Sei sulla pagina 1di 35

DIRITTO AMMINISTRATIVO 2

Nel diritto amministrativo sostanziale la garanzia del cittadino nei confronti della
pubblica amministrazione ha un rilievo primario: l’amministrazione deve disporre gli
strumenti più adeguati anche autoritativi per attuare le finalità assegnatele e il
cittadino che deve essere garantito da comportamenti arbitrari o da sacrifici indebiti
imposti dall’amministrazione.

Nello Stato di diritto più evoluto, un punto di equilibrio è ricercato attraverso il


principio di legalità, che subordina il potere dell’amministrazione a regole
predeterminate e che comporta un’ampia riserva al legislatore per la disciplina
dell’azione amministrativa autoritativa.

Le esigenze di tutela del cittadino assumono rilievo anche per altri profili del diritto
amministrativo sostanziale: basti pensare al tema della discrezionalità
amministrativa e dell’eccesso di potere, all’assetto della responsabilità civile
dell’amministrazione e dei suoi agenti, alla disciplina del procedimento
amministrativo. L’amministrazione, proprio perché soggetto pubblico, deve operare
per assicurare le finalità dell’ordinamento ed è tenuta ad agire nel rispetto del diritto
e senza ledere gli interessi giuridicamente riconosciuti dei cittadini. Il diritto
amministrativo, nel disciplinare l’attività amministrativa, detta regole che valgono
anche a garanzia del cittadino.

Gli ISTITUTI DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA svolgono un ruolo tale da garantire un


rimedio quando il diritto sostanziale non sia stato osservato. Nel nostro
ordinamento questi isitituti sono stati elaborati per la tutela del cittadino che abbia
subito un pregiudizio da un’attività amministrativa: sono strumenti di tutela
successiva perché disciplinano la reazione del cittadino nei confronti di un’azione
già svolta dall’amministrazione. Una parte della dottrina nel mettere in evidenza gli
elementi caratteristici della giustizia amministrativa, ha preso in esame il raporto fra
istituti di giustizia amministrativa e i controlli sull’attività amministrativa. Anche i
controlli sugli atti sono previsti per assicurare la regolarità e la correttezza
dell’azione amministrativa e riguardano un’attività amministrativa già conclusa. Si
incentrano sulla verifica della legittimità dell’atto amministrativo e non sulla sua
opportunità, come nel caso dei controlli di merito. La Riforma del Titolo V della
Costituzione (L.cost. 3/2001) ha soppresso il controllo statale sugli atti delle Regioni
e il controllo regionale sugli atti degli enti territoriali. In altri ambiti invece i controlli
sono rimasti: ad esempio per quelli esercitati dalla Corte dei Conti su alcuni atti
dell’amministrazione statale. Negli istituti di giustizia amministrativa, il
procedimento trova ragione nell’interesse del cittadino, tanto che tale interesse non
solo determina l’avvio del procedimento , ma ne condiziona anche lo svolgimento e
il risultato. Fra gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi
amministrativi con i quali la contestazione del cittadino è proposta ad un organo
amministrativo e la decisione è assunta con un atto amministrativo senza alcun
esercizio di funzione giurisdizionale. La controversia in questo caso si svolge ed è
risolta nell’ambito dell’attività amministrativa.

Gli istituti di giustizia amministrativa si caratterizzano per una loro separatezza


rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino, contrapponendosi alla
“giustizia comune”, sulla quale campeggia l’autorità giurisdizionale ordinaria,
considerata da sempre come il “giudice” per eccellenza. Uno dei modelli più
significativi per valutare l’evoluzione del nostro ordinamento è quello francese. In
Francia è radicato il sistema di contenzioso amministrativo nel quale le controversie
fra il cittadino e l’amministrazione sono sottratte al giudice ordinario e sono
devolute ad un giudice speciale (in origine il Consiglio di Stato, al quale si sono
aggiunti i TAR di primo grado e le Corti amministrative d’appello). Si tratta di un
giudice con uno stato giuridico diverso da quello dei magistrati ordinari, inquadrato
nel potere esecutivo e non gode di tutte le garanzie del magistrato ordinario. La sua
giurisdizione è separata da quella ordinaria per cui non si può ricorrere al giudice
ordinario contro la decisione del giudice speciale né viceversa.

In Italia, invece, si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo modellato


su quello francese a un sistema di giurisdizione unica nel 1865 e poi a un sistema
articolato in una giurisdizione del giudice ordinario e in una giurisdizione del giudice
amministrativo. Ogni sistema di giusitizia amministrativa, deve affrontare due
problemi costituiti da due motivi diversi:

-le ragioni di specificità dell’amministrazione nell’ordinamento giuridico (indirizza


verso strumenti di tutela diversi da quelli ordinari o verso forme di tutela diverse da
quelle giurisdizionali). Nel nostro ordinamento la specificità dell’amministrazione è
testimoniata da una tendenza al ricorso a strumenti di diritto privato anche quando
l’amministrazione operi per il perseguimento di una finalità pubblica.

-l’esigenza di una tutela effettiva del cittadino anche nei confronti


dell’amministrazione-autorità (ha indotto a considerare come modello la giustizia
comune nella quale alla parità di posizioni delle parti corrisponde l’elaborazione
delle tecniche più raffinate per la tutela del singolo).

La concezione dell’amministrazione come soggetto tipicamente diverso dagli altri si


affermò in un contesto ispirato al principio della separazione dei poteri . In Francia si
era affermata l’esigenza che il Potere esecutivo, nel quale era inserita
l’Amministrazione, dovesse essere un potere distinto dagli altri , anche se non
superiore agli altri. L’esecutivo non potevaarrogarsi poteri del giudice ordinario , ma
i suoi atti non dovevano neppure essere soggetti al sindacato dei giudici.
L’Amministrazione è un potere autonomo e non deve essere limitato dal potere
giurisdizionale. Altrimenti il giudice giudicando l’amministrazione avrebbe finito con
l’interferire sull’attività amministrativa.

In questo senso risultano significativi due decreti:

-decreto del 1789 sull’organizzazione delle assemblee primarie e amministrative:


esse le amministrazioni di dipartimento e di distretto non potranno subire
interferenze nell’esercizio delle loro funzioni amministrative da alcun atto del potere
giudiziario;

-decreto del 1790 sull’ordinamento giudiziario: le funzioni giurisdizionali sono


distinte e rimangono sempre separate dalle funzioni amministrative . i giudici non
potranno sotto pena di esorbitanza dal loro potere, interferire in qualunque modo
sulle operazioni dei corpi amministrativi, né citare davanti a se gli amministratori a
motivo dell’esercizio delle loro funzioni;

Tutto ciò non comportava l’esclusione di ogni possibilità di tutela per il cittadino. E a
favore del cittadino era conservato un rimedio specifico costituito dal ricorso
gerarchico. Con questo ricorso il cittadino si rivolgeva all’organo gerarchicamente
sovraordinato a quello che aveva emanato l’atto lesivo e richiedeva all’organo
sovraordinato la verifica della legalità dell’atto. L’ordinamento francese prevedeva
che i ricorsi venissero decisi dalle autorità competenti dopo aver acquisito il parere
di alcuni organi consultivi, tra i quali quello più importante era quello del Consiglio
di Stato. Quest’ultimo operava come organo consultivo del Governo che esprimeva
un parere al Capo dello Stato al quale spettava emanare la decisione. A conclusione
di questa evoluzione risultava istituito un giudice capace di sindacare la legittimità
degli atti dell’amministrazione. Ciò non significava però una deroga del principio
della separazione dei poteri in quanto competente a sindacare gli atti
dell’amministrazione era il Consiglio di Stato, autorità ben distinta dai giudici
ordinari e non inserita nell’ordine giudiziario.

Anche in Francia determinate controversie con l’amministrazione sono demandate


al giudice ordinario o perché sono relative a rapporti in cui l’amministrazione
compare come soggetto di diritto comune o perché riguardano posizioni di libertà o
diritti del cittadino. In Francia questa previsione di competenze al giudice ordinario
ha comportato la necessità di istituire nel 1848 un organo che potesse decidere, nei
casi controversi, se la vertenza spettasse al giudice ordinario o al giudice speciale, il
TRIBUNALE DEI CONFLITTI. Quest’ultimo è composto da uno stesso numero di
magistrati della Cassazione e di Consiglieri di Stato. L’assetto della giustizia
amministrativa in Italia è stato influenzato dal modello francese. Con l’istituzione
della IV Sezione del Consiglio di Stato nel 1889, vi sono state tendenze che hanno
orientato il rapporto tra giudice ordinario e giudice amministrativo secondo la
distinzione fra DIRITTI SOGGETTIVI e INTERESSI LEGITTIMI: la giurisdizione
amministrativa giudica degli interessi legittimi, la giurisdizione ordinaria giudica dei
diritti soggettivi. Tuttavia neppure il modello italiano segue indiscrimanatamente
questa classificazione perché in alcuni ambiti la competenza del giudice
amministrativo non dipende dalla configurabilità di una posizione soggettiva come
interesse legittimo, ma dipende dalla inerenza della controversia a una certa materia
(GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO).

Inoltre nei casi controversi in cui bisogna decidere se la competenza è del giudice
ordinario o del giudice speciale, la decisione o la questione di giurisdizione è
demandata alla Cassazione. Pertanto nel nostro ordinamento spetta ad un giudice
ordinario interpretare e definire i limiti della giurisdizione del giudice speciale: per
questo profilo non vi è equilibrio perfetto fra i due ordini di giudici, ma si delinea
una prevalenza del giudice ordinario.

LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA


(CAPITOLO 2)

Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche in Italia


nell’epoca napoleonica. Nel Regno di Sardegna, Carlo Alberto costituì un Consiglio
di Stato con funzioni consultive articolato in 3 sezioni:

-sezione dell’Interno;
-sezione di Giustizia, Grazia e affari ecclesiastici;

-sezione di Finanza.

