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Università degli studi di Perugia.

Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione.


Corso di Filosofia e Scienze e Tecniche Psicologiche.

Le condotte atipiche nei luoghi di lavoro.

Tesina di Psicologia del lavoro.


Jessica Rossetti. Matricola 305042.

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Introduzione

Negli ultimi decenni gli Stati membri dell’Unione Europea hanno conosciuto lo sviluppo di forme
atipiche di occupazione, esse rappresentano un importante contributo all’espansione
dell’occupazione che ha avuto luogo in Europa negli ultimi anni. Queste forme di impiego sono
però spesso esercitate in maniera non volontaria e sono particolarmente problematiche.

La presenza diffusa di forme atipiche di lavoro nella nostra società non solo è causa di un
cambiamento dei possibili tipi di lavoro, ma sta anche svuotando lo stesso lavoro della sua funzione
sociale. Ci sono più variabili psicologiche a rischio dal momento che, se stiamo parlando di
instabilità del lavoro collegato ad una percezione personale di perdere il posto di lavoro, o ad una
condizione contrattuale precaria vera e propria, le tipologie di problemi che sorgono si ripercuotono
sulla costruzione dell’identità professionale delle persone, sulle interazioni tra il soggetto e la sua
organizzazione del lavoro e sulla soddisfazione e la qualità della vita privata. La maggior parte della
ricerca nel campo della psicologia del lavoro e delle organizzazioni si è focalizzata sui fattori che
favoriscono un funzionamento lavorativo efficace, tuttavia in ambito lavorativo diffuse sono anche
le azioni inefficaci o perfino distruttive.

Fino ad oggi l’obiettivo è stato forse più quello di costruire conoscenze e competenze di base e
specifiche per la formazione meccanica di figure professionali, senza prendere in seria
considerazione lo specifico aspetto dell’identità del lavoratore, la sua stabilità personale e la qualità
delle relazioni umane.

Oggi ci troviamo davanti ad un’ampia diffusione di fenomeni illegali e forme di devianza, che
sembrano non essere solo anomalie individuali o stranezze imprevedibili, bensì un modo di
intendere e gestire le relazioni tra persona, lavoro e organizzazione. Sono numerosi gli episodi
illeciti e di microcriminalità che si presentano: piccoli furti, utilizzi a fini privati di strumenti di
lavoro, complicità nell’accettare “lavoro nero” e varie forme di inciviltà nei rapporti interpersonali
(compresi episodi di violenza). Tali forme di devianza lavorativa non sono limitate ad operai o
impiegati, ma interessano anche capi e dirigenti che oltre ad una scarsa deontologia professionale,
mostrano una carenza di etica del lavoro. I comportamenti controproduttivi rappresentano un filone
di ricerca particolarmente importante della psicologia del lavoro e delle organizzazioni e uno dei
problemi più seri che le organizzazioni di molti Paesi si trovano ad affrontare.

Esiste una faccia nascosta e oscura del comportamento lavorativo, tali condotte anormali sembrano
corrispondere ad un sistema di relazioni disfunzionale che facilità l’emergere di intenzioni e azioni
delle persone estremizzate verso il polo della devianza e allontanandosi da quello dell’efficienza.
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Varie classificazioni e definizioni dei comportamenti anormali

La diffusione di comportamenti anormali nei contesti di lavoro ha stimolato lo studio da parte degli
psicologi delle loro caratteristiche e delle ragioni che portano ad attuarli.

Possiamo distinguere diversi aspetti di tali condotte:

1- Condotte antisociali, indicano azioni volte a danneggiare l’organizzazione, i lavoratori e i


clienti.
2- Condotte disfunzionali, sottolineano che si tratta di condotte motivate, messe in atto da
singoli o da più persone che hanno conseguenze negative per i gruppi e per
l’organizzazione.
3- Devianza lavorativa vista come una condotta volontaria che viola le norme organizzative e
minaccia il benessere dell’organizzazione e dei suoi membri.
4- Counterproductive Workplace Behavior (CWB) che può essere tradotto in condotte
controproduttive, che sono contrarie ai legittimi interessi dell’organizzazione.

Aldilà delle varie connotazioni, il comportamento lavorativo controproduttivo consiste di atti


volontari che apportano danni o sono finalizzati ad apportare danni ad un’organizzazione ma anche
alle persone al suo interno o comunque ad essa collegate (ad esempio i clienti).

