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Åsa Larsson

Finché sarà passata la tua ira


traduzione di Katia De Marco

Titolo originale: Till dess din vrede upphör

© Åsa Larsson, 2008


© 2010 by Marsilio Editori s.p.a. Venezia
Prima edizione: giugno 2010
ISBN 978-88-317-0608

Marsilio

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Trama

Nel profondo nord della Svezia, circondati da un paesaggio di


straordinaria bellezza, Wilma e Simon stanno per affrontare
l’avventura che attendevano da mesi. Sono giovani e innamorati,
intorno a loro la pellicola bianca del gelo si stende sul bosco
intanto che si preparano a immergersi nel Vittangijärvi, alla
ricerca del relitto di un aereo precipitato molto tempo prima. Ma
mentre nuotano sul fondo del lago, qualcuno scioglie la sagola di
sicurezza e chiude l’apertura verso la superficie, posandoci sopra
una porta di legno. Non avranno scampo. Quando molti mesi
dopo il corpo di Wilma viene finalmente alla luce, Rebecka
Martinsson, ora procuratore a Kiruna, sa che non è stata una
disgrazia. Comincia per lei una nuova indagine nella sua amata
terra lappone, che oltre alle meraviglie di una natura primitiva, le
offre anche l’ostilità di una popolazione dura e sospettosa.
Rebecka e l’ispettrice Anna-Maria Mella intuiscono che è nel
passato che vanno cercate le ragioni di un gesto tanto spietato, e
sfidano il silenzio di una famiglia che da lunghi anni custodisce
un segreto crudele. Con la sua caratteristica ambientazione e
forza espressiva, Åsa Larsson, definita dalla critica una “cometa
nell’universo del giallo scandinavo”, delinea con efficacia una
fatale rete di colpe, paura e tradimento, intrecciando
sapientemente le vicende della storia al destino e alle scelte dei
singoli individui.

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FINCHÉ SARÀ PASSATA LA TUA IRA

Oh, se tu volessi nascondermi nella tomba,


occultarmi, finché sarà passata la tua ira,
fissarmi un termine e poi ricordarti di me!
Se l’uomo che muore potesse rivivere,
aspetterei tutti i giorni della mia milizia
finché arrivi per me l’ora del cambio!
Mi chiameresti e io risponderei,
l’opera delle tue mani tu brameresti.
Mentre ora tu conti i miei passi
non spieresti più il mio peccato:
in un sacchetto, chiuso, sarebbe il mio misfatto
e tu cancelleresti la mia colpa.
Ohimè! Come un monte finisce in una frana
e come una rupe si stacca dal suo posto,
e le acque consumano le pietre,
le alluvioni portano via il terreno:
così tu annienti la speranza dell’uomo.
Tu lo abbatti per sempre ed egli se ne va,
tu sfiguri il suo volto e lo scacci.
Siano pure onorati i suoi figli, non lo sa;
siano disprezzati, lo ignora!
Soltanto i suoi dolori egli sente e piange sopra di sé.

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Giobbe, 14, 13-22

Ricordo come siamo morti. Lo ricordo e lo so. È così ora,


certe cose le so anche se non vi ho assistito di persona. Ma non
so tutto, anzi. Non esistono regole. Come con le persone, per
esempio. A volte sono stanze aperte in cui posso entrare senza
problemi. A volte sono chiuse. Il tempo non esiste, come se fosse
stato spazzato via.
L’inverno era arrivato senza neve. Già a settembre si era
formato il ghiaccio, ma la neve tardava.
Era il 9 di ottobre. L’aria era fredda, il cielo molto azzurro.
Un giorno di quelli che si vorrebbero versare in un bicchiere e
bere d’un fiato.
Avevo diciassette anni. Se fossi ancora viva, adesso ne avrei
diciotto. Simon ne aveva quasi diciannove. Mi lasciò guidare
anche se non avevo la patente. La strada nel bosco era piena di
buche. Mi piaceva guidare, ogni volta che prendevo una buca
ridevo. Ghiaia e pietrisco rimbalzavano contro il telaio dell’auto.
“Perdonami, Betta” disse Simon alla sua macchina,
accarezzandole il cruscotto.
Non avevamo idea che saremmo morti. Che avrei urlato con la
bocca piena d’acqua. Che ci restavano solo cinque ore.

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La strada nel bosco finiva a Sevujärvi. Mentre scaricavamo la
macchina, dovevo fare continuamente delle piccole pause per
guardarmi attorno. Era di una bellezza sovrumana. Tesi le mani
verso il cielo, strizzai gli occhi in direzione del sole, un globo
bianco infuocato, e seguii un brandello di nuvola che andava alla
deriva lassù in alto. La montagna era lì da tempi immemorabili,
immutabile.
“Cosa fai?” chiese Simon.
Sempre con lo sguardo e le braccia verso l’alto, risposi: “In
quasi tutte le religioni c’è questa cosa di guardare in su e alzare
le braccia. Capisco perfettamente il perché. Ti fa sentire bene,
provaci.”
Feci un respiro profondo e buttai fuori l’aria in una grossa
nuvola bianca.
Simon sorrise e scosse la testa. Appoggiò lo zaino su una
pietra per infilarselo in spalla e mi guardò.
Ah, ricordo come mi guardava. Come se non riuscisse a
capacitarsi della fortuna che aveva avuto. Ed è vero. Non ero una
ragazza qualunque.
Gli piaceva esplorarmi. Contava tutti i miei nei, o mi toccava i
denti con l’unghia a uno a uno quando ridevo, elencando le cime
del Kebnekaise.
“Cima sud, Cima nord, Drakryggen, Kebnepakte,
Kassarpakte, Kaskasatjåkko, Tuolpagorni.”
“Una carie allo stadio iniziale, una avanzata, un diastema”
rispondevo io.
Gli zaini con l’attrezzatura da sub erano pesanti.
Ci mettemmo tre ore e mezza ad arrivare al Vittangijärvi. Ci
dicevamo tutti allegri che era una fortuna che il terreno fosse
ghiacciato, così era più facile camminare. Sudavamo, ogni tanto

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ci fermavamo a bere un po’ d’acqua e una volta anche a prendere
del caffè caldo e dei panini.
Pozze d’acqua ghiacciata e chiazze di muschio rinsecchito dal
gelo ci scricchiolavano sotto i piedi.
Alla nostra sinistra si ergeva il monte Alanen Vittangivaara.
“C’è un antico spazio sacrificale sami, lassù in cima” disse
Simon indicandomi il punto. “Hurilaki.”
Mi piaceva quel suo lato, che sapesse cose del genere.
Alla fine arrivammo a destinazione. Posammo delicatamente a
terra l’attrezzatura e restammo un bel po’ a guardare il lago, senza
parlare. Il ghiaccio sull’acqua era uno spesso strato di vetro nero
in cui le bolle d’aria intrappolate formavano collane di perle
spezzate. In alcuni punti sembrava carta argentata pieghettata.
La morsa del gelo aveva stretto ogni filo d’erba, ogni ramo
sottile fino a renderlo friabile, di un bianco croccante. I bassi
arbusti di ginepro erano di un verde spento, invernale, le betulle
nane e i cespugli di mirtillo erano diventati violetti e sanguigni. E
su tutto la pellicola bianca del gelo, come un’aura di ghiaccio.
C’era un silenzio irreale.
Simon era immerso nei suoi pensieri, come al solito. Per lui il
tempo si poteva anche fermare. Era fatto così.
Io invece non sono mai riuscita a stare in silenzio a lungo.
Fui costretta a urlare. Tutta quella bellezza, era una cosa da farti
scoppiare.
Mi misi a correre sul ghiaccio, più veloce che potevo, poi
allargai le gambe e scivolai a lungo, senza fermarmi.
“Prova anche tu!” gridai a Simon.
Lui sorrise e scosse di nuovo la testa.
Era una cosa che aveva imparato in paese. Scuotere la testa.
Quello sì che lo sanno fare, a Piilijärvi.

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“Meglio di no” rispose lui. “Qualcuno dovrà steccarti le
gambe, quando te le sarai rotte.”
“Vigliacco!” gridai, e mi rimisi a correre e a scivolare.
Poi mi sdraiai a guardare il cielo, accarezzando gentilmente il
ghiaccio.
Là sotto c’era un aeroplano. E nessuno lo sapeva, tranne noi.
O almeno così credevamo.
Mi alzai e incrociai il suo sguardo.
Tu e io, dicevano i suoi occhi.
Tu e io, risposero i miei.

Simon raccolse un mucchietto di rametti di ginepro e


corteccia di betulla. Disse che potevamo anche accendere il fuoco
e mangiare, prima di immergerci. Così avremmo avuto più
energie.
Arrostimmo della salsiccia su uno stecco. Non avevo
abbastanza pazienza, così la mia risultò bruciata fuori e cruda
dentro. Sugli alberi attorno a noi si erano radunate diverse
ghiandaie affamate.
“Una volta la gente le mangiava” dissi accennando agli
uccelli. “Me lo ha raccontato Anni. Lei e i suoi cugini tendevano
tra gli alberi uno spago su cui avevano infilato dei pezzetti di
mollica di pane. Gli uccelli atterravano sul filo per mangiare ma
non riuscivano a stare dritti, ruotavano e restavano appesi a testa
in giù. Poi bastava passare a raccoglierli. Come frutti da un ramo.
Dovremmo provare, abbiamo dello spago?”
“Non preferisci un altro po’ di salsiccia?”
Il tipico commento idiota di Simon. Senza l’ombra di un
sorriso a far capire che stava scherzando.
Gli diedi un pugno sul petto.

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“Stupido! Non intendevo per mangiarli. Voglio solo vedere se
funziona.”
“Bah, è ora di cominciare. Prima che faccia buio.”
Tornai subito seria.
Simon raccolse un altro po’ di rametti e di corteccia. Trovò
anche un tronco cavo di betulla, roba che brucia bene. Ricoprì le
braci di cenere e disse che se eravamo fortunati sarebbe bastato
soffiarci sopra, al ritorno dall’immersione: sarebbe stato bello
riuscire a riaccendere rapidamente il fuoco dopo essere risaliti
tutti congelati.
Ci caricammo di tubi, erogatori, maschere, respiratori, pinne e
delle mute nere militari che avevamo comprato di seconda mano e
ci inoltrammo sul lago ghiacciato.
Simon mi precedeva con il gps.
In agosto avevamo portato su il kayak, l’avevamo messo in
acqua appena possibile e avevamo risalito il Vittangiälven fino al
Tahkojärvi e poi al Vittangijärvi. Avevamo scandagliato il lago, e
quando avevamo trovato il posto giusto Simon l’aveva salvato nel
gps con il nome Wilma.
Ma in estate la vecchia fattoria sulla riva ovest era abitata.
“Saranno lì a guardarci con i binocoli” avevo detto strizzando
gli occhi in direzione della riva. “Si domanderanno chi cavolo
siamo. Se ci immergiamo, tutto il paese lo saprà in un attimo.”
Così quando avevamo finito eravamo tornati a riva, avevamo
tirato in secca il kayak ed eravamo saliti alla fattoria. Ci eravamo
fatti offrire il caffè, e io avevo inventato la storia che eravamo
pagati dall’Istituto idrometeorologico per scandagliare il lago.
Qualcosa che aveva a che fare con i cambiamenti climatici.
“Torniamo non appena chiudono casa per l’inverno” avevo
detto a Simon al ritorno. “Così possiamo anche usare la loro

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barca.”
Ma poi si era formato il ghiaccio ed eravamo stati costretti ad
aspettare che diventasse abbastanza solido da reggere il nostro
peso. A ogni modo quel giorno non potevamo credere alla nostra
fortuna al vedere che non nevicava, così avremmo avuto anche un
po’ di visibilità. Almeno per qualche metro. Anche se in realtà
avremmo dovuto scendere molto più in basso.
Simon aprì un foro nel ghiaccio. Prima fece un buco con
l’accetta, il ghiaccio non era troppo spesso. Poi usò la sega a
mano. La motosega sarebbe stata troppo pesante, senza contare
che avrebbe fatto un gran baccano e l’ultima cosa che volevamo
era attirare l’attenzione. Sembrava quasi il titolo di un libro:
Wilma, Simon e il segreto dell’aeroplano.
Mentre Simon segava il ghiaccio, inchiodai due legni a mo’ di
croce da piazzare sopra il foro, per fissarci la sagola di sicurezza.
Poi ci togliemmo tutto tranne la biancheria di lana e ci
infilammo la muta.
Alla fine ci sedemmo sul bordo del foro.
“Scendi subito a quattro metri” disse Simon. “La cosa
peggiore che può succedere è che ghiacci l’erogatore, e il rischio
è maggiore in superficie.”
“D’accordo.”
“Può succedere anche là sotto. Questi laghi di montagna sono
infidi. Ci può essere un immissario che crea delle correnti da
qualche parte, e la temperatura può scendere sotto zero. Ma il
rischio è maggiore in superficie. Perciò subito giù.”
“D’accordo.”
Non volevo ascoltarlo. Volevo scendere. Subito.
Non era un sub professionista, ma si era documentato. Sia
sulle riviste tecniche sia su internet. Andò avanti con il ripasso

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senza fretta.
“Due strattoni alla sagola significano risalita.”
“D’accordo.”
“Possiamo anche trovarlo subito, il relitto, ma probabilmente
no. Scendiamo e vediamo un po’ cosa succede.”
“D’accordo, d’accordo.”

Poi ci tuffiamo.
Simon entra dopo di me. L’acqua fredda è come un calcio in
piena faccia. Posiziona la croce di legno con la sagola di
sicurezza sul foro nel ghiaccio.
Durante la discesa controlla il computer subacqueo. Due
metri. Chiaro come in pieno giorno. Il ghiaccio è una finestra che
fa passare la luce solare. Da sopra l’acqua sembrava nera, qui
sotto è azzurra. Dodici metri. Inizia a diventare scuro. I colori
spariscono. Quindici metri. Oscurità totale. Simon si starà
chiedendo come mi sento. Ma sa che sono una tipa tosta.
Diciassette metri.
Arriviamo subito al relitto dell’aereo, praticamente ci finiamo
dritti sopra.
Non so cosa mi fossi aspettata, ma non quello. Non che fosse
così facile. Mi ribolle dentro una risata che adesso non può venir
fuori. Non vedo l’ora di sentire i commenti di Simon mentre ci
scaldiamo al fuoco, dopo. É sempre così calmo, ma stavolta le
parole gli si affolleranno in bocca.
Sembra quasi che il relitto fosse lì ad aspettarci. Anche se è
ovvio: avevamo scandagliato il lago, avevamo già cercato.
Sapevamo che doveva esserci.
Eppure quando lo vedo nell’acqua verde scuro del fondo mi
sembra così irreale. È molto più grande di quanto avessi

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immaginato. Simon mi illumina con la torcia. Capisco che vuole
vedere la mia reazione, la mia espressione felice. Ma ovviamente
non riesce a vedermi il viso, dietro la maschera.
Fa un movimento in su e in giù con la mano tesa. Significa
che devo calmarmi. Mi accorgo di quanto sia affannato il mio
respiro. Devo rilassarmi, se voglio che l’aria sia sufficiente.
Dovrebbe bastare per una ventina di minuti, poi inizieremmo
comunque ad avere freddo. Dirigiamo le torce verso la fusoliera
dell’aereo. I coni di luce si rincorrono sulla superficie ricoperta
di fango. Cerco di distinguere il modello. Forse un Dornier? Ci
avviciniamo, togliamo il fango con le mani. No, la lamiera è
increspata. É uno Junkers.
Seguiamo l’ala e troviamo il motore. C’è qualcosa di strano.
Qualcosa che non quadra, qualcosa che sembra… Torniamo
indietro. Sto subito dietro a Simon, mi tengo alla sagola di
sicurezza. Poi troviamo il carrello d’atterraggio. Sopra l’ala.
Si volta verso di me e ruota la mano di centottanta gradi.
Capisco cosa intende. L’aereo è capovolto. Ecco cosa c’era di
sbagliato. Dev’essersi cappottato al momento di ammarare. Una
capriola e poi giù verso il fondo, a muso avanti. Ma sulla schiena.
Con un ammaraggio del genere probabilmente sono morti
tutti sul colpo.
Come facciamo a entrare?
Dopo aver cercato per un po’, troviamo il portellone laterale
appena dietro l’ala. Ma non si apre. E i finestrini sono troppo
stretti per infilarcisi.
Nuotiamo fino al muso. Lì una volta c’era un motore, ma si è
staccato. Dev’essere andata proprio come ho pensato. Il muso ha
urtato l’acqua per primo, mandando in pezzi il motore. Poi
l’aereo è affondato. Il finestrino dell’abitacolo è sfondato. È un

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po’ difficile da raggiungere perché l’aereo è rovesciato, ma ce la
facciamo.
Simon illumina l’interno con la torcia. Da qualche parte lì
dentro devono galleggiare i resti dell’equipaggio.
Mi preparo ad affrontare la vista di ciò che resta del pilota,
ma non vediamo niente.
Adesso Simon si sta probabilmente pentendo di non aver
comprato un mulinello, come avevo detto io. Dobbiamo
arrangiarci così. Non c’è un punto a cui fissare la sagola, la tengo
io e controlliamo entrambi che sia ben annodata alla sua cintura.
Si illumina una mano con la torcia. Indica me, poi indica in
basso. Resta qui, vuol dire. Poi mostra tutte e cinque le dita per
due volte. Dieci minuti.
Illumino la mia mano e alzo il pollice. Poi gli lancio un bacio
dal boccaglio.
Infila le braccia nel finestrino, afferra lo schienale di uno dei
sedili e si infila dentro delicatamente.
Adesso deve muoversi con cautela, in modo da sollevare
meno fango possibile.

Vedo Simon scomparire nell’aereo. Poi guardo l’ora. Dieci


minuti, aveva detto.
Mi assalgono pensieri che allontano violentemente non
appena cercano di prendere forma nella mia testa. Per esempio
cosa può succedere in un relitto rimasto in fondo a un lago per
più di sessant’anni quando qualcuno entra e smuove l’acqua.
Anche solo l’aria espirata può bastare a far staccare qualche
pezzo. Qualcosa gli può cadere addosso. Può restare incastrato.
Magari sotto qualcosa di pesante. E se succedesse e io non
riuscissi a liberarlo? Se l’aria finisse, sceglierei di salvarmi e me

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ne andrei, o resterei a morire con lui nell’oscurità?
No, no. Non sono pensieri da fare. Andrà tutto bene. E la
prossima volta toccherà a me entrare, cazzo.
Illumino un po’ in giro con la torcia, ma la luce non arriva
molto lontano. Inoltre abbiamo smosso un sacco di fango e la
visuale si è ridotta moltissimo. Difficile immaginare che là sopra,
a non molti metri di distanza, splende il sole.

Poi mi accorgo che la sagola di sicurezza che va da me alla


croce di legno è floscia.
La tiro per tenderla. Ma non si tende. La recupero. Un metro,
due metri.
Tre.
Che si sia sganciata dalla croce? Eppure l’avevamo legata
così bene.
Recupero la sagola sempre più in fretta. Adesso ho l’altra
estremità in mano. La guardo. La fisso senza capire.
Dio santo, devo salire a fissarla. Quando Simon uscirà dal
relitto non avremo il tempo di girare a vuoto in cerca del foro nel
ghiaccio.
Immetto un po’ d’aria nella muta per salire in superficie. In un
attimo sono fuori dall’oscurità, attraverso la penombra, l’acqua
diventa sempre più chiara. Ho la sagola in mano.
Cerco il foro, un fascio di luce nel ghiaccio, ma non lo vedo.
Invece vedo un’ombra. Un rettangolo nero.
C’è qualcosa che copre il foro. Mi avvicino. La croce di legno
è sparita. Al suo posto c’è una porta, è verde, fatta di tavole
fissate con una traversa. La porta di una stalla o di un granaio.
Per un attimo mi dico che doveva essere appoggiata da
qualche parte e che il vento l’ha scaraventata sul ghiaccio. Ma

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subito mi rendo conto che non può essere. É una bella giornata di
sole, senza vento. Se c’è una porta sul foro è perché qualcuno ce
l’ha messa. Che razza di buontempone.
Provo a spostarla con entrambe le mani. Ho lasciato andare la
sagola e la torcia, che affondano lentamente. La porta non si
muove. I miei respiri affannosi mi rimbombano nelle orecchie
mentre la strattono inutilmente. Capisco che il buontempone ci è
salito sopra. C’è qualcuno in piedi sulla porta.
Mi allontano un po’, estraggo il coltello e inizio a scavare un
buco nel ghiaccio. É difficile. L’acqua rallenta i movimenti, i
colpi risultano privi di forza. Rigiro il coltello nel ghiaccio, vibro
fendenti. Alla fine riesco a passarlo da parte a parte. Adesso è più
facile, ruoto il coltello nel buco, gratto il bordo con la lama. Il
foro si allarga.

Simon nuota il più cautamente possibile all’interno del


relitto. Ha superato il posto dell’operatore radio dietro
l’abitacolo e ha proseguito verso la cabina. Gli sembra di sentire
un leggero strattone alla sagola. Si domanda se è stata Wilma.
Due strattoni per risalire, le aveva detto. Ma se le si fosse
bloccato l’erogatore? Si preoccupa e decide di uscire. Tanto è
impossibile vedere qualcosa. L’aria espirata e i movimenti hanno
smosso così tanto fango che non riesce nemmeno a vedere la sua
stessa mano, anche se la illumina con la torcia. É come nuotare in
un minestrone verde. Tanto vale risalire.
Tira la sagola fissata alla cintura per tenderla, in modo da
poterla seguire. Ma non si tende. La recupera, un metro dopo
l’altro. Alla fine si ritrova con l’estremità in mano. Doveva
reggerla Wilma, e il capo doveva essere legato alla croce di legno
sul foro.

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La paura lo azzanna al diaframma. Niente sagola da seguire.
Come farà a ritrovare il finestrino dell’abitacolo? Non si vede un
cazzo. Come farà a uscire?
Nuota fino a sbattere contro una parete. Annaspa con le mani,
poi nuota in direzione opposta. Ormai non sa più qual è il davanti
e quale il dietro, ha perso l’orientamento.
Va a sbattere contro qualcosa che non è fissato alle pareti.
Che si muove lateralmente. Lo illumina, non vede niente. Si
convince che è un cadavere. Si dimena, si allontana. Via, veloce.
Ben presto si ritrova a nuotare in mezzo ad arti che galleggiano.
Braccia e gambe che si sono staccate dai loro corpi. Deve cercare
di calmarsi, ma dov’è? Da quanto tempo è sotto? Per quanto
durerà ancora l’aria?
Ha perso la cognizione dell’alto e del basso, ma non lo sa.
Cerca di toccare un sedile, se lo trova riuscirà a orientarsi
nell’aereo, ma sta cercando sul soffitto e di sicuro non lo troverà.
Nuota avanti e indietro in preda al panico. Su e giù. Non vede
niente. Assolutamente niente. La sagola che ha fissato alla
cintura si incaglia qua e là, nei ganci di fissaggio del carico sul
pavimento, in un sedile staccato, in una cintura di sicurezza
slacciata. Dappertutto. Poi resta impigliato nella sagola che corre
come una ragnatela per tutto l’aereo, non riesce a uscire. Morirà
lì dentro.

Sono riuscita ad aprire un buco nel ghiaccio con il coltello,


sto lottando per allargarlo. Tiro colpi con il coltello, lo ruoto nel
foro. Quando è grande come la mia mano controllo il manometro.
Restano venti bar.
Non posso respirare così tanto. Devo calmarmi. Ma non
riesco a salire. Sono bloccata sotto il ghiaccio.

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Infilo la mano attraverso il buco. L’ho fatto senza pensarci. È
stata la mano che si è allungata a chiedere aiuto, di sua propria
volontà.
Qualcuno là sopra me l’afferra. Per un attimo ho la
sensazione di essere aiutata. Che qualcuno mi tirerà fuori
dall’acqua. Che mi salverà.
Poi la persona inizia a strattonarmi la mano, piegandomela
avanti e indietro. E così capisco che sono fritta. Non andrò da
nessuna parte. Cerco di divincolarmi, ma l’unica cosa che ottengo
è sbattere contro il ghiaccio. Un velo rosa contro l’azzurro.
Un pensiero spossato mi attraversa la mente: sto sanguinando.
La persona cambia presa, afferra la mano come per salutarmi.
Allora premo le ginocchia contro il ghiaccio, tenendo il
braccio stretto tra le gambe. Poi spingo forte. E mi libero. La
mano esce dal guanto. Acqua fredda. Mano fredda. Ahi.
Mi allontano nuotando sotto il ghiaccio. Via, lontano da
quella persona.
Adesso sono di nuovo sotto la porta verde. La spingo, ci batto
i pugni, la graffio.
Dev’esserci un’altra via d’uscita. Un punto in cui il ghiaccio è
più sottile e lo posso sfondare. Mi allontano di nuovo.
Ma l’uomo mi rincorre. Ma è davvero un uomo? Vedo una
persona attraverso il ghiaccio, una figura indistinta, vista dal
basso. E sempre sopra di me. Tra un respiro e l’altro, quando
l’aria espirata non mi rimbomba nelle orecchie, sento i suoi passi
sul ghiaccio.
E riesco a vederla solo per brevi istanti. L’aria espirata non ha
via di sfogo, si accumula come una grossa bolla piatta sotto il
ghiaccio. Mi ci vedo riflessa. Distorta. Come in uno specchio
deformante al luna park. Le immagini si alternano. Quando

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inspiro vedo la persona là sopra, quando espiro vedo me stessa.
Poi l’erogatore si ghiaccia. L’aria spruzza fuori dal boccaglio.
Smetto di nuotare, sono già abbastanza impegnata a respirare. Il
tubo si svuota in un paio di minuti.
È finita. I polmoni vorrebbero inspirare, io oppongo
resistenza. Non devo respirare acqua. I polmoni mi scoppiano.
Agito le braccia. Sbatto inutilmente contro il ghiaccio.
L’ultima cosa che faccio è strapparmi il boccaglio e la maschera.
Poi muoio. Non c’è più aria tra me e il ghiaccio, adesso. Nessun
riflesso. Ho gli occhi aperti nell’acqua. Adesso vedo la persona là
sopra.
Un viso che preme contro il ghiaccio e mi guarda. Ma non
capisco cosa vedo. La mia coscienza si ritira come un’onda di
marea.

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Giovedì 16 aprile

Östen Marjavaara aprì gli occhi alle tre e un quarto di notte


nel suo capanno di Pirttilahti. L’aveva svegliato la luce. In quel
periodo non faceva mai buio per più di un’ora. Non serviva
granché che le veneziane fossero abbassate: la luce penetrava tra
le lamelle, infilava i suoi raggi sottili nei buchi in cui scorrevano
i cordini, si diffondeva dalla fessura tra la veneziana e il telaio
della finestra. E comunque, anche se avesse oscurato la finestra,
sì, anche se avesse dormito in una camera senza finestre, si
sarebbe svegliato lo stesso. Fuori c’era la luce che lo importunava
e lo strattonava, fiacca e irrequieta come una donna sola. Tanto
valeva alzarsi e preparare un bricco di caffè.
Scese dal letto e alzò le veneziane. Il pavimento era gelido
sotto i piedi nudi. Il termometro fuori dalla finestra segnava due
gradi sotto zero. Aveva nevicato per tutta la sera e la notte
precedente. La crosta ghiacciata che si era formata dopo il bel
tempo della settimana prima, quando per un paio di giorni era
caduta pioggia mista a neve, era diventata ancora più solida:
avrebbe potuto pattinare lungo il Torneälven fino a Tervaskoski.
Di sicuro lì alle rapide avrebbe trovato i temoli acquattati dietro
qualche roccia.
Una volta acceso il fuoco nella stufa, afferrò il secchio di
plastica rossa nell’ingresso e scese al fiume a prendere l’acqua.
Erano solo pochi metri, ma si muoveva con circospezione: sotto
la neve fresca c’erano lastre di ghiaccio traditrici, era un attimo
cadere e farsi male.

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Il sole aspettava proprio sotto la linea dell’orizzonte,
dipingendo strisce giallorossastre nel freddo cielo invernale. Ben
presto si sarebbe alzato sul bosco di pini e avrebbe illuminato i
pannelli rossi del capanno.
La neve si era depositata sul fiume come un bisbiglio della
natura. Ssst, diceva, fai silenzio. Adesso ci siamo solo io e te.
Östen Marjavaara obbedì: si fermò con il secchio in mano e
guardò il fiume. E vero. Non si è mai padroni del mondo come
quando ci si sveglia per primi. C’erano alcuni capanni su
entrambe le rive del fiume, ma solo dal suo spuntava un filo di
fumo dal comignolo. Probabilmente gli altri non erano nemmeno
abitati. I proprietari dovevano essere a casa loro in città, poveri
diavoli.
Vicino al pontile c’era il foro che aveva segato nel ghiaccio,
coperto da un pannello di polistirene perché non si richiudesse.
Spazzò via la neve dal pannello e lo sollevò. Quando c’era
Barbro portavano sempre l’acqua dalla città. Si rifiutava di bere
quella del fiume.
“Blah” diceva alzando le spalle in un brivido di disgusto.
“Tutti gli scarichi dei paesi a monte!”
Ce l’aveva anche con l’ospedale di Vittangi. Diceva che meno
male che il loro capanno era più a monte, perché non c’era
depuratore né niente. Di sicuro scaricavano nel fiume appendici
rimosse e Dio sa cos’altro.
“Stupidaggini” rispondeva lui come sempre. “Chiacchiere da
vecchie comari!”
Lui beveva quell’acqua fin da quando era bambino ed era più
sano di lei.
Si accovacciò per calare il secchio. C’era una corda fissata al
manico, in modo da poterlo immergere e riempire completamente

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prima di tirarlo su.
Ma quella volta non ci riusciva. C’era qualcosa che bloccava
il secchio appena sotto la superficie dell’acqua. Qualcosa di
grande. Nero.
Forse un tronco gonfio d’acqua, si disse.
Non era capitato spesso, negli ultimi tempi. Era più comune
quando era piccolo, quando ancora si faceva fluitare il legname.
Infilò la mano nell’acqua gelida per spingere via il tronco.
Sembrava essersi incagliato nel pontile. E non era un tronco.
Sembrava di gomma o qualcosa del genere.
“Ma che…” disse posando il secchio.
Immerse entrambe le mani, cercando di far presa sull’oggetto,
ma il freddo gliele rese praticamente inservibili. Poi riuscì ad
afferrare un braccio. Lo tirò.
Un braccio, pensò confuso.
La sua testa non voleva capire.
Un braccio.
Poi il volto sfigurato affiorò dall’acqua.
Lanciò un urlo e si alzò di scatto.
Un corvo gli rispose dal bosco, lacerando il silenzio con il
suo grido. Altri corvi si unirono al coro.
Corse verso il capanno, scivolò, ma riuscì a mantenere
l’equilibrio.
Compose l’uno uno due. Ma poi gli venne in mente che la
sera prima a cena aveva bevuto tre bicchieri d’acqua. E dopo cena
si era preparato il caffè. Con l’acqua del fiume. Presa dal foro nel
ghiaccio. E il cadavere doveva essere già lì. Proprio vicino. Con
quel volto bianco sfigurato. Il naso consumato. I denti nella
bocca priva di labbra.
A quel punto qualcuno rispose al telefono, ma lui riattaccò e

21
vomitò lì dov’era. Il suo stomaco si liberò di tutto il contenuto,
ma i conati andarono avanti per un bel po’.
Poi chiamò di nuovo l’uno uno due.
Non avrebbe mai più bevuto l’acqua del fiume. E sarebbero
passati anni prima che trovasse il coraggio anche solo di farsi una
nuotata dopo la sauna.

