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Nel diritto amministrativo sostanziale la garanzia del cittadino nei confronti della
pubblica amministrazione ha un rilievo primario: l’amministrazione deve disporre gli
strumenti più adeguati anche autoritativi per attuare le finalità assegnatele e il
cittadino che deve essere garantito da comportamenti arbitrari o da sacrifici indebiti
imposti dall’amministrazione.
Le esigenze di tutela del cittadino assumono rilievo anche per altri profili del diritto
amministrativo sostanziale: basti pensare al tema della discrezionalità
amministrativa e dell’eccesso di potere, all’assetto della responsabilità civile
dell’amministrazione e dei suoi agenti, alla disciplina del procedimento
amministrativo. L’amministrazione, proprio perché soggetto pubblico, deve operare
per assicurare le finalità dell’ordinamento ed è tenuta ad agire nel rispetto del diritto
e senza ledere gli interessi giuridicamente riconosciuti dei cittadini. Il diritto
amministrativo, nel disciplinare l’attività amministrativa, detta regole che valgono
anche a garanzia del cittadino.
Tutto ciò non comportava l’esclusione di ogni possibilità di tutela per il cittadino. E a
favore del cittadino era conservato un rimedio specifico costituito dal ricorso
gerarchico. Con questo ricorso il cittadino si rivolgeva all’organo gerarchicamente
sovraordinato a quello che aveva emanato l’atto lesivo e richiedeva all’organo
sovraordinato la verifica della legalità dell’atto. L’ordinamento francese prevedeva
che i ricorsi venissero decisi dalle autorità competenti dopo aver acquisito il parere
di alcuni organi consultivi, tra i quali quello più importante era quello del Consiglio
di Stato. Quest’ultimo operava come organo consultivo del Governo che esprimeva
un parere al Capo dello Stato al quale spettava emanare la decisione. A conclusione
di questa evoluzione risultava istituito un giudice capace di sindacare la legittimità
degli atti dell’amministrazione. Ciò non significava però una deroga del principio
della separazione dei poteri in quanto competente a sindacare gli atti
dell’amministrazione era il Consiglio di Stato, autorità ben distinta dai giudici
ordinari e non inserita nell’ordine giudiziario.
Inoltre nei casi controversi in cui bisogna decidere se la competenza è del giudice
ordinario o del giudice speciale, la decisione o la questione di giurisdizione è
demandata alla Cassazione. Pertanto nel nostro ordinamento spetta ad un giudice
ordinario interpretare e definire i limiti della giurisdizione del giudice speciale: per
questo profilo non vi è equilibrio perfetto fra i due ordini di giudici, ma si delinea
una prevalenza del giudice ordinario.
-sezione dell’Interno;
-sezione di Giustizia, Grazia e affari ecclesiastici;
-sezione di Finanza.
Lo stesso editto stabiliva che il parere del Consiglio di Stato dovesse essere acquisito
obbligatoriamente prima dell’adozione di certi atti, fra gli altri, atti con forza di legge,
regolamenti, conflitti fra giurisdizione giudiziaria e amministrazione. Fu istituito ben
presto un vero e proprio sistema di contenzioso amministrativo. Questo si fondava
sulla distinzione fra controversie riservate all’amministrazione , per le quali era
ammesso solo un ricorso a un’autorità amministrativa e controversie di
amministrazione contenziosa. Vi era poi un elenco di materie per le quali era
ammesso il ricorso al Consiglio di intendenza e in secondo grado alla Camera dei
conti alle quali la giurisprudenza riconobbe carattere di organi giurisdizionali. Il ruolo
di questi giudici speciali fu oggetto di vivaci polemiche dopo che lo Statuto albertino
enunciò come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice ordinario.