La definizione di CWB include atti di: aggressione; ostilità; sabotaggio; furto; ritiro o disimpegno
(come ad esempio assenze o ritardi). Questi comportamenti possono sorgere da un numero di
condizioni che ad un certo momento precipitano negli autori del danno o nella situazione generale.

Secondo il modello di Spector e Fox (2005) un’azione deve essere intenzionale e non accidentale.
Le possibilità sono due: il dipendente può decidere di realizzare un danno diretto, oppure lo realizza
involontariamente come conseguenza della sua intenzione di svolgere male o inadeguatamente un
compito. Va chiarito che un’eventuale scarsa performance non intenzionale, ma dovuta
semplicemente all’inesperienza o all’incapacità del dipendente, non è considerata un
comportamento controproduttivo; si pensi ad esempio agli effetti degli errori umani, alle rotture
degli strumenti o ancora a cattive istruzioni lavorative.

Lo stesso si può dire di eventuali incidenti: se il dipendente segue le misure di sicurezza e


nonostante ciò avviene ugualmente un incidente, non si può parlare di CWB. Viceversa se il
dipendente evita intenzionalmente di utilizzare procedure o strumentazioni di sicurezza e come

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conseguenza accade un incidente, si tratta di un comportamento controproducente, anche qualora
l’incidente in sé non sia strettamente volontario.

Pertanto atteggiamenti di disimpegno e scarsa responsabilità, che apportino danni


all’organizzazione o alle persone ad esse connesse, rientrano nella definizione di CWB. Ovviamente
si tratta di comportamenti controproduttivi anche nel caso che l’incidente sia provocato direttamente
e volontariamente. Alcuni esempi specifici di comportamenti controproducenti includono:
comportamento di abuso sugli altri; aggressione fisica e/o verbale; svolgimento volontariamente
inadeguato del proprio compito lavorativo; sabotaggio; furto; azioni di ritiro, disattenzione o
disimpegno come assenze, ritardi o turnover.

Per riassumere, per essere CWB un’azione deve essere basata sul proposito di essere esplicitamente
deleteria oppure di svolgere il lavoro in maniera inadeguata. Ad esempio, un furto può essere
motivato dal desiderio che l’attore prova per l’oggetto e non per la volontà di far male
all’organizzazione, ma è evidente che l’atto apporta ad essa un danno.

Le condotte controproducenti assumono connotazioni differenti a seconda che siano illegali (contro
le norme formali), immorali (violano codici etici condivisi) o devianti (non rispettano standard
comportamentali, regole sociali o procedure organizzative).

Condotte non classificate come controproducenti

Non tutte le condotte che minacciano l’armonia della vita organizzativa sono classificabili come
comportamenti controproduttivi, parliamo ad esempio del rifiuto di fare straordinari oltre una certa
soglia, svolgere mansioni dequalificanti non annoverate nel contratto stipulato o la resistenza
all’entrata di nuove tecnologie. Molte di queste azioni possono essere considerate come espressione
di una protesta (individuale o collettiva) per contrastare situazioni lavorative ingiuste o di
sfruttamento dei lavoratori. Lotte sindacali o richieste di cambiamenti da parte dei dipendenti
possono essere visti come controproduttivi dall’organizzazione ma come utili dai dipendenti stessi.
Lo stesso si può dire del tempo trascorso a chiacchierare coi colleghi.

A questo riguardo risulta utile la distinzione concettuale, proposta da Robinson e Bennett (1995), tra
comportamenti devianti verso un’organizzazione e comportamenti devianti contro le persone.
Anche se spesso risultano sovrapposti, i due tipi di devianza sono chiaramente distinti.

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Quali fattori potrebbero motivare le persone ad impegnarsi in comportamenti
devianti, aggressivi, antisociali, e/o violenti? Quali le finalità?

I dipendenti che subiscono comportamenti devianti sul di posto di lavoro hanno maggiori


probabilità di cambiare lavoro, di soffrire di problemi legati allo stress, mostrano una riduzione del
livello di produttività, scarsa motivazione, perdita tempo di lavoro, autostima, aumento della paura
e insicurezza sul posto di lavoro e dolore psicologico e fisico. Qualora i dipendenti insoddisfatti
rimangano nell’azienda potrebbero fornire servizio scadente, creare un’atmosfera negativa o
effettuare furti e sabotaggi ai danni di essa con notevoli costi finanziari.