Guardo l’uomo che mi ha trovata. Vomita. Poi digita l’uno


uno due e pensa che non berrà mai più l’acqua del fiume.
Penso al giorno in cui sono morta.
Eravamo morti, Simon e io. Stavo in piedi sul ghiaccio. Era
sera. Il sole era più basso sull’orizzonte. La porta sfondata
galleggiava nel foro nel ghiaccio. Vidi che da una parte era verde,
dall’altra nera.
Sulla riva un uomo frugava nei nostri zaini.
Un corvo arrivò in volo emettendo il suo verso caratteristico,
come quando si picchia con un bastone su un fusto d’olio vuoto.
Atterrò sul ghiaccio, proprio accanto a me. Girò la testa e mi
guardò come fanno gli uccelli, di lato.
Devo tornare a casa da Anni, mi dissi.
E prima ancora di aver finito di formulare il pensiero, ero già
arrivata.
Lo spostamento mi fece girare la testa. Era come scendere da
una giostra.
Adesso mi sono abituata.
Anni stava preparando le frittelle. Era seduta accanto al
tavolo della cucina e sbatteva la pastella a mano.
Mi piacciono le frittelle.
Non sapeva che ero morta. Sbatteva la pastella e pensava a
me. Era felice all’idea che mi sarei seduta a mangiare di buon

22
appetito mentre lei friggeva accanto alla stufa. Coprì la ciotola
con un piatto e la mise da parte perché la pastella lievitasse. Non
sono mai arrivata. La ciotola finì nel frigo. Non poteva lasciar
andare a male tutto quanto, alla fine preparò le frittelle e le mise
nel congelatore. Sono ancora lì.
Adesso mi hanno trovata. Adesso può piangere.

Neve, si disse il procuratore Rebecka Martinsson con un


brivido di piacere mentre scendeva dalla macchina nel cortile a
Kurravaara.
Erano le sette di sera. Nubi cariche avvolgevano il paese in
una piacevole penombra. Riusciva a malapena a distinguere le
luci delle case più vicine. E la neve veniva giù che Dio la
mandava. Fiocchi freddi, asciutti e vaporosi scendevano dal cielo,
come se qualcuno li spazzasse giù dall’alto, facendo le pulizie.
La nonna, naturalmente, si disse con un mezzo sorriso.
Sicuramente non fa altro che spazzare e strofinare in ginocchio il
pavimento del Signore. Quanto a Lui, deve averlo mandato fuori
in veranda.
La casa di eternit grigio della nonna sembrava nascondersi
nella penombra, come se ne stesse approfittando per schiacciare
un sonnellino. Solo la luce esterna sopra la scala dipinta di verde
diceva un sommesso: benvenuta a casa, piccola.
Il suo cellulare emise un pigolio. Lo tirò fuori dalla tasca: un
sms di Måns.
“A Stoccolma piove da schifo” diceva. “Letto vuoto e
desolato. Vieni da me. Voglio leccarti le tette e tenerti stretta.
Baci in tutti i tuoi posti carini.”
Si sentì rimescolare.
“Vigliacco” digitò in risposta. “Stasera devo lavorare, non

23
posso pensare a te.”
Sorrise. Era una bella sensazione. Lo desiderava e se lo
godeva. Qualche anno prima lavorava per lui nello studio legale
Meijer & Ditzinger. Lui era convinto che dovesse tornare a
Stoccolma e riprendere a lavorare come avvocato.
“Guadagneresti il triplo di adesso” le diceva sempre.
Guardò il fiume. Quell’estate si era messo in ginocchio sul
pontile insieme a lei a lavare tutti i pezzotti della nonna. Avevano
sudato sotto il sole. Rivoli salati lungo la schiena e sulla fronte.
Una volta finito di spazzolarli, li avevano gettati giù dal pontile
per risciacquarli. Poi si erano spogliati e avevano nuotato fra i
pezzotti come cani felici.
Aveva cercato di spiegargli che voleva vivere così.
“Voglio poter stare in cortile a stuccare le finestre e ogni
tanto alzare gli occhi e guardare il fiume. Voglio bere il caffè in
veranda prima di andare al lavoro d’estate. Voglio spalare la neve
d’inverno. Voglio avere i cristalli di ghiaccio sulle finestre della
cucina.”
“Tieni pure la casa” aveva tentato lui. “Possiamo venire a
Kiruna tutte le volte che vuoi.”
Non sarebbe mai stata la stessa cosa. Lo sapeva. La casa non
si sarebbe lasciata ingannare. E nemmeno il fiume.
Ho bisogno di queste cose, si disse. In me ci sono così tante
persone complicate. La bambina di tre anni affamata d’amore, la
gelida avvocatessa, il lupo solitario e quella che ha voglia di
impazzire di nuovo, di tornare a nascondersi nella follia. Mi fa
bene sentirmi piccola di fronte a una fiammeggiante aurora
boreale, o di fianco al fiume in piena. La natura e l’universo sono
così vicini, qui. Le preoccupazioni e le difficoltà si
rimpiccioliscono. Mi piace essere insignificante.

24
Qui ho le mensole foderate di carta e i ragni negli angoli e la
scopa di saggina, si disse. Non voglio essere un’ospite o una
straniera. Mai più.

Attraverso la neve che cadeva, arrivò al galoppo una femmina


di bracco tedesco, con le orecchie che sventolavano ai lati della
testa e la bocca aperta in un sorriso felice. Quando si fermò di
colpo per salutare, pattinò sul ghiaccio nascosto sotto la neve.
“Ciao, Bella” la salutò Rebecka con le braccia piene di cane.
“Dov’è il tuo padrone?”
A quel punto si sentì un urlo arrabbiato.
“Vieni qui, ti ho detto. Qui! Non hai sentito?”
“É qui!” gridò Rebecka.
La sagoma di Sivving si delineò tra la neve che cadeva.
Avanzava a gambe larghe per paura di cadere. Trascinava
leggermente il lato offeso, con un braccio penzoloni. I capelli
bianchi e lanuginosi erano nascosti sotto un berretto verde e
bianco su cui si era formato un cappuccio di neve. Rebecka si
sforzò di trattenere un sorriso. In realtà era splendido. Era sempre
stato grande e grosso, ma con quella giacca a vento rossa
sembrava enorme. E poi quel monticello di neve in testa.
“Dove?” ansimò.
Ma Bella era già scomparsa nella neve.
“Bah, tornerà quando avrà fame” commentò poi con un
sorriso. “E tu hai appetito? Devo friggere un po’ di palt, ce n’è di
sicuro anche per te.”

Bella ricomparve esattamente mentre stavano entrando in casa


e li precedette nel seminterrato. Da parecchi anni Sivving si era
trasferito nel locale caldaia.

25
Si trova sempre quello che si cerca ed è più facile da tenere a
posto, diceva sempre.
Le stanze ai piani di sopra restavano perfettamente pulite e in
ordine e venivano usate solo quando andavano a trovarlo i figli e i
nipoti.
Il locale caldaia era arredato con parsimonia.
Ma è accogliente, si disse Rebecka sfilandosi le scarpe.
Un tavolo di formica, una sedia, uno sgabello, un divano.
Non serviva altro. In un angolo c’era un letto rifatto. Pezzotti sul
pavimento per impedire al freddo di risalire dal terreno.
Sivving era davanti al fornello elettrico con un grembiule che
un tempo era appartenuto alla moglie infilato nei pantaloni.
Aveva la pancia troppo prominente per riuscire ad allacciarselo
dietro.
Bella si era sdraiata ad asciugarsi. C’era odore di cane
bagnato, lana bagnata, cemento bagnato.
“Riposati un attimo” disse Sivving.
Rebecka si sdraiò sul divano. Era corto, ma con un cuscino
sotto la testa e le gambe raggomitolate si stava comodi.
Sivving tagliò lo gnocco di patate e farina ripieno di carne a
fette regolari, poi mise un grosso pezzo di burro a fondere nella
padella calda.
Il telefono di Rebecka emise un altro pigolio. Un altro sms di
Måns.
“Lavorerai un’altra volta. Voglio prenderti per la vita e
baciarti, appoggiarti al tavolo della cucina e sollevarti il vestito.”
“Lavoro?” chiese Sivving.
“No, è Måns” rispose Rebecka con voce allegra. “Chiede
quando vai giù a costruirgli una sauna.”
“Bah, quel fannullone. Digli che può venire su lui a spalare

26
un po’. Tutta questa neve a temperature così basse. Sarà un
inferno. Diglielo.”
“Lo farò” disse Rebecka, e scrisse: “Mmm… va’ avanti.”
Sivving versò le fette di palt nella padella provocando un
sonoro sfrigolio. Bella alzò la testa e annusò l’aria con piacere.
“Io con il mio braccio” proseguì Sivving. “Altro che costruire
saune. Bah, bisognerebbe fare come Arvid Backlund.”
“Cos’ha fatto?” chiese Rebecka in tono assente.
“Se togli un attimo gli occhi da quel telefono te lo racconto.”
Rebecka spense il cellulare. Passava troppo poco tempo con
il suo vicino. Una volta che c’era, poteva anche essere un po’ più
presente.
“Abita sull’altra sponda del fiume. La settimana scorsa ha
compiuto ottantadue anni. Ha calcolato quanta legna gli sarebbe
servita per il resto dei suoi giorni…”
“Come ha fatto, sa già fino a che età arriverà?”
“Forse preferisci che te lo incarti così mangi a casa tua? Qui
c’è chi sta cercando di fare conversazione.”
“Scusa! Facciamo pure conversazione!”
“Insomma, ha ordinato la legna e l’ha fatta scaricare
attraverso la finestra del soggiorno. Così ce l’ha a portata di
mano. Starà al caldo per tutti gli inverni che gli restano.”
“In soggiorno?”
“Un bel mucchio proprio al centro della stanza.”
“Immagino che non abbia una moglie” commentò Rebecka.
Risero insieme per un po’. Le risate guarirono sia la cattiva
coscienza di lei perché lo andava a trovare troppo di rado, sia
l’insoddisfazione di lui per lo stesso motivo. La pancia di Sivving
sobbalzava sotto il grembiule, mentre a Rebecka venne un attacco
di tosse.

27
Poi Sivving smise di colpo e si rannuvolò.
“Non che ci sia niente di male, in realtà” disse in difesa di
Arvid Backlund.
Anche Rebecka smise di ridere.
“Adesso almeno può restare in casa” proseguì Sivving
accalorato. “É ovvio che avrebbe potuto tenere la legna nel
capanno come tutti gli altri. Poi una mattina esce, scivola e si
rompe una gamba. Se finisci all’ospedale, non torni più a casa. Ti
trasferiscono direttamente in uno di quei posti per lungodegenti.
É facile ridere, quando si è giovani e sani.”
Posò sul tavolo la padella con il palt un po’ troppo
violentemente.
“Adesso mangiamo!”
Si versarono nel piatto fiocchi di burro e tanta composta di
mirtilli rossi e fette di pancetta fritta, che poi spalmarono sulle
fette di palt. Mangiarono senza parlare.
Ha paura, si disse Rebecka.
Avrebbe tanto voluto dirglielo. Spiegargli che non sarebbe
mai tornata a Stoccolma. Promettergli che quando sarebbe
arrivato quel giorno gli avrebbe spalato il cortile e fatto la spesa.
Mi prenderò cura di te, pensò guardandolo mentre beveva a
grandi sorsi il suo bicchiere di latte.
Proprio come lui si è preso cura della nonna, si disse poi
tagliando il palt con tanta energia da far stridere il coltello sul
piatto. Quando io me n’ero andata e l’avevo lasciata qui. È stato
lui a spalarle la neve e a farle compagnia. Anche se verso la fine
era diventata una brontolona. Anche se trovava da ridire su come
spalava il cortile. Voglio essere una di quelle persone che si
prendono cura degli altri.
“Sapessi che razza di udienza ho avuto venerdì scorso” disse

28
poi.
Sivving non rispose. Continuò a mangiare il suo palt e a bere
il suo latte come se non avesse sentito, ancora di cattivo umore.
“Un caso di molestie sessuali” proseguì Rebecka senza
lasciarsi scoraggiare dalla mancanza di reazione. “L’imputato
aveva telefonato a due impiegate dell’ufficio di collocamento e si
era masturbato durante la chiamata. Una delle due è sulla
cinquantina, l’altra ha passato i sessanta. Erano entrambe
terrorizzate all’idea di incontrarlo. Pensavano che se avesse
scoperto che faccia avevano le avrebbe aggredite e violentate la
prima volta che le avesse incrociate al supermercato. Perciò ho
richiesto di sentire le signore in questione in forma riservata.”
“Cosa vuol dire?” la interruppe Sivving, scocciato di essere
costretto a chiedere, ma troppo incuriosito per lasciar perdere.
“L’uomo avrebbe ascoltato le loro deposizioni dalla stanza
accanto, in modo da non poterle vedere. Dio santo, quanto erano
imbarazzate a raccontare cos’era successo. Ho dovuto insistere
parecchio per far emergere l’elemento sessuale durante
l’interrogatorio. Tra le altre cose, ho chiesto cosa avesse dato loro
l’impressione che si stesse masturbando.”
Rebecka interruppe il racconto per infilarsi in bocca un
grosso pezzo di palt e masticarlo senza fretta. Sivving aveva
smesso del tutto di mangiare e aspettava che proseguisse.
“Be’?”
“Hanno risposto di aver sentito degli schiocchi ritmici
accompagnati da un pesante ansimare. Una delle impiegate ha
detto anche che aveva avuto un orgasmo, perciò sono stata
costretta a chiederle cosa glielo aveva fatto pensare. Ha risposto
che il respiro dell’uomo era diventato sempre più affannoso e gli
schiocchi sempre più veloci, e che alla fine aveva biascicato: “Sto

29
venendo.” Povere donne. E poi c’era Hasse Sternlund del
Norrländska Socialdemokraten che prendeva appunti fino a far
diventare incandescente la penna, cosa che non ha di certo reso
loro le cose più facili.”
Sivving rinunciò al suo broncio per emettere un brontolio
divertito.
“L’imputato era un tipo losco e viscido sulla trentina”
proseguì Rebecka. “Condannato parecchie volte per molestie
sessuali. Eppure ha negato tutto, sostenendo che quello che le
due donne avevano sentito era un attacco d’asma e non una
masturbazione. Allora il difensore gli chiede di far sentire com’è
un attacco d’asma. Avresti dovuto vedere la faccia del giudice e
dei giurati: per poco non morivano dal ridere, il giudice ha
dovuto perfino fingere di avere la tosse. Per fortuna il tipo si è
rifiutato. Più tardi il suo difensore mi ha confessato che gli aveva
chiesto di simulare un attacco d’asma solo per tentare di farmi
perdere la calma. Ero rimasta così fredda e concentrata durante
tutte le deposizioni sia delle parti lese che dell’imputato. Adesso
ogni volta che mi chiama per questioni di lavoro mi dice con voce
ansimante: “Parlo con l’ufficio di collocamento?””
“L’hanno condannato, poi, il viscido?” chiese Sivving
lasciando cadere alcuni pezzetti di pancetta per Bella che ne fece
un solo boccone.
Rebecka rise.
“Certo. Ah, che razza di lavoro. Povere impiegate, costrette a
cercare di imitare uno che si masturba.”
“Bah, piuttosto mi sarei fatto mettere in galera io.”
Sivving si mise a ridere, e Rebecka ne fu felice. Allo stesso
tempo però ripensava alla più anziana delle due impiegate, seduta
nel suo ufficio prima del processo.

30
L’aveva guardata con gli occhi ridotti a una fessura. La sua
voce era roca, segnata dal fumo e dall’alcol. Il rossetto aveva
sbavato, invadendo le rughe del labbro superiore. Uno spesso
strato di cipria copriva i pori dilatati della pelle, il colorito
spento. “Doveva proprio toccarmi anche questa, non ci mancava
altro” aveva detto stringendo le labbra. E aveva raccontato a
Rebecka che era anche vittima di mobbing al lavoro. Che uno dei
colleghi aveva organizzato la tradizionale festicciola d’agosto a
base di aringhe fermentate senza invitarla. “É un continuo
sparlare alle mie spalle, ridono ancora di quella dell’anno scorso,
quando ero un po’ brilla e mi sono addormentata in veranda. E
raccontano un sacco di bugie su di me al capo. Accidenti. In
realtà dovrei denunciarli.”
Dopo l’incontro con quella donna, Rebecka si era sentita
completamente svuotata. Prosciugata e abbattuta. Aveva pensato a
sua madre. Se non fosse morta così giovane, avrebbe avuto quella
voce, alla fine?
Sivving la interruppe nei suoi pensieri.
“Almeno fai un lavoro interessante.”
“Ah, non lo so, ultimamente non succede niente. Solo
ubriachi al volante e maltrattamenti un giorno sì e l’altro pure.”

Quando torna a casa nevica ancora, ma non forte come prima.


Adesso i fiocchi volteggiano in una gradevole danza. É una
nevicata che dà felicità. Grossi fiocchi che si sciolgono a contatto
con le sue guance.
Non è ancora buio, anche se si è fatto tardi. Stanno iniziando
le notti bianche. Il cielo è coperto di nuvole cariche di neve, le
case e gli alberi risultano sfuocati, come se fossero dipinti su
carta da acquarello bagnata.

31
È arrivata alla scala. Si ferma un attimo e solleva leggermente
le mani, voltando il palmo verso l’alto. I cristalli di neve atterrano
sui guanti e restano lì a scintillare.
Senza preavviso, viene sopraffatta da una felicità pura e
bianca. Una corrente le attraversa il corpo come il vento lungo
una vallata. Dal terreno scorre un’energia che le percorre tutto il
corpo, fino ad arrivare alle mani. Rimane perfettamente immobile.
Non osa muoversi per paura di spaventare quel momento e farlo
fuggire.
É un tutt’uno con il resto. Con la neve, con il cielo. Con il
fiume che scorre nascosto sotto il ghiaccio. Con Sivving, con la
gente del paese. Con tutto. Tutti.
Faccio parte di qualcosa, si dice. Forse ne faccio parte
indipendentemente da quel che voglio o sento.
Apre la porta.
La sensazione di solennità continua. Lavarsi i denti e
sciacquarsi il viso è un rituale sacro, i pensieri si sono fermati,
niente affollamento in testa, solo il suono dello spazzolino che
sfrega e dell’acqua che scorre. Si infila il pigiama come una veste
battesimale. Si prende il tempo di cambiare le lenzuola. Il
televisore e la radio restano muti e ciechi. Måns la chiama al
cellulare, ma lei non risponde.
Si sdraia tra le lenzuola che danno una fresca sensazione di
nuovo e di pulito.
Grazie, pensa.
Le formicolano le mani, calde come pietre da sauna. Ma non
è sgradevole.
Si addormenta.

Alle quattro si sveglia. Fuori c’è già luce, le nuvole cariche di

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neve devono essersi allontanate. C’è una ragazzina seduta sul
letto. É nuda. Ha due anellini al sopracciglio e la pelle coperta di
lentiggini. I capelli rossi sono bagnati, l’acqua le scorre lungo la
schiena come un piccolo ruscello. Quando parla le esce acqua
dalla bocca e dal naso.
Non è stato un incidente, dice.
No, risponde Rebecka alzandosi a sedere sul letto. Lo so.
Mi ha spostata. Non sono morta nel fiume. Guardami la
mano.
Solleva una mano verso Rebecka. La pelle è chiazzata. Le
nocche spuntano dalla carne grigiastra. Mancano il mignolo e il
pollice.
La ragazza si guarda la mano con aria triste.
Mi sono rotta le unghie contro il ghiaccio cercando di uscire,
dice.
Rebecka ha la sensazione che stia per sparire.
Aspetta!, grida.
La rincorre. La ragazza scappa tra i pini in un bosco. Rebecka
cerca di raggiungerla, ma nel bosco il terreno è coperto di neve
alta e bagnata, affonda fino alle ginocchia.
Poi si ritrova in piedi accanto al letto. La voce della mamma
in testa: adesso piantala, Rebecka, non essere sempre così
sovreccitata.
È solo un sogno, si dice. Si rimette a letto e scivola in altri
sogni. Un cielo si apre sopra la sua testa. Uccelli neri prendono il
volo dalle cime dei pini.

Vado a trovare il procuratore. È la prima persona che mi vede


da quando sono morta. É molto aperta, mi vede chiaramente
quando mi siedo sul suo letto. In camera c’è anche sua nonna. É

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la prima morta che vedo da quando sono morta anch’io. Be’, la
prima che abbia mai visto, in realtà. Mi lancia un’occhiata ferma.
Qui non si può andare e venire come si vuole. Il procuratore ha
una protettrice potente. Le chiedo il permesso di parlare con sua
nipote.
Non ho intenzione di spaventare o sconvolgere nessuno.
Voglio solo che trovino Simon. Non ho un posto dove andare.
Non ce la faccio a vederli. Anni torna nella sua casa di eternit
rosa e fa le pulizie, guarda fuori dalla finestra verso la strada.
Passano giorni senza che parli con nessuno. A volte prende lo
slittino a spinta, il suo deambulatore invernale, e segue la strada
per un po’. A volte si trascina al piano di sopra fino alla mia
camera e guarda il mio letto.
La madre di Simon osserva suo marito con odio mentre
trangugia il cibo e si affretta a uscire di casa. Sono aridi e senza
parole. Lui non la sopporta. Lei all’inizio ha cercato di parlare.
Piangeva e lo svegliava di notte. Ma lui l’ha fatta smettere.
Prendeva il cuscino e se ne andava a dormire in soggiorno.
Quando lo pregava di dirle qualcosa, rispondeva che la mattina
dopo doveva alzarsi per andare a lavorare. Ormai si è svuotata, a
furia di accuse e implorazioni. Ha bisogno di seppellire suo
figlio.
Dice alle altre donne del paese che sembra che a lui non
importi niente. Ma io vedo i giri in macchina che fa. I tir che
suonavano il clacson, l’inverno scorso, quando li superava in
mezzo alla neve. Prima o poi finirà per schiantarsi.
Volo sopra il paese. La notte è chiara. Uno strato di neve
fresca si è depositato sullo spesso manto di neve vecchia e
sporca, grigia di terra e di ghiaia.
Hjalmar Krekula è sveglio. É in cortile, grasso come un orso

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in estate. É in mutande e maglietta. Due corvi appollaiati sul suo
tetto lanciano il loro rauco richiamo. Hjalmar cerca di scacciarli.
Prende dei pezzi di legno dalla legnaia e glieli tira. Non osa
gridare, il paese dorme ancora. Lui non ci riesce, se la prende con
gli uccelli neri e la luce e forse qualcosa che ha mangiato e che
gli ha fatto male.
I corvi prendono il volo e vanno a posarsi su un alto pino.
Non è facile liberarsi di loro. E stanotte è stato ritrovato il
mio corpo. Forse in paese si inizierà a parlare. Finalmente.

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Venerdì 17 aprile

“Merda!”
L’ispettore di polizia e addestratore cinofilo Krister Eriksson
sbatté la portiera della macchina e imprecò ad alta voce nella
fredda aria invernale.
La sua femmina di pastore tedesco, Tintin, annusava la neve
fresca nel parcheggio della polizia.
“Come va?” chiese qualcuno alle sue spalle.
Era Rebecka Martinsson, il procuratore. I capelli scuri
uscivano sciolti dal berretto di lana. Non era truccata e indossava
un paio di jeans. Non era giorno di udienza, quindi.
“E la macchina” spiegò Krister Eriksson con un sorriso,
imbarazzato per le sue intemperanze. “Non vuole saperne di
partire. Hanno trovato Wilma Persson, la ragazza scomparsa lo
scorso autunno.”
Rebecka scosse la testa, come a dire che non capiva.
“Lei e il suo ragazzo sono scomparsi all’inizio di ottobre” le
ricordò Krister. “Tutti e due molto giovani. Si pensava che
fossero andati a fare un’immersione, ma nessuno sapeva dove.”
“Adesso ricordo” disse Rebecka. “E quindi li hanno trovati?”
“No, solo lei. Nel Torneälven, a monte di Vittangi. È stato un
incidente subacqueo, proprio come si pensava. Mi ha chiamato
Anna-Maria, vuole che vada su con il cane per vedere se nelle
vicinanze c’è anche il ragazzo.”
L’ispettrice Anna-Maria Mella era il capo di Krister.

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“Come sta Anna-Maria?” chiese Rebecka. “E un sacco che
non ci vediamo, anche se lavoriamo nello stesso edificio.”
“Sta bene, ma sai com’è, ha la casa piena di figli. Credo che
abbia parecchio da fare, come tutti, immagino.”
Ebbe l’impressione che Rebecka gli leggesse dentro e capisse
che stava mentendo. Le cose non andavano affatto bene con
Anna-Maria.
“In realtà credo che non vada più tanto d’accordo con i
colleghi” aggiunse. “A ogni modo le ho detto che Tintin non sta
lavorando, in questo periodo. Sta per partorire, ma posso farle
fare un giretto. E pensavo di portare anche il cane nuovo, tanto
per fargli provare un po’ il naso.. Non fa mai male. Se non
troviamo niente possono sempre mandare un altro cane, se
vogliono. Ma il più vicino è a Sundsvall, perciò…”
Fece un cenno del capo in direzione della macchina. Nel
bagagliaio c’erano due gabbie, una con dentro un pastore tedesco
color cioccolato.
“Che bello” disse Rebecka. “Come si chiama?”
“Roy. Sì, per essere bello è bello. Resta da vedere se vale
qualcosa. Non posso farlo uscire insieme a Tintin, le sta sempre
addosso e le fa continuamente i dispetti. E lei ha bisogno di stare
tranquilla, finché non partorisce.”
Rebecka guardò la femmina.
“Ho sentito dire che è molto brava” disse. “Ha trovato il
corpo del pastore nel Vuolusjärvi e le tracce di Inna Wattrang.
Incredibile.”
“Eh sì” disse Krister Eriksson voltandosi per nascondere un
sorriso orgoglioso. “Anche se faccio sempre il confronto con il
cane che avevo prima, Zack. È stato un onore poter lavorare con
lui. Si può dire che è stato lui a istruire me, io mi limitavo a

37
seguirlo. Ero così giovane, non capivo niente. Poi ho potuto
addestrare Tintin.”
Sentendo il proprio nome, il cane alzò gli occhi e zampettò
verso di loro. Poi si sedette davanti allo sportello posteriore della
macchina e li guardò come per dire: “Be’, quando partiamo?”
“Capisce che stiamo andando a lavorare” disse Krister. “Si
diverte un sacco.”
Si voltò verso Tintin.
“Non si può” le disse. “La macchina non parte.”
Il cane inclinò la testa di lato come se riflettesse sulle sue
parole, poi si allungò nella neve con un sospiro rassegnato.
“Prendi in prestito la mia” suggerì Rebecka.
Aveva parlato con Tintin. Si voltò verso Krister Eriksson.
“Scusa” disse. “Sei tu che guidi. A ogni modo oggi non mi
serve.”
“Ma no, non posso…”
Rebecka gli infilò in mano le chiavi della sua Audi A4 Avant,
mentre lui le chiedeva altre tre o quattro volte se davvero non le
serviva, assicurandole che poteva risolvere in qualche altro modo.
Per esempio, facendosi semplicemente venire a prendere.
“Non credi che un grazie sarebbe sufficiente?” disse. “Adesso
devo andare, a meno che non ti serva aiuto con le gabbie. Su! Ti
stanno aspettando.”
Krister le assicurò che poteva farcela da solo e restò a
guardarla mentre entrava nell’edificio e lo salutava con la mano.
Ma Rebecka non ebbe nemmeno il tempo di togliersi la
giacca. Se lo ritrovò che bussava alla porta del suo ufficio.
“Non va” spiegò. “Cambio automatico. Non sono capace.”
A Rebecka sfuggì un mezzo sorriso.
Non capita spesso, si disse Krister. Altre donne sorridevano

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tutto il tempo, che fossero allegre o meno. Ma non questa. E non
sorrideva con la bocca, no, bisognava guardarla nel profondo
degli occhi. E lì in fondo c’era un’allegra melodia che suonava
quando lo guardava.
“E Tintin?”
“No, anche lei è abituata al cambio manuale.”
“É semplicissimo, basta…”
“Lo so!” la interruppe. “Me lo dicono tutti, ma… insomma,
non ce la faccio!”
Rebecka lo guardò, e Krister ricambiò lo sguardo senza
imbarazzo né timidezza.
Sapeva che era un lupo solitario.
Non è solo per il suo aspetto, si disse.
Il viso di Krister Eriksson era deturpato da gravi ustioni, un
incendio quando era ancora ragazzo, aveva sentito dire. Aveva la
pelle lucida e chiazzata di rosa, i padiglioni auricolari ridotti a
due rugose foglie di betulla appena spuntate, niente capelli, né
sopracciglia né ciglia, due fori nel viso al posto del naso.
“Allora ti do un passaggio” concluse.
Si aspettava che protestasse. Che iniziasse a dire che era
orario di lavoro. Che sicuramente aveva altro da fare.
“Grazie” rispose invece con un sorriso leggermente malizioso,
come a dimostrare di aver imparato la lezione.