Una serie di decreti reali accolsero e confermarono il sistema del contenzioso
amministrativo articolato in Consigli di governo, organi di primo grado, designati
anche come giudici ordinari del contenzioso amministrativo e Consiglio di Stato,
organo principalmente di secondo grado. In base a questi decreti ne derivava il
seguente quadro:
Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti, positivi o
negativi fra amministrazioni e giudici e fra giudici del contenzioso amministrativo e
giudici ordinari. I conflitti si presentavano quando due autorità di ordini diversi
rivendicavano la medesima competenza, c.d. conflitti positivi, oppure quando
escludevano la loro competenza in situazioni che dovevano spettare o all’una o
all’altra , c.d. conflitti negativi.
Per la risoluzione di questi conflitti fu introdotta la Legge del 1859, in base alla quale
il conflitto poteva anche essere sollevato dal rappresentante locale del potere
esecutivo al quale era riconosciuta anche una certa capacità di interferire sul
procedimento giurisdizionale perché poteva imporre la sospensione del giudizio. La
decisione dei conflitti era assunta con decreto reale previo parere del Consiglio di
Stato su proposta del ministro dell’interno sentito il Consiglio dei Ministri.
Invece nell’interpretazione degli artt. 2 e 3 della legge, prevalse una linea restrittiva,
alla quale lo stesso giudice ordinario in sostanza si adeguò. L’interpretazione era
rimessa in ultima istanza al Consiglio di Stato al quale spettava decidere come
giudice dei conflitti se una vertenza fosse di competenza dell’autorità giurisdizionale
o fosse riservata all’amministrazione. Emergeva la tendenza ad escludere la
competenza del giudice civile quando la vertenza riguardava provvedimenti
dell’autorità amministrativa e anche quando questi non fossero fondati su valutazioni
discrezionali. La competenza di questo giudice veniva invece ammessa
esclusivamente in presenza di atti dell’amministrazione emanati non a tutela di un
interesse pubblico generale, ma a tutela di un interesse personale o patrimoniale
dell’amministrazione stessa. Si profila quindi una concezione che avrebbe affermato
l’incompatibilità fra il diritto soggettivo e il provvedimento (atto d’imperio)
dell’amministrazione. A questa stregua la soppressione dei tribunali del contenzioso
amministrativo aveva ridotto lo spazio di tutela giurisdizionale per il cittadino e non
aveva per nulla comportato l’estensione della giurisdizione civile a tutti gli ambiti
precedentemente occupati dai giudici soppressi.
LA LEGGE SUI CONFLITTI DEL 1877: attribuì alla Corte di Cassazione di Roma
la decisione sui conflitti, sia positivi che negativi, insorti fra Amministrazione e
Autorità giudiziaria (conflitti di attribuzione), ovvero fra giudici ordinari e giudici
speciali (conflitti di giurisdizione). Alla Cassazione di Roma fu attribuito il potere di
decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei giudici speciali impugnate per
incompetenza (difetto di giurisdizione) ed eccesso di potere (assunzione di una
decisione esorbitante nell’ambito delle attribuzioni di qualsiasi giudice, il c.d.
straripamento di potere. In tutti questi casi la Cassazione di Roma doveva decidere
a sezioni unite.
(CAPITOLO 3)
I risultati della riforma del 1865 furono insoddisfacenti: infatti la tutela del cittadino
nei confronti dell’amministrazione era tutt’altro che realizzata e l’abolizione del
sistema del contenzioso amministrativo aveva comportato un indebolimento delle
garanzie offerte al cittadino. Si doveva quindi garantire l’attuazione di una tutela più
ampia e incisiva del cittadino nei confronti dell’amministrazione e l’individuazione di
un organo a cui affidare tale tutela. In relazione al primo problema, si affermava una
tendenziale incompatibilità fra il diritto soggettivo (situazione soggettiva tutelata dal
giudice ordinario) e il provvedimento amministrativo: il diritto soggettivo del
cittadino era riconosciuto e garantito nei confronti dell’amministrazione solo quando
essa agiva iure privatorum. Liddove invece interveniva un provvedimento
amministrativo di regola vi erano solo interessi. Di conseguenza si delineava una
contrapposizione fra:
- Diritti che in quanto tali erano passibili di una tutela giurisdizionale in forza
dell’art.2 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo ;
- Interessi diversi dai diritti soggettivi che erano privi di una tutela
giurisdizionale anche quando risultavano di grande importanza per il cittadino
e riguardavano profili dell’attività amministrativa disciplinati dalla legge.