Il disprezzo verso l’azienda, l’intenzione di cambiare lavoro e l’insoddisfazione sono stati usati per
prevedere il comportamento dei dipendenti devianti. Solitamente i ricercatori che studiano i
comportamenti devianti si sono concentrati sui comportamenti stessi. Attraverso numerosi studi si è
riscontrata una correlazione significativa positiva tra la soddisfazione sul lavoro e le prestazioni
lavorative, inoltre l’insoddisfazione sul lavoro è un’attitudine che può anticipare i comportamenti
futuri.

La definizione della devianza di Robinson e Bennett (1995) descrive il comportamento come


atto esclusivamente volontario. Griffin e Lopez propongono di focalizzare l’attenzione sulle
intenzioni, analizzando la motivazione, la complessità e la trasparenza.

Le origini dei comportamenti controproducenti possono essere di natura patologica (malattia


mentale o psicologica), causate da stress, relative ad un’ingiustizia percepita, al bisogno di vendetta
o ritorsione. Il cattivo comportamento potrebbe anche essere motivato da un desiderio di aiutare o
comunque dare un beneficio per l’organizzazione o i suoi dipendenti.

Vardi e Weitz approfondiscono il significato dell’intenzione di attuare condotte controproducenti


focalizzandosi su due punti essenziali: primo, il protagonista di tali comportamenti ha sviluppato un
atteggiamento favorevole verso quel tipo di comportamento e secondo, la norma soggettiva della
persona tollera quel comportamento, ovvero l’individuo percepisce che le regole e le norme assunte
come riferimento personale possano tollerare condotte controproducenti.

Sono state quindi identificati tre tipi di intenzioni di base:

1- Condotte intenzionali finalizzate a trarre benefici per sé stessi e indirizzate verso l’interno
dell’organizzazione (vittimizzazioni, furti o manomissioni di informazioni).

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2- Condotte intenzionali che procurano vantaggi per l’organizzazione e indirizzate verso
l’esterno dell’organizzazione (turbare il mercato tramite tangenti, falsificare documenti,
caricare sovrapprezzi per i clienti).
3- Condotte intenzionali con finalità distruttive e indirizzate verso l’interno o l’esterno
dell’organizzazione (vandalismi o aggressività e comportamenti illeciti verso clienti).

Correlazione con affettività negativa e stressor

A livello individuale sono stati considerati l’inadeguato sviluppo morale della persona o la sua
tendenza al disimpegno morale, come avviene con l’attribuzione ad altri di responsabilità di un
qualche evento negativo o con la disattivazione del proprio self-control morale ridefinendo una
situazione in modo da giustificare le proprie condotte incoerenti con gli standard etici.

Le risposte delle persone ai conflitti tendono a colpire molto di più le altre persone che
l’organizzazione, il quadro che emerge mostra che i comportamenti controproducenti siano delle
risposte agli stressor lavorativi e ad altre condizioni che generano emozioni negative. Di queste, si
sono dimostrate molto importanti il conflitto interpersonale, i vincoli organizzativi, l’ambiguità di
ruolo, il conflitto di ruolo, mentre meno importanti, cioè con risultati un po’ meno chiari e talvolta
più ambigui, ma non di rado significativi, sono risultati il carico di lavoro e la percezione di
ingiustizia.

Il modello di Spector e Fox suppone che i comportamenti controproduttivi siano risposte a


situazioni organizzative in cui vengono suscitate forti emozioni negative, in particolare ansia e
frustrazione.

Questa ipotesi è stata confermata da diversi studi, in uno dei primi Chen e Spector (1992) trovarono
che una misura della rabbia sul posto di lavoro correlava maggiormente con le azioni devianti
piuttosto che con una misura di frustrazione. Questo studio infatti trovò relazioni significative tra
frustrazione, aggressione e ostilità, ma non con altri atti devianti come il sabotaggio o il furto; tutte
e quattro le scale (frustrazione, aggressione, ostilità, sabotaggio e furto) correlavano
significativamente con la rabbia.

Alcuni studi trovarono che le emozioni negative misurate dalla scala JAWS (Job-Related Affective
Well Being Scale) erano correlate sia con i comportamenti devianti, sia con gli stressor. Non si
trovarono relazioni coerenti tra emozioni positive e comportamenti controproduttivi.