Durante il tragitto cambiò il tempo e la temperatura salì. Il


fiato caldo del sole. La neve sciolta gocciolava dai pini affusolati
e dalle betulle che iniziavano già a virare al violetto. Attorno ai
massi del fiume si erano formate chiazze di acqua libera. Il
ghiaccio iniziava a ritirarsi dalla riva. Ma durante la notte sarebbe
tornato il freddo. L’inverno non si era ancora arreso.

39
Rebecka Martinsson e Krister Eriksson seguirono una serie
di strade nei boschi a nord del Torneälven. I colleghi della polizia
avevano indicato il percorso con dei nastri di plastica rossa,
altrimenti sarebbe stata dura, se non impossibile, orientarsi su
quel terreno desolato, percorso da strade che correvano un po’ in
tutte le direzioni.
La sbarra all’ingresso del villaggio di case estive di Pirttilahti
era alzata. Sul promontorio sorgevano costruzioni di ogni tipo:
casotti di legno, piccole ville, capanni di tronchi e parecchie
latrine. Il tutto tirato su a casaccio, dove avevano trovato posto.
C’era anche un vecchio carrozzone di legno rosso, con le finestre
verde scuro. Era appoggiato su alcune traversine ferroviarie e
aveva delle tendine a fiori alle finestre. A Rebecka fece venire in
mente una compagnia circense stanca di viaggiare. Qua e là tra un
pino e un altro era stata inchiodata una barra da cui pendevano
un’altalena dalle corde ingrigite o malandate reti da pesca con
ghiaccioli che il sole primaverile non era ancora riuscito a
sciogliere. Lungo le pareti dei capanni erano ammassate cataste di
legna vecchia, a malapena buona per accendere il fuoco. Attrezzi
e mercanzie varie erano sparsi un po’ ovunque: i resti di un
vecchio pontile, un bel cancello di legno appoggiato a un albero,
mucchi di vecchie tegole e pietre da pavimentazione, alcune mole,
un lampione, un vecchio trattore, della lana di vetro, un letto di
ferro.
E un sacco di barche tra gli alberi, rovesciate e coperte di
neve. Di legno, di plastica, di varia qualità.
Dalla riva partiva un pontile, con la parte galleggiante tirata
in secca. I poliziotti e i tecnici della scientifica erano radunati lì
attorno.
“Che posto!” disse Rebecka entusiasta, spegnendo il motore.

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Subito Tintin e Roy si misero a ululare e abbaiare per
l’eccitazione.
“C’è gente che ha sempre voglia di lavorare” commentò
Krister ridendo.
Si affrettarono a scendere dalla macchina, e subito l’ispettrice
Anna-Maria Mella andò loro incontro.
“Che agitazione” li salutò allegramente.
“Non vedono l’ora di mettersi al lavoro” le spiegò Krister.
“Non voglio zittirli, per loro dev’essere solo un’esperienza
positiva. Ma mi domando se faccia bene a Tintin. Non dovrebbe
agitarsi tanto, visto che sta per partorire. Vorrei liberarla subito,
in modo che si calmi. Dove cerchiamo?”
Anna-Maria si voltò a guardare il fiume.
“I tecnici sono appena arrivati. Stanno lavorando lì al pontile,
ma pensavo che tu e Tintin potreste dare un’occhiata lungo la
riva. Era andata a fare un’immersione con il suo ragazzo, perciò
deve pur essere da qualche parte anche lui. Forse il corpo è
tornato a riva nelle vicinanze, che ne so. Ma se controlli entro un
certo raggio sia a monte che a valle, poi possiamo spostarci alle
rapide. Molti si immergono lì per recuperare esche smarrite. Una
Rapala di buona qualità può costare anche centocinquanta
corone, perciò mettendone insieme un po’… Insomma, i giovani
hanno sempre bisogno di soldi. Che tragico incidente. Avevano
tutta la vita davanti. Speriamo per i parenti di riuscire a trovarli
entrambi.”
Krister Eriksson annuì.
“Tintin può fare il primo tratto, ma non tre chilometri. Più
tardi farò uscire Roy.”
“Allora facciamola cercare qui sul promontorio e poi alle
rapide. Lì il fiume si allarga. Dopo passiamo sull’altra sponda.

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Ho un po’ di gente in giro che sta cercando la macchina, ma ho
detto che si tengano alla larga dalla riva. Almeno di un centinaio
di metri.”
Krister Eriksson annuì soddisfatto. Fece uscire Tintin dalla
macchina e le infilò il giubbottino da lavoro.
Subito l’animale smise di abbaiare e iniziò a girargli attorno
alle gambe fino ad avvolgerlo nel guinzaglio.
Quando Krister sparì verso il promontorio con un pastore
tedesco che guaiva eccitato e tirava il guinzaglio, Anna-Maria
Mella si voltò verso Rebecka.
“Come mai da queste parti?”
“Faccio solo da autista” spiegò Rebecka. “La macchina di
Krister non partiva.”
Si osservarono per un lungo mezzo secondo. Poi dissero
contemporaneamente: “Come va?”
Anna-Maria rispose: “Bene, bene.” Rebecka la guardò.
L’ispettrice Mella era bassa di statura, non più di un metro e
mezzo, ma Rebecka non l’aveva mai considerata piccola. Fino a
quel momento. Quasi scompariva nel voluminoso giaccone di
pelle nera. I lunghi capelli biondo grano erano raccolti come al
solito in una grossa treccia sulla schiena. Rebecka si rese conto
di averla vista pochissimo nell’ultimo anno. Il tempo passava
davvero in fretta. Si vedeva dai suoi occhi che non andava bene
per niente. Poco più di un anno prima lei e il suo collega Sven-
Erik Stålnacke erano rimasti coinvolti in un conflitto a fuoco ed
entrambi erano stati costretti a sparare e a uccidere. Era per colpa
di Anna-Maria che si erano cacciati in quella situazione: non
aveva voluto aspettare i rinforzi.
Ovviamente Sven-Erik ce l’ha con lei, si disse Rebecka. Di
sicuro si sente male e pensa che sia colpa di Anna- Maria.

42
E in fondo non ha torto, proseguì Rebecka nel suo
ragionamento. Anna-Maria aveva messo in pericolo la vita di
entrambi. C’era un cavallo selvaggio nascosto in quella mamma
di quattro figli. Ma adesso il cavallo si era azzoppato.
“Non male” fu la risposta di Rebecka alla domanda su come
andava.
Anna-Maria Mella la guardò. In effetti sembrava non stare
affatto male, il che era decisamente molto più di quanto si
potesse dire prima. Era sempre magra, ma non più così pallida e
smunta. Alla procura stava facendo un buon lavoro. Aveva una
specie di relazione con il suo vecchio capo di Stoccolma. Non
che fosse una conquista di cui vantarsi. Uno di quei riccastri che
se la cavano sempre grazie al fascino e al bell’aspetto. Beveva
troppo, se ne sarebbe accorto chiunque. Ma se per Rebecka non
era male, affari suoi.
Dalla riva, uno dei tecnici chiamò Anna-Maria. Dovevano
portare via il corpo. Voleva vederlo? L’ispettrice gridò: “Arrivo!”,
poi si voltò di nuovo verso Rebecka.
“Voglio darle un’occhiata” le disse. “Mi sento meglio se la
vedo, dato che dovrò parlare con i parenti. Spesso insistono per
vedere i loro morti, per assicurarsi che siano proprio loro. E in
quel caso è meglio sapere in che stato sono. Posso immaginare
come sarà conciata. É in acqua dall’autunno scorso.”
Si zittì di colpo. Che stronzata mettersi a parlare di cadaveri
in quel modo di fronte a Rebecka Martinsson. Lei che aveva
ucciso tre uomini per legittima difesa. A uno aveva spaccato la
testa, e agli altri due aveva sparato.
Poi aveva dovuto mettersi in malattia. E a due anni di
distanza, quando Lars-Gunnar si era suicidato dopo aver ucciso il
figlio, non ce l’aveva fatta più ed era finita in un ospedale

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psichiatrico.
“Va tutto bene” disse Rebecka come se le avesse letto nel
pensiero. “Posso vederla anch’io?”

La pelle del viso della ragazza era bianca e gonfia d’acqua.


Una mano aveva perso il guanto della muta ed era praticamente
distrutta. La carne si era staccata rivelando le ossa delle dita. Il
pollice e il mignolo non c’erano più. E nemmeno il naso, così
come la maggior parte delle labbra.
“Diventano così se stanno tanto in acqua” disse uno dei
tecnici. “La pelle è fragile e cedevole, basta che urtino qualcosa
mentre vanno alla deriva e perdono il naso, le orecchie. Ma
possono anche essere stati i lucci. Vedremo se reggerà, quando il
medico legale taglierà la muta. Tocca a Pohjanen?”
Anna-Maria annuì senza staccare gli occhi da Rebecka, che
fissava come stregata la mano rovinata della ragazza.
L’ispettore Sven-Erik Stålnacke fermò la sua Volvo a una
certa distanza, poi scese e chiamò Anna-Maria.
“Abbiamo trovato la macchina dei ragazzi. Su verso le
rapide.”
Andò loro incontro, camminando a gambe larghe come tutti
gli altri, con cautela, per non scivolare.
“Era in una radura” aggiunse. “A centocinquanta metri dalle
rapide. Devono essersi spinti il più vicino possibile, avevano
un’attrezzatura pesante da trasportare.”
Si portò una mano alla nuca in un gesto di riflessione.
“Era coperta dalla neve. Stanno spalando per liberarla. In
effetti quando erano scomparsi ci era sembrato strano che
nessuno avesse visto in giro la macchina. Ma è ovvio. Era nel
bosco, coperta di neve. Nemmeno quelli che hanno risalito il

44
fiume in motoslitta possono averla notata. Il ragazzo è stato bravo
ad arrivare fin lì, intorno alle rapide il bosco è stato tagliato, ma
ci sono un sacco di pietre e molte ceppaie.”
Rebecka si riscosse dalla trance che sembrava averla colpita
di fronte alla ragazza morta.
“Forse era lei che guidava” suggerì con un cenno del capo
verso la morta. “Secondo tutte le statistiche le donne guidano
meglio degli uomini.”
Rivolse un sorriso eloquente a Sven-Erik.
In casi normali, il poliziotto avrebbe risposto con uno sbuffo
da sotto quella spazzola ingrigita che aveva al posto dei baffi.
Avrebbe ribattuto che le statistiche dicevano un sacco di stronzate
e poi avrebbe chiesto da dove saltava fuori Rebecka. Avrebbe riso
di se stesso mentre Anna-Maria e Rebecka alzavano gli occhi al
cielo.
Invece si limitò a rispondere: “Naturalmente può essere
andata anche così.”
E poi chiese ad Anna-Maria cosa voleva che facessero della
macchina.
Ohi ohi, si disse Rebecka. I rapporti si sono davvero
raffreddati.
“Non ci sono sospetti di reato” disse Anna-Maria. “Perciò se
trovate la seconda chiave portatela pure in città.”
“Faremo un tentativo” rispose Sven-Erik dubbioso. “Sempre
che riusciamo a riportarla sulla strada.”
“Un tentativo è esattamente quello che chiedo” replicò Anna-
Maria in tono tagliente.
Sven-Erik fece dietrofront e se ne andò. Nello stesso istante
ricomparve Krister Eriksson.
“Peccato!” esclamò Anna-Maria, delusa. “Speravo di sentirla

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abbaiare.”
“No, non ha trovato niente. Faccio un giro con Roy, ma non
credo che il ragazzo sia qui.”
“Cosa intendi?”
Krister Eriksson alzò le spalle.
“Non so neanch’io” disse. “Faccio comunque un giro con
Roy, così vediamo.”
Diede qualche pacca di incoraggiamento a Tintin e le fece i
complimenti. Poi aprì il bagagliaio della macchina di Rebecka e
scambiò di posto i cani. Roy non poteva credere alla sua fortuna:
fece una specie di balletto per esprimere la sua gioia
incontenibile e finì per sedersi sulla coda con un grande
sbadiglio.
Tintin invece non approvò affatto lo scambio e si mise ad
abbaiare disperata. Ma come, quello stronzetto poteva uscire con
il padrone a lavorare e divertirsi mentre lei, la femmina alfa,
doveva star chiusa in macchina? Inaccettabile, semplicemente
inaccettabile.
Si mise a girare agitata nella gabbia, mentre i suoi latrati
penetranti attraversavano il lunotto.
“Non va bene” disse Krister osservandola preoccupato. “Non
deve agitarsi. Mi spiace, Anna-Maria, ma non funziona.”
“Vuoi che la porti a fare un giro?” chiese Anna-Maria. “Se
può uscire…”
“Peggiorerebbe solo le cose.”
“Posso riportarla in città” suggerì Rebecka. “Credi che così si
calmerebbe?”
La guardò. Adesso che il sole scaldava bene, si era tolta il
berretto e i capelli le si erano leggermente arruffati. Quegli occhi
color sabbia. Quella bocca… avrebbe avuto voglia di baciarla.

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Aveva una cicatrice che correva dal labbro superiore al naso,
risaliva a quando Lars-Gunnar Vinsa l’aveva scaraventata giù
dalla scala della cantina. Molti trovavano che la imbruttisse, la
compativano per com’era diventata, dicevano che prima era
carina. Ma a lui quella cicatrice piaceva. Le dava un’aria così
vulnerabile.
Fu attraversato da un’ondata di desiderio, una specie di getto
d’acqua calda. La immaginò a quattro zampe sotto di lui. Ha
avvolto una mano nei suoi capelli, con l’altra le stringe un fianco.
Oppure a cavalcioni su di lui. Le stringe i seni con le mani, ripete
il suo nome. Una ciocca di capelli le si è incollata al viso sudato.
Oppure sotto di lui, con le ginocchia alzate. La penetra
lentamente.
“Cosa ne dici?” gli chiese di nuovo. “Posso tenerla nel mio
ufficio, non darà fastidio a nessuno. Passi a prenderla quando hai
finito.”
“D’accordo” disse lui abbassando lo sguardo a terra, per
paura che gli leggesse dentro. “Va bene.”

Anna-Maria Mella e Sven-Erik Stålnacke erano fermi accanto


alla macchina sulla riva del fiume, una Peugeot 305.
“Ho trovato la chiave” annunciò Sven-Erik. “Mi sono detto
che dovevano aver fatto come chi va a raccogliere bacche. In
genere si è restii a portare la chiave con sé, perché se la si perde
nel bosco è un casino tornare a casa. In genere io la nascondo
sotto il paraurti posteriore. Loro l’avevano appoggiata sullo
pneumatico, sotto il parafango.”
“Aha” disse Anna-Maria, paziente.
“A ogni modo, mi sono detto che era meglio cercare di
portarla sulla strada prima che la neve si ammorbidisse troppo, ci

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sono un sacco di pietre e…”
Anna-Maria lanciò un’occhiata all’ora sul cellulare. Sven-
Erik si sbrigò ad arrivare al punto.
“Quando ho acceso il motore, la macchina è partita. Nessun
problema.”
“Be’?”
“Ma…”
Sollevò un dito per segnalare che era arrivato al punto.
“… la benzina è finita subito. Ce n’era solo un goccio.
Pensavo che volessi saperlo.”
“Be’?”
“Insomma, erano rimasti a secco. Non sarebbero mai riusciti a
tornare a Piilijärvi. Il distributore più vicino è a Vittangi.”
Anna-Maria emise un borbottio sorpreso.
“É strano” insistette Sven-Erik. “Non erano mica degli idioti,
no? Come pensavano di fare per tornare a casa?”
“Bah” commentò Anna-Maria alzando le spalle.
“D’accordo, d’accordo” disse Sven-Erik, palesemente irritato
perché non condivideva la sua perplessità sul serbatoio vuoto.
“Pensavo che potesse interessarti.”
“Ma certo” cercò di blandirlo Anna-Maria. “Forse qualcuno
ha svuotato il serbatoio durante l’inverno. Qualcuno passato di
qua in motoslitta, magari?”
“Il tappo non aveva la minima scalfittura. Ma è ovvio, se ho
trovato la chiave io può averlo fatto anche qualcun altro. A ogni
modo è strano.”

“Com’è andata?”
Krister Eriksson bussò alla porta aperta di Rebecka
Martinsson, fermandosi sulla soglia. Voleva dare un’occhiata al

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suo ufficio. La scrivania era ingombra di atti giudiziari. Sulla
sedia libera c’era uno scatolone pieno di materiale su un caso di
reati finanziari. Era chiaro che lavorava parecchio. Ma quello lo
sapeva già, così come lo sapevano tutti lì alla centrale. Quando
aveva preso servizio a Kiruna, aveva iniziato a fissare udienze a
un ritmo tale che gli avvocati della città si erano lamentati. E
povero il poliziotto che le consegnava la documentazione di
qualche indagine preliminare incompleta, veniva perseguitato
fino a che otteneva esattamente quel che voleva.
Rebecka alzò gli occhi da un caso di guida in stato di
ubriachezza.
“Bene” rispose. “E a voi? L’avete trovato?”
“No. Dov’è Tintin?”
“Qui” rispose Rebecka indietreggiando sulla sedia girevole.
“Sotto la scrivania.”
“Cosa?” esclamò Krister Eriksson con un sorriso, chinandosi
a guardare. “Dimmi un po’, signorina, ti è bastata una mattinata
per dimenticare il tuo vecchio padrone? Avresti dovuto saltare in
piedi e venirmi incontro non appena hai sentito i miei passi nel
corridoio.”
Quando Krister Eriksson si chinò e le rivolse la parola, Tintin
gli si avvicinò agitando la coda.
“Guardala” disse a Rebecka. “Adesso si vergogna perché non
mi ha mostrato il dovuto rispetto.”
Rebecka sorrise a Tintin. Piegava la schiena con aria
sottomessa, agitava la coda e cercava di leccare la bocca del suo
padrone. All’improvviso sembrò ricordarsi di Rebecka, tornò a
sedersi accanto a lei e le posò una zampa sulle ginocchia. Poi
tornò di nuovo da Krister.
“É pazzesco” disse Krister. “Prima rimane sotto la scrivania

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anche quando arrivo io. E adesso questo. Ti sta tributando un
grande onore. In genere è una vera monogama. É un
comportamento davvero insolito per lei.”
“Mi piacciono i cani” spiegò Rebecka guardandolo negli
occhi, senza distogliere lo sguardo. Lui ricambiò la lunga
occhiata.
“Piacciono a un sacco di gente” replicò lui. “Ma a quanto
pare anche tu piaci a loro. Pensi di prendertene uno?”
“Forse” rispose. “Ma ho ancora in mente i cani della mia
infanzia. È difficile trovare quei vecchi segugi intelligenti. E poi
in fondo non vado mica a caccia. Vorrei un cane che corra libero
per il paese in inverno, ma ormai non lo possono più fare.
Quando ero piccola era così. Capivano tutto. E davano la caccia
alle arvicole nei campi di stoppie.”
“E un cane così non ti piacerebbe?” chiese lui guardando
Tintin.
“Certo. É bellissima.”
Passarono alcuni lunghissimi secondi. Tintin era seduta in
mezzo a loro e spostava lo sguardo dall’uno all’altra.
“Quindi non l’avete trovato” disse alla fine Rebecka.
“No, anche se lo sapevo fin dall’inizio.”
“Come facevi a saperlo? In che senso?”
Krister Eriksson guardò fuori dalla finestra. Il sole splendeva
nel cielo azzurro, sciogliendo la crosta di ghiaccio che copriva la
neve. Dai tetti pendevano file di ghiaccioli gocciolanti. Gli alberi
erano dolorosamente gonfi di primavera.
“Non lo so” rispose. “A volte ho delle sensazioni. So in
anticipo quando il cane si metterà ad abbaiare perché ha trovato
qualcosa. Sono… come spiegare… forse la parola giusta è
“aperto”. Le persone sono importanti. Siamo più complessi di

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quanto ci rendiamo conto. E Madre Terra non è roccia inerte.
Anche lei è viva. Se c’è un cadavere da qualche parte in mezzo
alla natura, be’, lo si sente. Gli alberi vibrano di consapevolezza.
Le pietre lo sanno. L’erba. Influenza tutto quanto. E noi siamo in
grado di sentirlo, se solo…”
Concluse la frase con una scrollata di spalle.
“Come un rabdomante in cerca d’acqua” aggiunse Rebecka,
anche se sentì che le sue parole risultavano goffe. “In realtà non
ha bisogno della bacchetta. Ce l’ha dentro.”
“Sì” rispose lui a bassa voce. “Forse qualcosa del genere.”
La osservò con aria interrogativa, gli sembrava che avesse
qualcosa per la testa.
“Cosa c’è?”
“La ragazza che hanno trovato” disse Rebecka. “L’ho
sognata.” “Sì?”
“Ah, niente. Devo andare a casa. Vi serve un passaggio?”
“No, ma grazie comunque. Un amico viene a darmi una mano
con la macchina. E così hai visto Wilma?”
“L’ho sognata.”
“Cosa voleva, secondo te?”
“Era un sogno” ripeté Rebecka. “Non si dice che tutte le
persone che sognamo in realtà siamo noi stessi?”
Krister Eriksson sorrise.
“Ciao” si limitò a dire.
Poi se ne andò con il cane.

Anna-Maria Mella guidava in direzione di Piilijärvi, sessanta


chilometri a sud-est di Kiruna. La neve sulla strada si era sciolta,
restava solo una striscia di ghiaccio al centro della carreggiata.
Avrebbe dovuto dire ad Anni Autio, la bisnonna di Wilma

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Persson, che l’avevano trovata, che era morta. Sarebbe stato bello
avere con sé Sven-Erik, ma ormai le cose andavano come
andavano. Non poteva perdonarle il conflitto a fuoco di Regia.
“E io cosa diavolo ci posso fare?” disse ad alta voce.
“Presto se ne andrà in pensione, così farà a meno di vedermi.
Potrà restarsene a casa da Airi e dai suoi gatti.”
Ma le bruciava, e lo sapeva. Era abituata a ridere e scherzare
con tutti i colleghi. Prima era sempre divertente andare al lavoro.
Adesso era…
“Un po’ meno divertente!” esclamò di nuovo a voce alta,
svoltando sulla strada tortuosa che dalla E10 portava verso il
paese.
E le cose non stavano certo migliorando. Negli ultimi tempi
evitava di chiedere agli altri cosa facevano a pranzo. Sempre più
spesso tornava a casa a buttare giù un po’ di yogurt e muesli in
solitudine. Aveva anche iniziato a chiamare Robert dal lavoro. In
pieno giorno. Per non dire niente. Oppure si inventava delle
scuse. “Ti sei ricordato di portare a Gustav un paio di guanti di
scorta all’asilo?” “Puoi fare la spesa tornando a casa?”

Anni Autio abitava in una casa di eternit rosa al centro del


paese, vicino al lago. La scala era color legno, ben spazzata e
cosparsa di sabbia. La ringhiera di metallo dipinto di nero. Sulla
porta era appeso un cartello scritto a mano, fissato con una
puntina da disegno:

SUONATE e ASPETTATE
Ci metto un bel po’ ad arrivare alla porta
SONO IN CASA

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Anna-Maria suonò e aspettò. Alcuni corvi si lasciavano
trasportare dalla termica sopra il lago, grandi e neri contro il cielo
azzurro. Le loro strida risuonavano a lungo. Uno si divertiva a
ruotare sul suo asse. Niente dolori o preoccupazioni, da quelle
parti.
Continuò ad aspettare. Ogni cellula del suo corpo avrebbe
voluto tornare a grandi passi verso la macchina. Rimandare
l’incontro con il dolore di un altro essere umano.
Un gatto attraversò il giardino, vide Anna-Maria e si affrettò
ad allontanarsi. Sven-Erik era un amante dei gatti. Anna-Maria si
ritrovò di nuovo a pensare a lui. A ciò in cui era bravo. Come
raccontare le cose più difficili. O abbracciare e consolare.
Fanculo a lui, si disse.
“Fanculo” ripeté ad alta voce per scacciare i pensieri
deprimenti.
In quel preciso istante si aprì la porta. Un’esile donnina
curva, sull’ottantina, stava aggrappata alla maniglia con entrambe
le mani. Aveva i capelli bianchi raccolti in una treccia filiforme
sulle spalle. Sopra un semplice vestito blu abbottonato davanti
indossava un grosso maglione da uomo fatto a maglia. Aveva le
gambe avvolte in spesse calze di nylon nere e i piedi infilati in un
paio di pantofole di renna.
“Mi scusi” disse Anna-Maria con un sorriso imbarazzato.
“Ero immersa nei miei pensieri.”
“Sì sì” rispose la donna in tono cordiale. “Sono così contenta
di trovarla ancora qui. Tanta gente non ha la pazienza di
aspettare, anche se l’ho scritto sulla porta. Dopo tutta la fatica
che faccio per arrivare fin qui, li vedo ripartire in macchina.
Verrebbe quasi voglia di sparargli. Una si illude di farsi una bella
chiacchierata, e poi rimane delusa. I testimoni di Geova invece

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aspettano sempre.”
Rise.
“E ormai non sono più così esigente. Anche loro possono
sedersi a fare una chiacchierata. Ma lei non è religiosa, vero?
Vende biglietti della lotteria?”
“Anna-Maria Mella, della polizia di Kiruna” si presentò
l’ispettrice. “Lei è Anni Autio?”
Il sorriso scomparve dal viso della donna.
“Avete trovato Wilma” disse.

Anni Autio precedette Anna-Maria in cucina appoggiandosi


alle pareti e ad alcune sedie piazzate in posizioni strategiche.
Anna-Maria si tolse gli stivali pesanti in un ingresso quasi
interamente occupato da un congelatore ronzante e accettò il
caffè che le venne offerto. La cucina sembrava non aver subito
modifiche dagli anni cinquanta. Mentre Anni riempiva il
bollitore, il rubinetto vibrava e le tubature brontolavano. Gli
armadietti verde pino arrivavano fino al soffitto. Le pareti erano
coperte di fotografie, poesie di Edith Södergran e Nils Ferlin,
disegni infantili talmente sbiaditi da non distinguere più cosa
rappresentavano, miniature di uccelli, foglie incorniciate.
“Non siamo riusciti a rintracciare sua madre” disse Anna-
Maria. “Ma risulta residente qui, e sulla denuncia di scomparsa è
lei che figura come parente più prossima. Era sua nipote…”
“Bisnipote, sì.”
Anni rimase china sul fornello mentre l’acqua per il caffè
bolliva. Ascoltò il resoconto di Anna-Maria su come avevano
trovato Wilma, alzando di tanto in tanto il coperchio con una
presina di lana.
“Mi dica se posso fare qualcosa” disse Anna-Maria,

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ricevendo un cenno di diniego in risposta.
“Le dà fastidio se fumo?” chiese Anni dopo aver versato il
caffè.
Estrasse di tasca un pacchetto di sigarette al mentolo.
“Sono letali, lo so. Ma ho compiuto ottant’anni a gennaio e
ho sempre fumato. Poi c’è chi si cura della propria salute e… La
vita è ingiusta.”
Tirò un paio di boccate, poi spense la sigaretta contro il
barattolo di vetro che fungeva da portacenere e ripeté: “La vita è
ingiusta.”
Si asciugò il naso e la guancia con il dorso della mano.
“Mi scusi” disse.
“Pianga pure” disse Anna-Maria, come faceva sempre Sven-
Erik.
“Aveva solo diciassette anni” proseguì Anni in lacrime. “Era
troppo giovane. E io sono troppo vecchia per essere costretta a
sopravvivere a tutti.”
Guardò Anna-Maria con espressione infuriata.
“Sono stanca di questa storia” proseguì. “É già abbastanza
dura essere sopravvissuta a quasi tutti i miei coetanei. Ma iniziare
a sopravvivere ai più giovani…”
“Come mai abitava qui da lei?” chiese Anna-Maria, più che
altro per avere qualcosa da dire.
“Abitava a Huddinge con sua madre, mia nipote. Andava al
liceo, ma non se la cavava granché con lo studio. É stata lei a
decidere di prendersi una pausa e a scegliere di vivere qui da me.
Si era trasferita a Natale. Lavorava al campeggio da Marta
Andersson. E poi ha conosciuto Simon. É parente dei Kyrò,
quelli che abitano nella casa di legno rosso…”
Agitò una mano in direzione della costruzione di cui stava

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parlando.
“Era innamorato perso.”
Piantò gli occhi in quelli di Anna-Maria.
“Non mi sono mai sentita così vicina a qualcuno. Non alle
mie figlie. Sicuramente non a mia sorella, né a nessuno qui in
paese. Lei mi faceva sentire libera, non so come spiegarlo. Mia
sorella Kerttu, per esempio, se l’è sempre passata meglio di me.
Ha sposato Isak Krekula, quello degli autotrasporti.”
“Mi sembra di averlo già sentito nominare” si inserì Anna-
Maria.
“Sì, non sono mai andati molto d’accordo con la polizia.
Adesso sono i ragazzi a gestire la ditta. Ogni tanto Kerttu mi fa
arrabbiare. Deve sempre parlare di soldi e di affari e di quali
pezzi grossi hanno conosciuto i suoi ragazzi. Ma Wilma mi
diceva: lasciala perdere, se i soldi e cose del genere la fanno
felice buon per lei, a te non cambia niente. Lo so, suona così
semplice. Ma l’estate scorsa… Non mi sono mai sentita così
libera e giovane. Pensi pure quel che vuole, Ann-Britt…”
“Anna-Maria.”
“… ma era la mia migliore amica. Un’ottantenne e una
diciassettenne. Non mi trattava come una vecchia.”