Lo stesso editto stabiliva che il parere del Consiglio di Stato dovesse essere acquisito
obbligatoriamente prima dell’adozione di certi atti, fra gli altri, atti con forza di legge,
regolamenti, conflitti fra giurisdizione giudiziaria e amministrazione. Fu istituito ben
presto un vero e proprio sistema di contenzioso amministrativo. Questo si fondava
sulla distinzione fra controversie riservate all’amministrazione , per le quali era
ammesso solo un ricorso a un’autorità amministrativa e controversie di
amministrazione contenziosa. Vi era poi un elenco di materie per le quali era
ammesso il ricorso al Consiglio di intendenza e in secondo grado alla Camera dei
conti alle quali la giurisprudenza riconobbe carattere di organi giurisdizionali. Il ruolo
di questi giudici speciali fu oggetto di vivaci polemiche dopo che lo Statuto albertino
enunciò come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice ordinario.
Una serie di decreti reali accolsero e confermarono il sistema del contenzioso
amministrativo articolato in Consigli di governo, organi di primo grado, designati
anche come giudici ordinari del contenzioso amministrativo e Consiglio di Stato,
organo principalmente di secondo grado. In base a questi decreti ne derivava il
seguente quadro:

- Era esclusa dal sindacato giurisdizionale la amministrazione economica, cioè


l’attività amministrativa non disciplinata da norme di legge o di regolamento o
rimessa a valutazioni dell’amministrazione. In questi casi non vi era neppure
spazio per una tutela giurisdizionale del cittadino che poteva svolgersi solo
nell’ambito dell’amministrazione stessa per mezzo di ricorsi gerarchici.
- In alcune materie elencate dalla legge, la tutela dei cittadini verso
l’amministrazione era demandata ai giudici ordinari del contenzioso
amministrativo, sistema articolato nei Consigli di Stato e Consigli di Governo,
ai quali spettavano le controversie in materie di contratti d’appalto e analoghi
dell’amministrazione, le controversie per imposte dirette e tasse;
- In altre materie individuate da leggi speciali, la tutela dei cittadini era
demandata a giudici speciali del contenzioso amministrativo che avevano una
competenza più ampia. Questo era il caso delle controversie in materia di
contabilità pubblica , demandate alla Corte dei Conti, e delle controversie in
materia di pensioni, demandate al Consiglio di Stato. Quest’ultimo era quindi
giudice speciale del contenzioso amministrativo in unico grado, in materia di
pensioni e giudice ordinario del contenzioso amministrativo, in grado
d’appello;
- Negli altri casi la competenza spettava al giudice ordinario, ossia ai giudici
civili.

Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti, positivi o
negativi fra amministrazioni e giudici e fra giudici del contenzioso amministrativo e
giudici ordinari. I conflitti si presentavano quando due autorità di ordini diversi
rivendicavano la medesima competenza, c.d. conflitti positivi, oppure quando
escludevano la loro competenza in situazioni che dovevano spettare o all’una o
all’altra , c.d. conflitti negativi.

Per la risoluzione di questi conflitti fu introdotta la Legge del 1859, in base alla quale
il conflitto poteva anche essere sollevato dal rappresentante locale del potere
esecutivo al quale era riconosciuta anche una certa capacità di interferire sul
procedimento giurisdizionale perché poteva imporre la sospensione del giudizio. La
decisione dei conflitti era assunta con decreto reale previo parere del Consiglio di
Stato su proposta del ministro dell’interno sentito il Consiglio dei Ministri.

Ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo non erano conferiti poteri di


annullamento rispetto agli atti amministrativi dedotti in giudizio.

Nel complesso i giudici del contenzioso amministrativo dimostravano maggiore


propensione rispetto ai giudici ordinari a verificare la legalità e la giustizia degli atti
amministrativi.

IL DECLINO DEI TRIBUNALI DEL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO

Le discussioni sulla presenza di giurisdizioni speciali (contenzioso amministrativo)


non furono superate dalla riforma del 1859. Subito dopo furono sottratte alla
giurisdizione dei giudici ordinari del contenzioso amministrativo, quello fiscale. A
sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano tre ordini di
considerazioni:

- La tutela dell’interesse pubblico;


- L’esclusione delle garanzie di inamovibilità ed imparzialità previste per i
giudici ordinari;
- La specialità del diritto dell’amministrazione: le controversie demandate ai
giudici del contenzioso amministrativo riguardavano istituti diversi da quelli
del diritto comune per cui era opportuno che fossero demandate a un giudice
diverso da quello ordinario.

LA LEGGE 20 MARZO 1865, n.2248: allegato E, definita legge di abolizione del


contenzioso amministrativo. Questa attuò in alcuni settori l’unificazione
dell’ordinamento amministrativo italiano, abrogando le discipline degli Stati
preunitari che erano rimaste ancora in vigore. Era costituita da 6 testi normativi
allegati alla legge stessa:

- Allegato A: legge sull’amministrazione comunale e provinciale;


- Allegato B: legge sulla sicurezza pubblica;
- Allegato C: legge sulla sanità pubblica;
- Allegato D: legge sul Consiglio di Stato;
- Allegato E: legge sul contenzioso amministrativo;
- Allegato F: legge sui lavori pubblici;

L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato. Non erano previste


particolari garanzie di indipendenza né per quanto riguarda la nomina dei suoi
componenti né per quanto riguardava la loro inamovibilità; la continuità con
l’amministrazione era sottolineata dalla possibilità per i Ministri di intervenire alle
sedute direttamente o attraverso delegati. Fu confermata l’articolazione in tre sezioni
precedenti (interno, grazia, giustizia-culti, finanze) che in taluni casi operavano
collegialmente in adunanza generale. Inoltre, il presidente del Consiglio di Stato
poteva formare, per l’esame di questioni particolari, Commissioni speciali, desigando
i consiglieri che ne avrebbero fatto parte. Al Consiglio di Stato erano assegnate
competenze consultive: in alcuni casi il parere del Consiglio di Stato era
obbligatorio, sopra tutte le proposte di regolamenti genarali di Pubblica
amministrazione e sui ricorsi fatti al Re contro la legittimità di provvedimenti
amministrativi sui quali siano esaurite e non possano proporsi domande di
riparazione in via gerarchica. Nella normativa sul Consiglio di Stato, si faceva
riferimento al ricorso al Re, definito come ricorso straordinario perché poteva
essere proposto solo dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi
gerarchici. In alcune ipotesi tassative il Consiglio di Stato esercitava anche funzioni
giurisdizionali, come giudice speciale (esercita giurisdizione propria). Con la legge
800/62 erano state assegnate alla Corte dei Conti le competenze in materia di giudizi
per pensioni a carico dello Stato, oltre a quelle in materia contabile. Dall’allegato D
furono assegnate al Consiglio di Stato come giudice speciale competenze minori, per
controversie in materie di debito pubblico e di sequestri di beni ecclesiastici , oltre ad
altre previste da leggi speciali. In questi casi il procedimento aveva carattere
contenzioso e la decisione poteva comportare l’annullamento dell’atto
amministrativo.

Al Consiglio di Stato come giudice speciale fu conferita una competenza di


particolare rilevanza istituzionale: la risoluzione dei conflitti fra amministrazione e
autorità giurisdizionale
L’allegato E viene designato come legge di abolizione del contenzioso
amministrativo perché disponeva la soppressione dei giudici ordinari del
contenzioso amministrativo. Nessuna innovazione era apportata alla giurisdizione dei
giudici speciali del contenzioso amministrativo. In questo allegato fu delineato il
seguente assetto della giustizia amministrativa:

- Tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia


questione di un diritto civile e politico furono assegnate al giudice ordinario;
rispetto a queste cause era assegnata al giudice ordinario una giurisdizione che
non subiva deroghe per il fatto che parte in giudizio fosse un’amministrazione
o che fossero coinvolti i suoi interessi.
- Gli affari non compresi furono riservati alle autorità amministrative: si poteva
trattare solo di vertenze che non avessero natura penale e che non avessero
come oggetto un diritto civile e politico. In questo ambito erano introdotte
alcune garanzie per i cittadini. In primo luogo era previsto che le autorità
amministrative avrebbero provveduto con decreti motivati con l’osservanza del
contraddittorio con le parti interessate e previa acquisizione del parere di
organi consultivi. In secondo luogo, nei confronti dei decreti assunti dalla
pubblica amministrazione, fu consentito il ricorso in via gerarchica. Queste
disposizioni definivano quindi il quadro dei c.d. “limiti esterni” della
giurisdizione civile nei confronti dell’amministrazione, ossia l’ambito delle
controversie demandate alla competenza del giudice ordinario. Questi limiti
esterni si contrappongono a quelli interni , che identificano i poteri che il
giudice può esercitare verso l’amministrazione nella decisione delle
controversie di propria competenza. Inoltre, questi limiti, rispecchiavano la
distinzione fra le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o
politico e gli altri affari. L’espressione diritti civili e politici non poteva
ritenersi onnicomprensiva. Solo successivamente fu equiparata alla nozione di
“diritti soggettivi”. Dunque la tutela del cittadino nei confronti
dell’amministrazione risultava così articolata:
1) Nelle materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico era
ammessa la tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario;
2) Nelle altre materie la tutela del cittadino si risolveva nell’ambito
dell’amministrazione stessa ed era ammesso perciò solo il ricorso
gerarchico. In ogni caso, in base all’allegato D la legittimità dei
provvedimenti amministrativi poteva essere contestata dai cittadini con il
ricorso al Re.
- Nelle controversie di competenza del giudice ordinario le ragioni della
specificità dell’amministrazione trovavano un riscontro nei “limiti interni”
della giurisdizione civile. L’equilibrio tra garanzia della tutela giurisdizionale e
separazione dei poteri era ricercato ammettendo un sindacato del giudice
ordinario solo sulla legittimità dell’atto amministrativo e non sulla opportunità
o convenienza: queste ultime potevano essere valutate dall’amministrazione
stessa e le eventuali contestazioni del cittadino circa l’opportunità o la
convenienza di un atto potevano essere svolte solo in via amministrativa, cioè
solo con i ricorsi gerarchici. Era riconosciuta al giudice ordinario la
competenza a sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non di
annullarlo, revocarlo o modificarlo poiché quest’azione era riservata
all’amministrazione. Sempre con riferimento ai limiti interni della
giurisdizione ordinaria, l’art. 5 della legge introduceva il controverso istituto
della “disapplicazione” dell’atto amministrativo da parte del giudice
ordinario. Quando la controversia investiva un atto amministrativo , il giudice
ordinario per la sua decisione doveva prescindere da quanto disposto nell’atto
stesso, qualora quest’ultimo fosse risultato illegittimo. L’atto illegittimo non
poteva essere eliminato dal giudice, in quanto l’annullamento di atti
amministrativi spettava all’amministrazione, infatti l’atto illegittimo doveva
solo essere disapplicato;
- L’amministrzione non era sottratta agli effetti della sentenza in quanto era
tenuta a conformarsi al provvedimento del giudice (giudicato) nei limiti del
caso deciso. Questa ottemperanza al giudicato individuava un criterio del
rapporto istituzionale fra potere amministrativo e potere giurisdizionale con la
prevalenza del primo rispetto al secondo, in termini di atti e non di organi.

IL BILANCIO DELL’ALLEGATO E NEI PRIMI ANNI SUCCESSIVI AL 1865: Il


sistema delineato nell’allegato E della legge del 1865, avrebbe potuto assicurare in
astratto una tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione, dove sarebbe però
stato necessario attuare in modo adeguato l’art.3 della relativa legge, sulla tutela del
cittadino nel procedimento amministrativo e attraverso i ricorsi gerarchici. Invece la
norma non venne applicata in quanto era intesa come una disposizione
programmatica e non precettiva e l’istituto del ricorso gerarchico venne screditato dal
fatto che l’amministrazione non assumeva decisioni imparziali. Inoltre, sarebbe stata
necessaria un’applicazione della legge che riconoscesse al giudice ordinario tutti gli
spazi di tutela che prima erano assegnati ai tribunali del contenzioso amministrativo.