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L’affettività negativa tende ad accentuare le risposte emozionali (di irritazione, ansia ecc.) alle
diverse condizioni lavorative stressanti che portano a comportamenti devianti. Anche tratti di
personalità, soprattutto affettivi, vengono considerati importanti, anche se non quanto gli stressor e
le emozioni negative.

L’interesse per questi aspetti personali che influenzano le condotte devianti ha una notevole
rilevanza anche pratica in quanto può sostenere anche interventi professionali di natura preventiva
basati sull’identificazione di caratteristiche che hanno un discreto livello di predittività delle
condotte future.

Fenomeno del “WORKAHOLISM”

Nel 1700 il lavoro cominciò a diventare un’attività sempre più diffusa tra i rappresentanti di tutte le
classi sociali e gradualmente si avviò un cambiamento nell’immaginario sociale rappresentando il
lavoro come un’attività dignitosa e orientata al raggiungimento di un obiettivo, che può essere la
realizzazione di un bene o la creazione di un servizio.

Le successive trasformazioni, osservate negli ultimi secoli, hanno visto divenire il lavoro, non solo
un’attività necessaria per vivere, in quanto consente l’indipendenza economica, ma anche un mezzo
di affermazione sociale, che assegna uno status e che riveste il valore di un rituale che contrassegna
il vero passaggio all’età adulta.

In seguito a questi cambiamenti è aumentato il peso dell’identità lavorativa sull’identità personale e


ciò ha portato, negli ultimi anni, a dedicare al lavoro sempre maggiori spazi che, spinti all’eccesso,
hanno generato ricadute negative sulla vita psico-sociale e sulla salute fisica. Il malessere sociale
che nasce dall’eccessivo tempo riservato al lavoro è stato descritto, negli ultimi anni, con i
fenomeni di “burnout”, “sindrome da stress lavorativo”, ma soprattutto di “lavoro-dipendenza” o
“work addiction”.

Il termine workaholism (dipendenza dal lavoro) è stato introdotto da Oates nel 1971 unendo la


parola “work” e la parola “alcoholism” per descrivere la dipendenza dall’attività lavorativa.
Schaufeli, Taris, e Bakker hanno definito il workaholism come “la tendenza a lavorare
eccessivamente in modo compulsivo”. Per poter parlare di dipendenza dal lavoro è necessaria la
compresenza in simultanea di comportamenti lavorativi tendenti all’eccesso e di una spinta interiore
(compulsione) che guida l’individuo verso tali eccessi.

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Il workaholism viene associato in letteratura ad una vera e propria dipendenza comportamentale, il
bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, rientra nel novero delle New Addiction,
assieme alla Internet Addiction, Shopping Compulsivo ed altre. Ha in comune con le altre
dipendenze patologiche alcune caratteristiche: l’ossessività, l’impulsività e la compulsività. Essa,
tuttavia, si differenzia dalle classiche dipendenze comportamentali, poiché non si riferisce, come
per l’uso di sostanze, al ricorso ad un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento
istantaneo, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di
un sevizio, per il quale si prevede una remunerazione.

L’attività lavorativa, pertanto, diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per
evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità. Nonostante si tratti di un tema dibattuto da
diversi anni, la workaholism, per la sua stessa correlazione con un’attività quotidiana, quella
lavorativa, indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe non essere riconosciuta dalla società,
al momento, come un disagio patologico. Mentre in Italia risulta ancora sconosciuto, in altri paesi
come il Giappone, tale fenomeno identificato con il nome di Karōshi (morte per eccesso di lavoro),
è largamente diffuso. Le persone sottoposte a condizioni lavorative eccessive o nocive, hanno
sviluppato patologie cerebrovascolari o cardiache gravi, alcune di esse sono decedute anche in
modo inaspettato per problematiche di ischemiche o infartuarie. La medicina giapponese ha
riconosciuto nell’eccesso di lavoro la causa fondamentale dello stress che ha generato o aggravato
le patologie in questione.

La mancanza delle ore di sonno necessarie per il benessere psicofisico sembra un fattore
strettamente connesso all’eccesso lavorativo, che innesca profonde modificazioni nella chimica
cerebrale e nel funzionamento della regolazione neurologica di tutte le funzioni vitali, un fattore che
dovrebbe fare riflettere sull’assunzione di farmaci o altre sostanze volte a diminuire il sano bisogno
di dormire, pur di terminare il proprio lavoro.

