stessa proporzione, scoprı̀ che l’attrazione
prodotta dal Sole sui vari pianeti è inversamente proporzionale al
quadrato delle distanze dei pianeti.
A quell’epoca i Pitagorici erano talmente desiderosi di occultare
il loro misticismo, che di fronte al volgo si arrischiavano a dire
soltanto volgarità, a costo del ridicolo. Per questo Pitagora ma-
scherò il proprio sistema e la vera armonia delle sfere dietro simili
parabole.

Quanto a voi oggi, mantenete ancora alta la mia tradizione. Essa continua
a ispirare l’architettura razionalistica inaugurata dal Bauhaus in Germania,
il De Stijl in Olanda e Le Corbusier in Francia. E vedo con piacere, e noto con
orgoglio, che nella moderna “teoria delle corde” (string theory) la materia è
costituita da minuscole corde vibranti, analoghe a quelle degli strumenti ad
arco, che vibrano in spazi multidimensionali, ma producono non suoni, bensı̀
particelle elementari, come i quark o gli elettroni.
Non vi stupirete, dunque, a sentire che Porfirio scrisse la propria Vita di
Pitagora come un Vangelo laico, per contrappormi addirittura a Cristo come
modello. O che il Santo Uffizio del cardinal Bellarmino condannò e proibı̀
nel 1616 la Lettera sopra l’opinione dei Pitagorici e del Copernico, e il nuovo
sistema pitagorico del mondo. O che Keplero mi chiamò “il nonno di tutti i
copernicani”.
Quanto al premio Nobel per la letteratura Bertrand Russell, nella sua
Storia della filosofia occidentale mi ha praticamente e laicamente santificato.

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Per l’imbarazzo, lascio dunque modestamente a lui il giudizio conclusivo su
di me:

Pitagora è uno degli uomini più notevoli che siano mai esistiti,
sia per la sua saggezza che per la sua follia. La matematica
deduttiva incomincia con lui, e per lui era strettamente connessa
al misticismo. Anche l’influenza della matematica sulla filosofia
incomincia con lui, ed è stata tanto profonda quando incompresa.
Pitagora è uno degli uomini più interessanti e sconcertanti della
storia. Non soltanto le tradizioni che lo riguardano sono un
quasi inestricabile miscuglio di verità e falsità, ma anche nelle
loro forme più semplici e meno discutibili si presentano con un
curiosissimo colorito psicologico. Pitagora può essere descritto,
insomma, come una singolare combinazione di Albert Einstein e
del Dalai Lama.
In Pitagora si trova già l’essenza del platonismo. E’ da lui che
deriva l’intera concezione di un mondo eterno rivelato dall’intellet-
to, ma non dai sensi. Senza di lui i cristiani non avrebbero pen-
sato a Cristo come al Verbo incarnato, e i teologi non avreb-
bero cercato prove logiche dell’esistenza di Dio e dell’immortalità
dell’anima. Per questo dico e affermo di non conoscere nessun
altro uomo che abbia avuto altrettanta influenza nella storia del
nostro pensiero.

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