Invece nell’interpretazione degli artt. 2 e 3 della legge, prevalse una linea restrittiva,
alla quale lo stesso giudice ordinario in sostanza si adeguò. L’interpretazione era
rimessa in ultima istanza al Consiglio di Stato al quale spettava decidere come
giudice dei conflitti se una vertenza fosse di competenza dell’autorità giurisdizionale
o fosse riservata all’amministrazione. Emergeva la tendenza ad escludere la
competenza del giudice civile quando la vertenza riguardava provvedimenti
dell’autorità amministrativa e anche quando questi non fossero fondati su valutazioni
discrezionali. La competenza di questo giudice veniva invece ammessa
esclusivamente in presenza di atti dell’amministrazione emanati non a tutela di un
interesse pubblico generale, ma a tutela di un interesse personale o patrimoniale
dell’amministrazione stessa. Si profila quindi una concezione che avrebbe affermato
l’incompatibilità fra il diritto soggettivo e il provvedimento (atto d’imperio)
dell’amministrazione. A questa stregua la soppressione dei tribunali del contenzioso
amministrativo aveva ridotto lo spazio di tutela giurisdizionale per il cittadino e non
aveva per nulla comportato l’estensione della giurisdizione civile a tutti gli ambiti
precedentemente occupati dai giudici soppressi.

LA LEGGE SUI CONFLITTI DEL 1877: attribuì alla Corte di Cassazione di Roma
la decisione sui conflitti, sia positivi che negativi, insorti fra Amministrazione e
Autorità giudiziaria (conflitti di attribuzione), ovvero fra giudici ordinari e giudici
speciali (conflitti di giurisdizione). Alla Cassazione di Roma fu attribuito il potere di
decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei giudici speciali impugnate per
incompetenza (difetto di giurisdizione) ed eccesso di potere (assunzione di una
decisione esorbitante nell’ambito delle attribuzioni di qualsiasi giudice, il c.d.
straripamento di potere. In tutti questi casi la Cassazione di Roma doveva decidere
a sezioni unite.

L’AFFERMAZIONE DI UNA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA

(CAPITOLO 3)

I risultati della riforma del 1865 furono insoddisfacenti: infatti la tutela del cittadino
nei confronti dell’amministrazione era tutt’altro che realizzata e l’abolizione del
sistema del contenzioso amministrativo aveva comportato un indebolimento delle
garanzie offerte al cittadino. Si doveva quindi garantire l’attuazione di una tutela più
ampia e incisiva del cittadino nei confronti dell’amministrazione e l’individuazione di
un organo a cui affidare tale tutela. In relazione al primo problema, si affermava una
tendenziale incompatibilità fra il diritto soggettivo (situazione soggettiva tutelata dal
giudice ordinario) e il provvedimento amministrativo: il diritto soggettivo del
cittadino era riconosciuto e garantito nei confronti dell’amministrazione solo quando
essa agiva iure privatorum. Liddove invece interveniva un provvedimento
amministrativo di regola vi erano solo interessi. Di conseguenza si delineava una
contrapposizione fra:
- Diritti che in quanto tali erano passibili di una tutela giurisdizionale in forza
dell’art.2 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo ;
- Interessi diversi dai diritti soggettivi che erano privi di una tutela
giurisdizionale anche quando risultavano di grande importanza per il cittadino
e riguardavano profili dell’attività amministrativa disciplinati dalla legge.

Sorgeva l’esigenza di introdurre uno strumento di tutela per questi interessi


configurabili quando l’amministrazione emana atti di imperio ed opera in base a un
potere assegnatole dal diritto pubblico. A tale esigenza diede riscontro la legge del
1889, in base alla quale la tutela degli interessi fu demandata al Consiglio di Stato,
ma non alle 3 sezioni già esistenti che svolgevano una funzione consultiva per il
Governo, ma ad una nuova sezione, la QUARTA SEZIONE DEL CONSIGLIO DI
STATO. Ad essa dovevano presentare i ricorsi i cittadini che erano stati lesi nei loro
interessi da atti dell’amministrazione. La legge del 1889, si presentava come una
legge di modifica dell’allegato D della legge 1865. I primi articoli istituivano una 4
sezione del Consiglio di Stato, designata come sezione per la giustizia amministrativa
la cui competenza era definito dall’art. 3: era demandata la tutela di interessi,
designati genericamente come interessi d’individui o di enti morali giuridici. La loro
distinzione rispetto ai diritti si desumeva dal fatto che la competenza della Quarta
sezione non poteva interferire con quella del giudice ordinario (Autorità giudiziaria).
La tutela di questi interessi si realizzava con ricorsi contro atti e provvedimenti di
un’Autorità amministrativa e quindi nelle forme dell’impugnazione del
provvedimento amministrativo. Al centro del contenzioso tra cittadino e
amministrazione si colloca il provvedimento amministrativo che rifletteva la
convinzione dell’incompatibilità tra diritto soggettivo e l’esercizio del potere
d’imperio, di cui era espressione tipica il provvedimento amministrativo. La tutela del
cittadino si configurava, nella legge del 1889, come tutela contro il provvedimento
amministrativo.

Ai sensi dell’art.17 i ricorsi alla Quarta Sezione erano mezzi di impugnazione del
provvedimento e producevano per il ricorrente l’annullamento del
provvedimento impugnato. La tutela era ammessa solo nei confronti di un atto
che fosse già produttivo dei suoi effetti. Era perciò una tutela successiva e non
preventiva. In questa logica l’art.12 disponeva che i ricorsi non hanno effetto
sospensivo, infatti per gravi ragioni, su istanza del ricorrente, la Quarta sezione
poteva sospendere l’esecuzione dell’atto o del provvedimento, ma la presentazione
del ricorso di per sé non incideva sull’esecutività del provvedimento né sull’esercizio
successivo della funzione amministrativa. Il ricorso poteva essere proposto dal
cittadino per impugnare un provvedimento affetto da vizi tassativamente indicati
dalla legge:

-incompetenza: vizio degli elementi soggettivi dell’atto amministrativo; era


identificata nei casi in cui l’organo che aveva emanato l’atto impugnato non fosse
titolare della competenza a provvedere.

-eccesso di potere: non inteso dalla Quarta sezione come straripamento di potere, al
quale, invece, faceva riferimento la legge sui conflitti del 1877, ma intese un uso
gravemente scorretto del potere discrezionale da parte dell’amministrazione. L’atto
illegittimo era tale perché in contrasto con alcuni principi generali, ritenuti vincolanti
per l’amministrazione (dovere di imparzialità, principio di ragionevolezza). Se non
era messa in discussione la violazione di questi principi, allora il sindacato sulla
discrezionalità amministrativa non era possibile per la Quarta sezione e rimaneva
riservato all’autorità amministrativa e ai ricorsi gerarchici. Questo ambito estraneo al
sindacato della Quarta sezione venne poi designato come merito dell’atto
amministrativo.

-violazione di legge: vizio specifico rappresentato dal contrasto tra un elemento del
provvedimento o del suo procedimento e una disposizione contenuta nella legge o in
altra fonte del diritto.

In esito al dibattito sul riparto della competenza fra giudici civili e Quarta sezione, la
tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione, nell’ambito della riforma del
1889, fu ricondotta a uno schema basato sulla distinzione fra posizioni soggettive. La
tutela nell’ambito dei diritti soggettivi era demandata al giudice ordinario e rispetto
ad essa non si riscontravano modificazioni di rilievo nella legge istitutiva della
Quarta sezione. A questi si contrapponevano però gli interessi propri dei cittadini,
designati poi come interessi legittimi, la cui tutela sarebbe stata demandata alla
Quarta sezione; infine permaneva un ambito di attività riservata all’amministrazione.

In questo ambito risultava poco chiara la figura del ricorso gerarchico, ma la legge
del 1889, introduceva un rapporto ben preciso tra il ricorso alla Quarta sezione, che
era ammesso solo contro un provvedimento definitivo, ossia per il quale fossero stati
esperiti tutti i gradi della tutela gerarchica e il ricorso gerarchico (straordinario) al
Re,che in base all’art.7 della L.89, introduceva la regola della sua alternatività con il
ricorso alla Quarta sezione. Tuttavia vi fu la convinzione che il ricorso gerarchico
avesse un ambito più ampio e potesse tutelare interessi minori rispetto a quelli
tutelabili col ricorso alla Quarta sezione.
Lo schema articolato nella distinzione fra posizioni soggettive non era l’unica
interpretazione della legge del 1889. Anche altre interpretazioni sarebbero state
possibili: al termine interesse si poteva riconoscere un significato più ampio, non
come nozione alternativa al diritto soggettivo, ma comprensiva di qualsiasi pretesa di
fatto compatibile con l’ordinamento giuridico. Ad ogni modo, dalla tutela imperniata
sulla Quarta sezione erano esclusi gli atti emanati dal governo nell’esercizio del
potere politico. Questa categoria degli atti politici, consisteva in atti riconducibili a
funzioni superiori di governo, ma non solo di atti politici di rilevanza costituzionale.
La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di legittimità
sull’atto amministrativo. In alcuni casi particolari, la legge del 1889, attribuiva alla
Quarta sezione un sindacato anche in merito. In questo caso la quarta sezione, in
caso di accoglimento del ricorso, non avrebbe dovuto limitarsi ad annullare l’atto
impugnato, ma avrebbe potuto esercitare poteri più ampi ed assumere una decisione
sulla pratica in sostituzione del povvedimento annullato. Fra le ipotesi di sindacato
anche in merito, la legge prevedeva quello del giudizio di ottemperanza, rendendo
così giustiziabile l’obbligo dell’amministrazione di ottemperare al giudicato dei
giudici ordinari. Successivamente alla legge Crispi del 1889, con la legge del 1890,
fu attribuita alla Giunta provinciale amministrativa (organo statale che esercitava il
controllo sugli enti locali) una competenza modellata su quella della Quarta sezione,
ma limitata alla tutela nei confronti di taluni atti di amministrazioni prevalentemente
locali. Contro le pronunce della Giunta era ammesso ricorso alla Quarta sezione.

La legge del 1889, non indicava la natura amministrativa o giurisdizionale (come


giudice speciale) della Quarta sezione; infatti, le sue pronunce non erano indicate
come sentenze, bensì come decisioni, termine che indicava anche le pronunce di
autorità amministrative e richiamava le decisioni dei ricorsi gerarchici. La tesi del
carattere giurisdizionale della Quarta sezione fu accolta dalla Cassazione alla quale la
legge del 1877 assegnava i ricorsi contro le decisioni dei giudici speciali per motivi di
giurisdizione. Quest’ultima dichiarando inammissibili i ricorsi del genere contro le
decisioni del Consiglio di Stato, riconobbe alla Quarta sezione il carattere di giudice
speciale e alle decisioni di essa il valore di sentenze.