L’Identikit del workaholic

Il soggetto workaholic, in genere, dedica gran parte della sua giornata al lavoro, in maniera del tutto
volontaria e senza che ci siano pressioni da parte del capo o dell’azienda. Pensa di continuo alle
scadenze, agli appuntamenti, alle attività che deve svolgere e si sente inquieto quando non lavora

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fino ad avere anche crisi di astinenza. Ha sbalzi d’umore e può abusare di sostanze stimolanti o
psicoattive, per mantenere i ritmi autoimposti. Il workaholic tende a trascurare le relazioni sociali
con varie conseguenze a livello psico-fisico, può sviluppare la sindrome di bornout, disturbi d’ansia
e iniziare a soffrire di scompensi cardiaci e squilibri alimentari. Le ripercussioni di tale condotta
sono negative e si ripercuotono sulla vita sociale e privata.

La dipendenza da lavoro non è facilmente individuabile ed è un fenomeno ancora sottovalutato.


Essendo collegato al lavoro e alla produttività sembra essere socialmente accettato e addirittura
visto come un mezzo di affermazione sociale che determina uno status. Il workaholic viene
considerato come un individuo che si impegna ed è considerato positivamente, mentre vengono
sottovalutati i suoi lati di disagio.

In sintesi, i sintomi più ricorrenti nella workaholism sono:

 Tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al


giorno, compresi weekend e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;

 Pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di


perdere il lavoro);

 Poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi
psicofisici;

 Impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;

 Sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);

 Abuso di sostanze stimolanti come la caffeina.

Sono stati identificati, in seguito, tre profili di workaholics, ovvero di soggetti maniaci dal lavoro:

 work addicts (i dipendenti da lavoro): coloro che mostravano elevato impegno e


motivazione nel lavoro ma poco piacere nel lavorare;

 enthusiastic addicts (i dipendenti entusiasti): chi mostrava elevato impegno e molto piacere
ma poca motivazione;

 work enthusiasts (gli entusiasti del lavoro): coloro che possedevano marcati tratti di tutte le
tre caratteristiche.

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Dei tre profili, i work addicts risultarono essere i più rigidi, ossessivi e perfezionisti, con ambizioni
eccessive e obiettivi irrealistici, spesso soggetti ad elevate quote di stress ed ansia associati a
sintomi fisici.
In riferimento agli stili di comportamento sono stati evidenziati tre pattern comportamentali proprio
del workaholic: compulsivo-dipendente, perfezionista e orientato al successo.

Antecedenti socio-culturali
Le motivazioni che possono scatenare questo tipo di dipendenza sono molte, sembra avere
un’origine multifattoriale. I workaholics sono spesso cresciuti in un ambiente familiare in cui
l’amore e l’approvazione dei propri genitori era legato ai successi ottenuti, oppure si sentivano
spinti a fare sempre di più e meglio per rispondere ad aspettative esagerate e irrealistiche. L’unico
modo per sentirsi meritevoli era raggiungere una realizzazione professionale.
Questo comportamento è oggi favorito anche dalla tecnologia, l’avvento di Internet, smartphones e
tablet, indebolisce i confini naturali tra ambito professionale e privato, permettendo al lavoro di
invadere quegli spazi umani precedentemente non intaccati dalla sfera professionale. Banalmente, il
fatto di essere sempre reperibili tramite cellulare, da un lato rassicura, dall’altro sembrerebbe
operare una sorta di invasione e controllo sulle vite private dei lavoratori. 
Gli antecedenti di tale condotta sembrerebbero quindi derivare dalla storia di apprendimento
familiare, in cui i figli tenderanno ad assumere gli alti standard dei genitori, eccellendo nelle attività
scolastiche ed extrascolastiche. Tali ritmi, vissuti come naturali, avrebbero come scopo quello di
ricevere attenzioni e riconoscimento da parte degli stessi genitori e, talvolta, legittimando un minor
investimento nelle relazioni interpersonali ed un atteggiamento di chiusura emotiva.
Le persone provenienti da famiglie “disfunzionali” sono più propense a cercare tipologie di lavoro
altamente stressanti in quanto ormai abituate a fattori di stress all’interno delle mura domestiche. In
questo caso le persone possono essere influenzate da ruoli e figure all’interno della famiglia
(genitori, pari, amici, altre persone significative) o nei contesti organizzativi-lavorativi, come
superiori, mentori o in generale i colleghi.
I workaholics possono essere particolarmente ambiziosi, non si accontentano di un lavoro qualsiasi,
perché la loro bassa autostima è legata a successo e soldi. L’eccessiva mole di lavoro, la spasmodica
ricerca di alti standard professionali e il tenersi sempre impegnati, delineerebbe nel workaholic,
ovvero in colui che tende a sviluppare la dipendenza dal lavoro, una personalità incline al
comportamento compulsivo finalizzato ad evitare, nascondere o silenziare stati emotivi sgradevoli
come rabbia e tristezza, derivanti da credenze associate ad una bassa autostima, intolleranza
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all’incertezza o difficoltà nelle relazioni interpersonali. Riflette l’esigenza di scappare da relazioni
interpersonali oppure di colmare un vuoto interiore, in modo da evitare di sentire e pensare.
Vissuti di vergogna o colpa legati al senso di inadeguatezza, saranno pertanto gestiti con
comportamenti controllanti, perfezionistici e di iperattività.