Ai sensi dell’art.17 i ricorsi alla Quarta Sezione erano mezzi di impugnazione del
provvedimento e producevano per il ricorrente l’annullamento del
provvedimento impugnato. La tutela era ammessa solo nei confronti di un atto
che fosse già produttivo dei suoi effetti. Era perciò una tutela successiva e non
preventiva. In questa logica l’art.12 disponeva che i ricorsi non hanno effetto
sospensivo, infatti per gravi ragioni, su istanza del ricorrente, la Quarta sezione
poteva sospendere l’esecuzione dell’atto o del provvedimento, ma la presentazione
del ricorso di per sé non incideva sull’esecutività del provvedimento né sull’esercizio
successivo della funzione amministrativa. Il ricorso poteva essere proposto dal
cittadino per impugnare un provvedimento affetto da vizi tassativamente indicati
dalla legge:
-eccesso di potere: non inteso dalla Quarta sezione come straripamento di potere, al
quale, invece, faceva riferimento la legge sui conflitti del 1877, ma intese un uso
gravemente scorretto del potere discrezionale da parte dell’amministrazione. L’atto
illegittimo era tale perché in contrasto con alcuni principi generali, ritenuti vincolanti
per l’amministrazione (dovere di imparzialità, principio di ragionevolezza). Se non
era messa in discussione la violazione di questi principi, allora il sindacato sulla
discrezionalità amministrativa non era possibile per la Quarta sezione e rimaneva
riservato all’autorità amministrativa e ai ricorsi gerarchici. Questo ambito estraneo al
sindacato della Quarta sezione venne poi designato come merito dell’atto
amministrativo.
-violazione di legge: vizio specifico rappresentato dal contrasto tra un elemento del
provvedimento o del suo procedimento e una disposizione contenuta nella legge o in
altra fonte del diritto.
In esito al dibattito sul riparto della competenza fra giudici civili e Quarta sezione, la
tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione, nell’ambito della riforma del
1889, fu ricondotta a uno schema basato sulla distinzione fra posizioni soggettive. La
tutela nell’ambito dei diritti soggettivi era demandata al giudice ordinario e rispetto
ad essa non si riscontravano modificazioni di rilievo nella legge istitutiva della
Quarta sezione. A questi si contrapponevano però gli interessi propri dei cittadini,
designati poi come interessi legittimi, la cui tutela sarebbe stata demandata alla
Quarta sezione; infine permaneva un ambito di attività riservata all’amministrazione.
In questo ambito risultava poco chiara la figura del ricorso gerarchico, ma la legge
del 1889, introduceva un rapporto ben preciso tra il ricorso alla Quarta sezione, che
era ammesso solo contro un provvedimento definitivo, ossia per il quale fossero stati
esperiti tutti i gradi della tutela gerarchica e il ricorso gerarchico (straordinario) al
Re,che in base all’art.7 della L.89, introduceva la regola della sua alternatività con il
ricorso alla Quarta sezione. Tuttavia vi fu la convinzione che il ricorso gerarchico
avesse un ambito più ampio e potesse tutelare interessi minori rispetto a quelli
tutelabili col ricorso alla Quarta sezione.
Lo schema articolato nella distinzione fra posizioni soggettive non era l’unica
interpretazione della legge del 1889. Anche altre interpretazioni sarebbero state
possibili: al termine interesse si poteva riconoscere un significato più ampio, non
come nozione alternativa al diritto soggettivo, ma comprensiva di qualsiasi pretesa di
fatto compatibile con l’ordinamento giuridico. Ad ogni modo, dalla tutela imperniata
sulla Quarta sezione erano esclusi gli atti emanati dal governo nell’esercizio del
potere politico. Questa categoria degli atti politici, consisteva in atti riconducibili a
funzioni superiori di governo, ma non solo di atti politici di rilevanza costituzionale.