Ma, ogni discussione a riguardo , fu superata dalla legge del 1907 n.62, che
riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale della Quarta sezione introducendo
la distinzione fra sezioni consultive del Consiglio di Stato (le prime tre) e sezioni
giurisisdizionali e contemplò la possibilità del ricorso alla Corte di cassazione agli
effetti della legge del 1877 contro le decisioni delle sezioni giurisdizionali. Inoltre
istituì la QUINTA SEZIONE del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla
quale erano demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito, mentre alla Quarta
sezione, erano riservati i ricorsi nei casi generali in cui il sindacato era limitato alla
legittimità. Il coordinamento fra le due sezioni era affidato alle Sezioni riunite
(ADUNANZA PLENARIA) composta dai componenti di entrambe le sezioni. Altre
innovazioni della legge del 1907 riguardavano:

-la disciplina dell’istruttoria nel processo amministrativo, differenziata in relazione


alla sezione competente per il giudizio e cioè in relazione al fatto che la competenza
fosse circoscritta alla legittimità o estesa al merito;

-la disciplina del procedimento avanti alle Giunte provinciali amministrative, alle
quali fu riconosciuto carattere giurisdizionale, con riferimento alle funzioni
contenziose;

-la disciplina del ricorso straordinario al Re, dove fu fissato un termine perentorio per
la presentazione del ricorso.

In attuazione della legge del 1907, e del relativo testo fu emanato il regio decreto con
il REGOLAMENTO PER LA PROCEDURA dinanzi alle sezioni giurisdizionali del
Consiglio di Stato.

La legge del 1907, ha orientato la distinzione tra giurisdizione amministrativa e


quella ordinaria nei termini di una distinzione fra posizioni soggettive. Al Consiglio
di Stato in sede giurisdizionale non fu assegnato spazio alla tutela dei diritti
soggettivi, lasciato scoperto dall’art.4 della legge di abolizione del contenzioso
amministrativo. Ma allo stesso, era assegnato il compito di tutelare posizioni
soggettive particolari, giuridicamente qualificate, distinte dai diritti soggettivi e
definite interessi legittimi.

La legge n.2840 del 1923 cui fece seguito il testo unico delle leggi sul Consiglio di
Stato, approvato con regio decreto n.1054 del 1924, introdusse due ordini di
innovazioni:

- Al giudice amministrativo, nei giudizi di sua competenza, fu riconosciuta la


capacità di conoscere in via incidentale le posizioni di diritto soggettivo, fatta
eccezione per le questioni relative allo stato e alla capacità delle persone e la
querela di falso, riservate al giudice ordinario. La possibilità di una cognizione
incidentale dei diritti consentiva di evitare che in un giudizio amministrativo, la
necessità di esaminare una questione inerente a diritti soggettivi comportasse
sempre la sospensione del giudizio e la rimessione delle parti avanti al giudice
civile.
- In alcune materie elencate dalla legge, fra le quali il pubblico impiego, al
giudice amministrativo fu attribuita la possibilità di conoscere e di giudicare in
via principale anche di diritti soggettivi. In queste materie quindi, la tutela
giurisdizionale, era devoluta interamente al giudice amministrativo
(giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).nell’ipotesi di
giurisdizione esclusiva, la tutela dei diritti era aggiuntiva rispetto a quella degli
interessi, con la conseguenza che si potevano avere casi di giurisdizione
esclusiva in cui il giudice amministrativo esercitava solo una giurisdizione di
legittimità e casi in cui esercitava anche una di merito. Al giudice ordinario
inoltre, anche nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo erano riservate le questioni attinenti ai diritti patrimoniali
conseguenziali (identificati con il diritto al risarcimento del danno rilevante in
seguito all’annullamento di un provvedimento amministrativo che avesse
inciso su un diritto soggettivo)alla pronuncia di legittimità dell’atto o
provvedimento contro cui si ricorre.

La riforma del 1923-24 introdusse alcune modifiche anche all’ordinamento del


Consiglio di Stato, tra le quali vi è la distinzione di competenze tra Quarta e
Quinta sezione che fu superata e fu di ordine meramente interno. In conseguenza
di ciò, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ha essenzialmente il compito di
risolvere e prevenire i contrasti di giurisprudenza fra le due sezioni.

Anche l’entrata in vigore della Costituzione comportò mutamenti limitati, che


riguardavano l’assetto organizzativo della giurisdizione amministrativa. Era stata
istituita una Sesta sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, omologa
alla Quarta e alla Quinta. Subito dopo, venne istituito il Consiglio di giusitizia
amministrativa per la regione siciliana. Solo nella seconda metà degli anni’60 del
900 l’incidenza dei principi costituzionali risultò più evidente in considerazione
delle norme sull’indipendenza del giudice. Gli interventi della Corte costituzionale
e l’avvio delle Regioni a statuto ordinario resero più urgente l’attuazione dell’art.
125 Cost. sulla istituzione in ogni regione di un giudice amministrativo di primo
grado. Con la legge n.1034 del 1971 (LEGGE TAR) furono istituiti nei
capoluoghi di provincia. I TAR furono istituiti come giudici amministrativi di
primo grado, dotati di competenza generale per le controversie per gli interessi
legittimi e per quelle sui diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva. Ad
essi furono assegnate anche le controversie sulle operazioni elettorali per le
elezioni amministrative. Nei confronti delle sentenze del TAR fu previsto
l’appello alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato che a partire dalla
riforma del 1971 si configurano come giudici di secondo grado.
Dopo l’istituzione dei TAR, a partire dagli anni ’90 del 900, gli interventi
legislativi seguivano due indirizzi principali: erano dettate discipline speciali per
accelerare lo svolgimento del processo ed erano incrementati i casi di
giurisdizione esclusiva.

Nel primo caso si era verificato uno squilibrio tra il numero dei ricorsi proposti e
quello dei ricorsi decisi, che aveva comportato una dilatazione della durata media
dei giudizi. Per affrontare questo problema venivano introdotte disposizioni
speciali che avrebbero dovuto assicurare una decisione più celere. In alcuni casi a
questi fini fu privilegiata la rilevanza istituzionale della pretesa del cittadino. Così
la legge 241/90 poi modificata dalla legge 80/2005, nel prevedere il diritto di
accesso ai documenti amministrativi, introdusse per la sua tutela un rito speciale,
di competenza del giudice amministrativo caratterizzato da procedure accelerate.

Nel secondo caso, vi fu l’introduzione di ulteriori ipotesi di giurisdizione


esclusiva. L’ampliamento della giurisdizione esclusiva non rispondeva solo
all’esigenza di rendere più agevole la tutela del cittadino, ma si affermava anche la
necessità di privilegiare il ruolo del giudice amministrativo nelle vertenze con
l’amministrazione che risultavano più importanti per gli interessi generali della
collettività. Questo tendenza ad ampliare la giurisdizione esclusiva ricevette
maggiore impulso con la riforma del pubblico impiego. Per molte categorie di
dipendenti pubblici, il rapporto con l’amministrazione non era più un rapporto
pubblicistico, bensì contrattuale, civilistico, anche se con profili di specialità. Nel
1997 fu conferita al Governo una delega per devolvere al giudice ordinario tutte le
nuove controversie dei dipendenti assoggettati a un rapporto contrattuale, nonché
per estendere la giurisdizione esclusiva alle controversie aventi ad oggetto diritti
patrimoniali consequenziali in materia urbanistica, edilizia e di servizi pubblici.
Con il D.Lgs. 80/98, il Governo assegnò alla giurisdizione esclusiva quasi tutte le
vertenze con l’amministrazione in materia di pubblici servizi e di edilizia e
urbanistica; il legislatore delegato stabilì inoltre che nelle materie devolute alla
giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo sarebbe stato competente anche
per le domande di risarcimento del danno ingiusto cagionato
dall’amministrazione. Gli artt. 33 e 34 del d.lgs. 80/98 furono dichiarati illegittimi
dalla Corte Costituzionale per eccesso di delega, riproponendone, il Parlamento, il
testo in una legge ordinaria n.205/2000. Con questa legge erano state introdotte
importanti novità, tra le quali alcune materie acceleratorie riguardavano ogni
ordine di controversie. Fu consentito al collegio di anticipare in alcuni casi la
decisione del ricorso già nella fase cautelare e fu assegnata al presidente
dell’organo giurisdizionale la competenza di dichiarare l’estinzione del giudizio.
Con la legge 69/2009, il Parlamento conferì una delega al Governo, affidando la
redazione del testo del decreto legislativo al Consiglio di Stato, con il quale furono
approvati 4 allegati:

-CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (c.p.a.);

-NORME DI ATTUAZIONE AL CODICE;

-NORME TRANSITORIE;

-NORME DI COORDINAMENTO E LE ABROGAZIONI;

Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (D.Lgs. 104/2010)
vennero abrogate quasi tutte le disposizioni precedenti sul processo
amministrativo. La legge di delega prevedeva che il Governo entro 2 anni dal suo
primo esercizio, potesse emanare ulteriori decreti legislativi con le correzioni e
integrazioni che l’applicazione pratica renda necessarie e opportune. Furono
quindi introdotte disposizioni correttive e integrative. All’applicazione del codice,
vi fu una discussione soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la
giurisdizione civile, nonché l’idoneità degli strumenti previsti per la tutela dei
diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva, i mezzi istruttori. Anche
l’introduzione del processo amministrativo telematico è stata motivata con
l’esigenza di una maggiore efficienza. In altri Paesi, per ridurre il carico di lavoro
agli organi giurisdizionali, sono stati valorizzati i rimedi alternativi di soluzione
delle controversie. Questi ultimi dovrebbero prevedere l’intervento di un soggetto
qualificato e terzo rispetto alle parti in causa, al quale possono essere assegnate
funzioni decisorie ma anche di mediazione e di conciliazione. Per le vertenze sui
contratti d’appalto dell’amministrazione è stato porposto di valorizzare l’autorità
di settore, l’ANAC, la quale possa rendere pareri con effetti vincolanti per la parte
che ne abbia fatto richiesta sulle questioni insorte durante lo svolgimento delle
procedure di gara.

CAPITOLO IV

L’INTERESSE LEGITTIMO

Nel nostro diritto ammin istrativo le posizioni giuridicamente rilevanti del


cittadino nei confronti dell’amministrazione vengono articolate in interessi
legittimi e diritti soggettivi.