È la metà di agosto. Periodo di mirtilli. Simon sta guidando


lungo una strada nel bosco. Wilma è seduta accanto a lui, Anni
sul sedile posteriore, con il deambulatore accanto. Ecco, sono
arrivati. In quel punto i mirtilli crescono proprio a bordo strada.
Anni esce faticosamente dalla macchina. Simon tira fuori il
deambulatore e il secchiello. É una bella giornata. Il sole scalda e
distilla vapori odorosi dal bosco.
“Sono anni che non vengo da queste parti” dice la donna.

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Simon le lancia un’occhiata preoccupata. Già, niente di
strano. Come farà a camminare con il deambulatore sul terreno
scosceso?
“Non vuoi che ti facciamo compagnia?” chiede. “Posso
tenerti il secchiello.”
Wilma dice: “Piantala”, e Anni esclama: “Ăiä houra!”
agitando una mano verso di lui, come se le sue obiezioni fossero
mosche da scacciare. Wilma lo sa. Anni ha bisogno di restare sola
in quel silenzio. Se anche non riuscirà a fare un passo e non
raccoglierà un solo mirtillo, pazienza. Può sedersi su una roccia e
limitarsi a essere.
“Veniamo a prenderti fra tre ore” le dice.
Poi si volta verso Simon e aggiunge con un sorriso di sfida:
“Ho un paio di idee su cosa possiamo fare nel frattempo.”
Simon arrossisce come un peperone.
“Piantala” dice lanciando un’occhiata ad Anni.
Wilma si mette a ridere.
“Anni ha quasi ottant’anni e ha messo al mondo cinque figli.
Credi che si sia dimenticata cosa fanno insieme un uomo e una
donna?”
“Non me ne sono dimenticata” dice Anni. “Ma non metterlo
in imbarazzo.”
“Non morire qui, mi raccomando” conclude Wilma
allegramente, prima di salire in macchina con Simon e partire.
Fanno solo pochi metri, poi la macchina si ferma e Wilma
sporge la testa dal finestrino per gridare: “Ma se anche dovessi
morire, sarebbe in un giorno fantastico e in un posto fantastico!”

Erano le cinque e mezza del pomeriggio quando Anna- Maria


Mella entrò nella sala autopsie dell’ospedale di Kiruna.

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“Sei di nuovo qui?” fu il saluto acido del medico legale Lars
Pohjanen.
Come al solito, il suo corpo magro sembrava congelato nel
camice verde stropicciato.
Anna-Maria ritrovò istantaneamente il buon umore.
Finalmente qualcuno che si azzuffava con lei come al solito.
“Pensavo che sentissi la mia mancanza” rispose con un
sorriso da cento watt.
Lui replicò con una risata soddisfatta, simile più che altro a
un rantolo.
Wilma Persson era stesa nuda sul tavolo settorio. Pohjanen le
aveva tagliato la muta e la biancheria, facendo emergere la pelle
grigia e slavata. Accanto a lei c’era un portacenere con i
mozziconi del medico legale. Anna- Maria non disse niente in
proposito, non era né sua madre né il suo capo.
“Ho appena parlato con la bisnonna” disse Anna-Maria.
“Pensavo che potessi dirmi qualcosa sulla dinamica
dell’incidente.”
Pohjanen scosse la testa.
“Non l’ho ancora aperta” disse. “E ridotta piuttosto male,
come puoi vedere, ma è successo post mortem.”
Indicò il viso dove mancavano il naso e le labbra.
“Perché i capelli sono per terra?” domandò Anna-Maria.
“I follicoli marciscono, stando in acqua, e i capelli si
staccano facilmente.”
Sollevò le mani della ragazza e le osservò con gli occhi
socchiusi. Alla mano destra mancavano il mignolo e il pollice.
“Ho notato le sue mani” aggiunse raschiandosi la gola. “Ha
perso parecchie unghie, ma non tutte. Vedi la mano destra? Ah,
bisogna fare attenzione, la pelle si stacca facilmente dalle dita.

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Guarda qui, mancano il pollice e il mignolo, ma il medio e
l’anulare hanno ancora le unghie. Se la confronti con l’altra
mano…”
Alzò entrambe le mani e Anna-Maria si chinò malvolentieri a
guardare.
“Le unghie della mano sinistra, quelle che sono rimaste, sono
curate e dipinte di nero, in buono stato, non è vero? Mentre
quelle del medio e dell’anulare della mano destra sono spezzate e
lo smalto è scheggiato.”
“Il che significa?”
Pohjanen alzò le spalle.
“Che ne so. Ma ho estratto del materiale da sotto le unghie.
Ti faccio vedere.”
Posò cautamente le mani di Wilma Persson e precedette
Anna-Maria al tavolo da lavoro. C’erano cinque provette sigillate
con scritto “Medio destro”, “Anulare destro”, “Pollice sinistro”,
“Medio sinistro”, “Indice sinistro”. In ogni provetta c’era un
bastoncino piatto.
“Sotto entrambe le unghie della mano destra c’erano scaglie
di vernice verde. Ma non è detto che abbia a che fare con
l’incidente. Magari ha scartavetrato e ridipinto delle finestre, o
qualsiasi altra cosa. Si lavora soprattutto con la mano destra.”
Anna-Maria annuì e guardò l’orologio. Cena alle sei, aveva
detto Robert. Doveva andare.

Un quarto d’ora dopo, Lars Pohjanen aveva di nuovo la mano


di Wilma Persson tra le sue. Stava prendendole le impronte
digitali. Lo faceva sempre, quando l’identificazione era
complicata da danni al viso, come in quel caso. La pelle del
pollice della mano sinistra si era staccata in un solo pezzo mentre

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stava per premerlo sulla carta. A volte capitava. Fece quello che
faceva sempre in quei casi, infilò il dito nella pelle staccata e lo
premette sulla carta. Nello stesso istante si rese conto che c’era
qualcuno sulla porta. Credendo che fosse l’ispettrice Anna-Maria
Mella, non si voltò e disse: “Sai, Mella, potrai leggere il referto
quando sarà pronto. Sempre che riesca a finirlo, prima o poi.”
“Mi scusi” disse una voce che non era quella di Anna- Maria.
Quando si voltò vide il procuratore Rebecka Martinsson.
L’aveva già incontrata in precedenza, in occasione di un processo
in cui era stato chiamato a testimoniare come persona informata
sui fatti. Si trattava di un caso di violenza domestica in cui le
versioni del marito e della moglie divergevano. Ma non si erano
mai parlati fuori dall’aula di un tribunale. Vide il suo sguardo
posarsi rapidamente sul cappuccio di pelle morta infilato sul
pollice.
Rebecka si presentò e gli ricordò che si erano già incontrati.
Lui disse che se lo ricordava e le domandò cosa volesse.
“É Wilma Persson?” chiese Rebecka.
“Sì, stavo proprio per prenderle le impronte digitali. Bisogna
sbrigarsi. Si rovinano in fretta, quando li si tira fuori dall’acqua.”
“Mi chiedevo solo se c’è modo di verificare se è davvero
morta dove l’abbiamo trovata.”
“Perché se lo chiede?”
Rebecka sembrò esitare. La vide stringere le labbra e scuotere
la testa di fronte ai suoi stessi pensieri, poi lo guardò come a
implorarlo di avere pazienza.
“L’ho sognata” disse dopo un attimo di esitazione. “Ho
sognato che mi diceva che era stata spostata. Che era morta da
un’altra parte.”
Pohjanen la guardò a lungo in silenzio. Gli unici suoni che si

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sentivano erano il suo respiro accelerato e affannoso e i
ventilatori che giravano.
“A quanto mi risulta si tratta di un incidente subacqueo. Ha
intenzione di aprire un’indagine più approfondita?”
“No, io…”
“C’è qualcosa che dovrei sapere? Come diavolo posso fare il
mio lavoro se non mi dite le cose come stanno? Se mi dite che
non sospettate alcun reato, eseguo i miei esami basandomi su
quel presupposto. Non vorrei sentirmi dire che ho trascurato
qualcosa. Capisce?”
“Non sono qui per…”
“Non fate altro che venire qui a disturbarmi, ma…”
Il procuratore alzò entrambe le mani.
“Lasci perdere” disse. “Non mi dia ascolto. Avrei fatto meglio
a non venire. Non dovevo essere in me.”
“In effetti l’ho sentito dire” concluse Pohjanen con malignità.
Rebecka girò sui tacchi e se ne andò. L’ultima battuta rimase
sospesa nell’aria, a risuonare come un rintocco di campana nella
sala autopsie.
Non ha il diritto di venire qui a disturbare, si giustificò Lars
Pohjanen tra sé.
Si sentiva in colpa per le parole sconsiderate. I morti che lo
circondavano erano insolitamente silenziosi.
Possono andarsene tutti affanculo.

Passa una settimana. Nel bosco la neve cade dagli alberi,


collassando sotto il sole primaverile con profondi sospiri. Si
creano chiazze spoglie. Il lato a sud dei formicai è riscaldato dal
sole. Gli zigoli delle nevi fanno ritorno. Sivving ha visto delle
impronte d’orso nel bosco. Il sonno invernale è finito.

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“Non hanno ancora trovato il ragazzo?” chiede Sivving a
Rebecka.
É sera, e Rebecka ha invitato a cena lui e Bella. Ha preparato
il sushi, che Sivving manda giù con espressione sospettosa. Lo
pronuncia in modo strano, sembra una specie di starnuto. Bella si
è allungata sul divano e dorme tranquilla sulla schiena. Le zampe
posteriori le ricadono di lato, quelle anteriori sobbalzano
leggermente.
Rebecka risponde di no.
“Piilijärvi” dice Sivving. “È l’ultimo paese al mondo in cui
vorrei vivere. Ci abitano i fratelli Krekula.”
“Quelli degli Autotrasporti Krekula” specifica quando vede
che Rebecka non capisce di cosa sta parlando. “Tore e Hjalmar,
hanno l’età di mio fratello minore. Dei veri farabutti. É stato il
padre a fondare la ditta, ed era tale e quale a loro, ai suoi tempi.
Ormai dev’essere sulla novantina. Il più grande, Hjalmar, è il
peggiore. Condannato parecchie volte per aggressione. Eppure
c’è un sacco di gente che non ha il coraggio di denunciarlo. E
quando erano piccoli… C’è una storia che circola su di loro, devi
averne sentito parlare anche tu. Sui fratelli Krekula. No? Be’, è
chiaro, è stato parecchio tempo fa. Hjalmar non aveva ancora
compiuto dieci anni e suo fratello doveva averne sei o sette.
Erano andati nel bosco, per portare le vacche al pascolo. Neanche
troppo lontano, in realtà. Ma Hjalmar ha lasciato il fratello nel
bosco. É tornato a casa senza di lui. Sono intervenuti la polizia,
le guardie forestali e anche l’esercito. Ma non l’hanno trovato.
Dopo una settimana, quando ormai le ricerche erano state
interrotte e tutti credevano che fosse morto, il ragazzino si
presenta alla fattoria. Il fatto ha suscitato grande scalpore in tutta
la Svezia. Tore è stato intervistato alla radio e ne hanno parlato

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tutti i giornali. É stato un miracolo che se la sia cavata. Eh sì,
quello Hjalmar è freddo come un ghiacciolo. Lo è sempre stato.
Già alle elementari acquistavano crediti, veri o presunti, e li
incassavano. Uno dei miei cugini, Einar, non l’hai mai incontrato,
si è trasferito molto tempo fa, adesso sono anni che è morto,
infarto… a ogni modo, andava a scuola con i fratelli Krekula. E
lui e i suoi compagni pagavano sempre. Altrimenti dovevano
vedersela con Hjalmar.”
“Bah” conclude poi grattando via il wasabi dal riso. “Non è
mica vero che era tutto meglio prima.”

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Venerdì 24 aprile

Alle undici e un quarto di venerdì sera, il medico legale Lars


Pohjanen telefonò ad Anna-Maria Mella.
“Hai tempo?” chiese.
“Certo” rispose Anna-Maria. “Marcus ha noleggiato un film,
e di sicuro a suo modo dev’essere interessante, ma Robert si è
addormentato quasi subito. Poi si è svegliato e ha detto: “Stanno
ancora parlando? Hanno risolto qualche problema mondiale?”, e
si è riaddormentato.”
“Chi è?” chiese Robert assonnato. “Sono sveglio.”
“É Pohjanen.”
“É uno di quei film in cui restano seduti su una panchina in
un parco e parlano tutto il tempo” disse Robert a gran voce per
farsi sentire da Pohjanen. “É venerdì sera! Uno non chiede altro
che qualche inseguimento in macchina, un paio di omicidi e un
po’ di sesso.”
All’altra estremità del filo Pohjanen emise una risata
rantolante.
“Devi perdonare il mio errore di gioventù” disse Anna-
Maria. “Avevo bevuto e mi ha messa incinta.”
“Non è vero che sono seduti su una panchina, non potete
stare un po’ zitti?” si lamentò Marcus, il figlio maggiore di Anna-
Maria.
“Cosa state guardando?” chiese Pohjanen.
“Le vite degli altri. É in tedesco.”

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“L’ho visto” disse il medico legale. “É un bel film. Mi ha
fatto piangere.”
“Pohjanen dice che ha pianto, quando l’ha visto” ripeté
Anna-Maria.
“Anch’io” commentò Robert.
“Come no” disse Anna-Maria al telefono. “L’ultima volta che
ha pianto è stato quando Wassberg ha battuto Mieto nella
quindici chilometri di fondo alle olimpiadi invernali del 1980. Se
adesso stai un po’ zitto posso sentire cosa vuole Pohjanen.”
“Un centesimo di secondo!” esclamò Robert, ancora
commosso al ricordo. “Quindici chilometri di gara, e ha vinto per
cinque centimetri.”
“Potete stare un po’ zitti tutti quanti, che vorrei vedere il
film?” borbottò Marcus.
“Wilma Persson” disse Pohjanen. “Ho estratto un campione
d’acqua dai suoi polmoni.” “Sì?”
“E l’ho confrontato con l’acqua del fiume.”
Anna-Maria intercettò un’occhiataccia del figlio, si alzò e
andò in cucina.
“Ci sei ancora?” chiese Pohjanen in tono lamentoso. Poi si
raschiò la gola.
“Sì, ci sono” disse Anna-Maria sedendosi e cercando di non
ascoltare i suoi rantoli catarrosi.
“Ho… hrrm, hrrm… mandato il materiale al laboratorio
Rudbeck di Uppsala. Ho chiesto a Marie Alien di accelerare un
po’ i tempi. Hanno… hrrm… sequenziato i campioni. Molto
interessante.”
“Perché?”
“Be’, è l’ultimo ritrovato della tecnica. Si identifica il
patrimonio genetico di tutti i materiali viventi presenti nell’acqua.

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Batteri, alghe eccetera. Sai, tutto è composto di quattro
mattoncini. Anche noi. Il dna umano ha tre miliardi di questi
mattoncini messi in un certo ordine.”
Anna-Maria guardò l’ora. Prima il film impegnato tedesco,
adesso la lezione di biologia con Pohjanen.
“Immagino che non ti interessi granché” si riscosse Pohjanen.
“Ma posso dirti che l’acqua nei polmoni di Wilma Persson ha
una microflora completamente diversa da quella del fiume dove è
stata trovata.”
Anna-Maria si alzò in piedi.
“Non è morta nel fiume” disse.
“Non è morta nel fiume” confermò Pohjanen.

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Sabato 25 aprile

Sven-Erik Stålnacke fu svegliato dal telefono che squillava.


Mentre rispondeva, sentì la consueta ondata di stanchezza
mattutina invadergli il corpo.
“Sono io” disse Anna-Maria Mella con voce eccitata.
Sven-Erik allontanò leggermente il ricevitore e strizzò gli
occhi per guardare l’ora. Le sette e venti.
Anna-Maria era mattiniera, lui invece preferiva stare sveglio
fino a tardi la sera. Tra loro c’era un tacito accordo sul fatto che
potevano svegliarsi a vicenda come e quando volevano. Se a
Sven-Erik veniva in mente qualcosa all’una di notte poteva
telefonare ad Anna-Maria. Lei poteva chiamarlo all’alba e dirgli
che era già in macchina per passare a prenderlo. Ma questo era
prima.
Prima di Regia, Sven-Erik avrebbe detto: già in piedi?, e
Anna-Maria avrebbe risposto che dal lunedì al venerdì era
costretta a tirare giù dal letto Gustav con la forza per portarlo
all’asilo, ma che il sabato e la domenica le saltava addosso
all’alba perché accendesse il canale dei cartoni animati.
“Scusa se ti chiamo così presto” disse Anna-Maria.
Si era già pentita di aver telefonato, trascinata
dall’entusiasmo. Le cose non erano più come prima.
Sven-Erik percepì il cambiamento nella sua voce e fu
attraversato da un misto di sensazione di perdita e senso di colpa.
Poi si infuriò. Non era colpa sua, se le cose erano quelle che

67
erano.
“Ieri sera tardi mi ha chiamato Pohjanen” esordì Anna-
Maria, come a sottolineare che non era l’unica a chiamare i
colleghi a orari strani.
A letto accanto a Sven-Erik, anche Airi Bylund aprì gli occhi.
“Caffè?” sillabò silenziosa. Lui annuì. Airi si alzò e si infilò la
vestaglia di spugna rossa. La Pugilessa, che stava dormendo sulle
gambe di Sven-Erik, saltò giù a sua volta e cercò di afferrare la
cintura della vestaglia che sventolava in modo così irresistibile
mentre Airi se la allacciava in vita.
“Ha confrontato campioni di acqua del fiume e di quella
estratta dai polmoni di Wilma Persson, e non è morta lì”
proseguì. “Ah.”
“E tu hai notato che non c’era benzina nel serbatoio della
macchina. Perché addentrarsi nel bosco senza il carburante
sufficiente per tornare a casa? E adesso questa storia, la conferma
che non è morta nel fiume. Come c’è finita, allora?”
“Dimmelo tu.”
Ci fu un attimo di silenzio. Alla fine Anna-Maria riprese:
“Ho intenzione di tornare a Piilijärvi e chiedere in giro se
qualcuno sa dove avevano intenzione di immergersi.”
Era la sua occasione. La possibilità di dire che sarebbe
andato con lei.
“Non l’hanno già fatto quando sono scomparsi?” si limitò a
chiedere.
“Sì, ma hanno interrogato solo gli amici e i parenti più
prossimi. Adesso la situazione è diversa, e ho intenzione di
chiedere a tutti.”
“Ah. Buona fortuna, allora.”
Il silenzio tra loro era denso di delusione e accuse reciproche.

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“Grazie” finì per dire Anna-Maria, chiudendo la telefonata.
Airi entrò in camera con caffè e panini posati su un vassoio.
“Be’?” chiese.
“Anna-Maria” spiegò Sven-Erik. “Sveglia la gente di sabato
mattina e crede che uno debba lasciar perdere i suoi programmi
solo per farle compagnia. Se lo può scordare.”
Airi non disse niente e gli porse il bricco del caffè.
“É così dannatamente sconsiderata” aggiunse lui.
“Sai quante volte te l’ho sentito dire nell’ultimo anno?”
chiese Airi sedendosi sul letto. “Ma secondo me sconsiderato è
chi si ferma a riflettere e poi fa comunque la cosa sbagliata. Là a
Regia ha semplicemente… insomma, è andata com’è andata.”
“Lei proprio non riflette!”
“Può essere. Ma è la sua natura. Impulsiva e pronta
all’azione. Sai che ti amo, tesoro, ma pensa che noia se due
persone fossero esattamente uguali. Sto solo cercando di dire che
non ha preso deliberatamente la decisione di far rischiare la vita a
te e a lei.”
Sven-Erik si alzò e si infilò i pantaloni, scacciando irritato la
Pugilessa che si era subito lanciata all’attacco.
“Bah” concluse poi. “Oggi farà davvero caldo. Devo tornare a
casa a controllare che non sia rimasta della neve sul tetto,
altrimenti diventa troppo bagnata e pesante.”
“Lo so” disse Airi alla Pugilessa sospirando, quando Sven-
Erik se ne fu andato. “Parlare non serve a niente.”

Il sole del mattino colorava di rosa le nuvole sopra i pini, ma


Anna-Maria non vedeva altro che fusti neri e mucchi di neve
sporca. I suoi occhi si muovevano meccanicamente verso il ciglio
della strada in cerca di eventuali renne, ma a parte questo

69
restavano fissi sull’asfalto spaccato.
Quando scese dalla macchina nel cortile di Anni Autio, il suo
umore migliorò di colpo.
“C’è odore di dolci appena fatti in tutto il paese” disse
quando l’anziana donna andò ad aprire.
Una volta in cucina, Anni riempì alcuni sacchetti di plastica
di dolcetti alla cannella per Anna-Maria.
“Altrimenti cosa me ne faccio?” obiettò quando Anna- Maria
provò a protestare. “Tutti i vecchietti del paese ne hanno già il
congelatore pieno. Ogni tanto ne accettano uno o due solo perché
sono appena fatti. Non sarà mica di quelli che si preoccupano
dell’indice glicemico, vero?”
“No.”
“Allora si serva, su!”
Anna-Maria spezzò il dolcetto alla cannella e lo tuffò nel
caffè bollente.
“Wilma e Simon le avevano detto dove avevano intenzione di
immergersi?” chiese poi.
“Non sapevo nemmeno che fossero andati a fare
un’immersione. Altrimenti l’avrei detto alla polizia quando ho
denunciato la scomparsa. Nessuno sapeva niente. La mamma di
Simon ha visto che l’attrezzatura da sub era sparita dal garage e
allora abbiamo immaginato che fossero andati a fare
un’immersione da qualche parte. Ma sa, non si trovava la
macchina. Nessuna traccia.”
“C’è qualcuno a cui possono averlo detto, secondo lei?
Qualche amico in paese, magari?”
“Qui non ci sono quasi più giovani. Solo noi vecchi. I ragazzi
si trasferiscono in città o nella Svezia del sud. Litigano per chi
deve occuparsi della casa dei genitori che hanno ereditato. Non si

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decidono a vendere, però non vengono mai in paese, nemmeno
d’estate. Le case cadono a pezzi. Parlo sempre dei miei nipoti,
Tore e Hjalmar Krekula, come dei “ragazzi”, ma santo Dio, hanno
più di cinquant’anni. Tore ha due figli, è vero, lavorano per lui
come autisti, ma anche loro abitano a Kiruna. No, Wilma e Simon
stavano più che altro qui a casa. O in città, avevano un
monolocale laggiù. Un secondo assaggio?”
“Un quarto, vorrà dire. No, grazie. Posso dare un’occhiata
alla sua stanza?”
“Ma certo. Non l’accompagno perché è al piano di sopra.”
Anni assunse un’espressione imbarazzata.
“Fa freddo, su. Mi deve scusare. Ho spento i termosifoni
adesso che… dato che… Come se pensassi solo ai soldi.”
Tacque e si spolverò della farina dal grembiule, appoggiata al
lavandino.
“É tutto a posto” disse Anna-Maria. “Riscaldare tutta la casa
costa, ho anch’io lo stesso problema.”
“No che non è a posto, invece. Il riscaldamento avrebbe
dovuto restare acceso. La casa e io avremmo dovuto aspettarla.”
“Sa una cosa” disse Anna-Maria. “Si può essere pratici anche
se si è tristi. E immagino che lei lo fosse.”
“Non voglio mettermi di nuovo a piangere” disse Anni in
tono implorante, come se Anna-Maria potesse impedirglielo.
“Avrebbe dovuto sentire com’era questa casa, quando c’era lei.
Era sempre così piena di vita. Mi sveglio ancora pensando che
devo prepararle la colazione. Ma non mi crederà, visto che ho
spento il riscaldamento.”
“Sa una cosa, me ne frego del riscaldamento.”
Anni sorrise debolmente.
“Ero davvero felice. Ogni giorno, ogni mattina godevo al

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pensiero di averla qui. Perché non lo davo per scontato. Sapevo
che in qualsiasi momento avrebbe potuto tornare a Stoccolma.”

Non era la tipica stanza da adolescente, si disse Anna- Maria


entrando nella camera di Wilma al piano di sopra.
C’era una vecchia scrivania da ufficio davanti alla finestra.
Una sedia dipinta di azzurro. Il letto era stretto, forse un’ottantina
di centimetri, con un copriletto bianco lavorato all’uncinetto.
Non c’erano poster alle pareti, niente vecchi orsacchiotti o altri
peluche che ricordassero l’infanzia. Una foto di Wilma e Simon
era appesa accanto al letto. Sembrava che fosse lei a impugnare la
macchina fotografica. Wilma rideva tutta allegra, lui aveva un
sorriso imbarazzato. Anna-Maria sentì una fitta di tristezza a
guardarla.
Frugò nei cassetti della scrivania. Niente mappe. Niente diari.
Sentì Anni che saliva faticosamente le scale e si affrettò ad
aprire l’armadio e a controllare il mucchio di vestiti gettati sul
fondo. Quando Anni entrò nella stanza, la trovò in piedi sulla
sedia, intenta a guardare sopra l’armadio. Anni si sedette sul
letto.
“Cosa sta cercando?” chiese in tono incuriosito ma non
ostile.
Anna-Maria scosse la testa.
“Non lo so. Qualcosa che ci dica dove sono andati. Dove
avevano intenzione di immergersi.”
“L’hanno trovata a valle di Tervaskoski. Non è lì che si sono
immersi?”
“Non lo so.”
“Forse dovrebbe parlare con Johannes Svarvare” disse Anni.
“Abita nella casetta rossa con la veranda, appena dopo la curva

72
all’ingresso del paese. Prestava spesso le mappe a Simon e Wilma
quando andavano nel bosco. Io mi sdraio qui un momento. Le
spiace ripassare per darmi una mano a scendere, prima di tornare
in città?”
Ad Anna-Maria venne voglia di abbracciarla. Di consolarla.
Di essere consolata a sua volta.
“Grazie per il caffè” disse invece. “Passo più tardi.”

Anche Johannes Svarvare le offrì un caffè. Anna-Maria


accettò, anche se aveva già una leggera nausea per averne bevuto
troppo da Anni. Il vecchio tirò fuori le tazze buone da una
vetrinetta in soggiorno e le posò sul tavolo con un sonoro
tintinnio. Erano sottili, color avorio a roselline rosa, con i manici
troppo piccoli per infilarci le dita.
“Mi deve scusare” disse ad Anna-Maria accennando al
proprio aspetto. “Non immaginavo di ricevere una visita delle
forze dell’ordine di sabato mattina.”
Aveva i capelli ritti in testa e sembrava che avesse dormito
vestito. I pantaloni di lana marrone gli pendevano addosso, la
camicia aveva qualche macchia sul davanti ed era molto
stropicciata.
“Che bello avere ancora la stufa a legna in cucina” disse
Anna-Maria perché si sentisse meno in imbarazzo.
Alle finestre erano ancora appese delle tendine natalizie. Sul
pavimento erano stesi diversi strati di pezzotti per tenere lontano
il freddo. C’erano un sacco di briciole sopra.
Probabilmente non ci vede bene, si disse Anna-Maria. Non si
accorge che ci sarebbe bisogno di passare l’aspirapolvere.
Che paese, pensò poi. Ha ragione Anni, tra qualche anno non
ci vivrà più nessuno. E le case diventeranno abitazioni estive per i

73
parenti, se tutto va bene. D’inverno sarà un deserto.
“É una grossa perdita per la povera Anni” disse Johannes
Svarvare muovendo la mandibola di lato. “Che tragico incidente.”
Sembrava che la dentiera non calzasse alla perfezione. Sul
lavandino c’era un bicchiere d’acqua in cui doveva tenerla
abitualmente, Anna-Maria immaginò che se la infilasse solo
quando aveva visite o doveva mangiare.
“Voglio capire com’è andato l’incidente” disse senza tanti giri
di parole. “Ci sono alcune cose poco chiare. Le avevano detto
dove avevano intenzione di immergersi?”
“Non l’avete trovata poco a valle di Tervaskoski?”
“Sì, ma…”
“Ma cosa? Cosa intende con “cose poco chiare”?”
Anna-Maria esitò. Avrebbe preferito non parlarne. Ma a volte
per ricevere bisogna dare qualcosa in cambio.
“Alcuni elementi sembrano indicare che non sia affogata nel
fiume” disse.
Johannes Svarvare posò la tazza sul piattino un po’ troppo
bruscamente.
“Cosa intende?”
“Niente! Non intendo proprio niente. Ho solo motivo di
indagare un po’ più a fondo su questa morte. E poi voglio
ritrovare Simon Kyrò.”
“É stata qui” disse Johannes. “É stata qui…”
Mentre parlava, passava entrambe le mani sul tavolo con ampi
gesti circolari.
“Abbiamo parlato. Tanto per fare. Uno ha bisogno di parlare.
Siamo rimasti solo noi vecchi, qui in paese. E allora forse si parla
troppo.”
“Cosa intende dire?” chiese Anna-Maria.

74
“Cosa intendo dire? Cosa intendo dire?” ripeté Johannes
immerso in se stesso. “Sa che una settimana prima della loro
scomparsa Isak Krekula ha avuto un infarto?” proseguì. “Adesso
è tornato a casa, ma non l’ho visto nemmeno andare fino alla
cassetta della posta a prendere il giornale.”
“Mi spiace” disse Anna-Maria. “Ma non capisco cosa sta
cercando di dirmi.”
Johannes Svarvare infilò un’unghia sporca in un taglio sulla
tela cerata. Guardò l’orologio appeso alla parete. Era fermo sulle
sette. In realtà era mezzogiorno e cinque.
“Be’” disse poi in tono deciso. “Devo sdraiarmi un attimo.
Noi vecchi, sa…”
Si alzò, si tolse la dentiera e la mise nel bicchiere d’acqua sul
lavandino. Poi si stese sul divano della cucina con le braccia
incrociate sul petto e chiuse gli occhi.
“Ah” disse Anna-Maria sentendosi ridicola. “Non può
provare a spiegarmi?”
Dal divano non arrivò nessuna risposta. La conversazione era
chiusa. Il petto del vecchio si muoveva rapidamente in su e in giù.