La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di legittimità
sull’atto amministrativo. In alcuni casi particolari, la legge del 1889, attribuiva alla
Quarta sezione un sindacato anche in merito. In questo caso la quarta sezione, in
caso di accoglimento del ricorso, non avrebbe dovuto limitarsi ad annullare l’atto
impugnato, ma avrebbe potuto esercitare poteri più ampi ed assumere una decisione
sulla pratica in sostituzione del povvedimento annullato. Fra le ipotesi di sindacato
anche in merito, la legge prevedeva quello del giudizio di ottemperanza, rendendo
così giustiziabile l’obbligo dell’amministrazione di ottemperare al giudicato dei
giudici ordinari. Successivamente alla legge Crispi del 1889, con la legge del 1890,
fu attribuita alla Giunta provinciale amministrativa (organo statale che esercitava il
controllo sugli enti locali) una competenza modellata su quella della Quarta sezione,
ma limitata alla tutela nei confronti di taluni atti di amministrazioni prevalentemente
locali. Contro le pronunce della Giunta era ammesso ricorso alla Quarta sezione.
Ma, ogni discussione a riguardo , fu superata dalla legge del 1907 n.62, che
riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale della Quarta sezione introducendo
la distinzione fra sezioni consultive del Consiglio di Stato (le prime tre) e sezioni
giurisisdizionali e contemplò la possibilità del ricorso alla Corte di cassazione agli
effetti della legge del 1877 contro le decisioni delle sezioni giurisdizionali. Inoltre
istituì la QUINTA SEZIONE del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla
quale erano demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito, mentre alla Quarta
sezione, erano riservati i ricorsi nei casi generali in cui il sindacato era limitato alla
legittimità. Il coordinamento fra le due sezioni era affidato alle Sezioni riunite
(ADUNANZA PLENARIA) composta dai componenti di entrambe le sezioni. Altre
innovazioni della legge del 1907 riguardavano:
-la disciplina del procedimento avanti alle Giunte provinciali amministrative, alle
quali fu riconosciuto carattere giurisdizionale, con riferimento alle funzioni
contenziose;
-la disciplina del ricorso straordinario al Re, dove fu fissato un termine perentorio per
la presentazione del ricorso.
In attuazione della legge del 1907, e del relativo testo fu emanato il regio decreto con
il REGOLAMENTO PER LA PROCEDURA dinanzi alle sezioni giurisdizionali del
Consiglio di Stato.
La legge n.2840 del 1923 cui fece seguito il testo unico delle leggi sul Consiglio di
Stato, approvato con regio decreto n.1054 del 1924, introdusse due ordini di
innovazioni:
Nel primo caso si era verificato uno squilibrio tra il numero dei ricorsi proposti e
quello dei ricorsi decisi, che aveva comportato una dilatazione della durata media
dei giudizi. Per affrontare questo problema venivano introdotte disposizioni
speciali che avrebbero dovuto assicurare una decisione più celere. In alcuni casi a
questi fini fu privilegiata la rilevanza istituzionale della pretesa del cittadino. Così
la legge 241/90 poi modificata dalla legge 80/2005, nel prevedere il diritto di
accesso ai documenti amministrativi, introdusse per la sua tutela un rito speciale,
di competenza del giudice amministrativo caratterizzato da procedure accelerate.