L’interesse legittimo è inteso come una posizione diversa e alternativa rispetto al


diritto soggettivo. Di conseguenza è fondamentale stabilire se nei confronti
dell’amministrazione, il cittadino sia titolare di un interesse legittimo o invece di
un diritto soggettivo. La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi può
apparire agevole quando si confrontino certe ipotesi stereotipe. Questa distinzione
risulta più difficile in altre ipotesi: si pensi al caso di un’attività vincolata
dell’amministrazione. In questo caso la giurisprudenza e la dottrina prevalenti
ammettono la configurabilità di posizioni di interesse legittimo , ma se l’attività è
vincolata si deve riconoscere che la legge prevede e quindi garantisce direttamente
al cittadino un determinato risultato e in questo modo, la distinzione rispetto alle
obbligazioni scompare. Tra gli elementi propri dell’interessi legittimo:

1) Un primo elemento è costituito dal carattere relativo o relazionale


dell’interesse legittimo: l’interesse legittimo è una posizione correlata
all’esercizio di un potere da parte dell’amministrazione (c.d. potere
amministrativo). L’esercizio del potere produce effetti giuridici nei confronti
dei cittadini: l’amministrazione, disponendo degli interessi che le sono devoluti
dalla legge, distribuisce risorse o le nega, incidendo sulle posizioni giuridiche
dei cittadini. Quindi l’interesse legittimo è la posizione qualificata del cittadino
nei cui confronti assume rilevanza giuridica l’esercizio di tale potere. Il potere
amministrativo è considerato una situazione specifica del diritto pubblico : di
consiguenza non è configurabile un interesse legittimo neppure in presenza di
atti unilaterali dell’amministrazione, quando essi siano riconducibili al diritto
privato.
-In alcune interpretazione è presentato come profilo caratteristico del potere, la
c.d. AUTORITARIETA’ o AUTORITATIVITA’. Di fronte ad un potere
autoritativo dell’amministrazione il cittadino non può opporre un diritto
soggettivo, perché l’amministrazione, attraverso i popri provvedimenti, può
estinguere legittimamente i diritti dei terzi. L’attenzione si sposta quindi sulla
autorità dei provvedimenti amministrativi e quindi sulla loro incidenza
estintiva rispetto a un diritto soggettivo. Il nucleo del potere amministrativo
sarebbe espresso dall’autoritarietà.
-In altre interpretazioni, è considerata come elemento caratteristico del potere
la sua funzionalità alla realizzazione dell’interesse pubblico.
-Altre interpretazioni assumono come caratteristica del potere amministrativo
la sua infungibilità: mentre l’adempimento di un’obbligazione di regola è
sempre fungibile, cosicchè all’inadempimento del debitore si può porre
rimedio con una prestazione equivalente di un terzo, il potere
dell’amministrazione è riservato a uno specifico apparato e solo a tale apparato
è consentito l’esercizio di esso.
-Alcune interpretazioni individuano come elemento tipico del potere la
produzione di effetti giuridici, in termini costitutivi. Potere, significa quindi,
capacità di assumere atti produttivi di effetti giuridici propri. A questi fini
viene accolta come distinzione fondamentale quella fra :
procedimenti dichiarativi: si limitano ad accertare o certificare situazioni già
identificate dalla legge o posizioni già compiutamente definite dalla legge
stessa e nei confronti di essi sarebbero identificabili diritti soggettivi.
Procedimenti costitutivi: hanno un carattere dispositivo perché sono idonei a
produrre effetti giuridici specifici che vengono enunciati nel provvedimento
finale e nei confronti di essi sarebbero identificabili interessi legittimi.
-Un orientamento dottrinale individua come discriminante per la nozione di
potere il fatto che la legge riservi all’amministrazione una competenza
esclusiva, intesa come capacità di operare effettuando valutazioni che possono
essere compiute solo dall’amministrazione e non da altri soggetti. Il potere
quindi si caratterizza per essere riservato a un soggetto, ma questa riserva
attiene alle modalità attraverso le quali l’amministrazione opera ed assume i
suoi atti. Quando la legge riserva a un organo amministrativo l’effettuazione di
certe valutazioni ai fini dell’adozione di provvedimenti , l’attività
dell’amministrazione presenta caratteristiche particolari. La valutazione
dell’amministrazione rileva nella formazione del provvedimento finale
introducendo elementi nuovi rispetto a quelli già determinati nella previsione
normativa. Inoltre, se la valutazione è riservata all’amministrazione non vi è
neppure la possibilità di un sindacato pieno sull’attività amministrativa perché
in questi casi il giudice non ha la capacità di sostituire alla valutazione
compiuta dall’amministrazione una sua propria valutazione. Quando l’attività
amministrativa è discrezionale, l’amministrazione ha la possibilità di introdurre
una regola nuova, determinando, sulla base di una propria scelta , l’assetto
degli interessi nel caso concreto; quando invece l’attività è vincolata ,
l’amministrazione si deve limitare ad applicare una regola già presente
nell’ordinamento, senza poter introdurre da parte sua nulla di ulteriore. Il
cittadino è titolare perciò di un diritto soggettivo, perché anche prima e
indipendentemente dall’attività amministrativa è definito esattamente che cosa
gli spetti e la norma identifica già il risultato dell’attività amministrativa nei
suoi confronti. Se l’attività è discrezionale il cittadino non può vantare una
pretesa giuridica a un determinato risultato perché cio che gli spetta non è
determinabile apriori in base alla legge, ma dipende da una scelta
dell’amministrazione. In questo caso si può solo ammettere un interesse
legittimo. Questa tesi non viene accolta dalla giurisprudenza prevalente : essa
riconosce la presenza di interessi legittimi di fronte a un’attività amministrativa
discrezionale, ma esclude che quando l’attività sia vincolata siano configurabili
diritti soggettivi. La giurisprudenza, rispetto all’attività vincolata, ammette
interessi legittimi quando si possa riconoscere che l’attività amministrativa è
indirizzata a un interesse pubblico specifico; altrimenti identifica invece diritti
soggettivi.
Inoltre, si deve tener presente l’influsso del DIRITTO dell’UNIONE
EUROPEA sul nostro ordinamento. Il diritto dell’ue, impone una tutela
efficace del cittadino nei confronti dell’amministrazione; nello stesso tempo
non contempla la figura dell’interesse legittimo anche perché essa è utilizzata
quasi solo nel diritto italiano. Il Diritto dell’Unione, per i rapporti fra il
cittadino e l’amministrazione, non discrimina fra diritti soggettivi e interessi
legittimi. Di conseguenza per una serie di effetti prevede una tutela del
cittadino che non è condizionata dalla qualificazione delle posizioni soggettive
nel nostro ordinamento come interesse legittimo anziché come diritto
soggettivo. In questi casi anche il legislatore italiano ha dovuto adeguarsi
all’impostazione delle norme europee. Nel complesso l’incidenza del diritto
dell’Unione europea potrebbe condurre nel nostro Paese ad attenuare la
contrapposizione fra interesse legittimo e diritto soggettivo.

Per distinguere gli interessi legittimi dai diritti soggettivi la giurisprudenza ha


accolto una serie di criteri:
1) TESI DELLA DISTINZIONE FRA NORME D’AZIONE E NORME
DI RELAZIONE: l’ordinamento comprenderebbe norme d’azione che
disciplinano un potere e il suo esercizio e norme di relazione che
disciplinano un rapporto iintersoggettivo e i suoi effetti. A questa coppia di
norme corrisponderebbe nel caso di violazione la coppia di qualificazione
degli atti in termini di illegittimità-illiceità e quindi sul piano delle posizioni
soggettive, la coppia interesse legittimo-diritto soggettivo.
2) TESI DELLA DISTINZIONE TRA ATTIVITA’ VINCOLATA
NELL’INTERESSE PUBBLICO E ATTIVITà VINCOLATA
NELL’INTERESSE PRIVATO: secondo la giurisprudenza , l’interesse
legittimo si caratterizzerebbe per il suo confronto con un interesse pubblico.
Quindi se il potere dell’amministrazione è discrezionale sarebbe sempre
configurabile un interesse legittimo; se invece il potere è vincolato, allora si
dovrebbe distinguere se il potere sia attribuito nell’interesse del cittadino o
nell’interesse dell’amministrazione e nel primo caso vi sarebbe un diritto
soggettivo, nel secondo un interesse legittimo.
3) TESI DELLA DISTINZIONE FRA CATTIVO ESERCIZIO DEL
POTERE E CARENZA DI POTERE: alla stergua di questa tesi non è
sufficiente la considerazione della titolarità del potere da parte
dell’amministrazione per identificare la posizione del cittadino come di
interesse legittimo: la valutazione deve coinvolgere anche il vizio rispetto
all’atto amministrativo. Nel caso di cattivo esercizio del potere,
l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia ed è
configurabile solo una posizione di interesse legittimo. Invece nel caso di
carenza di potere il vizio preclude la stessa efficacia giuridica dell’atto e la
posizione soggettiva del cittadino rimane quella originaria come era in
assenza dell’intervento dell’amministrazione. Se vi è carenza di potere
infatti l’amministrazione in realtà non esercita in modo efficace alcun
potere e pertanto non sarebbe identificabile neppure un interesse legittimo.
La Cassazione ha sostenuto che vi è carenza quando il provvedimento è
previsto dall’ordinamento ma non come esercizio di una funzione
amministrativa. Oppure ha sostenuto che vi è carenza quando il potere è
attribuito a un’amministrazione di ordine diverso rispetto a quella cui fa
parte l’organo che ha emesso il provvedimento. La legge 15/2005,
modificando la legge 241/1990 ha distinto fra ipotesi di annullabilità
dell’atto amministrativo e ipotesi di nullità e laa distinzione è stata accolta
per gli effetti processuali anche dal codice. La NULLITA’ si configura
quando il provvedimento amministrativo manca degli elementi essenziali ed
è viziato dal difetto assoluto di attribuzione. L’atto amministrativo nullo
dovrebbe essere inefficace e non potrebbe neppure incidere sulla posizione
soggettiva del cittadino, estinguendola o modificandola.
4) TEORIA DEI DIRITTI COSTITUZIONALMENTE TUTELATI: non
sempre nei rapporti con l’amministrazione il cittadino è titolare di interessi
legittimi perché in alcuni casi è stato escluso che gli atti
dell’amministrazione potessero essere qualificati come esercizio di un
potere amministrativo, riconoscendo così al cittadino la titolarità di un
diritto soggettivo. Si pensi ai diritti personalissimi, definiti anche come
diritti incomprimibili o perfetti sui quali l’amministrazione non ha la
possibilità di compressione. La figura dei diritti costituzionalmente tutelati
o protetti finisce col rappresentare un’eccezione rispetto ai criteri per
l’individuazione dell’interesse legittimo elaborati dalla stessa
giurisprudenza della Cassazione e che appare incompatibile con la logica
degli stessi.

L’interesse legittimo, non può essere considerato come una posizione


meramente riflessa rispetto al potere dell’amministrazione, né tantomeno è una
posizione diffusa di cui sono titolari i cittadini in quanto tali, ma è una
posizione soggettiva , di cui sono titolari solo soggetti determinati. Proprio
perché l’interesse legittimo è una posizione soggettiva, in base al criterio della
differenziazione , presuppone la sussistenza in capo al titolare di una
posizione di interesse diversa e più intensa rispetto a quella della generalità dei
cittadini. L’interesse legittimo deve perciò essere differenziato e la mancanza
della differenziazione, ha escluso la possibilità di considerare come interesse
legittimo l’interesse dei cittadini di una certa zona alla salvaguardia dei valori
ambientali (interessi diffusi). Ad integrazione di questo criterio è stato
proposto quello della qualificazione : perché si possa avere un interesse
legittimo è necessario che il potere dell’amministrazione coinvolga un soggetto
che rispetto a tale potere sia titolare di un interesse non solo differenziato ma
anche sancito e riconosciuto dall’ordinamento. Frequentemente la
qualificazione viene ricavata dalla giurisprudenza in base alla rilevanza
attribuita a quell’interesse dell’ordinamento nel suo complesso e all’incidenza
concreta dell’azione amministrativa su tale interesse.