“Fanculo!” esclamò Anna-Maria sedendosi in macchina.


Avrebbe dovuto lasciarlo parlare. Stava per dire qualcosa.
Sven-Erik sarebbe rimasto zitto ad ascoltare. Avrebbe aspettato
che arrivasse da solo al punto. Maledetto
Sven-Erik. E cos’era quella storia dell’infarto di Isak Krekula
prima della scomparsa dei due ragazzi? Cosa significava?
“Bisognerà fare due chiacchiere con questo Isak Krekula,
allora” disse ad alta voce girando la chiave dell’accensione.

Le case della famiglia Krekula erano in fondo al paese. Anna-

75
Maria scese dalla macchina. Dunque era lì che vivevano i fratelli
Tore e Hjalmar e i loro genitori. Cercò di indovinare quale delle
tre costruzioni appartenesse a chi. Erano tutte rivestite di pannelli
di legno dipinti di rosso. Una delle case era più vecchia delle
altre e aveva una stalla con il tetto di lamiere rattoppate. Tendine
all’uncinetto alle finestre. Doveva essere quella dei genitori.
Esitò. Un profondo senso di disagio si impossessò di lei. In
un canile in giardino, un cane da caccia si lanciò contro la
recinzione abbaiando come un ossesso. Scopriva i denti, mordeva
la recinzione, serrava ritmicamente le mascelle sul vuoto. E senza
mai smettere di abbaiare, instancabile e aggressivo.
Sui confini della proprietà i pini crescevano fitti, facendo
ombra sulla casa. Nessuno sembrava essersi mai preoccupato di
potarli. Erano alti e come chini in avanti. Neri e sgradevoli nella
loro gracilità. I rami pendevano flosci e sottili verso il terreno.
Davano l’immagine di un padre sulla porta della camera con la
cintura pronta in mano. Di una madre con le braccia inerti lungo i
fianchi.
Non entrare, diceva qualcosa dentro di lei.
Le si rizzarono i capelli sulla nuca. In seguito si sarebbe
ricordata di quella sensazione, ma in quel momento non ci badò.
Il cane raschiava il cancello con le unghie. L’aria era
impregnata di una sensazione di disagio. Le tendine di una
finestra si mossero appena. Qualcuno era in casa.
Sulla porta c’era un cartello con scritto: “Vietato l’accesso ai
mendicanti e agli ambulanti”. Quando suonò il campanello, si
aprì una fessura. Un viso di vecchia le chiese cosa voleva. Anna-
Maria si presentò.
La sorella di Anni, si disse. Come aveva detto che si
chiamava? Kerttu. Cercò di vedere se si somigliavano. Forse, ma

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Anna-Maria si rese conto che in Anni aveva notato soprattutto i
segni dell’età. La postura, tutte quelle rughe, le mani ossute.
Cercò di immaginare l’aspetto delle due sorelle alla sua età. Anni
aveva i capelli sottili e il viso lungo, proprio come lei. Kerttu
Krekula aveva ancora i capelli folti e gli zigomi alti. Era
sicuramente la più graziosa tra le due. E anche la più giovane.
Ma Anni doveva essere allegra. Quando non era triste per
Wilma, naturalmente.
Invece le labbra di Kerttu avevano una piega amara, come se
due diavoli seduti sulle spalle le tirassero gli angoli della bocca
verso il basso con una gaffa.
“In genere non faccio entrare gli estranei” disse la donna.
“Non si sa mai.”
“É la sorella di Anni, vero?”
“Sì.”
“Kerttu?”
“Sì.”
“Sono appena stata a casa di Anni. Aveva fatto i dolcetti alla
cannella.”
“Io non li faccio mai. Che senso ha? Si possono comprare.
Ho anche male alle mani.”
Adesso almeno parla, si disse Anna-Maria.
“Ha un bagno?” chiese poi.
“Sì.”
“Posso usarlo un attimo? Devo fare pipì, e c’è parecchia
strada per arrivare in città.”
“Venga, allora, prima che entri anche tutto il freddo
dell’inverno” disse Kerttu Krekula aprendo la porta dello stretto
necessario per far passare Anna-Maria.

77
“No, Wilma non mi piaceva granché. Metteva strane idee in
testa a mia sorella, se vuole la mia opinione.”
Erano sedute al tavolo della cucina a parlare. Anna- Maria
aveva appeso il giaccone allo schienale della sedia dipinta di
verde.
“In che senso, strane idee?”
“Bah, qualsiasi cosa. D’estate facevano il bagno nude nel
lago. Non dopo la sauna o cose del genere. Così, in pieno giorno,
senza motivo. Anni con i seni che le arrivavano alla vita.
Disgustoso. C’era da vergognarsi. Ma Wilma sembrava non avere
problemi a mettere in mostra davanti agli uomini del paese sia la
passera sia il culo tatuato.”
Fuori in giardino il cane riprese ad abbaiare. Una voce
maschile gridò: “Zitto!”, senza che i latrati diminuissero
d’intensità. Ci fu un rumore di piedi che si scuotevano di dosso
la neve sulla scala e poi due uomini apparvero sulla porta della
cucina.
Tore e Hjalmar, si disse Anna-Maria.
Ne aveva sentito parlare. Una volta, appena tornata a Kiruna
dopo l’accademia di polizia, c’era stata una denuncia per
aggressione, subito ritirata. Anna-Maria ricordava ancora la paura
negli occhi dell’aggredito mentre pregava il procuratore di
archiviare la denuncia. Quella volta era stato Hjalmar a evitare il
processo. Aveva già alle spalle alcune condanne per aggressione.
Due o tre. E c’erano parecchi riscontri a suo nome nel registro
degli indagati. Aveva sentito dire che era grande e grosso. Ed era
vero: superava il fratello di tutta la testa, robusto e decisamente
sovrappeso. La pelle del viso era pallida e ispida.
Non devono vedere molta frutta e verdura qui dentro, si disse
Anna-Maria.

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Entrambi gli uomini avevano passato i cinquanta.
Indossavano pantaloni da lavoro blu. Tore aveva i capelli corti.
Sembrava non riuscisse a stare fermo. Aveva un che di irrequieto.
“Hai visite?” chiese Tore alla madre, senza presentarsi.
“É della polizia” si limitò a dire Kerttu Krekula. “Mi stava
chiedendo di Wilma e Simon.”
“La polizia” ripeté Tore guardando Anna-Maria come se fosse
un prodigio della natura. “Che cazzo. Non vi fate vedere tanto
spesso da queste parti. Non è vero, Hjalmar?”
Hjalmar Krekula rimase appoggiato allo stipite e non rispose.
Non dava il minimo segno di aver sentito le parole del fratello.
Gli occhi inespressivi, la bocca semiaperta. Ad Anna-Maria corse
un brivido lungo la schiena.
“Quando Stig Rautio ha subito un furto nella casa estiva è
stata dura anche solo farvi andare a dare un’occhiata” proseguì
Tore. “Ve l’abbiamo detto, controllate qualche macchina con la
targa polacca e troverete le sue cose in un batter d’occhio. Quei
furbacchioni hanno capito che da queste parti non vale la pena
fare la stagione della raccolta delle bacche. Possono entrare
tranquillamente nelle case della gente e farsi un po’ di soldi
perché la polizia… bah, che ne so, sembra avere altro da fare che
dare la caccia ai ladri. Moto, barche… possono rubarti qualsiasi
cosa, tutti sanno che non serve a niente rivolgersi a voi. E i nostri
autisti subiscono continuamente furti e tentativi di furto. I ladri
tagliano il telone e prendono quello che gli serve. In tanti anni
che lavoro alla ditta, non ho visto un solo caso risolto.”
Si chinò sul tavolo, avvicinando il viso a quello di Anna-
Maria.
“Ve ne fottete altamente di noi” disse. “Se un teppista sfonda
una macchina o una vetrina, la cosa peggiore che gli può capitare

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è di finire da qualche assistente sociale che gli spiega che è tutta
colpa della sua infanzia infelice. Dannate pappemolle capaci solo
di chiacchiere. Siete tutti quanti così, se vuole il mio parere.
Perciò cosa è venuta a fare qui, questa volta?”
“Se si allontana leggermente glielo spiego volentieri” disse
Anna-Maria con il tono professionale che utilizzava con le
persone violente o ubriache.
“Pensa che dovrei allontanarmi?” chiese Tore Krekula senza
spostarsi di un millimetro.
Batté l’indice sul tavolo proprio davanti ad Anna-Maria.
“Sono io che pago il suo stipendio, poliziotta. Farebbe
meglio a ricordarselo. Io, mio fratello, mio padre. Noi che
abbiamo un vero lavoro e facciamo qualcosa di concreto e
paghiamo le tasse. Lei è una mia dipendente, si può dire. E penso
che stia facendo un pessimo lavoro. Ho il diritto di pensarlo?”
“Certo” rispose Anna-Maria. “Ora devo andare.”
Tore aveva ancora il viso a pochi centimetri dal suo.
Finalmente si allontanò e agitò una mano davanti a lei.
“L’aria è libera, non lo sa?”
“Non doveva andare in bagno?” chiese Kerttu Krekula. “É
entrata per usare il bagno. Nell’ingresso a destra.”
Anna-Maria annuì. Hjalmar Krekula si spostò senza fretta per
farla uscire dalla cucina.
Una volta in bagno, Anna-Maria tirò un sospiro. Cazzo, che
tipacci.
Si chiuse dentro e cercò di riprendersi. Poi tirò lo sciacquone
e aprì il rubinetto.
Quando uscì, Hjalmar era sparito. Tore era seduto in cucina.
Anna-Maria prese il giaccone dalla sedia e se lo infilò.
“Non può uscire adesso” disse Tore. “Hjalmar ha liberato

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Reijo. La divorerebbe in un boccone.”
“Non potrebbe chiedergli di tenerlo per un attimo?” suggerì
Anna-Maria. “Dovrei proprio andare.”
“Gli sta solo facendo fare una corsetta attorno alla casa. Ha
fretta? Molto da fare?”
Non mostrare di avere paura, si disse Anna-Maria.
“Sa dove avevano intenzione di immergersi Wilma e Simon?”
chiese con voce ferma.
Dalla camera a fianco si sentì un gemito. Era il suono di
qualcuno che dormiva un sonno agitato. Un vecchio.
“Come sta?” chiese Tore alla madre.
Anna-Maria si domandò se si trattasse di Isak Krekula.
Immaginò di sì. Avrebbe dovuto chiedere conferma di quello che
le aveva raccontato Johannes Svarvare, che Isak aveva avuto un
infarto una settimana prima che i due ragazzi sparissero, ma non
poteva. Non sarebbe riuscita nemmeno a ripetere la domanda
sull’immersione. Voleva solo andarsene, con il giaccone addosso
stava sudando. Quella cucina era davvero brutta. Era di un verde
dalle sfumature strane, sembrava quasi che la vernice fosse stata
diluita malamente con del bianco. Non c’erano quasi piani di
lavoro e quei pochi erano ingombri di orribili soprammobili.
Si aprì la porta ed entrò Hjalmar Krekula.
“Può andarsene, adesso?” chiese Tore in un tono strano.
Hjalmar non rispose né la guardò.
“Arrivederci, allora” disse Anna-Maria. “Forse ripasserò.”
Uscì in cortile. Il cane abbaiava senza sosta. Entrambi i
fratelli uscirono con lei e si fermarono sulla scala a guardarla.
“Che cazzo!” esclamò vedendo la macchina.
Tutte le gomme erano a terra.
“Le mie gomme” disse scioccamente.

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“Già, che cazzo” ripeté Tore Krekula. “Dev’essere stato
qualche teppista.”
Lo disse con un sorriso, in modo che non ci fossero dubbi sul
fatto che stava mentendo.
Devo farmi venire a prendere da qualcuno, si disse Anna-
Maria frugando nella tasca interna del giaccone per cercare il
telefono. Il suo primo pensiero fu per Sven-Erik, ma no, non era
possibile. Avrebbe chiamato Robert, poteva andarla a prendere
insieme a Gustav.
Il telefono non era nella solita tasca. Provò nelle altre. Niente.
L’aveva lasciato in macchina? Guardò dentro. No.
Si voltò verso i due fratelli sulla scala. Erano stati loro,
quando era andata in bagno.
“Mi è sparito il telefono” disse.
“Spero non stia insinuando che l’abbiamo preso noi” disse
Tore. “Altrimenti mi incazzo sul serio. Venire qui a lanciare
accuse a destra e a sinistra. Le serve un passaggio in città?”
“No. Ho bisogno di usare il telefono.”
Guardò il cane. Correva in tondo e abbaiava come un pazzo.
Il tipico cane che scappa non appena ne ha l’occasione. Non era
vero che Hjalmar l’aveva fatto uscire, altrimenti a quell’ora
sarebbe stato a chilometri di distanza. Inoltre la neve attorno al
canile era intatta.
“Il telefono di nostra madre è rotto” disse Tore. “Io e Hjalle
dobbiamo andare in città. Salti sulla Volvo rossa, le diamo un
passaggio.”
Questi due sono fuori di testa, si disse Anna-Maria.
Le passarono davanti una serie di immagini. Hjalmar che
spalanca la portiera posteriore e la trascina fuori. Tore che
imbocca una stradina laterale. Hjalmar che la afferra per i capelli

82
e le sbatte la testa contro un albero e la tiene per le braccia
mentre Tore la violenta.
Non ho nessuna intenzione di salire in macchina con questi
due, si disse. Piuttosto torno in città a piedi.
“Non c’è problema” disse. “Torno più tardi a prendere la
macchina con un paio di colleghi.”
Fece dietrofront e si incamminò a passo di marcia. Imboccò la
strada principale del paese tenendo lo sguardo fisso sulla casa di
Anni Autio. Arrivata a metà strada, fu superata da Tore e Hjalmar
in macchina. Si aspettava che si fermassero per chiederle ancora
una volta se voleva un passaggio, ma le passarono accanto senza
nemmeno rallentare. Si sforzò di camminare senza fretta.
Telefonerò da casa di Anni, si disse.
Poi le venne in mente che aveva promesso di tornare per
aiutarla a scendere le scale.
“Santo cielo!” esclamò. “Me n’ero completamente
dimenticata.”

Anni stava dormendo nella camera di Wilma. Si era tirata


sopra una coperta. Quando Anna-Maria si sedette sul letto, aprì
gli occhi.
“Già qui?” chiese. “Vuole del caffè?”
“Se bevo un’altra goccia di caffè muoio” rispose Anna- Maria
con un sorriso sghembo. “Posso usare il suo telefono?”
Anni rimase sdraiata, ma il suo sguardo si fece subito sveglio
e all’erta.
“Niente” mentì Anna-Maria. “Non riesco a far partire la
macchina.”
Non riuscì a trovare Robert. Doveva essere fuori con i
bambini a giocare un po’ con la neve. Escluse di chiamare Sven-

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Erik. E anche gli altri colleghi.
É sabato, si disse, il loro giorno libero. Mi sono cacciata da
sola in questo pasticcio, e l’ultima cosa che mi serve è un’altra
storia su quanto sono avventata.
Alla fine compose il numero di Rebecka Martinsson. Rispose
al secondo squillo.
“Ti spiego poi” disse Anna-Maria lanciando un’occhiata
verso la cucina dove Anni stava tirando fuori pane e latte. “Puoi
venire a prendermi? Mi spiace davvero dovertelo chiedere.”
“Arrivo subito” rispose Rebecka senza fare domande.

Quaranta minuti dopo, Rebecka Martinsson entrò nel cortile


di Anni Autio.
Anna-Maria era fuori ad aspettare. Si sedette in macchina e
sbatté la portiera.
“Parti” si limitò a dire.
Una volta fuori dal paese, le raccontò tutto.
“Quegli stronzi” disse mettendosi a piangere. “Che tipi di
merda.”
Rebecka non disse niente e tenne gli occhi fissi sulla strada.
“E sapevano esattamente come muoversi” singhiozzò Anna-
Maria. “Non posso dimostrare un cazzo. Né che Hjalmar abbia
bucato le gomme, né che mi abbiano preso il telefono.”
La vergogna le bruciava dentro. Si era lasciata spaventare.
Tore doveva essersi sentito come un topo con la pancia piena in
cima a un immondezzaio, quando le aveva offerto un passaggio in
città e lei aveva detto di no.
“Se la stava godendo” disse a Rebecka.
Avrei dovuto protestare. Avrei dovuto fare un casino e
accusarli apertamente. Avrei dovuto farmi portare in città. Invece

84
mi sono comportata come una povera idiota spaventata.
“Gli renderò la vita un inferno!” esclamò picchiando un
pugno sul cruscotto. “Riaprirò ogni singola indagine archiviata,
ripescherò ogni singola accusa ritrattata contro quei due. Li
metterai sotto processo. Si pentiranno di avermi presa per il
culo.”
“Non farai niente del genere” replicò Rebecka con voce
calma. “Ti manterrai calma e professionale.”
“Uno va a casa loro senza sospettare niente” proseguì Anna-
Maria “e quelli gli saltano addosso. Pang. Bum.”
“Alcune persone…” iniziò Rebecka senza concludere la
frase. “Credi che abbia a che fare con Simon e Wilma?”
“Simon e Wilma. Devo trovare Simon. E scoprirò esattamente
come sono morti.”
“Sì, questo lo puoi fare” disse Rebecka. “É il tuo lavoro.”
“Mi rivolgerò a giornali e televisioni e chiederò l’aiuto
dell’opinione pubblica. Poi chiamerò i fratelli Krekula e gli dirò
di accendere la tele.”
Si batté una mano sulla fronte.
“Accidenti, dovevo passare a prendere Jenny al maneggio.
Che ore sono?”
“Le due e un quarto.”
“Sono ancora in tempo. Cioè, se puoi. Va bene se passiamo a
prenderla?”

Jenny non era al maneggio. Anna-Maria corse in caffetteria,


poi controllò le stalle, un box dopo l’altro. Chiese a tutte le
stalliere. Si limitarono ad alzare le spalle e a dire che non
sapevano niente, e lei si infuriò. Rebecka la seguiva. Alla fine
trovarono una delle amiche di Jenny dietro l’edificio principale.

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Stava spargendo una balla di fieno per i cavalli.
“Ciao Ebba” disse Anna-Maria in tono insolitamente allegro,
come per scacciare i cattivi presentimenti. “Dov’è Jenny?”
Ebba la guardò incredula.
“Le hai mandato un sms” disse. “Jenny era arrabbiatissima. Ti
ha risposto con un sms e ti ha anche telefonato, ma tu non hai
risposto.”
Anna-Maria si sentì gelare dal terrore.
“Non ho mandato nessun sms” disse con una voce che era
poco più di un bisbiglio. “Ho… il mio telefono…”
Il telefono di Rebecka si mise a squillare. Era Måns. Rifiutò
la chiamata.
“Cosa diceva l’sms?” chiese Anna-Maria.
“Non sai nemmeno cosa le hai scritto?” replicò Ebba.
Anna-Maria emise un gemito e si mise una mano davanti alla
bocca per impedirsi di gridare.
“Oddio” disse Ebba improvvisamente spaventata. “Hai scritto
che doveva venirti incontro. Subito. Era arrabbiata perché doveva
tornare a piedi fino in città.”
“Dove?” urlò Anna-Maria. “Dove doveva andare?”
“Al vecchio teatro all’aperto nello Järnvägsparken. Un po’
strano, ci siamo dette. Strano posto per incontrarsi. Ti ha
chiamata e ti ha mandato dei messaggi, ma tu non rispondevi.
Nemmeno Robert. Ha avuto paura che fosse successo qualcosa.”
Il teatro dello Järnvägsparken, si disse Rebecka. Non c’è
anima viva, da quelle parti.
“Non sei stata tu a mandarle l’sms?” chiese Ebba
preoccupata.
Ma Anna-Maria stava già correndo verso la macchina, con
Rebecka subito dietro.

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Il cuore batteva forte. Aveva davanti agli occhi Hjalmar e Tore
che dicevano a Jenny che era successo un incidente alla sua
mamma. Che doveva andare con loro.
Quante volte negli ultimi anni aveva guardato la sua unica
figlia, entrata da poco nell’adolescenza? Aveva guardato cento
volte i suoi seni appena sbocciati, la carnagione perfetta. Aveva
pregato Dio che la proteggesse, che non permettesse che le
succedesse niente di male. E adesso. Dio santo.
Rebecka guidava, Anna-Maria cercava di chiamare Jenny con
il suo telefono. Nessuna risposta. Nella testa un’invocazione: fa’
che non sia successo niente, fa’ che non sia successo niente.
Siamo quasi arrivate.
Rebecka imboccò in auto un sentiero pedonale che
attraversava il parco, arrivando fino al teatro. E lì trovarono
Jenny. Aveva l’aria infreddolita nella leggera giacca da
equitazione. Anna-Maria si lanciò fuori dalla macchina urlando il
nome della figlia. Jenny… Jenny…
“Sono qui” disse lei liberandosi dall’abbraccio della madre.
Era arrabbiata. E anche impaurita, glielo si leggeva negli
occhi.
Anche Anna-Maria si infuriò di colpo.
“Perché non rispondi al telefono?” urlò.
“Ho cercato di chiamarti tante volte, si è scaricata la batteria.
Ho aspettato non so quanto. Nessuno mi risponde al telefono! Né
tu né il papà. Cosa succede? Perché piangi?”

L’edizione serale del telegiornale del nord della Svezia


mostrò le foto di Wilma Persson e Simon Kyrò. Precisò che i
ragazzi erano scomparsi in ottobre, ma che ora era stato ritrovato
il corpo di Wilma Persson. Anna-Maria davanti alle telecamere

87
spiegò che la polizia si stava rivolgendo all’opinione pubblica in
cerca di segnalazioni. Qualsiasi cosa poteva rivelarsi importante,
disse. Qualcuno sapeva dove avevano intenzione di immergersi?
Qualcuno aveva parlato con loro poco prima della scomparsa?
“Non esitate a chiamare” disse. “Meglio una telefonata di
troppo che una di meno.”

Anna-Maria Mella era seduta sul divano del soggiorno a


guardare se stessa al telegiornale e Robert era accanto a lei,
ciascuno con il suo cartone di pizza sulle ginocchia. Jenny e
Petter avevano già mangiato. Cartoni vuoti e lattine di bibite
erano sparsi sul tavolo. Marcus era rimasto a dormire dalla sua
ragazza. Gustav si era addormentato da un pezzo nel suo lettino.
Tutto intorno, sullo schienale del divano e sul pavimento
davanti a lei e Robert, c’erano mucchi di bucato pulito da piegare
e mettere in ordine. Robert era stato fuori con Gustav tutto il
giorno. Avevano pranzato a casa di sua sorella.
Non gli era nemmeno passato per la testa di piegare la
biancheria, si disse scontenta. C’era un disordine penoso.
Avrebbe avuto bisogno di un’intera vacanza per mettersi in pari
con le pulizie. E una volta tanto le sarebbe piaciuta una cena
decente, invece di quella pizza unta e disgustosa. Posò
ostentatamente la fetta che aveva in mano e allontanò il cartone.
Con la coda dell’occhio, vide Robert ripiegare gli ultimi
pezzi della sua e infilarseli in bocca, mentre con l’altra mano le
accarezzava la schiena.
Quel movimento meccanico e distratto le dava fastidio. Come
con un gatto. In quel momento avrebbe avuto bisogno di essere
coccolata con affetto. Le sue dita sulla mano. Una goccia di
desiderio. Un bacio sul collo. Una carezza consolatoria sui

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capelli.
Gli aveva raccontato cos’era successo e lui l’aveva ascoltata
senza dire granché. “É andata bene” aveva detto. E se non fosse
andata affatto bene? Avrebbe potuto andare tutto a puttane!, aveva
voglia di gridare lei.
Perché devo sempre mettermi a piangere per essere
consolata?, si chiese. Perché devo sempre incazzarmi perché
faccia qualcosa in casa?
Aveva la sensazione che Robert si sentisse generoso per non
averla rimproverata. Era lei che faceva la poliziotta. Se avesse
avuto un altro lavoro, non sarebbe mai successo. Era furiosa per
l’accusa inespressa. Per l’impressione che lui pensasse di avere il
diritto di essere incazzato e di essere così buono e gentile da
averla perdonata. Non voleva essere perdonata.
Incurvò la schiena come a dire: lasciami in pace.
Robert spostò la mano. Mandò giù l’ultimo boccone di pizza
con l’ultimo goccio di Coca-Cola, si alzò, prese i cartoni e le
lattine e sparì in cucina.
Anna-Maria rimase seduta. Si sentiva abbandonata e non
amata. Una parte di lei voleva rincorrere Robert e chiedergli di
tenerla stretta. Ma non lo fece. Restò a guardare distrattamente la
tele sentendosi indurire dentro.

Vado a trovare Hjalmar Krekula. La sua è la classica casa da


scapolo, mamma Kerttu gli cambia ancora le tende ogni autunno e
ogni primavera. Da qualche anno ha smesso di montargli quelle
natalizie, perché lui non voleva. É stata lei a riempire i davanzali
di gerani di plastica. Lui non si è comprato un solo mobile. La
maggior parte li ha avuti da Tore: ogni volta che cambiava donna,
quella nuova cambiava il mobilio perché quello del matrimonio

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precedente era troppo scuro, troppo chiaro, troppo logoro, troppo
sbagliato. Tore lasciava correre, come si fa all’inizio di una
relazione, e i mobili vecchi finivano a casa di Hjalmar.
Il televisore invece se l’è comprato da solo, un modello
costoso. L’ha appena spento dopo aver guardato il telegiornale.
Hanno mostrato le foto mie e di Simon. Quando mi siedo sul
divano accanto a lui percepisce la mia presenza, me ne accorgo
perché lancia una rapida occhiata di lato. Poi si allontana
leggermente, perde il contatto, chiude tutte le sue porte e le sue
finestre interiori.
Riaccende in fretta la tele e pensa a quella piccola donna
poliziotto.
A come Tore si era chinato a frugarle nelle tasche mentre lei
era in bagno.
Kerttu non aveva detto una parola. Isak era a letto nella
cameretta, ansimante.
Tore si era infilato in tasca il cellulare e gli aveva ordinato di
sistemarle la macchina.
“Adesso la pianterà di rimestare in questa storia” aveva detto
quando l’avevano superata mentre andava verso la casa di Anni.
E l’sms che avevano mandato alla figlia. Era stato facile
scoprire come si chiamava e mandarle un messaggio.
Hanno trovato il mio corpo. Adesso inizia a succedere
qualcosa. Tore è elettrizzato, anche se cerca di nasconderlo.
Davanti a Hjalmar finge che fosse semplicemente una cosa che
andava fatta, come qualsiasi altra loro attività.
Riesco a vedere cosa ne pensa Hjalmar: che Tore ha sempre
goduto di quel genere di cose. Non tanto la violenza, quanto la
minaccia. La paura e l’impotenza degli altri gli danno la carica.
Diventa dinamico, pieno di voglia di fare. Può mettersi a lucidare

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gli interni delle cabine dei camion o a cambiare i rotoli di carta ai
tachigrafi. Hjalmar invece è diverso. O almeno lo era. Di minacce
non se ne intende, è sempre stato suo fratello a occuparsene. La
violenza invece sì che gli piace. A patto che l’altro sia alla sua
altezza, o meglio ancora superiore.
La sensazione che dà buttarsi in una rissa, magari contro tre
avversari. All’inizio la paura, prima che venga sferrato il primo
colpo. Poi una colonna di rabbia vermiglia. La libertà da tutti i
pensieri, da tutte le sensazioni tranne la volontà di sopravvivere,
la voglia di vincere. Anch’io ero un’attaccabrighe, prima di
trasferirmi a Piilijärvi e incontrare Simon. So quanto può essere
bello fare a botte.
Ma Hjalmar picchiava così solo da giovane. Per tutta la sua
vita adulta è stato diverso.
Ora sospira pesantemente, come fa quando è solo. Si alza.
No, ormai esercita la violenza con indolenza meccanica.
Strapazza qualche disgraziato che deve pagare, o chiudere una
ditta concorrente, o concedere un’autorizzazione per aprire
un’officina, o chissà cos’altro.
Spesso non ce n’è nemmeno bisogno. Ormai la fama dei due
fratelli arriva ben oltre i confini del comune. La gente in genere fa
quello che le viene detto di fare. Ma l’ispettrice Anna-Maria
Mella non si era lasciata intimidire.
Adesso esce sulla scala. É sabato sera, fuori è ancora chiaro.
Guarda verso la casa di Tore, lui e la moglie stanno sicuramente
guardando la televisione. Si domanda se suo fratello abbia visto il
telegiornale. E Kerttu avrà sicuramente aiutato Isak a mettersi
seduto sul letto, avrà avvicinato il tavolino a rotelle e l’avrà
imboccato, un po’ di zuppa di rosa canina e biscotti ammollati.
Ha voglia di andare nel bosco. Lo guardo inspirare l’odore

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dei pini come un cane alla catena. Ha un capanno nella zona di
Saarisuanto, sul fiume Kalix. Lo so. É sicuramente a quello che
sta pensando.
Lì la solitudine è sopportabile. Vuole fuggire da tutti quanti.
Mi domando se è sempre stato così, o se è successo con
l’incidente.
C’è un incidente nel passato del paese. Una storia che si
racconta alle spalle dei due fratelli.