-NORME TRANSITORIE;
Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (D.Lgs. 104/2010)
vennero abrogate quasi tutte le disposizioni precedenti sul processo
amministrativo. La legge di delega prevedeva che il Governo entro 2 anni dal suo
primo esercizio, potesse emanare ulteriori decreti legislativi con le correzioni e
integrazioni che l’applicazione pratica renda necessarie e opportune. Furono
quindi introdotte disposizioni correttive e integrative. All’applicazione del codice,
vi fu una discussione soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la
giurisdizione civile, nonché l’idoneità degli strumenti previsti per la tutela dei
diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva, i mezzi istruttori. Anche
l’introduzione del processo amministrativo telematico è stata motivata con
l’esigenza di una maggiore efficienza. In altri Paesi, per ridurre il carico di lavoro
agli organi giurisdizionali, sono stati valorizzati i rimedi alternativi di soluzione
delle controversie. Questi ultimi dovrebbero prevedere l’intervento di un soggetto
qualificato e terzo rispetto alle parti in causa, al quale possono essere assegnate
funzioni decisorie ma anche di mediazione e di conciliazione. Per le vertenze sui
contratti d’appalto dell’amministrazione è stato porposto di valorizzare l’autorità
di settore, l’ANAC, la quale possa rendere pareri con effetti vincolanti per la parte
che ne abbia fatto richiesta sulle questioni insorte durante lo svolgimento delle
procedure di gara.
CAPITOLO IV
L’INTERESSE LEGITTIMO
Per quanto attiene alla modalità di tutela nel caso di lesione di un interesse
legittimo, sembra corrispondere una tutela tipica, di tipo costitutivo, diretta ad
elidere gli effetti del provvedimento lesivo. Mentre la tutela del diritto
soggettivo assicurerebbe direttamente la pretesa al bene della vita in cui si
sostanzia il diritto, la tutela dell’interesse legittimo attuerebbe solo un
soddisfacimento indiretto, che si realizza attraverso l’eliminazione degli atti
amministrativi lesivi. In questa prospettiva, l’interesse legittimo era
considerato dall’ordinamento solo in seguito ad una sua lesione. In questo
modo era facile ritenere che l’interesse legittimo fosse figura di ordine
processuale nel senso che avrebbe assunto rilievo solo sul piano dell’azione
giurisdizionale. Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse
legittimo si configura come tutela successiva, ovvero presuppone che già sia
intervenuta la lesione dell’interesse protetto. Se la lesione è prodotta da un
provvedimento amministrativo, si verifica la legittimità del provvedimento e
attraverso esso, la legittimità dell’operato della pubblica amministrazione. In
seguito alla lesione, il cittadino diviene titolare di un diritto potestativo, una
pretesa, all’annullamento dell’atto lesivo. La lesione però può essere
determinata anche dal silenzio-rifiuto dell’amministrazione ovvero mancanza
dell’esercizio di un potere e in questo caso il giudizio ha come obiettivo
l’adempimento del dovere di provvedere dell’amministrazione.
Il bene della vita non sembra identificabile con un interesse alla legittimità
dell’azione amministrativa. L’interesse legittimo è garantito
giurisdizionalmente attraverso la contestazione della legittimità dell’azione
amministrativa. Tuttavia la legittimità dell’azione amministrativa non è essa
stessa un bene della vita né tanto meno può essere concepita come un bene
della vita proprio di un soggetto determinato. Spesso viene prospettata per la
figura dell’interesse legittimo la distinzione tra due ordini di interessi:
Gli interessi collettivi o di categoria sono gli interessi tipici dei soggetti
appartenenti ad una categoria lavorativa, professionale, di utenti. Nei confronti
degli atti amministrativi che riguardano specificamente la categoria può
configurarsi in capo a ciascun appartenente un interesse qualificato. In questo
ambito operano però anche gli organismi privati o talvolta pubblici che sono
rappresentativi o esponenziali della categoria. La giurisprudenza
amministrativa ha riconosciuto in capo a questi organismi la titolarità
dell’interesse di categoria e la capacità di farlo valere come un proprio
interesse legittimo.
CAPITOLO V
La garanzia del diritto d’azione comporta non solo la possibilità di una tutela
nei confronti dell’amministrazione attraverso l’impugnazione di provvedimenti
in vista del loro annullamento , ma anche la possibilità di chiedere al giudice
amministrativo misure cautelari per eviatre che la durata del giudizio produca
un danno irreparabile all’interesse del ricorrente. Il ricorso al giudice
amministrativo non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato: solo
con istanza della parte per evitare un pregiudizio grave e irreparabile, è
possibile ottenere la sospensione del provvedimento stesso.