Conclusioni e trattamento
In questo progetto è stato preso in considerazione un numero limitato di comportamenti atipici che
influiscono sull’efficacia del lavoro nelle organizzazioni. Tali comportamenti devianti
comprendono atti volti al danneggiamento volontario del gruppo o del singolo, ma anche atti
inconsapevoli volti al deterioramento personale e che portano a comportamenti disfunzionali e
inefficienti. Risulta utile e necessario tentare di promuovere un processo formativo che possa offrire
al soggetto potenzialità di resilienza e risorse creative per reagire alla sofferenza che il tipo di lavoro
comporta.
Il percorso psicoterapeutico, ad esempio, potrebbe includere una valutazione psichiatrica
preliminare, volta a pianificare un eventuale trattamento psicofarmacologico in appoggio
all’intervento psicologico. Tale percorso dovrebbe in ogni caso focalizzarsi sull’aiutare il paziente a
sviluppare o potenziare: empatia, apertura relazionale, capacità di identificare, riconoscere e poi
esprimere le emozioni, mentalizzare e regolare gli affetti usandoli nell’ambito delle relazioni
personali in modo adeguato mirando a una maggiore autonomia interiore e non solo all’apparente
indipendenza. La terapia familiare o di coppia può essere utile per ricostruire la comunicazione,
reintegrare la fiducia tra i soggetti e favorire l’intimità tramite la condivisione emotiva. Possono
avere un ruolo importante i gruppi di auto-aiuto, in quanto consentono alla persona di sperimentare
il senso di appartenenza, l’importanza di vivere delle relazioni interpersonali e consentono di
instaurare relazioni autentiche.

Le condotte atipiche, molto frequenti al giorno d’oggi, arrecano danni in entrambi i poli della
relazione, per questo dovrebbero essere presi in considerazione metodi preventivi volti alla cura
dell’individuo. Prevenire episodi di microcriminalità, di violenza o di comportamenti moralmente
scorretti influisce sulla futura efficienza di un’azienda e sul clima positivo del gruppo di lavoro. In
seconda analisi, saper riconoscere un individuo workaholics agevola un intervento precoce, volto a
favorire il benessere psicofisico di quest’ultimo con una corrispondente migliore prestazione
lavorativa. La cura e il benessere psicologico degli individui riflette una maggiore produttività in
ambito lavorativo.
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BIBLIOGRAFIA

 Guido Sarchielli, Franco Fraccaroli: “Introduzione alla psicologia del lavoro”. (2°
Edizione); Bologna, Il Mulino (2017).
 Il giornale italiano di psicologia, Il Mulino (2011).
 Chappell e di Marino (2006): “Violence at work”.
 Dott.ssa Monica Monaco, “La dipendenza da lavoro: evoluzione della concezione sociale
del lavoro”.
 Spector, P. E., & Fox, S. (2005). “The Stressor-Emotion Model of Counterproductive Work
Behavior”.
 Maria Rita Maccaniello, “Il lavoro atipico e la dimensione soggettiva: il ruolo della
formazione permanente”.
 Alberto Viotto, “La devianza sul lavoro”.

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