È il 17 giugno 1956, di mattina presto. Hjalmar deve portare


le vacche al pascolo, è uno dei suoi compiti durante le vacanze
estive. I prati del paese sono recintati e di giorno le vacche vanno
portate nel bosco. Di sera tornano quasi sempre da sole, con le
mammelle gonfie, impazienti di essere munte. Ma a volte capita
anche di doverle andare a prendere, soprattutto verso la fine
dell’estate, quando mangiano i funghi che trovano nel bosco. In
quei casi capita di doverle cercare per ore.
In cucina la mamma sta preparando due zaini con la
colazione.
“Deve per forza venire anche Tore?” chiede Hjalmar
chiudendo gli unici tre bottoni rimasti sulla camicia di flanella.
“Non può restare a casa con te?”
Ha otto anni, a luglio ne farà nove. Tore ne ha sei. Hjalmar
preferisce andare nel bosco da solo. Tore è una peste.
“Non discutere” dice la mamma in un tono che non ammette
obiezioni.
Spalma il burro su due fette di pane. Hjalmar nota che lo
strato di burro è più spesso su una delle due. Avvolge il pane in
carta di giornale e infila la fetta con più burro nello zaino di Tore.
Hjalmar non dice niente. Tore è seduto sullo sgabello della

92
cucina e continua a infilare e sfilare il suo coltello nuovo nel
fodero.
“Non giocare con il coltello” dice Hjalmar, così come è stato
detto a lui molte volte.
Tore sembra non sentirlo. La mamma non apre bocca. Versa
un po’ di latte acido in una fiaschetta di legno e infila un pezzetto
di pesce salato in un sacchetto di farina vuoto. Poi li mette nello
zaino di Hjalmar, toccherà a lui portarli.

I Krekula hanno tre vacche per le necessità della famiglia.


Papà Isak gestisce la ditta di autotrasporti mentre mamma Kerttu
si occupa della casa e del bestiame.
I ragazzi hanno lo zaino in spalla, un berretto e i pantaloni
alle ginocchia. Gli stivali di Hjalmar sono troppo grandi, gli
pendono flosci sulle gambe, quelli di Tore sono un po’ troppo
piccoli.
Attraversata la provinciale, Tore taglia una frasca di betulla e
si mette a frustare le vacche.
“Non c’è bisogno di picchiarle” dice Hjalmar irritato. “Stella
è intelligente. Basta camminarle davanti e lei ti segue.”
La capomandria Stella segue Hjalmar. Ha una campana su un
collare di cuoio, le orecchie nere e una stella nera in fronte. Rosa
e Mustikka le trotterellano dietro, scacciando le mosche con la
coda. Ogni tanto fanno qualche passo di corsa per sfuggire a Tore
e alla sua dannata frasca di betulla.
Hjalmar continua a camminare. Ha intenzione di portare le
vacche fino al limitare di una palude a un chilometro di distanza.
Lì c’è l’erba buona. Il sole scalda, il bosco profuma di ledum
palustre. Stella lo segue con gioia, sa che la porta sempre a un
buon pascolo.

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Tore rallenta l’andatura. Si ferma a infilare un bastone in un
formicaio, dentro e fuori, dentro e fuori. Oppure si mette a fare
incisioni sugli alberi con il coltello nuovo. Hjalmar guarda da
un’altra parte. Il suo coltello è molto meno bello. Un dipendente
del padre l’ha usato per grattare via la ruggine da uno dei camion.
Ha uno striscio sulla lama che non si riesce a eliminare. Quello di
Tore invece è nuovo.
Tore parla da solo. Hjalmar vorrebbe che stesse zitto. Nel
bosco bisogna stare zitti.
Quando arrivano al limitare della palude tirano fuori la
colazione. Le vacche si mettono subito a pascolare,
allontanandosi sempre di più dai ragazzi. L’acquitrino, è bianco
di fiori di more artiche.
Una volta finito di mangiare, è ora di tornare a casa.
Stanno camminando da una decina di minuti, quando vedono
una renna: è immobile e li fissa con i suoi grandi occhi neri. I
lapponi hanno già portato le mandrie sulle montagne, questa
dev’essere rimasta indietro.
I ragazzi cercano di avvicinarsi, ma la renna allunga il collo e
trotterella via di buon passo. Per un po’ sentono lo scalpiccio dei
suoi zoccoli.
Cercano di seguirla, ma dopo dieci minuti ci rinunciano. La
renna ormai dev’essere lontana.
Riprendono la strada di casa, ma a un certo punto Hjalmar si
rende conto di non orientarsi più. Prosegue ancora un po’ nella
stessa direzione, sperando di rivedere presto rocce e radure
familiari. Ma dopo un altro tratto di strada arrivano a un
acquitrino che non ha mai visto. Lunghe barbe di licheni pendono
da pini sottili come bastoni. Dove sono finiti?
“Abbiamo sbagliato strada” dice a Tore. “Dobbiamo tornare

94
indietro.”
Tornano indietro, ma dopo quasi un’ora si ritrovano di nuovo
davanti allo stesso acquitrino.
“Lo attraversiamo” dice Tore.
“Non fare l’idiota” sibila Hjalmar.
Inizia a essere spaventato. Da che parte devono andare?
A quel punto sentono un debole muggito in lontananza.
“Zitto” dice Hjalmar a Tore che continua a blaterare qualcosa.
“É Stella, viene da quella parte.”
Se trovano le vacche, trovano anche la strada di casa. Stella
rientra sempre da sola, quando è l’ora della mungitura.
Ma dopo pochi passi non la sentono più. Non hanno più
niente da seguire e non sono più sicuri della direzione.
Si sdraiano un attimo a riposare in una radura. Il muschio è
asciutto e il sole caldo. Ai due bambini viene sonno. Hjalmar non
è più vicino alle lacrime, si sente solo stanco. Si assopisce. Tore
parlotta nel sonno, con le gambe che sussultano.
All’improvviso Hjalmar si sveglia, Tore lo sta scuotendo per
un braccio.
“Voglio tornare a casa” piagnucola il fratello minore. “Ho
fame.”
Anche Hjalmar ha fame, ha un buco nello stomaco. Il sole si è
abbassato e il bosco è pieno di suoni sconosciuti. Lo sbalzo di
temperatura fa scricchiolare gli alberi, sembrano quasi dei passi.
Una volpe emette un grido inquietante. Iniziano ad avere freddo.
Riprendono ad avanzare a casaccio. Dopo un po’ arrivano a
un ruscello. Si inginocchiano e riempiono le tazze di legno,
bevono fino a dissetarsi.
Hjalmar riflette.
E se quello fosse lo stesso ruscello che scorre accanto alla

95
fattoria di Iso-Juntti, all’estremità del paese?
Una volta Hjalmar ci ha buttato dentro dei bastoni, che sono
andati alla deriva verso il fiume Kalix. Dunque se lo risalgono
dovrebbero arrivare al paese.
Sempre che sia lo stesso ruscello. Ma tanto vale provare a
seguirlo.
“Andiamo da quella parte” dice Hjalmar.
Ma a Tore non piace che qualcuno decida per lui. Nessuno
deve dirgli da che parte deve andare. Al massimo il papà.
“No” ribatte. “Andiamo da quella parte.” E indica la
direzione opposta.
Si mettono a litigare. L’opposizione di Tore rende Hjalmar
certissimo che risalire il ruscello sia la cosa migliore da fare.
Tore continua a rifiutarsi. Hjalmar lo chiama stupido
poppante, gli dice che non capisce niente, che deve limitarsi a
obbedire.
“Non decidi per me!” urla Tore.
Si mette a piangere e vuole che la mamma li vada a prendere.
Allora Hjalmar gli dà una sberla. Tore risponde con un pugno allo
stomaco, in un attimo finiscono a terra. La zuffa è presto finita,
Tore non ha una sola possibilità. La differenza d’età ha il suo
peso, e Hjalmar è grande e grosso.
“Adesso me ne vado!” grida a Tore.
È seduto sopra di lui. Gli lascia le braccia, poi gliele afferra
di nuovo quando Tore cerca di colpirlo al viso. Alla fine Tore si
arrende: ha perso la battaglia. Ma non la guerra: quando si rialza,
si incammina risolutamente nella sua direzione.
Hjalmar lo chiama. “Non fare l’idiota. Vieni con me!”
Tore fa finta di non sentire. Un attimo dopo Hjalmar non lo
vede più.

96
Alle undici e un quarto di sera Hjalmar arriva sulla
provinciale per Vittangi. La segue e dopo poco più di un’ora un
camion si ferma. É uno di quelli di suo padre, ma non c’è lui alla
guida, c’è Johannes Svarvare. Un altro tizio del paese, Hugo Fors,
è seduto accanto a lui. Si sono fermati a una cinquantina di metri,
hanno aperto la portiera e lo hanno chiamato. Hanno il berretto
sulle ventitré sopra il viso abbronzato e le maniche arrotolate.
Quando li vede, a Hjalmar si apre il cuore per la gioia e il
sollievo. Presto sarà a casa.
Lo fanno salire ridendo, lui si siede in mezzo a loro. Gli
dicono: Dio santo, ragazzo, quanto erano preoccupati il papà e la
mamma. Gli raccontano che dopo la mungitura praticamente tutto
il paese è uscito a cercarli. Hjalmar vorrebbe rispondere, ma la
voce gli si blocca in gola.
“Dov’è tuo fratello?” chiedono.
Non riesce a dire una parola. I due uomini si scambiano uno
sguardo.
“Cos’è successo?” chiede Johannes. “Rispondi, ragazzo,
dov’è tuo fratello?”
Hjalmar si volta verso il bosco.
I due non sanno come interpretare quel gesto. Non sarà finito
in un acquitrino?
“Adesso ti portiamo a casa” dice Hugo Fors posandogli una
mano sulla testa. “Ne parliamo più tardi.”
La sua voce è calma come un lago di sera, ma sotto la
superficie si nasconde una preoccupazione dura e lucida come
l’acciaio.
Si radunano tutti alla fattoria dei Krekula. È come una
riunione laestadiana, una decina di adulti stretti in cerchio

97
attorno a Hjalmar. Le donne piagnucolano e si lamentano, ma non
troppo forte, perché non vogliono perdersi una sola parola. Kerttu
non piagnucola, bianca e rigida come un ghiacciolo. Isak, rosso e
sudato, è rientrato di corsa dal bosco.
“Adesso dicci cos’è successo a Tore” ordina.
Hjalmar tira fuori a fatica le parole.
“É rimasto nel bosco” dice.
Gli adulti attorno a lui sono come pini scuri nella notte
estiva. É solo nella radura.
“L’hai lasciato nel bosco?”
“Non ha voluto venire. Gli ho detto di venire con me. Ci
eravamo persi. Ma lui non ha voluto.”
Poi si mette a piangere. Qualcuna delle donne esclama:
“Signore Gesù!”, e si porta una mano alla bocca.
Kerttu fissa Hjalmar.
“Questa è la punizione” dice a Isak, senza togliere gli occhi
da suo figlio. “Non tornerà più a casa.”
Poi si volta con la lentezza con cui si muoverebbe un
ghiacciolo che avesse preso vita, e torna in casa.
“Portatelo via!” urla Isak ai presenti. “Qualcuno se lo porti a
casa, prima che faccia qualcosa di cui pentirmi! L’hai lasciato nel
bosco, hai lasciato tuo fratello minore nel bosco!”
Elmina Salmi porta Hjalmar a casa con sé. Il bambino si gira
più di una volta a guardare verso casa sua. Il padre avrebbe potuto
picchiarlo con la cintura. Sarebbe stato meglio.
“Quando posso tornare a casa?” chiede.
“Lo sa Dio” risponde Elmina, religiosa com’è. “Preghiamo
che ritrovino il povero Tore.”

Mi chiamo Wilma Persson. Sono morta. Non so ancora bene

98
cosa comporti.
Hjalmar Krekula è in ginocchio nel cortile di casa sua e si
preme la neve sul viso. Non vuole pensarci più. Non vuole più
pensare a niente.
Adesso basta, adesso basta, si dice.

Guardo Anni. È a letto, sdraiata su un fianco, e dorme. I


vestiti sono ordinatamente piegati su una sedia in camera da letto.
Dorme con una mano sotto la guancia, una ciotola in cui la testa
può riposare. L’altra mano è aperta sul petto. Mi fa pensare a una
volpe raggomitolata su se stessa per la notte, che si scalda con la
coda.

L’ispettrice di polizia Anna-Maria Mella è a letto, sveglia.


Suo marito le dà la schiena e russa. Si sente sola e non riesce a
scaldarsi come la volpe. Vorrebbe che lui la abbracciasse, così
non si sentirebbe più abbandonata e arrabbiata. Quel giorno la
vita è stata dura.
Mi siedo sul letto, dalla sua parte. Le poso una mano sul
cuore.
Se vuoi dormire tra le sue braccia, avvicinati, le dico.
Dopo un attimo si avvicina a Robert, si appoggia alla sua
schiena, lo abbraccia. Lui si sveglia quel tanto che gli serve per
voltarsi e abbracciarla.
“Come va?” le chiede con voce assonnata.
Lei risponde: “Non bene.” Il marito la accarezza, la tiene
stretta, le bacia la fronte. In un primo momento pensa che non è
giusto che sia costretta a chiedere l’elemosina di un contatto. Ma
poi non ce la fa più. Si rilassa e si addormenta.

99
Domenica 26 aprile

Domenica un uomo chiamò la stazione di polizia di Kiruna


dicendo di avere informazioni sui due ragazzi del telegiornale
della sera prima. Si presentò come Göran Sillfors.
“Non so se è importante” disse. “Ma voi stessi avete detto
“meglio una telefonata di troppo che una di meno”, perciò ho
pensato che…”
La telefonista inoltrò la chiamata.
“Ha fatto bene” rispose Anna-Maria Mella dopo che Göran
Sillfors ebbe ripetuto la stessa introduzione.
“Sì, erano proprio quei due. Quest’estate io e mia moglie li
abbiamo visti in canoa sul Vittangijärvi. Abbiamo un capanno da
quelle parti. Le ho detto: “Vedi che non è vero che tutti i giovani
passano il tempo davanti al computer.” Hanno risalito il fiume
fino al Tahkojärvi e poi al Vittangijärvi. É parecchia strada, sa. E
non ho idea di quanto l’Istituto idrometeorologico li pagasse, ma
non poteva essere molto.”
“L’Istituto idrometeorologico?”
“Stavano facendo delle misurazioni per l’istituto, me lo
hanno raccontato quando sono venuti a bere il caffè.
Ragazzi simpaticissimi. Non sapevo che fossero scomparsi,
eravamo all’estero quando è successo, nostra figlia e il suo
compagno hanno comprato un albergo in Thailandia, ci hanno
ospitati gratis per tre settimane. Anche se naturalmente ho dovuto
lavorare, quando c’è bisogno di qualcosa si va sempre dal papà.”

100
“Sono venuti a prendere il caffè, dunque. Cos’hanno detto?”
“Bah, non molto.”
Lo credo, commentò tra sé Anna-Maria. Scommetto che non
gliene hai lasciato il tempo.
Göran Sillfors ripeté: “Stavano facendo non so che
misurazioni per l’Istituto idrometeorologico. Cosa dici?”
“Come?”
“No, non lei, è mia moglie che… Dice che stavano
scandagliando il lago. Li ho riconosciuti subito al telegiornale.
Lei aveva un’aria vagamente pericolosa, con quegli affari nel
sopracciglio. Ah ah, le ho chiesto se era di quelli, come si
chiamano, quelli che si appendono alle corde con dei ganci
infilati nella pelle. Dio santo, ho visto un programma alla
televisione, hanno piercing in tutto il corpo e ci si appendono con
tutto il peso. Ma lei no, aveva solo quelli al sopracciglio e
all’orecchio, ha detto.”
“Può cercare di ricordare se hanno detto qualcosa sul lago?
Avevano intenzione di immergersi?”
“Non credo. Mi hanno chiesto se andavo a pesca.”
“E lei cos’ha risposto?”
“Che lo facevo spesso.”
“E poi?”
“Poi nient’altro.”
“Ci pensi bene. Se avete bevuto il caffè dovete aver avuto il
tempo di chiacchierare un bel po’.”
“Bah, abbiamo parlato di pesci. Ho raccontato che c’è un
posto dove abboccano sempre. Ho pensato che forse volevano
andare a pescare anche loro. Scherziamo spesso sul fatto che in
mezzo al lago ci dev’essere un meteorite o comunque una grossa
roccia, qualcosa che offre un nascondiglio ai pesci, perché è lì

101
che abboccano di più. Ma loro non pescavano. Aspetti, non la
sento più, mia moglie sta di nuovo dicendo qualcosa.”
Vorrai dire che non senti quel che stai dicendo tu, pensò
Anna-Maria. Io non ho praticamente aperto bocca.
“Cosa?” chiese Göran Sillfors all’altro capo del filo. “Ma
perché dovrebbe interessarle? Parlaci direttamente tu, allora.”
“Di cosa?” chiese Anna-Maria.
“Ah, sta parlando della porta della nostra legnaia. Qualcuno
l’ha rubata quest’inverno.”
Il cuore di Anna-Maria fece un balzo. Le tornò in mente la
vernice verde che Pohjanen aveva trovato sotto le unghie di
Wilma Persson.
“Di che colore era?”
“Nera” rispose Göran Sillfors.
Anna-Maria si accasciò. Troppo bello per essere vero. Poi
sentì la moglie dire qualcosa in sottofondo.
“É vero” aggiunse l’uomo al telefono. “Era nera solo
all’esterno, perché due anni fa l’avevo ridipinta da una parte sola.
Sa, il vento e la pioggia, e mi era rimasta un po’ di vernice nera da
quando avevo aiutato il vicino a dipingere gli steccati. Ormai quel
lavoro era finito, e mi sono detto che potevo dare almeno una
mano all’esterno.”
“E quindi?” disse Anna-Maria che non riusciva più a
nascondere l’impazienza.
“L’interno era verde. Perché me lo chiede?”
Anna-Maria fece un respiro profondo. Ci siamo. Ci siamo,
cazzo.
“Non andate da nessuna parte!” gridò al telefono. “Dove
abitate? Sto arrivando!”

102
Anna-Maria Mella salì con Göran Sillfors e la moglie fino al
loro capanno sul Vittangijärvi. Era una casetta di legno, marrone
con le finestre bianche. La scala era insolitamente larga, con una
tettoia sostenuta da colonnine di legno intagliato.
Göran Sillfors guidava la motoslitta, Anna-Maria e sua
moglie Berit erano nel rimorchio.
“Entriamo?” chiese Berit Sillfors una volta arrivati.
Anna-Maria scosse la testa.
“Dov’è la porta della legnaia?” chiese.
“Non c’è nessuna porta” disse Göran Sillfors. “È quello il
problema.”
Sul tetto la neve si era sciolta e poi ghiacciata. Un’enorme
lastra sporgeva dal bordo.
Anna-Maria si tolse il berretto e si aprì la tuta da sci. Era
decisamente troppo vestita.
“Ha capito cosa intendo” rispose con un sorriso allegro. “Mi
mostri il punto in cui c’era la porta. É sul retro?”
L’apertura era sbarrata alla bell’e meglio con alcune assi.
“Me ne procurerò una nuova in primavera” disse Göran
Sillfors. “Visto che d’inverno non ci siamo mai, l’ho sistemata un
po’ alla cittadina.”
Anna-Maria osservò il telaio. Nemmeno una traccia di vernice
verde. Neanche di quella nera, in realtà.
“Vorrei che togliesse le assi” disse. “Per entrare a dare
un’occhiata.”
“Posso chiederle cosa cerca?”
“Spero di trovare qualche resto di vernice verde sull’interno
del telaio. In modo da poterla analizzare.”
“No, non ce n’è. Quando ho dipinto la porta di verde, be’,
sarà stato almeno quindici anni fa, l’ho smontata e appoggiata su

103
due cavalletti, perciò qui non ne troverà nemmeno una goccia.”
La soddisfazione di Göran Sillfors per un lavoro ben fatto si
tramutò in cruccio di fronte all’evidente delusione di Anna-
Maria.
“Però una delle porte interne è dello stesso colore” aggiunse.
“Stesso barattolo. Credo addirittura di averla dipinta lo stesso
giorno. Può servire?”
Anna-Maria si illuminò in viso e abbracciò uno stupefatto
Göran Sillfors.
“Se può servire?” esclamò tutta allegra. “Ci può
scommettere!”
“Allora entriamo?” chiese Berit Sillfors. “Così controllo le
trappole per i topi, già che ci siamo.”
Anna-Maria Mella raschiò delicatamente un po’ di vernice
dalla porta verde che si apriva sull’ingresso. Poi mise le scaglie in
una busta.
“Abbondi pure” disse Göran Sillfors generosamente. “Tanto
devo ridipingerla.”
Berit Sillfors controllò le trappole negli armadi del piano di
sopra e sotto il lavandino. Quando ebbe finito andò a mostrare il
risultato a Göran e Anna-Maria: cinque cadaverini congelati in un
secchio rosso.
“Vado a buttarli” annunciò.
“E io ho finito” disse Anna-Maria.
Guardò fuori dalla finestra dell’ingresso. Il ghiaccio sembrava
coprire ancora l’intero lago, e c’era anche molta neve.
Forse avevano aperto un foro nel ghiaccio e si erano immersi,
ragionò Anna-Maria. E poi qualcuno aveva messo la porta sopra
il foro per farli affogare… Poteva essere andata così. Ma perché
spostare il cadavere della ragazza? E dov’era lui? La porta era

104
ancora sul ghiaccio, sotto la neve?
“Posso andare sul lago a dare un’occhiata?” chiese.
“Io non lo farei” rispose Göran Sillfors. “É ghiaccio
spugnoso, meglio non fidarsi.”
“C’è qualcuno che viene da queste parti in inverno?” proseguì
Anna-Maria. “Chi è il proprietario dell’altra casa? Mi stavo solo
domandando se qualcun altro avesse visto o incontrato Wilma e
Simon.”
“No, dai vicini non c’è mai nessuno” disse Berit in tono
dispiaciuto. “Il proprietario è troppo vecchio e malato, e ai figli
della sorella non interessa. Ma forse Hjörleifur…”
“Adesso piantala!” esclamò Göran. “Non puoi mandarla da
Hjörleifur.”
“Ma l’ha chiesto lei.”
“Lascia Hjörleifur fuori da questa storia! Non sopporta le
autorità.”
“Bah” disse Berit scuotendo leggermente il secchio con i topi
morti come per richiamare l’attenzione. “Hjörleifur Arnarson vive
in una fattoria abbandonata a un chilometro da qui. Sa chi è?”
Anna-Maria annuì.
“Fa il bagno qui nel lago, passa attraverso il bosco, sia
d’estate che d’inverno. Di solito fa un foro nel ghiaccio proprio
vicino al nostro pontile. E ultimamente è diventato irascibile,
devi ammetterlo anche tu, Göran.”
“Hjörleifur non ha niente a che vedere con questa storia”
dichiarò Göran. “É un po’ tocco, ma non fa niente di male.”
“Non dico mica che abbia fatto qualcosa di male” si difese
Berit. “Ma è diventato irascibile.”
“In che senso?” chiese Anna-Maria.
“Per esempio, non gli piace che ci sia gente in giro da queste

105
parti. Una volta ha preso in prestito il tuo fucile senza chiedere il
permesso e ha spaventato alcuni pescatori. Quand’è stato? Due
anni fa?”
Göran Sillfors lanciò alla moglie uno sguardo d’avvertimento.
Chiudi il becco, voleva dire.
Anna-Maria Mella non aprì bocca. Non aveva nessuna
intenzione di far notare che Göran Sillfors doveva tenere il fucile
sottochiave.
Berit andò avanti indisturbata.
“Ogni tanto vado a comprare la lozione antizanzare che
prepara lui e mi fermo a fare due chiacchiere” raccontò. “L’estate
scorsa, quando sono arrivata, aveva il caprone appeso a un
albero.”
“In che senso, appeso a un albero?”
“Gli ho chiesto cos’era successo, e lui mi ha raccontato che il
caprone l’aveva preso a cornate e lui si era arrabbiato e l’aveva
ucciso e scaraventato via con tutte le sue forze. Il povero animale
era finito sulla betulla in giardino ed era rimasto incastrato per le
corna. Ho dovuto aiutarlo a tirarlo giù, altrimenti i corvi
avrebbero iniziato a beccarlo. Era così pentito. Il caprone era solo
in calore. In genere diventano un po’ irrequieti.”
Berit lanciò un’occhiata ad Anna-Maria.
“Ma non farebbe mai del male a qualcuno, non intendo
questo. Sono d’accordo con Göran, è un po’ tocco ma non
cattivo. Faccia solo un po’ di attenzione. Vuole che
l’accompagni?”
Anna-Maria guardò l’orologio.
“Meglio che torni a casa” disse con un sorriso. “Altrimenti
mio marito mi scaraventa su una betulla.”

106
È domenica sera. Sono nella rimessa dei camion. Mi siedo sul
tettuccio di una cabina e osservo Hjalmar Krekula. Ha sollevato il
cassone di uno dei camion e sta ingrassando i pistoni idraulici.
Avvicina la pipetta dell’ingrassatore al raccordo filettato e la
svuota. Non si accorge che è entrato Tore. All’improvviso se lo
ritrova accanto che urla.
“Cosa cazzo stai facendo?”
Hjalmar lancia un’occhiata nella sua direzione, ma senza
interrompere quello che sta facendo. Tore corre a prendere uno
stabilizzatore e lo infila sotto il cassone.
“Che idiota” dice. “Non puoi lavorare sotto il cassone senza
fissarlo, lo sai anche tu.”
Hjalmar non risponde. Cosa c’è da dire?
“Non posso gestire la ditta da solo” continua Tore. “Già basta
e avanza che il papà sia a letto e non ci possa più aiutare con la
contabilità. Non mi servi a niente da storpio o da morto, lo
capisci?”
Tore è sconvolto. Mentre parla sputa piccole gocce di saliva.
“Non mi tradirai proprio adesso!” dice indicando Hjalmar.
E visto che il fratello non risponde, aggiunge: “Idiota!
Maledetto idiota!”
Poi gira sui tacchi e se ne va.
No, pensa Hjalmar. Non lo tradirò. Non di nuovo.

Le ricerche di Tore vanno avanti per cinque giorni e cinque


notti. Volontari dei vecchi servizi di sicurezza e del soccorso
alpino escono a cercarlo. La polizia e una compagnia del
reggimento 119 di Boden anche. Un aeroplano sorvola il bosco a
nord di Piilijärvi. Nessuna traccia del ragazzino. In cortile c’è
sempre gente. Uomini che bevono il caffè prima di partire per le

107
ricerche o dopo essere rientrati. Vogliono parlare con Hjalmar,
chiedergli in che direzione erano andati lui e il fratello, com’era il
bosco, a quale acquitrino erano arrivati. Hjalmar non vorrebbe
rispondere, ma è costretto a farlo. Adesso è tornato a casa, dopo
aver passato le prime due notti da Elmina Salmi. La mattina del
secondo giorno Elmina l’ha riaccompagnato a casa e ha detto a
Kerttu: “Hai un figlio vivo, devi esserne grata.”
Kerttu gli aveva messo davanti un piatto di semolino senza
dire una parola. E ancora continuava a non dirgli una parola.
Quando gli uomini lo interrogano, si dimena come una biscia
per non rispondere. Non lo sa. Non si ricorda. Alla fine inizia a
inventare e a dire bugie tanto per avere qualcosa da rispondere.
Vedevano il monte Hanhivaara? Sì, forse. Avevano il sole alle
spalle mentre camminavano? Sì, doveva essere così. Il bosco era
rado? No, decisamente no.
Si cerca nei boschi a nord del paese. É da quella direzione
che Hjalmar è arrivato sulla provinciale. E tutto quello che dice
sembra indicare che fosse da quelle parti che si erano persi.
Si deve abituare. Al fatto che la gente tace all’improvviso
quando si avvicina. Ai commenti. “Che Dio ti perdoni!” “Cosa
diavolo ti è saltato in testa, ragazzo?” Agli sguardi e agli
scuotimenti di testa.
Una volta gli capita di sentire suo padre che dice a uno degli
uomini del paese: “Vorrei tanto ucciderlo, ma questo non mi
restituirebbe Tore.”
“Jumale on antanasu ateeksi” risponde l’uomo, che è
credente. Dio ha perdonato quel peccato.
Ma Isak Krekula non crede in Dio. Non ha nessuna
consolazione. Non può nemmeno rivolgersi al Signore come
Giobbe, alzando un pugno al cielo. Borbotta una risposta evasiva.

108
Il pugno lui lo solleva verso Hjalmar.
Il quinto giorno si interrompono le ricerche di Tore Krekula:
un bambino di sei anni non sopravvive cinque giorni e cinque
notti nel bosco. Probabilmente è sprofondato in qualche palude.
O è affogato nel ruscello sulla cui riva si trovavano quando si è
separato dal fratello. O è stato ucciso dagli orsi. Il cortile si
svuota. Qualcuno degli abitanti del paese continua le ricerche per
un’ora o due anche la sera del quinto giorno, più che altro per
senso del dovere. Ma ognuno ha le sue cose a cui pensare. E a
cosa serve cercare un morto.
Di notte Hjalmar resta sveglio nel suo letto. Attraverso le
pareti sente la madre piangere.
“É la punizione” piagnucola.
Sente il letto che cigola quando il padre si alza.
Hjalmar sta ancora ascoltando il pianto della madre quando la
porta della sua camera si apre di colpo. É suo padre Isak.
“In piedi!” urla. “Mettiti in piedi e abbassati i pantaloni!”
Lo picchia con la cintura. Più forte che può. Hjalmar lo sente
gemere per lo sforzo. In un primo momento, cerca di non
piangere. No, no. Ma poi il dolore è troppo grande. Le lacrime e
le grida di dolore escono contro la sua volontà.
Nella camera grande adesso c’è silenzio. Adesso è lei che
ascolta lui.

Il miracolo succede il 23 giugno 1956, attorno alle cinque del


mattino, prima che la madre vada nella stalla. Prima ancora che il
padre si sia alzato dal letto, Tore torna a casa. Entra in cucina e
grida: “Päivää!” Buon giorno!
La madre è in bagno, si sta raccogliendo i capelli. Va in
cucina e guarda Tore. Poi si mette a piangere. Grida, urla, lo

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abbraccia così stretto che lui dice: “Ahi”, e lei lo deve lasciar
andare.
Zanzare, moscerini e tafani l’hanno punto tanto che la
camicia insanguinata è incollata alla schiena, mamma Kerttu è
costretta a tagliarla per levargliela. Ha i piedi gonfi e doloranti.
Negli ultimi giorni ha camminato con gli stivali in mano, cosa di
cui in seguito si riderà: gli stivali non si buttano mai via.
Per tutto il giorno la gente del paese entra in cucina a
guardare Tore che mangia, Tore che dorme sul divano, Tore che
mangia di nuovo.
La vicenda finisce sui giornali e viene raccontata alla radio.
Arrivano lettere da tutto il paese. La gente manda regali: vestiti,
scarpe, sci. Da Kiruna e Gàllivare arrivano persone che vogliono
vedere Tore con i loro occhi. La famosa cantante Ulla Billquist
manda un telegramma.
Lui e la mamma prendono il treno per Stoccolma, dove Tore
viene intervistato alla radio da Lennart Hyland nel programma
Karusellen.
Hjalmar è a casa che ascolta. Per fortuna Tore non dice che il
fratello l’ha picchiato. Ma a casa e in paese si è sparsa la voce.
Hjalmar ha picchiato il fratello più piccolo di lui di tre anni. E
l’ha abbandonato nel bosco.