Per quanto riguarda la rilevanza della effettività della tutela giurisdizionale nel
giudizio in materia di pubblico impiego, la Corte Cost. ha dato rilievo
all’esigenza di assicurare per i pubblici dipendenti una tutela equipollente a
quella ammessa ai dipendenti con rapporto di lavoro privato.
L’art.113 Cost. detta una serie di regole per la tutela del cittadino nei confronti
dell’amministrazione. Al primo comma definisce il rapporto fra la garanzia
della tutela giurisdizionale e la posizione dell’amministrazione. La tutela
giurisdizionale contro gli atti della P.A. è sempre ammessa sia per quanto
riguarda i diritti soggettivi, sia per quanto riguarda gli interessi legittimi. Al
secondo comma impedisce di circoscrivere i margini della tutela
giurisdizionale in relazione alla tipologia degli atti amministrativi impugnati o
alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio. La garanzia si estende solo ai vizi
di legittimità , mentre rimangono esclusi i vizi di merito.
L’art.7,1 co c.p.a. esclude la possibilità di impugnazione degli atti politici (atto
che sia esercitato di un potere politico). Un atto del genere è riservato ad
autorità cui competa al massimo livello la funzione di indirizzo politico e di
direzione della cosa pubblica.
Al terzo comma rinvia alla legge per l’individuazione dei giudici competenti
ad annullare gli atti amministrativi e dei relativi casi ed effetti. La norma
esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a favore
del giudice amministrativo del potere di annullamento degli atti amministrativi.
Al giudice è sempre garantito il potere di sindacare la legittimità dell’atto
amministrativo ma non è sempre garantito che tale sindacato si debba risolvere
necessariamente in un potere di annullamento. In questo contesto viene
considerato anche l’art. 21-octies L.241/90 che stabilisce che la violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti non ne comporta
l’annullabilità se per la natura del provvediemento sia palese che il contenuto
non avrebbe potuto essere diverso; cosiccome il provvedimento amministrativo
non è annullabile per violazione delle norme sulla comunicazione dell’avvio
del procedimento se l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvediemento non avrebbe potuto essere diverso. Secondo alcuni, in questi
due casi, non sarebbe ammessa una tutela impugnatoria, ma rimarrebbe ferma
la tutela risarcitoria in presenza di un danno patrimoniale. Secondo un
orientamento più ampio, l’illegittimità si configurerebbe solo quando il
provvedimento produca nei confronti del destinatario un effetto diverso da
quello prescritto nella stessa situazione dalla legge.
CAPITOLO VI
- È stato rilevato che interessi legittimi e diritti soggettivi sono posizioni distinte
qualitativamente e non in termini di minore o maggiore tutela.
- È stato rilevato che la tesi del petitum finiva con l’aprire la strada a una doppia
tutela nel senso che la stessa posizione soggettiva, poteva essere fatta valere
alternativamente o cumulativamente a scelta del ricorrente avanti a ciascuno
dei due giudici. La doppia tutela sembrava incompatibile con l’esigenza di una
distinzione fra le giurisdizioni basata su criteri oggettivamente verificabili.
Oggi l’espressione “doppia tutela” viene richiamata per designare ipotesi
particolari in cui il cittadino in una stessa situazione materiale , può agire
davanti al giudice ordinario per far valere un proprio diritto, ma può agire
anche davanti al giudice amministrativo per far valere un proprio interesse
legittimo.
- Il rigetto della tesi del petitum induce a valorizzare l’altro elemento
tradizionale dell’azione rappresentato dalla causa petendi: la controversia è di
competenza del giudice amministrativo se è fatto valere un interesse legittimo;
invece è di competenza del giudice ordinario se è fatto valere un diritto
soggettivo. Secondo la TEORIA DELLA PROSPETTAZIONE va attribuito
rilievo alla prospettazione della posizione giuridica soggettiva come risulta
dagli atti introduttivi del giudizio.