Per quanto attiene alla modalità di tutela nel caso di lesione di un interesse
legittimo, sembra corrispondere una tutela tipica, di tipo costitutivo, diretta ad
elidere gli effetti del provvedimento lesivo. Mentre la tutela del diritto
soggettivo assicurerebbe direttamente la pretesa al bene della vita in cui si
sostanzia il diritto, la tutela dell’interesse legittimo attuerebbe solo un
soddisfacimento indiretto, che si realizza attraverso l’eliminazione degli atti
amministrativi lesivi. In questa prospettiva, l’interesse legittimo era
considerato dall’ordinamento solo in seguito ad una sua lesione. In questo
modo era facile ritenere che l’interesse legittimo fosse figura di ordine
processuale nel senso che avrebbe assunto rilievo solo sul piano dell’azione
giurisdizionale. Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse
legittimo si configura come tutela successiva, ovvero presuppone che già sia
intervenuta la lesione dell’interesse protetto. Se la lesione è prodotta da un
provvedimento amministrativo, si verifica la legittimità del provvedimento e
attraverso esso, la legittimità dell’operato della pubblica amministrazione. In
seguito alla lesione, il cittadino diviene titolare di un diritto potestativo, una
pretesa, all’annullamento dell’atto lesivo. La lesione però può essere
determinata anche dal silenzio-rifiuto dell’amministrazione ovvero mancanza
dell’esercizio di un potere e in questo caso il giudizio ha come obiettivo
l’adempimento del dovere di provvedere dell’amministrazione.

L’ìnteresse legittimo è configurabile già nel momento in cui ha inizio il


procedimento amministrativo e forse anche prima. Poiché esso nasca è
necessario che sussistano le condizioni in presenza delle quali l’esercizio del
potere sia doveroso. Stabilito che l’interesse legittimo è figura di diritto
sostanziale, occorre chiarire in che cosa consiste rispetto ad esso quel bene
della vita alla cui realizzazione tende anche l’interesse legittimo.

Il bene della vita non sembra identificabile con un interesse alla legittimità
dell’azione amministrativa. L’interesse legittimo è garantito
giurisdizionalmente attraverso la contestazione della legittimità dell’azione
amministrativa. Tuttavia la legittimità dell’azione amministrativa non è essa
stessa un bene della vita né tanto meno può essere concepita come un bene
della vita proprio di un soggetto determinato. Spesso viene prospettata per la
figura dell’interesse legittimo la distinzione tra due ordini di interessi:

-interesse materiale: che è proprio del titolare dell’interesse legittimo,


costituisce solo un presupposto di fatto.

-interesse legittimo vero e proprio: passibile di tutela.

È stata avanzata anche una concezione diversa, secondo la quale l’interesse


materiale non va considerato come un elemento estraneo all’interesse
legittimo, ma costituisce la componente essenziale di quest’ultimo, perché
identifica proprio il bene della vita cui l’interesse legittimo è funzionale. La
legge nel caso dell’interesse legittimo garantisce al bene della vita una tutela
modellata sul potere dell’amministrazione. Per questo aspetto, l’interesse
legittimo può essere accostato a una chance che sia riconosciuta
dall’ordinamento. Se mancasse il bene della vita non potrebbe ammettersi
neppure l’interesse legittimo, inteso come posizione giuridica di ordine
sostanziale.

Il rapporto fra interesse legittimo e diritto soggettivo è al centro delle


riflessioni della dottrina e della giurisprudenza. Il provvedimento
amministrativo sembrava comportare una degradazione del diritto soggettivo in
interesse legittimo. Lo stesso modello fu poi prospettato per i c.d. diritti in
attesa di espansione, consistenti nella trasformazione di un interesse legittimo
in diritto soggettivo per effetto di un determinato provvedimento
amministrativo con effetti costitutivi (iscrizione ad albi). La degradazione
veniva ricondotta a un carattere del provvedimento amministrativo, la
autoritatività, che determinerebbe l’estinzione del diritto soggettivo e quindi
la sua trasformazione in interesse legittimo. L’annullamento del
provvedimento comportava l’eliminazione del provvedimento e anche il venir
meno della degradazione del diritto. La teoria della degradazione non è però
accettabile. Infatti nel corso del procedimento espropriativo, il proprietario è
titolare di un interesse legittimo e l’amministrazione esercita nei suoi riguardi
un potere in senso proprio. L’interesse legittimo, sorge con l’esercizio del
potere già prima del decreto di esproprio. Quindi, né si verifica la degradazione
del diritto soggettivo in interesse legittimo, né una tale degradazione è
determinata dal provvedimento amministrativo.

La disciplina della responsabilità dell’amministrazione nel nostro Paese è


ricondotta al diritto civile. Fino agli ultimi anni del ‘900 le vertenze risarcitorie
erano riservate al giudice civile e la giurisprudenza civile ammetteva una
responsabilità dell’amministrazione solo nel caso di lesione di un diritto
soggettivo : dalla lettura dell’art.2043 c.c. per danno ingiusto, suscettibile di
risarcimento, si intende il danno arrecato a diritti soggettivi. Se il danno era
arrecato a un interesse legittimo era escluso un diritto al risarcimento. Se il
risarcimento doveva essere preceduto dall’annullamento del provvedimento
lesivo, era necessario esperire l’azione di annullamento davanti al giudice
amministrativo prima dell’azione civile per i danni, che allora era riservata al
giudice ordinario. Solo dopo l’annullamento del provvedimento si poteva
ammettere il diritto al risarcimento. In questo modo la giurisprudenza ricavava
una regola pratica sul rapporto fra le giurisdizioni.

Il risarcimento del danno causato ad interessi legittimi era escluso. Questa


posizione fu abbandonata dalla Cassazione con la sentenza 500/1999. Gli
argomenti invocati per il mutamento di indirizzo riguardavano l’interpretazione
complessiva della responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. La Cassazione affermò
che lo stesso articolo aveva una sua propria portata perché assicurava in via
generale la riparazione del danno ingiustamente subito da un soggetto a causa
del comportamento di un altro soggetto. La riparazione non riguardava solo i
diritti soggettivi e non era circoscritta ad interessi tipizzati da disposizioni
particolari , ma si estendeva a tutti gli interessi giuridicamente qualificati
comunque fossero definiti. Dovevano essere esclusi solo gli interessi di mero
fatto. Nello stesso tempo sottolineava che per il risarcimento non era necessaria
anche una lesione al bene della vita correlato all’interesse , bene della vita
inteso dalle Sezioni Unite sempre come utilità finale. Nel caso del diritto, la
lesione al bene della vita è la lesione dell’interesse sostanziale che si identifica
col diritto soggettivo e perciò non richiede verifiche particolari. Invece questa
identificazione non si verificherebbe in modo necessario nel caso dell’interesse
legittimo.

Quando l’interesse legittimo riguarda una posizione di vantaggio che il


cittadino vuole conservare nei confronti dell’amministrazione che esercita il
suo potere, il danno risarcibile si identifica col sacrificio della posizione di
vantaggio (=bene della vita) ad opera del provvedimento illegittimo. Questo
tipo di interesse legittimo è definito come “interesse oppositivo”.

Quando l’interesse legittimo riguarda la pretesa del cittadino di ottenere un


provvedimento favorevole che gli attribuisca un bene o una posizione di
vantaggio, si parla di “interesse pretensivo”.

In questo quadro viene meno anche la necessità di subordinare l’azione per


danni al previo annullamento del provvedimento amministrativo. Secondo le
S.Unite per il risarcimento dei danni era indispensabile l’accertamento della
illegittimità del provvedimento e non il suo annullamento. Le Sezioni Unite,
nell’ammettere la possibilità del risarcimento per le lesioni di interessi
legittimi, precisarono che in questo caso si doveva applicare il modello di
responsabilità extracontrattuale previsto dall’art.2043 c.c. Pertanto sostennero
che per il risarcimento degli interessi legittimi era essenziale la dimostrazione
della imputabilità dell’illecito all’amministrazione a titolo di colpa o dolo
(elemento soggettivo). La colpa si identificava nel fatto che l’amministrazione
avesse agito violando le regole di imparzialità, di correttezza, di buona
amministrazione. Alla pronuncia del 1999, fece seguito la legge 205/2000 che
estese la giurisdizione amministrativa alle vertenze risarcitorie, confermata
dall’art. 7 c.p.a.

Inoltre il cittadino anche se non gli spetta un provvedimento positivo, può


subire egualmente un danno se l’amministrazione risponde tardivamente alla
sua richiesta, si tratta del danno da ritardo, provocato dalla condotta illegittima
dell’amministrazione che non rispetta i termini per la conclusione del
procedimento. La Legge 98/2013 ha introdotto per il cittadino anche un diritto
all’indennizzo per mero ritardo per l’inosservanza del termine di ultimazione
del procedimento avviato su istanza di parte e non è subordinato alla
configurabilità di un illecito e di un danno.
Gli INTERESSI SEMPLICI corrispondono agli interessi che non assurgono né
al livello dei diritti soggettivi, né a livello degli interessi legittimi. Eppure la
loro distinzione dagli interessi legittimi comporta l’esclusione di una loro tutela
giurisdizionale. La tutela degli interessi semplici è prevista solo in casi
eccezionali (a seguito ad esempio di azioni popolari).

Gli interessi collettivi o di categoria sono gli interessi tipici dei soggetti
appartenenti ad una categoria lavorativa, professionale, di utenti. Nei confronti
degli atti amministrativi che riguardano specificamente la categoria può
configurarsi in capo a ciascun appartenente un interesse qualificato. In questo
ambito operano però anche gli organismi privati o talvolta pubblici che sono
rappresentativi o esponenziali della categoria. La giurisprudenza
amministrativa ha riconosciuto in capo a questi organismi la titolarità
dell’interesse di categoria e la capacità di farlo valere come un proprio
interesse legittimo.

Gli INTERESSI DIFFUSI corrispondono all’interesse generale dei cittadini a


certi beni comuni. Il legislatore ammetteva la tutela di determinati interessi
diffusi, demandandola però a particolari associazioni.

Nel nostro ordinamento la tutela degli interessi legittimi è assicurata anche da


disposizioni costituzionali con riferimento ai vizi di legittimità ; invece solo
raramente è ammessa con riferimento ai vizi di merito. Rispetto a questi ultimi
il cittadino è titolare di un interesse legittimo che però è privo di tutela rispetto
a quei vizi.

CAPITOLO V

I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA TUTELA GIURISDIZIONALE


DEL CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA P.A.

ART.1 c.p.a.: La giurisdizione amministrativa deve attuare una tutela piena ed


effettiva secondo i principi della Costituzione, richiamando agli stessi fini
anche i principi del diritto europeo (ovvero i TRATTATI EUROPEI). Il TUE a
sua volta richiama l’art.6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, la
quale afferma che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata
equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice
indioendente ed imparziale , precostituito per legge. Il diritto europeo
richiamato dall’art.1 c.p.a. è rappresentato anche dalla CEDU, poiché la C.C.
ha affermato che la sua violazione può essere motivo di illegittimità
costituzionale, per mezzo dell’art.117 Cost che impone sia al legislatore
nazionale che a quello regionale di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi
internazionali.