110
Lunedì 27 aprile

Riunione mattutina alla stazione di polizia di Kiruna, presenti


gli ispettori Sven-Erik Stälnacke, Fred Olsson e Tommy
Rantakyrö. Che stavano aspettando Anna-Maria Mella. É
Sven-Erik Stålnacke immerse i baffi nella tazza di caffè.
Prima gli pendevano sotto il naso come uno scoiattolo grigio
investito da una macchina, ma da quando frequentava Airi
Bylund li teneva sempre ben curati. Ormai sembravano più che
altro un porcospino incazzato, come aveva osservato una volta
Tommy Rantakyrö. Sven-Erik si tagliava anche i peli del naso ed
era dimagrito, nonostante i manicaretti di Airi.
Fred Olsson giocava con il blackberry nuovo. Tommy
Rantakyrö aveva già buttato lì un: “Ma si può usare anche per
telefonare?”, mentre Fred Olsson snocciolava la sua tiritera su
funzione push e gigabyte.
Anna-Maria entrò nella sala riunioni con le guance arrossate
e il giaccone ancora addosso. Quando si tolse il berretto, videro
che i capelli non erano raccolti nella solita treccia e nemmeno
spazzolati. Sembrava una selvaggia.
“Mattinata pesante?” chiese Fred Olsson.
“Scusate il ritardo” disse Anna-Maria con calma forzata.
“Non chiedetemi niente. Stamattina ho dovuto usare le maniere
forti con il piccolo. A casa ho dovuto lottare per infilargli la tuta
che rifiutava di mettersi ululando come una sirena. All’asilo ho
dovuto lottare per togliergliela, perché a quel punto voleva tenerla

111
addosso. Sotto gli occhi del personale che osservava paziente.
Probabilmente durante la giornata i servizi sociali lo affideranno
a un’altra famiglia.”
Si tolse il giaccone e si sedette.
“Volevo solo informarvi sui progressi dell’indagine sulla
morte di Wilma Persson e sulla scomparsa di Simon Kyrò. Il
corpo di Wilma è stato ritrovato nel Torneälven, poco a sud di
Tervaskoski, ma Pohjanen ha mandato al laboratorio Rudbeck di
Uppsala dei campioni dell’acqua presente nei suoi polmoni e di
quella del fiume, e il dna non coincide affatto. In altre parole, non
è morta nel fiume. L’estate scorsa i due ragazzi hanno attraversato
il Vittangijärvi in kayak e hanno preso il caffè con Berit e Göran
Sillfors, che hanno una casetta da quelle parti. Wilma e Simon
hanno detto che stavano facendo dei rilevamenti per l’Istituto
idrometeorologico. Ho chiamato l’istituto, e pare che non
abbiano mai commissionato nessun rilevamento nel Vittangijärvi.
Wilma e Simon non stavano affatto lavorando per loro. Perciò
cosa stavano combinando lassù? E durante l’inverno ai Sillfors è
stata rubata la porta della legnaia, che da una parte era dipinta di
verde. Sotto le unghie della mano destra di Wilma Persson, o
meglio sotto quelle che le erano rimaste, Pohjanen ha trovato
scaglie di vernice verde.”
“Perciò stai pensando che si sono immersi nel lago e che
qualcuno ha coperto il foro con una porta” riassunse Tommy
Rantakyrö.
“Non lo so, ma voglio scoprirlo. Ci sono troppe stranezze.”
“Ma d’inverno non ci si immerge con i guanti?” chiese Fred
Olsson.
Anna-Maria alzò le spalle.
“Ho mandato al laboratorio campioni di vernice presi sia

112
dalle sue unghie sia dalla porta” disse. “Oggi preleveremo dei
campioni d’acqua dal lago e manderemo anche quelli, così
sapremo se è la stessa acqua ritrovata nei suoi polmoni.
Scommetto che è lì che si sono immersi.”
“Forse è stato il ragazzo a impedirle di uscire con la porta”
suggerì Fred Olsson.
“Ma allora perché avrebbe spostato il cadavere?” chiese
Tommy Rantakyrö.
Anna-Maria taceva. Se era stata uccisa, un motivo per
spostarla poteva essere che l’assassino abitava nelle vicinanze o
andava spesso al lago. Hjörleifur Arnarson abitava nelle
vicinanze. E andava spesso al lago. Ma non era il caso di
nominarlo davanti ai colleghi.
Non è stato lui, si disse. Quei dannati fratelli Krekula sono
coinvolti, lo sento.
Però doveva parlare con Hjörleifur Arnarson. E possibilmente
non da sola.
“Come sta tua figlia?” chiese Fred Olsson.
“Bene” rispose Anna-Maria. “Più che altro sono stata io a
spaventarmi a morte.”
“Che stronzi” disse Tommy Rantakyrö con enfasi. “Hai
bloccato il cellulare?”
“Certo.”
“Devono essere coinvolti in qualche modo” proseguì Tommy
in tono animato. “E dobbiamo fargliela pagare per lo scherzo che
ti hanno giocato, Mella.”
“Non so” obiettò Sven-Erik. “Non credo che debbano avere
necessariamente a che fare con i due ragazzi. Sei andata lì e loro
hanno colto l’occasione per giocarti un brutto scherzo. Se fossi
stata del fisco, dell’amministrazione provinciale o della polizia

113
stradale sarebbe stata la stessa cosa.”
“O forse hanno cercato di spaventarmi perché sanno qualcosa
o perché sono coinvolti in questa storia” replicò secca Anna-
Maria.
La voce di Sven-Erik salì di un tono.
“O forse le tue emozioni anticipano i tuoi ragionamenti, e
non sarebbe la prima volta.”
Anna-Maria si alzò in piedi.
“Vaffanculo” disse calma. “Tornatene a casa da Airi o fa’ quel
cazzo che ti pare. Io ho intenzione di indagare sulla morte di
Wilma Persson e sulla scomparsa di Simon Kyrò. Credo che sia
ancora sotto il ghiaccio del lago. Se sono stati uccisi, lo
scoprirò.”
Poi uscì dalla sala riunioni a passo di marcia.
“Cos’avete da guardare?” chiese Sven-Erik quando fu sparita.
I suoi colleghi non risposero. Non avevano voglia di litigare.
Fred Olsson scosse la testa quasi impercettibilmente, fingendo di
concentrarsi sul suo blackberry. Tommy Rantakyrö si frugava
accuratamente il naso. Stavolta hai esagerato, gli fecero capire
entrambi.
Mentre si precipitava fuori dalla porta della centrale, Anna-
Maria incrociò Rebecka Martinsson.
Seguì un impulso improvviso: poteva chiedere a lei di
accompagnarla da Hjörleifur. Non sarebbe stata una buona idea
andarci da sola, ma preferiva lasciar fuori i suoi colleghi, per il
momento.
“Ciao” disse. “Ti va di fare un giro nei boschi per parlare con
il tipo più eccentrico di tutta Kiruna? Ho…”
“Aspetta” la interruppe Rebecka frugando nella borsa in cerca
del cellulare che squillava.

114
Måns. Rifiutò la chiamata e spense il telefono.
Lo richiamo dopo, si disse.
“Sì?” chiese poi ad Anna-Maria.
“Devo parlare con Hjörleifur Arnarson” disse. “Sai chi è?
No? Si vede che hai vissuto un sacco di tempo a Stoccolma.
Abita dalle parti del Vittangijärvi, e credo che sia lì che si sono
immersi Wilma e Simon quando sono scomparsi. Preferirei non
andarci da sola, e i miei colleghi sono… occupati tutta la mattina.
Ti va di farmi compagnia? O hai udienze?”
“Non ho udienze” rispose Rebecka pensando alle pile di
pratiche sulla sua scrivania.
D’altra parte avrebbe potuto sbrigarne un bel po’ quella sera.
“E quindi non hai mai sentito parlare di Hjörleifur
Arnarson?” chiese Anna-Maria mentre si dirigevano verso
Kurravaara. Avevano al traino una motoslitta della polizia per
poter arrivare fino al lago.
“Raccontami.”
“Ah, da dove comincio… Quando è arrivato qui a Kiruna, si è
stabilito a Fjàllnàs. All’inizio aveva in mente di ottenere una
nuova razza di maiali ecologici che riuscissero a sopravvivere con
quello che offriva il bosco e a resistere al freddo dell’inverno
all’aperto. Perciò incrociò dei maiali Linderòd con dei cinghiali.
Cosa non hanno combinato quelle bestie! Certo non restavano
nel bosco, avendo a disposizione i campi di patate dei vicini. In
paese è scoppiato il finimondo. I vicini erano furibondi,
pretendevano che catturassimo i maiali. Hjörleifur ha provato a
rinchiuderli in un recinto, ma quelli non facevano che scappare.
Sto parlando dei maiali, naturalmente, non dei vicini. Alla fine un
tizio in paese ha preso il fucile e si è messo a sparare. Dio santo,
che circo!”

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Anna-Maria sogghignava ancora al ricordo.
“E qualche anno fa, quando c’è stata una grossa esercitazione
della Nato nei boschi a nord di Jukkasjarvi, l’operazione
Tempesta boreale… be’, Hjörleifur ha dato un contributo alla
pace nel mondo mettendosi a correre nudo nei boschi in cui si
svolgeva l’esercitazione. Hanno dovuto sospenderla per cercarlo.”
“Nudo?” chiese Rebecka. “Sì.”
“Ma l’operazione Tempesta boreale non è stata in febbraio?”
“Sì.”
“Con venti trenta gradi sotto zero?”
“E stato un inverno tiepido” rise Anna-Maria. “Il termometro
non è sceso oltre i meno dieci. A ogni modo quando l’hanno
preso portava gli stivali e aveva una coperta sottobraccio. E uno
di quei naturisti. In genere si spoglia solo d’estate, ma quella
doveva essere un’eccezione per la pace nel mondo. D’estate non
porta mai vestiti. Dice che la pelle assimila l’energia solare, e che
non c’è praticamente bisogno di mangiare.”
“Come lo sai?”
“Be’, quando il vicino ha sparato ai suoi maiali…” “Sì?”
“C’è stato un processo. Appropriazione indebita o
danneggiamenti, non ricordo bene, ma il processo si è tenuto
d’estate. Avresti dovuto vedere la faccia del giudice e della giuria
quando Hjörleifur si è presentato come parte lesa.”
“Capisco” rise Rebecka. “Non trovi che il sole sia
particolarmente caldo, oggi?”
“Non si sa mai” rispose Anna-Maria con un sorriso.
“Vedremo.”
La casa di Hjörleifur Arnarson si trovava in una zona priva di
strade. Era una costruzione a due piani di legno dipinto di rosso.
In cortile c’erano una vecchia vasca da bagno e un sacco di altro

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ciarpame: gabbie per conigli, trappole di varie fogge e
dimensioni, balle di fieno, un aratro e alcune assi inchiodate che
sembravano l’inizio di una costruzione.
Alcune galline razzolavano tra la neve morbida. Un cane che
sembrava un incrocio tra un labrador e un border collie andò loro
incontro agitando amichevolmente la coda.
“Salve!” gridò Anna-Maria. “C’è qualcuno?”
Guardò Rebecka Martinsson. Forse era stato un errore
portarla. Era troppo elegante, in un certo senso. Era facile che gli
altri pensassero che si sentisse superiore. Ma se si lasciava
leccare via il trucco da un cane come stava facendo in quel
momento, non c’era problema.
Anna-Maria scacciò dalla testa il pensiero di Sven-Erik. Lui
sì che aveva un effetto calmante sulle persone.
Mi manca, si disse, stupita dalla sensazione. Sono incazzata
nera con lui, ma mi manca.
“Salve” rispose un uomo comparendo da dietro l’angolo della
casa.
Hjörleifur Arnarson indossava una tuta da lavoro blu
indescrivibilmente sporca che gli pendeva dal corpo ossuto.
Aveva i capelli lunghi e ricci e una chiazza calva in cima al
cranio, e il viso abbronzato e segnato dal tempo. Non era
cambiato molto dall’ultima volta che Anna-Maria l’aveva visto.
Dovevano essere passati almeno una quindicina d’anni, calcolò
rapidamente. Teneva in mano un cesto di uova, mentre le galline
gli si accalcavano attorno.
“Donne!” esclamò tutto allegro.
“Eh, sì” Confermò Anna-Maria. “Siamo della polizia”
aggiunse presentando se stessa e Rebecka.
“Fa lo stesso” le rassicurò Hjörleifur. “Volete delle uova?

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Sono ecologiche. Aumentano la fertilità. Hai figli?”
“Sì” rispose Anna-Maria ridendo, spiazzata dalla domanda.
“Quattro.”
“Quattro!”
Hjörleifur Arnarson si fermò a guardarla ammirato.
“Con lo stesso uomo?” “Sì.”
“Male. L’ideale è fare figli con il maggior numero possibile di
uomini. Arricchisce le variazioni genetiche. Aumenta le
possibilità di fare centro, dal punto di vista evolutivo. E tu hai
figli?”
“No” ammise Rebecka.
“Non va bene. E una scelta? Scusa la mia franchezza, ma le
donne sterili sono del tutto inutili per l’umanità.”
“Forse possiamo lavorare, mentre voi fate figli” suggerì
Rebecka.
“Possiamo lavorare anche noi” dichiarò Hjörleifur. “E allo
stesso tempo fare figli. Ma sono sicuro che sei fertile.
Probabilmente sei solo una donna in carriera. Con l’uomo giusto
potresti averne un sacco.”
“Con gli uomini giusti, vorrai dire” non poté fare a meno di
commentare Anna-Maria, divertita dallo sguardo minatorio di
Rebecka.
“Ma uno alla volta, eh” disse Hjörleifur lanciando
un’occhiata vogliosa verso Rebecka. “Entrate.”
Rebecka guardò Anna-Maria come a dire: entrate e siate
fecondate?
“Volevamo soltanto…” iniziò Anna-Maria, ma Hjòrlei- fur
era già dentro.
Non restava altro che seguirlo.
In cucina, Hjörleifur infilò le uova in un cartone e scrisse

118
ordinatamente la data con una biro. Anna-Maria si guardò
intorno con un misto di terrore e di gioia. Non avrebbe mai
immaginato che una cucina potesse essere così disordinata e
sporca. In confronto, la sua sembrava uscita da una rivista
d’arredamento.
Davanti alla cucina a legna c’era uno spesso strato di trucioli
e corteccia. Il pavimento era in linoleum, ma non si riusciva a
intuirne il colore sotto la sporcizia. Il pezzotto sotto il tavolo
aveva la stessa sfumatura grigiastra del pavimento. La tovaglia
gettata sul tavolo sembrava indurita. I vetri delle finestre erano
stati sommariamente ripuliti al centro in modo da poter vedere
fuori. Non c’erano tende, ma davanti alle finestre erano appese
delle mensole con piante sistemate in barattoli. In mezzo alla
stanza c’era un vecchio mastello da bucato in zinco e davanti alla
stufa era stesa ad asciugare della biancheria. C’erano pile di
stoviglie sporche dappertutto. Anna-Maria sospettò che non le
lavasse, ma si limitasse a usare il piatto o la tazza più a portata di
mano quando doveva mangiare o bere. Il soffitto era nero di
fuliggine e la lampada a cherosene, appesa a un gancio, era
coperta di polvere e ragnatele.
Rifiutarono la tazza di tisana che offrì loro.
“Sicure?” chiese Hjörleifur Arnarson. “La preparo
personalmente. E arrivato il momento di iniziare a mangiare cibi
ecologici, se non lo fate già. Solo il dieci per cento delle persone
attualmente in vita avrà una prole abbastanza sana da trasmettere
il nostro patrimonio genetico fino alla terza generazione.”
“Ci hanno detto che fai il bagno nel Vittangijärvi” disse
Anna-Maria, cercando di cambiare argomento. “Sì.”
“Hai visto queste due persone?”
Gli mostrò una foto di Wilma e Simon. Lui guardò la foto e

119
scosse la testa.
“Credo che si siano immersi nel lago il 9 di ottobre.
Probabilmente il ghiaccio si era appena formato. Li hai magari
visti o incontrati? Hai visto qualcosa di strano sul lago? Sai
qualcosa della porta della legnaia di Göran e Berit Sillfors? Gli è
sparita quest’inverno.”
All’improvviso Hjörleifur Arnarson assunse un’espressione
accigliata.
“Domande, domande” disse.
Anna-Maria restò in silenzio ad aspettare.
“Potrebbero essere stati uccisi” disse alla fine. “E davvero
importante che ci racconti quello che sai.”
Hjörleifur continuava a tacere, le labbra strette come quelle di
un bambino dispettoso.
“Tornate domani” disse alla fine. “Forse ho visto qualcosa.”
“Andiamo!” insistette Anna-Maria.
“O forse non ho visto niente del tutto” concluse Hjörleifur
guardandola con aria di sfida. Era evidente che per quel giorno
non gli avrebbero cavato di bocca nient’altro.
Anna-Maria strinse i denti. Vecchio caprone ostinato, si
disse. Fece per dire qualcosa che potesse indurlo a rivelare quello
che sapeva, ma Rebecka la precedette.
“Grazie dell’aiuto” disse. “Torniamo volentieri.”
Gli sorrise. Le labbra rivelarono i denti regolari. Gli occhi
erano ridenti.
“Come si chiama il tuo bel cane?” gli chiese.
Hjörleifur si addolcì.
“Vera” rispose allegro. “Bene, torna domani. Ti preparerò
delle uova sode.”
Hjörleifur rimase in cortile a guardare Anna-Maria e Rebecka

120
che se ne andavano. Rebecka l’aveva messo di buon umore, ma
ora era in preda all’angoscia.
E se il giorno dopo avessero tirato fuori le manette? E se
l’avessero portato alla centrale e non l’avessero più lasciato
andare? Perdere la libertà. Non poter uscire. Essere incapsulato
in una bara di cemento grigio.
Rientrò in casa e tirò fuori un cellulare da un cassetto della
cucina. Lo utilizzava solo in casi eccezionali, ma quella era una
situazione d’emergenza. Infilò un foglio d’alluminio tra il
cellulare e l’orecchio e compose il numero di Göran e Berit
Sillfors.
“Cos’avete detto alla polizia?” chiese tutto agitato quando
Göran rispose.
Göran si sedette su uno sgabello in cucina e si prese il tempo
necessario per rassicurarlo che lui e Berit non avevano detto
niente e che nessuno poteva pensare che avesse a che fare con la
scomparsa di Wilma e Simon.
Quando Hjörleifur si fu calmato, Göran non poté fare a meno
di chiedere: “E tu? Cosa gli hai detto?”
A quel punto Hjörleifur percepì l’irradiazione del cellulare:
aveva l’orecchio caldo e gli faceva male la testa.
“Niente, torneranno domani” disse secco.
Poi chiuse la telefonata.
La vita non è facile, per uno come Göran Sillfors. È un gran
chiacchierone, adora parlare. Di tutto l’immaginabile, e
possibilmente di se stesso. È uno di quelli per cui la gente usa
termini come “vecchia comare” e “incontinenza verbale”. Uno di
quelli che a volte viene voglia di ammazzare solo per farli stare
zitti.
In un certo senso lo sa anche lui. Ma questo invece di

121
spingerlo a tacere lo fa parlare ancora di più. Ha imparato a non
fare pause per non dare alla gente la possibilità di interrompere la
conversazione.
E adesso ha davvero qualcosa da raccontare. Qualcosa che gli
altri troveranno interessante, soprattutto gli abitanti di Piilijärvi.
La polizia sospetta che Wilma e Simon siano stati assassinati. La
polizia ha parlato con Hjörleifur, che forse sa più di quello che
dice. Göran Sillfors ha una notizia in esclusiva e chiama un ex
collega del cugino che vive a Piilijärvi.
Non sa fino a che punto sia una cattiva idea, quali saranno le
conseguenze.
Dopo la telefonata, l’ex collega del cugino si infila la giacca
ed esce.
La voce corre come l’acqua sotto la neve alla fine
dell’inverno.
Anna-Maria Mella e Rebecka Martinsson arrivarono alla
centrale a mezzogiorno e mezza.
“Mi piacerebbe perlustrare il lago in cerca di quella porta”
disse Anna-Maria mentre scendevano dalla macchina. “Ma
bisogna aspettare. Il ghiaccio è troppo fragile per camminarci
sopra. É spesso quasi mezzo metro, ma si rompe facilmente. Mi
domando se Krister Eriksson potrebbe far cercare una porta a
Tintin.”
“Sicuramente sì” si rispose poi da sola. “Secondo me quel
cane gli prepara anche la colazione.”
“Cosa gli è successo al viso?” chiese Rebecka.
“Non so” rispose Anna-Maria. “Ma a quanto ho sentito,
anche se non direttamente da lui…”
Tacque di colpo.
“Cosa c’è?” chiese Rebecka.

122
Seguendo lo sguardo di Anna-Maria, vide Hjalmar e Tore
Krekula seduti in macchina nel parcheggio. Quando si accorsero
delle due donne, scesero e andarono loro incontro. Ad Anna-
Maria si annodò lo stomaco per la paura e la rabbia. Pensava a
sua figlia Jenny.
“Volevo solo farle sapere” annunciò Tore Krekula “che
abbiamo riferito al suo capo che la polizia sta vessando la gente
di Piilijärvi.”
“In che modo…” iniziò Anna-Maria.
“É il vostro atteggiamento” la interruppe Tore. “Ve ne andate
in giro per il paese con la vostra aria di superiorità e la gente si
sente accusata. Siamo in molti a pensarla così. E saremo in molti
a riferirlo al suo capo.”
“Fate pure” disse Anna-Maria guardandolo dritto negli occhi.
“Mandati molti sms, negli ultimi tempi?”
“Abbastanza” rispose Tore ricambiando lo sguardo.
Nessuno dei due voleva cedere.
Alla fine Rebecka la prese per un braccio e le disse:
“Andiamo.”
Così facendo incrociò lo sguardo di Hjalmar Krekula, che
posò un braccio sulla spalla del fratello.
Sembravano due padroni con i rispettivi pitbull al guinzaglio.
Alla fine Anna-Maria si lasciò condurre via. Tore invece alzò
la spalla di scatto per allontanare il fratello.
“Ce ne andiamo?” chiese Hjalmar.
Tore Krekula sputò nella neve.
“Puttana!” esclamò in direzione di Anna-Maria, che era già
entrata alla centrale.
Gli squillò il cellulare. Rispose e ascoltò un attimo in
silenzio, poi riattaccò e disse: “Sì, ce ne andiamo. Dobbiamo fare

123
una visitina a Hjörleifur Arnarson.”
Sono con Anni. È arrivata in riva al lago con l’aiuto dello
slittino a spinta. Il sole si nasconde dietro le cime degli alberi. La
neve si è sciolta per tutto il giorno e ora una strana foschia grava
sulla superficie dell’acqua.
Dall’altra sponda viene il verso di una lepre. Sembra un
bambino in fasce, spettrale nella nebbia. Probabilmente è stata
catturata da una volpe. Nel periodo dell’accoppiamento diventano
imprudenti, le lepri.
Alcuni pagano l’amore con la vita, si dice Anni.
In quello stesso istante si accorge di avere sua sorella alle
spalle.
Kerttu Krekula. Anche lei è arrivata con lo slittino a spinta.
Si piazza accanto ad Anni e guarda il lago.
“Non devi parlare con la polizia” dice. “Non devi farli
entrare.”
Anni non risponde. Cerco di infilarmi in mezzo a loro, ma fra
le sorelle corrono troppi fili.
Anni non volta nemmeno la testa, si limita a guardare la
sorella nella propria mente. La Kerttu che vede è giovane e ha la
pelle liscia. Non sembra poi così lontana, anche se sono passati
sessant’anni.
È il maggio del 1943. Kerttu ha i bigodini in testa e aspetta
che Isak Krekula passi a prenderla con il camion. Ha sedici anni.
Manca ancora molto al momento in cui piangerà il figlio disperso
nel bosco. Isak Krekula ha ventidue anni, ma possiede già otto
camion e ha diversi autisti alle sue dipendenze. Per un periodo è
stato l’eroe del paese. Trasportava materiali oltre il confine, per le
truppe finlandesi e tedesche impegnate nella guerra d’inverno e
nella guerra di continuazione, e tornava in paese con una

124
provvista di racconti avventurosi. Si sedeva nelle cucine e diceva
che la causa finlandese era anche la nostra. Forse si dava un po’
di arie, ma in fondo erano loro a dargliene l’occasione. Gli
offrivano caffè vero, tiravano fuori i dolci e ridevano quando Isak
raccontava di come tirava su il morale ai soldati svedesi e
finlandesi. Parlava bene entrambe le lingue, come tutti in paese.
“Sono arrivato a Kuusamo. Cazzo, com’erano infreddoliti quei
ragazzi. E affamati. Allora gli ho detto: “I russi si staranno
congelando il culo, eh? E cazzo che fame avranno!” Hanno
dovuto ridere. Poi abbiamo scaricato il cibo, il tabacco e le armi.
Per poco non si mettevano a piangere, ve lo assicuro.”
I compaesani restavano seduti attorno alla radio ad ascoltare
le notizie dal fronte, mentre le donne lavoravano a maglia guanti,
maglioni e calze per i volontari. Glieli portava Isak, ed era così
bello quando tornava a casa e raccontava che i ragazzi avevano
quasi fatto a botte per accaparrarsi un maglione e che mandavano
i loro saluti e ringraziamenti alle donne del paese. “Mi hanno
chiesto di portare qualche bella ragazza non sposata la prossima
volta.” Al rientro in Svezia, i volontari venivano accolti con
parate e feste in municipio e in chiesa.
Isak ha un sacco di soldi, con gli autotrasporti si guadagna
bene. La ditta si ingrandisce. Ma fino all’inverno del 1943
nessuno gliene fa una colpa.
Poi, dopo Stalingrado, la fortuna dei tedeschi inizia a girare.
Il ministro degli esteri svedese, Christian Gùnther, che riteneva
che la Svezia dovesse scegliere la stessa strada della Finlandia,
aveva torto. La Svezia si avvicina agli Alleati. La causa della
Finlandia non è affatto la nostra, i finlandesi sono i leccaculo dei
tedeschi.
Adesso i volontari trovano solo silenzio e teste voltate

125
dall’altra parte. Isak continua a trasportare materiale oltre
confine, ma ha finito di bere il caffè nelle cucine del paese. A
volte porta Kerttu con sé nei suoi viaggi. Si frequentano da
quando lei ha quattordici anni. E la ragazza più carina del paese.
E sempre davanti allo specchio e non fa mai quello che deve fare,
tanto che ad Anni qualche volta viene voglia di picchiarla. Isak
non entra quasi mai a salutare, si ferma in strada. Papà Matti
finge di non vedere e borbotta imbarazzato quando Kerttu saluta
e corre via. Mantiene la famiglia con un pezzetto di terra e la
pesca. Prova la vergogna del povero quando la figlia torna a casa
con un vestito nuovo regalatole da Isak, o uno scialle o un sapone
profumato. Se a casa stessero meglio, forse Kerttu non sarebbe
così follemente innamorata, ma cosa ci può fare?
Kerttu cammina a testa alta per il paese e se ne frega di cosa
dice la gente. Non che osino dire granché, alcuni uomini del
paese guidano i camion di Isak e altri stanno costruendo le nuove
rimesse e tutti quanti devono portare da mangiare in tavola.
Ma Anni sa cosa si dice. Un giorno, a casa di un vicino, la
figlia più giovane vede Kerttu dalla finestra e si mette a cantare
Se vuoi vedere una stella guarda me, il cavallo di battaglia della
famosa cantante Zarah Leander. Una delle sorelle la zittisce e
lancia un’occhiata ad Anni, colma di imbarazzo e di sfida allo
stesso tempo. Non chiede scusa. Anni capisce che è la canzone
che si canta alle spalle di Kerttu.
Zarah Leander è caduta in disgrazia per le sue simpatie
filonaziste. Il filosovietico Karl Gerhard invece sta tornando in
auge alla radio. Il vento gira rapidamente. Kerttu è la piccola
Zarah Leander del paese.
Tutti quei fili tra le sorelle. Anni ha ottant’anni, Kerttu li
compirà presto. Eppure non osano dire una sola parola su ciò che

126
pensano e sentono. Alla fine Anni dice che deve rientrare. Kerttu
gira lo slittino a spinta e se ne va.
Anni resta un momento a guardare la nebbia. All’improvviso
sente la mia presenza.
“Wilma” dice ad alta voce.
Vorrei poterla toccare. Invece le ricordo quando andavamo a
fare il bagno nel lago. Una volta aveva perfino nuotato sott’acqua,
ed era tornata a galla sbuffando.
“Non sapevo di esserne ancora capace” aveva detto esultante.
“Perché si smette solo perché si diventa vecchi?”
Io le avevo gridato in risposta: “Allora non smetterò mai!
Continuerò a nuotare fino a novant’anni!”
E dopo, in cucina, sedute davanti alla stufa, ciascuna avvolta
nel proprio asciugamano di spugna, Anni aveva sorriso e mi aveva
chiesto: “E quindi a novant’anni smetterai di nuotare. Perché?”
Adesso si volta piangendo e torna faticosamente verso casa.
Mi allontano.
Mi siedo sul bordo del tavolo settorio e mi osservo.
Il medico legale è di cattivo umore, lo hanno costretto a
ripetere l’autopsia. La prima volta il mio corpo aveva ancora un
aspetto decente. Adesso, dopo più di una settimana all’aria, sono
gonfia e bluastra. La carne si stacca a pezzi.
Mi apre la mano destra e subito il cattivo umore si dilegua.
Inizia a canticchiare. Che voce che ha, sembra lo sfregamento di
due pietre una contro l’altra.
Si toglie i guanti e fa una telefonata. Chiede di parlare con
Anna-Maria Mella. Inizia lamentandosi perché ha dovuto ripetere
l’autopsia, e dice che in futuro le sarà grato se lo informerà di
qualsiasi sospetto, in modo da sapere cosa cercare. Sento la voce
della donna che gli risponde pazientemente all’altro capo del filo.

