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Marco Pescetelli
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Le pietre della lunga scalinata sotto gli ulivi scuotono le piante dei
piedi. Il dolore si accumula al buio di questa salita. Cammino su un
mare solido in cui le onde dure del selciato deviano a caso i miei
passi.
I brillanti sono tutti al loro posto sul velluto nero della notte.
Cerco a tentoni il campanello d’ingresso.
Non mi aspetta nessuno.
Un contatto liberatorio e la pesante anta del portone cede senza una
parola.
Il portico profumato mi indica una scala stretta nel buio più chiara di
travertino liscio.
Mi ci inerpico col cuore in gola e finalmente una voce: ”Chi é?”
Chi sono. Il mio nome con mille spilli conficcati nei muscoli e nel
cuore, che mi inchiodano.
Sono io con la tristezza di una vita che rotola in discesa, senza più una
mappa, un’indicazione.
E finalmente Antonio. Il suo abbraccio la promessa di un porto sicuro.
Silenzio.
...
Quando scendo giù Antonio non c’è. Incrocio invece degli occhi
azzurri che si allargano in un sorriso. Mi tende la mano. E’ Marek, un
ragazzo polacco, qui in Italia per studiare. Continua a sorridere sulla
mia perplessità e sulla sua lingua piena di u scivolose.
“Per il pranzo” mi fa, accennando col mento al cumulo di cipolle e
patate attorno a cui si affanna. Si muove preciso, puntuale. Ogni
grammo d’energia ha una direzione, viaggia veloce verso una mèta. A
un tratto si asciuga le mani in uno strofinaccio, la fronte. “Vieni”.
Attraversiamo rapidi gli ambienti della canonica in un disordine che
sa di lavanda. Mi porta in una stanza d’armadi. Ne apre uno e tira
fuori due asciugamani e un cambio di lenzuola. “Occhéi?” e torna a
non so quale ricetta di casa sua.
Solo ora realizzo con gratitudine che non mi ha chiesto nulla, neppure
il nome.
Come si racconta ciò che non si racconta. Dove sono le parole non
ancora lisce per cercare la strada interiore, la mia, che si disfa e non
so come. La bella costruzione dell’autonomia, incontro al giorno, sulla
zattera dei progetti che poi alla fine ti senti un naufrago, comunque.
L’esigenza del cuore: la ragionevolezza di una richiesta di felicità
necessaria e inestinguibile a ricalcare i contorni precisi e distillati di
un destino cui consegnarsi. Senza fatica. Con la consapevolezza del
passo e della strada. E soprattutto: in compagnia. Una compagnia alla
vita che ha una ragione, al di là della simpatia e dei meriti.
Mentre avvito i tubi innocenti di questa impalcatura risento le parole
di Antonio contro il bigottismo e l’idiozia del congelarsi dietro una
barricata: qui i buoni, fuori gli altri.
Rocco mi passa vicino carico come un mulo. “Ti do una mano”. E’ qui
che lavora come stagionale in un ristorante del porto. Studia
ingegneria e ha finito da poco il militare in marina: un anno in una
casamatta su una collina a guardare due recinti di capre. “Il capitano
era un fissato. Due razze: le alte e le basse. Sai, non si dovevano
mischiare”.
Così adesso prima di fare il bagno ci fa sentire cosa ha imparato:
èèèèèèè. Il verso della capra. Un anno di militare. In marina.
Otello e Diego si rincorrono su e giù per la scalinata tra gli ulivi. Otello
ordina burbero, dirige, si dà da fare. Diego saltabecca, un po’
protesta e soffia, però alla fine fa ed è stanco ed è contento. A posto,
se capite cosa voglio dire, mentre i coetanei sono giù al molo a
giocherellare.
Colgo lo sguardo fuori tempo tra i due. Otello con una piega ad un
angolo delle labbra che assomiglia a un sorriso di soddisfazione. Un
attimo dopo, mentre stringe i dadi a una giuntura di tubi innocenti,
Diego, viso aperto e spalancato, cerca il consenso del padre. Ma
Otello sta risalendo le scale, di schiena.
Dal buio delle quattro e mezza vedo spuntare i primi che si inerpicano
per la scalinata. Hanno fatto la strada a piedi, mi dice chi riesco a
fermare; sono tutti dei paesi vicini e vengono a prendere la prima
messa ognuno con la propria candela accesa: un fiume di baluginii
ininterrotto.
Ogni ora una messa, ogni ora un paese diverso.
Andiamo avanti un po’ sparando la luce dei quarzi e il microfono in
faccia ai malcapitati. Pochi si fermano, pochissimi rispondono alle
nostre domande. Marek fa del suo meglio per mantenere un minimo
di illuminazione senza ombre, ma è un’impresa tra gli ulivi, il cavo che
non basta, le persone che scappano come pesci spaventati. E poi è
artificiale e schiaccia via la bellezza di questi lumi caldi che
rischiarano appena, suggerendo la strada.
“Perché vieni qui?”
La risposta più avvilente: per tradizione.
Quella più intelligente: le risposte alla vita o le si cerca dentro di sé,
come mi ha aiutato a fare lo psicologo, o fuori di sé, con l’oroscopo o
la cartomante. Questa mi sembra una terza via. Onesta.
Quella più toccante: per ritrovare mia moglie, morta tre anni fa. Lei ci
veniva sempre...
L’ultima: che domande sono! Non lo sa lei perché si viene qui?
piedi, in mille e mille altre chiese, alla stessa ora, nello stesso
momento, forse leggermente asincroni, come chi inizia una frase e la
chiude un attimo in ritardo, ma comunque insieme.
E sono lì, anch’io, con le mie domande, a dire Padre, dopo anni di
silenzio.
A sentirmi figlio dopo anni di sterile autonomia.
fetta di meringata. Corro giù alla scalinata. Ma Paolino non c’è più.
Non c’è nemmeno lo sgabellino e il cappello.
Alla fine busso alla camera di Antonio. E’ sdraiato sul letto ad occhi
chiusi.
“Antonio...”
“Chi è?”
“Sono io,...sto andando via...comunque...ti volevo ringraziare...”
Apre gli occhi, mi guarda.
“Vai via ora?”
“Beh, è già tardi, il viaggio è lungo...”
Si tira su con un mugugno; si siede sul bordo del letto.
“Ho capito. Allora ciao, torna a trovarmi”.
Si alza e mi abbraccia forte “e ricordati che non sei solo”:
Mentre mi avvio un ripensamento: “Antonio, ma...che volevi dire oggi
quando mi hai detto di seguire il criterio di Cristo, che criterio è?”
Mi fissa un attimo: “Seguire un criterio...che non è il tuo”.