- La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata come “tesi del petitum
sostanziale” : ciò che rileva ai fini del riparto di giurisdizione è l’effettiva
natura di questa posizione e la sua oggettiva qualificazione come diritto
soggettivo o interesse legittimo.
Il tema dei limiti interni della giurisdizione ordinaria, attiene all’individuazione dei
poteri che il giudice civile nelle controversie di sua competenza può esercitare nei
confronti dell’amministrazione. Si tratta di stabilire quali pronunce possono essere
assunte dal giudice civile, nelle controversie sui diritti soggettivi, rispetto a una
pubblica amministrazione. A tale proposito, l’art.4 della legge abolitiva del
contenzioso amministrativo, vieta al giudice ordinario di revocare o modificare l’atto
amministrativo. Per quanto riguarda la nozione di ATTO AMMINISTRATIVO ,
serve per individuare i poteri del giudice ordinario nei confronti
dell’amministrazione. In passato questa nozione veniva identificata con qualsiasi atto
dell’amministrazione posto in essere nell’interesse pubblico. Se questa concezione
viene accolta, oggetto di protezione non possono essere solo i provvedimenti
amministrativi, ma anche i comportamenti materiali dell’amministrazione di per sé
non regolari, ma comunque indirizzati a soddisfare un interesse pubblico. Questi
ultimi venivano considerati come provvedimenti amministrativi taciti, ossia
espressioni di volontà dell’amministrazione desumibili da un comportamento. La
garanzia può riguardare solo l’atto amministrativo come espressione del potere
dell’amministrazione , pertanto, la dove l’amministrazione non esercita un potere
conferitole dalla legge non si può ammettere alcuna limitazione ai poteri del giudice.
La garanzia dell’atto amministrativo trova la sua ragione e la definizione del suo
ambito nel principio di legalità, per cui la dove quest’ultimo non opera, non vi può
essere alcuna immunità dall’intervento giurisdizionale.
Il tema dei limiti interni della giurisdizione civile è stato affrontato anche con
riferimento alle tipologie di sentenza che il giudice ordinario può emettere nei
confronti dell’amministrazione. Le uniche sentenze compatibili con l’art.4 della legge
abolitiva del contenzioso erano solo le sentenze di mero accertamento (il loro
carattere dichiarativo si limitava ad accertare la situazione delle parti rispetto
ad un bene giuridico e non implicava da parte del giudice l’esercizio dei poteri
dispositivi che possano incidere su atti dell’amministrazione né rapppresenta il
titolo per un’esecuzione) e le sentenze di condanna al pagamento di somme di
denaro (una condanna del genere obbligava l’amministrazione a porre in essere una
propria attività).
Come già detto, la legge abolitiva del contenzioso amministrativo assegnò al giudice
ordinario la capacità di procedere alla disapplicazione dell’atto amministrativo
illegittimo. La disapplicazione presuppone l’esistenza di una controversia su un
diritto soggettivo; il sindacato sugli atti amministrativi e sui regolamenti ai fini della
loro disapplicazione concerne solo la legittimità e non l’opportunità degli stessi ;
attraverso la disapplicazione il giudice può sindacare la legittimità dell’atto
amministrativo anche d’ufficio per il fatto che l’atto è un elemento rilevante per la
decisione, senza la necessità di domande e eccezioni delle parti. L’istituto della
disapplicazione è stato utilizzato in due ordini di controversie civili:
La decisione del garante su un ricorso proposto a tutela dei diritti di privacy può
essere impugnata dagli interessati entro 30 giorni dalla comunicazione davanti al
Tribunale civile. Il giudizio segue il rito del lavoro.
La circostanze che in giudizio ci sia la P.A. non comporta una variazione delle regole
del processo comune, ad eccezione dell’Avvocatura dello Stato nei casi in cui sia
parte un’amministrazione statale , la quale ha sede presso ciascun distretto di Corte
d’appello. Assiste l’amministrazione statale senza la necessità di uno specifico
mandato, potendo compiere gli atti processuali per l’amministrazione statale senza
necessità di una procura. Per i giudizi civili