Le principali disposizioni costituzionali che attengono alla tutela del cittadino


nei confronti dell’amministrazione possono essere articolate in disposizioni:

-SUL GIUDICE: la Costituzione considera come valori essenziali


l’indipendenza , l’imparzialità e la terzietà del giudice. Queste ultime due sono
considerate dall’art. 111,2 co Cost e ineriscono indirettamente all’esercizio
della giurisdizione come componenti del GIUSTO PROCESSO.

L’IMPARZIALITA’ e la TERZIETA’ vanno assicurate rispetto all’organo


giurisdizionale nella sua interezza: esso deve essere sottoposto
istituzionalmente nelle condizioni di giudicare senza subire condizionamenti
dalle parti in causa. Deve essere del tutto indifferente sul piano personale
rispetto alla vertenza su cui è tenuto a pronunciarsi.

L’INDIPENDENZA del giudice riguarda la relazione dell’organo


giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto processuale che potrebbero
influire sulle sue decisioni: Governo e potere politico in generale.
L’indipendenza non riguarda solo il giudice ordinario, ma è essenziale per
l’esercizio di ognu funzione giurisdizionale e quindi vale anche per il giudice
amministrativo e speciale. Questo principio ha determinato nell’assetto della
giustizia amministrativa, la soppressione di quasi tutte le giurisdizioni
amministrative speciali diverse dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei Conti. I
giudici amministrativi non sono soggetti al CSM che è organo di autogoverno
dei soli magistrati ordinari. Presso il Consiglio di Stato è istituito un apposito
organo di autogoverno dei giudici amministrativi, il CONSIGLIO DI
PRESIDENZA DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA le cui competenze
sono state definite dalla legge 186/1982.

-SULL’AZIONE: L’art.24,1 co Cost. garantisce il diritto d’azione sia per la


tutela di diritti soggettivi che per la tutela di interessi legittimi. La garanzia è
estesa nel 2 comma rispetto al diritto di difesa. La collocazione sullo stesso
piano dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ha fatto sorgere la
convinzione che la Costituzione sancisse una certa interpretazione
dell’interesse legittimo da intendersi come posizione qualificata di carattere
sostanziale, proprie perché anche il diritto soggettivo è posizione di carattere
sostanziale. Quindi anche l’interesse legittimo assurgerebbe a rango di
interesse individuale del cittadino che lo fa valere. All’art.24 Cost. è ricondotto
il criterio dell’effettività della tutela giurisdizionale in base al quale ogni
situazione giuridica riconosciuta sul piano sostanziale deve godere di tutela sul
piano processuale.

La garanzia del diritto d’azione comporta non solo la possibilità di una tutela
nei confronti dell’amministrazione attraverso l’impugnazione di provvedimenti
in vista del loro annullamento , ma anche la possibilità di chiedere al giudice
amministrativo misure cautelari per eviatre che la durata del giudizio produca
un danno irreparabile all’interesse del ricorrente. Il ricorso al giudice
amministrativo non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato: solo
con istanza della parte per evitare un pregiudizio grave e irreparabile, è
possibile ottenere la sospensione del provvedimento stesso.

Per quanto riguarda la rilevanza della effettività della tutela giurisdizionale nel
giudizio in materia di pubblico impiego, la Corte Cost. ha dato rilievo
all’esigenza di assicurare per i pubblici dipendenti una tutela equipollente a
quella ammessa ai dipendenti con rapporto di lavoro privato.

Per giurisdizione condizionata si intende l’accesso alla tutela giurisdizionale


subordinato al previo esperimento di un ricorso in via amministrativa. In questi
casi non è possibile adire immediatamente il giudice . la prima giurisprudenza
della Corte affermò che l’art.24 Cost. non avrebbe contemplato fra i contenuti
del diritto d’azione anche il diritto all’immediatezza dell’azione.: la garanzia
costituzionale avrebbe riguardato la “indefettibilità” dell’azione giurisdizionale
e non la sua immediatezza. In un secondo momento è maturato un diverso
indirizzo della Corte Cost. che ha considerato con severità le disposizioni che
condizionavano l’ammissibilità della tutela giurisdizionale al previo
esperimento di un ricorso amministrativo: in alcune pronunce sulla
giurisdizione condizionata la Corte sembra considerarla incompatibile con
l’art. 24 Cost.

Nei casi in cui sia prescritta la presentazione di un ricorso amministrativo come


condizione di mera procedibilità e non di ammissibilità dell’azione
giurisdizionale , se quest’ultima è stata proposta senza prima aver esperito il
ricorso amministrativo, il giudice non può decidere subito la controversia
respingendo la domanda, ma deve sospendere il giudizio ed assegnare
all’attore un termine per dar corso all’adempimento omesso.

Come già detto in materia di indennità di esproprio sono configurabili


posizioni di diritto soggettivo: la loro tutela è devoluta al giudice ordinario .
Il codice di procedura civile nel disciplinare la devoluzione ad arbitri di
controversie con una P.A. non pone limitazioni particolari. Tale devoluzione
ad arbitri richiede un accordo fra le parti di natura contrattuale (compromesso o
clausola compromissoria).

L’art.111,2 co Cost. stabilisce che il processo deve svolgersi nel


contraddittorio tra le parti. Tale principio si esprime in primo luogo nella
regola secondo cui il giudice non può statuire sulla domanda se le parti nei cui
confronti sia stata proposta non siano state regolarmente evocate in giudizio.
La garanzia del contraddittorio è completata dal principio della parità
processuale delle parti: comporta che ogni parte deve disporre degli stessi
strumenti di tutela. Il principio del contraddittorio esige che ogni parte sia
posta nelle condizioni di interloquire su ogni questione rilevante per la
decisione della vertenza. L’art.73,3 co c.p.a. esclude che il giudice possa
decidere in base a questioni rilevate d’ufficio che non siano state
preventivamente sottoposte alle parti.

Nel processo amministrativo il principio del contraddittorio è parso in conflitto


con l’esigenza di rendere più spedito il giudizio soprattutto nelle vertenze
rispetto alle quali la durata del processo può compromettere interessi pubblici
importanti anche di ordine finanziario.

In alcune materie il legislatore ha previsto riti speciali accelerati o abbreviati e


ha ammesso la possibilità di anticipare la decisione del ricorso già nella fase
cautelare. L’art. 60 c.p.a. stabilisce che il collegio, se ritenga di pronunciarsi
sul merito del ricorso già nella fase cautelare del giudizio, deve sentire sul
punto le parti costituite e se una di essi dichiari di voler presentare ricorso
incidentale, motivi aggiunti o regolamento di competenza o di giurisdizione,
deve rinviare la decisione e assegnare un termine per consentire alla parte di
presentarlo.

L’art.113 Cost. detta una serie di regole per la tutela del cittadino nei confronti
dell’amministrazione. Al primo comma definisce il rapporto fra la garanzia
della tutela giurisdizionale e la posizione dell’amministrazione. La tutela
giurisdizionale contro gli atti della P.A. è sempre ammessa sia per quanto
riguarda i diritti soggettivi, sia per quanto riguarda gli interessi legittimi. Al
secondo comma impedisce di circoscrivere i margini della tutela
giurisdizionale in relazione alla tipologia degli atti amministrativi impugnati o
alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio. La garanzia si estende solo ai vizi
di legittimità , mentre rimangono esclusi i vizi di merito.
L’art.7,1 co c.p.a. esclude la possibilità di impugnazione degli atti politici (atto
che sia esercitato di un potere politico). Un atto del genere è riservato ad
autorità cui competa al massimo livello la funzione di indirizzo politico e di
direzione della cosa pubblica.

Al terzo comma rinvia alla legge per l’individuazione dei giudici competenti
ad annullare gli atti amministrativi e dei relativi casi ed effetti. La norma
esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a favore
del giudice amministrativo del potere di annullamento degli atti amministrativi.
Al giudice è sempre garantito il potere di sindacare la legittimità dell’atto
amministrativo ma non è sempre garantito che tale sindacato si debba risolvere
necessariamente in un potere di annullamento. In questo contesto viene
considerato anche l’art. 21-octies L.241/90 che stabilisce che la violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti non ne comporta
l’annullabilità se per la natura del provvediemento sia palese che il contenuto
non avrebbe potuto essere diverso; cosiccome il provvedimento amministrativo
non è annullabile per violazione delle norme sulla comunicazione dell’avvio
del procedimento se l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvediemento non avrebbe potuto essere diverso. Secondo alcuni, in questi
due casi, non sarebbe ammessa una tutela impugnatoria, ma rimarrebbe ferma
la tutela risarcitoria in presenza di un danno patrimoniale. Secondo un
orientamento più ampio, l’illegittimità si configurerebbe solo quando il
provvedimento produca nei confronti del destinatario un effetto diverso da
quello prescritto nella stessa situazione dalla legge.

La costituzione ha sancito la regola del riparto di giurisdizione fra giudice


ordinario e giudice amministrativo. Lo stesso art. 103,1 co Cost. riconosce
espressamente la possibilità che la giurisdizione amministrativa sia estesa
anche a vertenze con l’amministrazione in tema di diritti soggettivi: è la c.d.
giurisdizione esclusiva che viene ammessa in particolari materie indicate dalla
legge. Secondo la Corte, l’assegnazione di una vertenza alla giurisdizione
esclusiva non può trovare fondamento nella mera partecipazione della P.A. al
giudizio né in un generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella
controversia ma deve trovare fondamento nel collegamento fra la materia cui
inerisce la vertenza e una posizione di potere dell’amministrazione. La
complessità del riparto di giurisdizione rende concreto il rischio che il cittadino
promuova l’azione contro l’amministrazione davanti a un giudice privo di
giurisdizione per quella controversia. La Corte Cost. dichiarò illegittimo
l’art.30 della legge TAR perché non prevedeva che gli effetti processuali e
sostanziali della domanda proposta al giudice privo di giurisdizione si
conservassero dopo la declinatoria della giurisdizione se la domanda fosse stata
riproposta tempestivamente davanti al giudice dotato di giurisdizione (traslatio
iudicii). La C.Cost. in questo caso si richiamò agli artt. 24 e 111 Cost.
sostenendo che il riparto di giurisdizione non deve compromettere l’unitarietà
della funzione giurisdizionale , sia essa esercitata dal giudice ordinario o dal
giudice amministrativo. La giurisdizione amministrativa generale non si
esaurisce nella Costituzione, nel Consiglio di Stato , ma include anche un
giudice amministrativo di primo grado costituito poi nei TAR (art.125 Cost).

L’art.125 Cost. dispone che la giurisdizione amministrativa di primo grado


abbia un’articolazione territoriale regionale; di conseguenza anche la
competenza per i giudizi di primo grado è ripartita fra i TAR sulla base di un
criterio territoriale. Il legislatore però per vari ordini di vertenze ha preferito
riservare la competenza in primo grado solo al TAR LAZIO,derogando ad ogni
criterio territoriale. Il raccordo fra la giurisdizione amministrativa e la
giurisdizione ordinaria è assicurato nell’art. 111,8 co Cost. dalla previsione che
contro le decisioni della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato sia ammesso il
ricorso alla Corte di Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, mentre
per le sentenze degli altri giudici speciali il ricorso alla Cassazione è ammesso
anche per violazione di legge .

CAPITOLO VI

LA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI DELLA P.A.

Dopo la legge abolitiva del contenzioso amministrativo e fino all’istituzione della


quarta sezione con la Legge Crispi del 1889, si discuteva di stabilire quale ambito
dell’attività amministrativa fosse immune dal sindacato giurisdizionale. A questo
proposito ebbe rilievo la tesi della distinzione fra ATTI DI GESTIONE e ATTI
D’IMPERIO. Dopo la legge del 1889, la previsione di due ordini di giurisdizioni per
la tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione ha indirizzato l’indagine
soprattutto verso la ricerca di regole certe per il riparto della competenza fra giudice
ordinario e Quarta sezione. Una sentenza della Cassazione del 1891 ha prospettato il
CRITERIO DEL PETITUM: in base al quale il dato caratterizzante della
giurisdizione amministrativa era rappresentato dal potere di annullamento degli atti
impugnati. Di conseguenza nel caso di un provvedimento lesivo di un diritto
soggettivo, si doveva ammettere la possibilità per il cittadino di ricorrere davanti al
giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto: la giurisdizione
amministrativa avrebbe integrato quella ordinaria. Il criterio comportava la possibilità
per il cittadino di far valere come “interessi” i diritti soggettivi: questi ultimi erano
considerati per definizione come posizioni soggettive più garantite degli interessi
legittimi e potevano essere fatti valere anche come interessi per fruire delle modalità
di tutela.

- È stato rilevato che interessi legittimi e diritti soggettivi sono posizioni distinte
qualitativamente e non in termini di minore o maggiore tutela.
- È stato rilevato che la tesi del petitum finiva con l’aprire la strada a una doppia
tutela nel senso che la stessa posizione soggettiva, poteva essere fatta valere
alternativamente o cumulativamente a scelta del ricorrente avanti a ciascuno
dei due giudici. La doppia tutela sembrava incompatibile con l’esigenza di una
distinzione fra le giurisdizioni basata su criteri oggettivamente verificabili.
Oggi l’espressione “doppia tutela” viene richiamata per designare ipotesi
particolari in cui il cittadino in una stessa situazione materiale , può agire
davanti al giudice ordinario per far valere un proprio diritto, ma può agire
anche davanti al giudice amministrativo per far valere un proprio interesse
legittimo.
- Il rigetto della tesi del petitum induce a valorizzare l’altro elemento
tradizionale dell’azione rappresentato dalla causa petendi: la controversia è di
competenza del giudice amministrativo se è fatto valere un interesse legittimo;
invece è di competenza del giudice ordinario se è fatto valere un diritto
soggettivo. Secondo la TEORIA DELLA PROSPETTAZIONE va attribuito
rilievo alla prospettazione della posizione giuridica soggettiva come risulta
dagli atti introduttivi del giudizio.
- La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata come “tesi del petitum
sostanziale” : ciò che rileva ai fini del riparto di giurisdizione è l’effettiva
natura di questa posizione e la sua oggettiva qualificazione come diritto
soggettivo o interesse legittimo.

Il tema dei limiti interni della giurisdizione ordinaria, attiene all’individuazione dei
poteri che il giudice civile nelle controversie di sua competenza può esercitare nei
confronti dell’amministrazione. Si tratta di stabilire quali pronunce possono essere
assunte dal giudice civile, nelle controversie sui diritti soggettivi, rispetto a una
pubblica amministrazione. A tale proposito, l’art.4 della legge abolitiva del
contenzioso amministrativo, vieta al giudice ordinario di revocare o modificare l’atto
amministrativo. Per quanto riguarda la nozione di ATTO AMMINISTRATIVO ,
serve per individuare i poteri del giudice ordinario nei confronti
dell’amministrazione. In passato questa nozione veniva identificata con qualsiasi atto
dell’amministrazione posto in essere nell’interesse pubblico. Se questa concezione
viene accolta, oggetto di protezione non possono essere solo i provvedimenti
amministrativi, ma anche i comportamenti materiali dell’amministrazione di per sé
non regolari, ma comunque indirizzati a soddisfare un interesse pubblico. Questi
ultimi venivano considerati come provvedimenti amministrativi taciti, ossia
espressioni di volontà dell’amministrazione desumibili da un comportamento. La
garanzia può riguardare solo l’atto amministrativo come espressione del potere
dell’amministrazione , pertanto, la dove l’amministrazione non esercita un potere
conferitole dalla legge non si può ammettere alcuna limitazione ai poteri del giudice.
La garanzia dell’atto amministrativo trova la sua ragione e la definizione del suo
ambito nel principio di legalità, per cui la dove quest’ultimo non opera, non vi può
essere alcuna immunità dall’intervento giurisdizionale.

Il tema dei limiti interni della giurisdizione civile è stato affrontato anche con
riferimento alle tipologie di sentenza che il giudice ordinario può emettere nei
confronti dell’amministrazione. Le uniche sentenze compatibili con l’art.4 della legge
abolitiva del contenzioso erano solo le sentenze di mero accertamento (il loro
carattere dichiarativo si limitava ad accertare la situazione delle parti rispetto
ad un bene giuridico e non implicava da parte del giudice l’esercizio dei poteri
dispositivi che possano incidere su atti dell’amministrazione né rapppresenta il
titolo per un’esecuzione) e le sentenze di condanna al pagamento di somme di
denaro (una condanna del genere obbligava l’amministrazione a porre in essere una
propria attività).

Le altre sentenze di condanna (a un dare, facere, pati), richiederebbero per la loro


esecuzione, un esercizio da parte dell’amministrazione di un’attività amministrativa
qualificata.

Si escludevano anche le sentenze di tipo costitutivo in quanto implicavano una revoca


dell’atto amministrativo o la sostituzione del giudice all’amministrazione nel
compimento di una sua attività propria. È stato escluso a lungo che il giudice
ordinario potesse emettere sentenze costitutive ai sensi dell’art. 2932 c.c. nei
confronti dell’amministrazione che non desse esecuzione a un contratto preliminare.
In tema di azioni cautelari o possessorie nei confronti dell’amministrazione , si
tendeva in origine ad escludere qualsiasi possibilità di esperire tali azioni nei
confronti dell’amministrazione. Oggi invece si ritiene che l’intervento del giudice sia
precluso solo quando si richieda un provvedimento d’urgenza che incida direttamente
su un provvedimento amministrativo o sulla sua esecuzione.

In conclusione, non si può ammettere una preclusione generale, per il giudice


ordinario , a pronunciare sentenze costitutive o di condanna nei confronti
dell’amministrazione. Rimane ferma solo la garanzia dell’atto amministrativo in
senso proprio che preclude al giudice civile di annullare un atto amministrativo o di
condannare l’amministrazione all’esercizio del potere.

Come già detto, la legge abolitiva del contenzioso amministrativo assegnò al giudice
ordinario la capacità di procedere alla disapplicazione dell’atto amministrativo
illegittimo. La disapplicazione presuppone l’esistenza di una controversia su un
diritto soggettivo; il sindacato sugli atti amministrativi e sui regolamenti ai fini della
loro disapplicazione concerne solo la legittimità e non l’opportunità degli stessi ;
attraverso la disapplicazione il giudice può sindacare la legittimità dell’atto
amministrativo anche d’ufficio per il fatto che l’atto è un elemento rilevante per la
decisione, senza la necessità di domande e eccezioni delle parti. L’istituto della
disapplicazione è stato utilizzato in due ordini di controversie civili:

- Nelle vertenze che riguardano un diritto soggettivo di un privato verso


l’amministrazione che abbia come presupposto un atto amministrativo.
- Nelle controversi tra privati quando assume rilevanza un titolo rappresentato da
un atto amministrativo.

La tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dei provvedimenti amministrativi


con cui siano state applicate sanzioni amministrative pecuniarie (ordinanze-
ingiunzioni) spetta in genere al giudice ordinario. In materia di sanzioni
amministrative il cittadino può fare opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione
mentre prima dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio è ammessa solo la
presentazione di difese e documenti nel procedimento sanzionatorio. Il giudizio è
regolato dal rito civile del lavoro. Il giudice dell’opposizione può sospendere
cautelarmente l’ordinanza ingiunzione e se accoglie l’opposizione annulla in tutto o
in parte l’ordinanza o la modifica anche limitatamente all’entità della sanzione
dovuta. In questo caso quindi al giudice è conferito un potere di sospensione e di
annullamento del provvedimento amministrativo.

Per gli accertamenti e per i trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza


ospedaliera, prevede che il Sindaco sia competente a ordinare l’effettuazione del
trattamento, il cui provvedimento è immediatamente efficace ma deve essere
convalidato dal giudice tutelare entro un termine perentorio molto breve. In caso di
convalida del provvedimento, il destinatario può ricorrere al Tribunale civile. Tale
ricorso può essere ammesso anche da parte del Sindaco se viene negata la convalida.

Nei confronti dei provvedimenti del Prefetto di espulsione di stranieri la tutela va


esperita davanti al giudice ordinario: il ricorso va proposto entro 60 giorni davanti al
giudice civile. Nell’ipotesi di espulsione dello straniero disposta per motivi di ordine
pubblico e sicurezza dello Stato è competente il TAR. La legge ammette in alcuni
casi nei confronti dello straniero che si trattenga indebitamente nel territorio dello
Stato che possa essere disposto l’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza
pubblica. L’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla frontiera è
sospesa fino all’esito del giudizio di convalida (di solito spetta al giudice di pace) e
nel quale deve essere assicurata la difesa dello straniero. Se la convalida non è
concessa il provvedimento perde ogni effetto. Al giudice ordinario sono devolute
anche le controversie che riguardano il riconoscimento a stranieri della protezione
internazionale (status di rifugiato) , il quale giudizio ha ad oggetto il diritto soggettivo
dello straniero alla protezione richiesta. Il giudizio è soggetto al rito sommario di
cognizione.

La decisione del garante su un ricorso proposto a tutela dei diritti di privacy può
essere impugnata dagli interessati entro 30 giorni dalla comunicazione davanti al
Tribunale civile. Il giudizio segue il rito del lavoro.

La circostanze che in giudizio ci sia la P.A. non comporta una variazione delle regole
del processo comune, ad eccezione dell’Avvocatura dello Stato nei casi in cui sia
parte un’amministrazione statale , la quale ha sede presso ciascun distretto di Corte
d’appello. Assiste l’amministrazione statale senza la necessità di uno specifico
mandato, potendo compiere gli atti processuali per l’amministrazione statale senza
necessità di una procura. Per i giudizi civili

Potrebbero piacerti anche