127
Lui digrigna i denti, scontento. Ma alla fine non riesce più a
trattenersi. Deve raccontarle della mano.
“Ho pensato che potesse interessarti” dice. Avvertendo il
silenzio rispettoso della donna, fa una pausa a effetto e si raschia
la gola fino a farla quasi uscire di testa.
“Hrr… hrrr…” Va avanti così per un bel po’, prima di
aggiungere: “Ha una frattura al quinto osso metacarpale… sì,
quello che unisce il mignolo al polso. Una comune ferita da
difesa… sì, può essersela procurata sbattendo la mano contro una
porta…”
Devo andarmene. Non ce la faccio più a vedere quel corpo.
Fino a poco fa la pelle era tesa e viva. Avevo un seno fantastico.
Penso a come Simon mi abbracciava. Si metteva alle mie spalle,
mi baciava sul collo e sull’orecchio e mi infilava le mani sotto i
vestiti. Quei piccoli suoni dolci che volevano dire che mi
desiderava. Ci scambiavamo degli mmrn e sapevamo benissimo
cosa volevano dire.
Non ho più un corpo. Quell’ammasso di carne bluastra,
gonfia e cadente sul tavolo settorio sotto la luce al neon di sicuro
non è il mio corpo.
Sono così sola.
Anche Hjörleifur Arnarson è solo. Sono davanti alla sua casa.
Il cane mi sente: guarda nella mia direzione, rizza il pelo e
ringhia sospettoso.
Possono passare settimane tra una volta e l’altra in cui
Hjörleifur parla con qualcuno. Non che ne senta la mancanza.
Pensa molto alle donne, è vero, ma sono trent’anni che non ne ha
una. Sogna la pelle morbida e le forme arrotondate di una donna.
Per il resto, vive la sua strana vita selvaggia lì nel bosco. D’estate
gira nudo e dorme all’aperto. Fa il bagno ogni giorno nel

128
Vittangijärvi, sia d’estate che d’inverno.
Non ci ha visti quel giorno. Quando è arrivato al lago
eravamo morti da più di due ore. E io non ero più lì. Era
incuriosito dal foro, decisamente troppo grande per essere stato
fatto da un pescatore. Si è detto che forse era stato qualcuno che
voleva farsi un tuffo, come lui. Ma perché in mezzo al lago? E nel
foro galleggiavano ancora i resti della porta, un mucchio di pezzi
di legno. Non riusciva a spiegarselo.
Poi ha visto i nostri zaini. Si è detto che c’era in giro
qualcuno che sarebbe tornato. E rimasto a gironzolare lì attorno,
ha frugato negli zaini, senza prendere niente. Era curioso e aveva
voglia di chiacchierare. Ma naturalmente non è arrivato nessuno.
Quando è tornato a fare il bagno, il giorno dopo, gli zaini
erano ancora lì. E anche il giorno successivo. Il giorno dopo
ancora, si è messo a nevicare. Gli zaini rischiavano di restare
sepolti, perciò li ha portati a casa.
Adesso sale al piano superiore e li tira fuori da un ripostiglio.
Li aveva chiusi per bene in modo che non ci si infilassero i topi.
Sicuramente gli zaini appartengono ai due ragazzi di cui gli
hanno parlato le due poliziotte. Glieli darà quando torneranno,
dirà esattamente dove li ha trovati e racconterà dei pezzi di legno
nel foro nel ghiaccio, sicuramente erano di quella porta a cui
hanno accennato.
Ma prima vuole prendere un paio di cose dagli zaini. In uno
c’è un fornelletto Trangia nuovo nuovo, nell’altro un maglione in
lana merino con la fodera antivento. Hjörleifur non ha mai avuto
un maglione così bello. E ai ragazzi sicuramente quelle cose non
servono più, non c’è niente di male se le tiene lui.
Porta giù gli zaini, fa così freddo al piano di sopra. Meglio
stare in cucina, dove la stufa diffonde il suo bel calore e

129
scoppietta allegramente.
E così preso da quello che sta facendo, svuotare gli zaini e
decidere cosa tenere e cosa lasciarci dentro, che non sente il
rumore della motoslitta che si ferma poco distante dalla casa.
E nemmeno fa caso al cane che abbaia un paio di volte, ogni
tanto fa così. Per una cosa qualunque, uno scoiattolo, una volpe,
o la neve che cade da un albero. Quella simpatica mattacchiona.
Solo quando si apre la porta e sente dei passi in casa si
accorge di avere visite. Due tizi entrano in cucina.
“E quindi è venuta a trovarti la polizia” dice uno.
Hjörleifur li guarda. Prova l’impulso di fuggire, ma non sa
dove andare.
Solo uno dei due parla, l’altro, quello alto e grasso, resta
appoggiato allo stipite della porta in silenzio.
“Cos’hai detto alla polizia, Hjörleifur? Cosa ti hanno
chiesto? Rispondi!”
Hjörleifur si raschia la gola.
“Volevano sapere di due ragazzi scomparsi. Se erano stati al
lago. Se avevo visto qualcosa.”
“E tu li hai visti? Cosa gli hai detto?”
Hjörleifur non risponde. É ancora in ginocchio, accanto agli
zaini.
Solo allora Tore ci fa caso. Due zaini di materiale sintetico
colorato, di sicuro non possono appartenere a Hjörleifur. Lui usa
vecchi zaini militari o cose che si cuce da sé con pelli conciate
artigianalmente.
“Hai trovato gli zaini in riva al lago” dice Tore rivolgendogli
uno sguardo bruciante. “Non è così, brutto stronzo?”
“Non ci ho pensato” inizia a spiegare Hjörleifur. “Non c’era
nessuno che…”

130
Non fa in tempo ad andare avanti. Tore Krekula prende un
pezzo di legno dal mucchio accanto alla stufa, lo afferra con
entrambe le mani come una mazza e lo abbatte sulla testa di
Hjörleifur.
Sento il rumore del suo cranio che si spacca. Sento il tonfo
del suo corpo che cade a terra. Sento il bosco che trattiene il fiato
per l’orrore. La terra trema, si contrae sotto il sangue versato.
Il cane in cortile si blocca e rizza il pelo. Si sdraia nella neve.
Non entra in casa, anche se i fratelli hanno lasciato distrattamente
la porta aperta.
L’intera zona puzza di morte. Le betulle si contorcono, gli
uccelli stridono. Solo le arvicole continuano a correre
imperturbate sotto la neve. Per loro non significa niente.
Anch’io mi sento stranamente fredda e indifferente. Ma forse
lo ero anche da viva.
Hjalmar Krekula si allontana dalla porta.
“Non era necessario” dice.
Le gambe di Hjörleifur sussultano e si contraggono mentre la
vita lo abbandona.
“Non fare la donnicciola” risponde Tore. “Infilati i guanti,
dobbiamo risistemare un po’ il mobilio.”

Martedì 28 aprile
“Perché cazzo non rispondi quando ti telefono?”
La voce di Måns suonava scontenta al cellulare.
Rebecka Martinsson spinse indietro la sedia girevole fino a
chiudere la porta dell’ufficio.
“Ti ho risposto, no?” dice.
“Sai benissimo cosa intendo. Non mi piace sentirmi chiudere
il telefono in faccia.”

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“Sto lavorando” rispose Rebecka in tono paziente. “Lo fai
anche tu. A volte quando ti telefono…”
“Ma ti richiamo appena posso.”
Rebecka non replicò. Aveva pensato di richiamarlo, ma se
n’era dimenticata. O non ne aveva avuto la forza. Aveva lavorato
fino a tardi dopo essere andata da Hjörleifur Arnarson con Anna-
Maria Mella. Poi Sivving l’aveva invitata a cena e non appena
tornata a casa si era addormentata di botto.
Avrebbe voluto chiamarlo per raccontargli di Hjörleifur che
correva nudo nel bosco e le aveva offerto uova ecologiche che
facevano bene alla fertilità. L’avrebbe fatto ridere.
“Non capisco” proseguì lui. “Vuoi fare uno dei tuoi
giochetti? Regolare la distanza? Dillo. Sono bravissimo in questo
genere di cose.”
“Non sto facendo nessun giochetto” disse Rebecka. “Lo sai.”
“Non so proprio niente. Ma credo che sia una prova di forza.
E la sai una cosa, Rebecka? Con me non funziona. L’unico
effetto che ha è di allontanarmi.”
“Non è così, perdonami. É che non sono brava a… Mi vai
bene così come sei.”
Måns non rispose.
“Allora trasferisciti a Stoccolma” disse poi a bassa voce. “Se
davvero pensi che ti vado bene come sono.”
“Non posso” rispose lei. “Lo sai.”
“Perché no? Si parla ancora di te tra i soci, e tu sprechi la tua
vita in una procura di provincia. Non posso trasferirmi lassù.”
“Lo so” disse Rebecka.
“Voglio stare con te” replicò lui.
“Anch’io voglio stare con te” rispose Rebecka. “Ma perché
non possiamo continuare così? Ci vediamo spesso.”

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“Non durerà, alla lunga.”
“Perché no? Funziona per un sacco di gente.”
“Non per me. Voglio averti tutto il tempo. Voglio svegliarmi
con te la mattina.”
“Se tornassi a lavorare da Meijer & Ditzinger non ci
vedremmo mai.”
“Andiamo!”
“É vero. Trovami una donna dello studio con una relazione
che funziona.”
“Allora vieni a lavorare alla procura di Stoccolma. Ma no,
non ti va bene nemmeno questo. Sembra che ti piaccia tenermi a
distanza e rispondere al telefono quando ne hai voglia. Quando
non hai altro da fare. Non so nemmeno dov’eri ieri sera.”
“Non fare così. Ho cenato con Sivving.”
“Lo dici tu.”
La voce di Måns continuava ad arrivarle dal cellulare. La
porta dell’ufficio si aprì e Anna-Maria infilò dentro la testa.
Rebecka scosse il capo e indicò il telefono per dire che era
impegnata, ma Anna-Maria prese un foglio bianco dalla scrivania
e scrisse a lettere giganti: “Hjörleifur Arnarson è MORTO!!!”
“Devo chiudere” disse a Måns. “E successa una cosa. Ti
richiamo.”
Måns interruppe la sua arringa.
“Non scomodarti. Non sono certo il tipo che impone la sua
presenza.”
Per un attimo aspettò che Rebecka dicesse qualcosa, ma lei
non lo fece. Allora chiuse la conversazione.
“Problemi di uomini?” chiese Anna-Maria.
Rebecka fece una smorfia, ma prima che riuscisse a
rispondere Anna-Maria proseguì: “Sai una cosa? Fanculo gli

133
uomini, in questo momento. Sono arrivata due minuti fa e Sonja
del centralino mi ha detto che Göran Sillfors ha trovato morto
Hjörleifur Arnarson. Sven-Erik e Tommy Rantakyrö sono già lì.
Mi domando perché non mi abbiano chiamata, ma ho intenzione
di fregarmene.”
Sven-Erik sarà incazzato a morte perché ieri non gli ho detto
che sarei andata da Hjörleifur, pensò poi.
Wilma Persson fu sepolta alle dieci del mattino del 28 aprile.
Il corteo funebre era arrivato al cimitero e si era raccolto attorno
alla fossa. Hjalmar Krekula guardava in giro. Non aveva
nemmeno tirato fuori il completo nero. Erano un sacco di anni
che non gli andava più bene.
Si era piazzato davanti allo specchio del bagno, si era rasato e
si era detto che non ce la faceva. Non avrebbe retto.
Poi aveva affettato un’intera pagnotta per colazione. Ci aveva
spalmato uno strato abbondante di burro e l’aveva mangiata in
piedi accanto al piano della cucina. Alla fine si era un po’
calmato. Il cuore aveva smesso di rimbombargli nel petto.
Si sentiva a disagio accanto alla bara calata nella fossa, con i
pantaloni e il giubbotto mimetici, anche se aveva avuto il
buonsenso di non mettersi la tuta da lavoro. C’erano un sacco di
ragazzi, ciascuno con la sua rosa in mano da posare sulla bara.
Erano tutti vestiti di nero, con orecchini alle sopracciglia e al
naso e alle labbra e tutto quel trucco nero attorno agli occhi che
non riusciva a nascondere la pelle liscia, le guance tonde.
Così giovani, si disse. Erano tutti così giovani. Anche Wilma.
Dalla terra sei tratto.
La madre di Wilma era venuta fin da Stoccolma. Piangeva
rumorosamente, continuava a gridare: “Oh, Dio!”, senza smettere.
Una sorella la sorreggeva per un braccio e una cugina per l’altro.

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Anni era lì come una foglia secca, con le labbra strette. Il suo
dolore sembrava quasi non trovare posto. Tutto lo spazio era
occupato dalla madre di Wilma con le sue grida stridule e il suo
pianto squillante. Hjalmar si sentì invadere dalla rabbia per Anni.
Avrebbe voluto far smettere quelle grida, in modo che anche lei
potesse piangere.
Wilma era nella cassa.
C’erano molti pensieri, adesso. Doveva andarsene in fretta,
prima di mettersi a urlare anche lui davanti a tutti.
Solo poco prima le guance di Wilma erano tonde come quelle
delle ragazze che si tenevano per mano un po’ più in là. Non
osava guardarle. Sapeva cosa avrebbero detto i loro sguardi se lo
avessero sorpreso: schifoso, grassone, pedofilo.
Solo poco prima Wilma era seduta al tavolo della cucina. Gli
stessi capelli, lo stesso rosso di tutte le donne della famiglia, sua
madre, sua nonna, la bisnonna Anni e la madre di lui, Kerttu. I
capelli rossi di Wilma che scendevano ai lati del viso mentre
combatteva con i compiti di matematica. Parlava con lui come…
sì, come con chiunque altro.
E poi.
I pugni che battevano sul ghiaccio sotto i suoi piedi.
Adesso picchiava sul coperchio della bara. Dentro la sua
testa.
E quasi finita, si disse. Da fuori non si vede niente.
Più tardi, durante il rinfresco, mandò giù diverse fette di
torta. Si accorse di come la gente lo guardava. Pensavano che
avrebbe dovuto trattenersi, niente di strano che fosse così grasso.
Che guardino pure, si disse infilandosi in bocca degli
zuccherini che poi lasciò sciogliere. Mangiare leniva, lo placava.
Lo faceva sentire più calmo.

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Quando Anna-Maria e Rebecka fermarono la motoslitta a una
certa distanza dalla casa, l’ispettore Tommy Rantakyrö era
accucciato in cortile ad accarezzare il cane di Hjörleifur
Arnarson.
Si alzò e andò loro incontro.
“Non vuole muoversi da qui” disse accennando al cane.
Anna-Maria notò con disappunto che i colleghi avevano
lasciato la loro motoslitta proprio ai piedi della scala.
“Spostala” disse a Tommy. “Dobbiamo delimitare la zona in
modo che la scientifica possa rilevare le impronte. Quanti hanno
toccato la maniglia della porta?”
Tommy Rantakyrö alzò le spalle e Anna-Maria entrò in casa.
Rebecka si avvicinò al cane.
“Ciao bella” disse accarezzandola sul petto. “Non puoi
restare qui, lo capisci.”
“Dovremo abbatterla” disse Tommy Rantakyrö.
Sì, non c’è altra scelta, si disse Rebecka.
Accarezzò le orecchie triangolari del cane: erano molto
morbide, una stava dritta in su, l’altra era piegata. Era nera con
dei segni bianchi e una macchia attorno all’occhio.
“Che strano miscuglio sei?” le chiese.
Il cane leccò l’aria. Un segnale che era bendisposta. Rebecka
sporse la lingua e le leccò delicatamente la bocca. Anche lei era
bendisposta.
“Mi riconosci?” chiese. “Ma sì, certo che mi riconosci.”
Poi si sentì dire a Tommy Rantakyrö: “Ha l’espressione
intelligente di un border collie, vedi come ricambia prontamente
lo sguardo? Non trova minaccioso che la guardi negli occhi. Non
è vero, piccola? Ed è buona come un labrador. Non abbattetela.
Mi prendo io cura di lei. Se salta fuori qualche parente che vuole

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tenerla sapete dov’è, altrimenti…”
Måns uscirà di testa, si disse.
“D’accordo” disse Tommy sollevato e allegro. “Sai come si
chiama?”
“Vera” rispose Rebecka. “Ce l’ha detto ieri il suo padrone.”
“Ah, sei tu che sei venuta qui con Anna-Maria” disse Tommy.
“Sven-Erik è davvero scocciato. In effetti non ha tutti i torti.”
Dentro Sven-Erik stava parlando con Göran Sillfors in
cucina.
Hjörleifur era sdraiato sulla schiena davanti alla credenza.
Accanto a lui c’era una sedia rovesciata. L’armadietto sopra la
credenza era aperto. Per terra c’erano due zaini.
“Ma che cazzo!” esclamò Anna-Maria quando entrò. “Non
potete calpestare le tracce in questo modo. I tecnici della
scientifica saranno furibondi. Dobbiamo impedire l’accesso.”
“Vieni a farmi lezione?” sibilò Sven-Erik.
“Ti piacerebbe che non fossi venuta affatto, vero?” sibilò
Anna-Maria in risposta. “Arrivo al lavoro e devo venire a sapere
di Hjörleifur dal centralino.”
“E io devo venire a sapere che hai interrogato Hjörleifur da
Göran Sillfors. Bene. Non ti è saltato in mente di dirlo ai tuoi
colleghi durante la riunione di ieri?”
Göran Sillfors spostava lo sguardo dall’uno all’altra.
“Hjörleifur mi ha telefonato ieri dopo che siete state qui” si
giustificò poi. “Gli avevo dato un cellulare con una scheda
prepagata. Lo considerava un aggeggio mortale…”
Si bloccò a guardare Hjörleifur che in effetti giaceva morto
sul pavimento.
“Scusate” disse. “A volte parlo senza pensare. A ogni modo,
non voleva usare il telefono. Ma io gli avevo detto che un bel

137
giorno si sarebbe rotto una gamba e avrebbe avuto bisogno di
aiuto, e che non gli avrebbe causato nessun danno se l’avesse
tenuto chiuso in un cassetto. C’era un’offerta speciale da
Euronics, non l’ho pagato molto. A volte ti danno una bici o
chissà cos’altro se prendi un telefono, anche se, è ovvio, in quel
caso si deve comprare anche l’abbonamento. Mi sono detto che si
può spendere qualcosa anche per il proprio prossimo. E poi
Hjörleifur ci dava sempre il miele e la lozione antizanzare. Non
che vada pazzo per quella roba… Ieri l’ha usato, il telefono
intendo, mi ha chiamato e mi ha detto che eravate state qui. Mi ha
chiesto cosa avevo detto alla polizia, ho dovuto calmarlo.
Stamattina ho pensato che avrei fatto meglio a venire a vedere
come stava. Sì, per assicurarmi che non pensasse che avevamo
sparlato alle sue spalle. Il cane era sdraiato lì fuori e la porta era
aperta. Ho capito subito che era successo qualcosa.”
“Non c’è nessun bisogno dei tecnici” disse Sven-Erik. “E
evidente cos’è successo.”
Sollevò uno degli zaini e mostrò ad Anna-Maria l’etichetta
all’interno. “Wilma Persson”.
“Uno era sul pavimento, l’altro là dentro.”
Indicò l’armadietto aperto sopra la dispensa.
“Li ha uccisi e ha preso i loro zaini” proseguì. “Ieri l’hai
spaventato con le tue domande. É salito sulla sedia per tirare giù
gli zaini e farli sparire, è caduto, ha battuto la testa ed è morto.”
“Strano posto per tenerli” disse Anna-Maria guardando
l’armadietto. “Stretto e scomodo. Non era da lui. Non quadra.”
Sven-Erik Stålnacke la fissò come se volesse scuoterla per il
bavero. I baffi erano più evidenti che mai.
“Arrenditi!” disse. “Possiamo archiviare quest’indagine.”
Anna-Maria raddrizzò la schiena.

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“Fuori di qui” ordinò. “Sono ancora il tuo capo. Questa è una
sospetta scena del crimine. I tecnici faranno un sopralluogo e poi
toccherà a Pohjanen.”
Quel pomeriggio Anna-Maria si affacciò alla porta della sala
autopsie. Registrò lo sguardo irritato del tecnico di laboratorio
Anna Granlund. Ad Anna non piaceva che si andasse a disturbare
il suo capo.
Il modo in cui si occupava del medico legale le ricordava
quello in cui ci si prende cura dei lottatori di sumo. Non che
Pohjanen ricordasse in alcun modo un lottatore di sumo, magro e
grigio com’era, ma insomma. Anna Granlund si assicurava che
pranzasse, chiamava sua moglie e l’avvisava se Pohjanen doveva
andar fuori per lavoro, quando si addormentava sul divano nella
saletta lo copriva con un plaid e gli toglieva la sigaretta accesa di
mano. Si incaricava di fare tutto il lavoro che poteva. E
soprattutto, nessuno doveva stressarlo o mettergli fretta.
Deve fare quel che è bravo a fare e lasciar perdere tutto il
resto, diceva sempre.
Non apriva bocca sulle sigarette che fumava. Ascoltava
pazientemente il suo respiro rauco, aspettava che gli attacchi di
tosse finissero e aveva sempre a portata di mano un fazzoletto
perché potesse liberarsi del catarro.
Ma Anna-Maria Mella non ci badava. Se si volevano ottenere
dei risultati, bisognava insistere. Richiamare, discutere, litigare.
Se capitava una morte sospetta durante il fine settimana, Anna
Granlund avrebbe sempre aspettato il lunedì. E non voleva mai
che Pohjanen lavorasse di sera. Ogni tanto litigavano per quelle
cose.
Dobbiamo insegnargli che dare la priorità alla polizia di
Luleå ha un prezzo, diceva sempre Anna-Maria ai colleghi. Se lo

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fanno, dobbiamo rompergli le scatole.
“Cosa vuoi?” chiese Pohjanen a denti stretti.
Era chino sul corpo sottile di Hjörleifur Arnarson. Gli aveva
segato la calotta cranica ed estratto il cervello, che era in una
vaschetta di acciaio sul carrello a fianco.
“Voglio sapere come va” rispose Anna-Maria.
Si tolse berretto e guanti ed entrò. Anna Granlund incrociò le
braccia sul petto e strinse i denti trattenendo le mille parole che
le venivano alle labbra. Faceva freddo come al solito. Odore di
cemento bagnato, acciaio e cadaveri.
“Non credo che sia stato un incidente” disse con un cenno
del capo in direzione di Hjörleifur.
“E caduto da uno sgabello, a quanto ho sentito dire” replicò
Pohjanen senza alzare gli occhi.
“Chi te l’ha detto?” chiese Anna-Maria irritata. “Sven- Erik?”
Pohjanen raddrizzò la schiena e la guardò.
“Nemmeno io credo che sia stato un incidente” la
tranquillizzò. “Le lesioni al cervello indicano un grave trauma
cranico, ma non da caduta.”
Anna-Maria si illuminò.
“Corpo contundente?” chiese.
“Molto probabile. In caso di caduta c’è sempre una lesione
controlaterale…”
“Ti spiace se chiamo un interprete?”
“Se hai la pazienza di ascoltare fino in fondo, Mella, potresti
imparare qualcosa. Immagina che il cervello sia come sospeso in
una scatola. In caso di caduta, la corteccia cerebrale presenta una
lesione da contraccolpo, sul lato opposto. Non ne ho trovato
traccia, e invece ho recuperato frammenti di corteccia nella
ferita.”

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“Un colpo inferto con un pezzo di legno?”
“Forse. Cos’ha detto la scientifica?”
“Che lo stipite della porta della cucina è stato ripulito, si
vedeva chiaramente: era tutto molto sporco tranne un punto
preciso molto pulito, proprio all’altezza della mano se ci si
appoggia…”
Anna-Maria si interruppe. Le era passata davanti agli occhi
l’immagine di Hjalmar Krekula appoggiato alla porta di sua
madre Kerttu.
“Sì?” la incitò Pohjanen.
“E il corpo sembra essere stato spostato. Indossava una tuta
da lavoro blu che gli era risalita lungo la schiena, come se lo
avessero trascinato per le gambe. Ma non sono mai cose sicure, lo
sai anche tu. Forse non è morto subito. Potrebbe aver cercato di
rimettersi in piedi, o forse sono state le convulsioni dell’agonia.”
“Sangue sul pavimento?”
“C’era un punto che era stato pulito.”
Anna-Maria Mella guardò Hjörleifur Arnarson. Era triste che
fosse morto, ma adesso si trattava senza dubbio di un’indagine
per omicidio e nient’altro. Non avrebbe creato problemi
tralasciare tutto il resto per concentrarsi su quello. Sven-Erik
avrebbe fatto fatica a mandarla giù. Aveva avuto ragione lei. Lui
aveva inquinato il luogo del delitto e i tecnici della scientifica si
erano incazzati da morire.
Non posso assumermene io la responsabilità, si disse. Se
vuole può lavorare a qualche altro caso.
Chiuse la cerniera del giaccone.
“Devo andare” disse.
“Dove?” chiese Pohjanen.
“Da Rebecka Martinsson. Mi serve un mandato di

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perquisizione.”
“Ascolta” disse Pohjanen. “Che tipo è questa Rebecka?”
Ma Anna-Maria era già sparita fuori dalla porta.
Alla centrale di Kiruna Anna-Maria Mella riassunse
brevemente il rapporto preliminare sulla morte di Hjörleifur
Arnarson al procuratore Rebecka Martinsson. Erano presenti
anche i colleghi Sven-Erik Stälnacke, Fred Olsson e Tommy
Rantakyrö.
Ai piedi di Rebecka era sdraiata Vera. Tommy Rantakyrö
l’aveva portata con sé, l’aveva lasciata in ufficio da lei ed era
corso a comprare del cibo per cani all’Ica. Vera si era rifiutata di
mangiare, ma aveva bevuto un po’ d’acqua e poi si era sdraiata.
Parlando di cani, si disse Rebecka osservando i poliziotti che
si accalcavano nel suo ufficio, che razza di branco.
Anna-Maria Mella era animata da un’energia totalmente
diversa dall’ultima volta che l’aveva vista. Era tornata la femmina
alfa, trasudava eccitazione per la caccia da tutti i pori: non si era
nemmeno tolta il berretto e non riusciva a stare seduta, aveva
parlato restando in piedi. Fred Olsson e Tommy Rantakyrö
agitavano la coda con la lingua penzoloni e tiravano il guinzaglio.
Solo Sven-Erik era seduto svogliatamente sulla sedia di fronte
alla scrivania di Rebecka e fissava il vuoto fuori dalla finestra.
“Inoltre abbiamo la risposta del laboratorio: le scaglie di
vernice sotto le unghie di Wilma Persson corrispondono a quelle
prelevate a casa di Göran e Berit Sillfors. E Göran Sillfors aveva
dipinto la porta che è stata rubata con la stessa vernice. Perciò
ora possiamo dire con sicurezza che qualcuno ha messo la porta
sopra il foro nel ghiaccio in cui si erano immersi Wilma Persson
e Simon Kyrò. Sono stati uccisi.”
“Ufficialmente Simon Kyrò risulta ancora scomparso” le

142
ricordò Rebecka.
“Come vuoi. E adesso Hjörleifur Arnarson. Voglio un
mandato di perquisizione domiciliare per Hjalmar e Tore
Krekula.”
Rebecka sospirò.
“Devono esserci ragionevoli sospetti che siano coinvolti”
rispose.
“E allora?” sbottò Anna-Maria. “Andiamo, Martinsson. Per
un ragionevole sospetto basta, che ne so… che abbiano fatto la
spesa allo stesso negozio della vittima. Andiamo, Alf Bjòrnfot
non ha mai creato problemi.”
Il procuratore capo Alf Bjòrnfot era il superiore di Rebecka.
Ormai lavorava soprattutto a Luleå, lasciando che lei sbrigasse da
sola i casi di routine a Kiruna.
“Sì, ma adesso hai a che fare con me e non con lui” replicò
lentamente Rebecka.
Fred Olsson e Tommy Rantakyrö smisero di agitare la coda:
caccia rinviata.
“Mi hanno minacciata per tenermi lontana da questa
indagine” insistette Anna-Maria.
“Non puoi provarlo” ribatté Rebecka.
“Ho chiamato Göran Sillfors. Ha ammesso di avere riferito a
un tizio di Piilijarvi che eravamo andate a trovare Hjörleifur
Arnarson. Sicuramente sono andati da lui, dopo che li abbiamo
visti qui nel parcheggio.”
“Ma non possiamo saperlo” obiettò Rebecka. “Se riesci a
provarlo, se qualcuno li ha visti nelle vicinanze, o anche solo a
Kurravaara, otterrai il tuo mandato.”
“Ma…” gemette Anna-Maria.
Tutto il branco, escluso Sven-Erik, guardava Rebecka con

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occhi imploranti.
“Saremmo subito deferiti al difensore civico” proseguì lei. “E
i fratelli Krekula non aspettano altro.”
“Non li prenderemo mai” concluse Anna-Maria scoraggiata.
“Finirà come con Peter Snell.”
Quindici anni prima una ragazzina di tredici anni, Ronja
Larsson, era scomparsa un sabato pomeriggio dopo essere stata a
casa di alcuni amici. Peter Snell era un conoscente della famiglia.
Una compagna della ragazza aveva raccontato che l’uomo aveva
tentato degli approcci e che Ronja lo trovava “inquietante”. La
mattina dopo la scomparsa di Ronja, Peter Snell aveva versato
della benzina nel bagagliaio della sua auto e le aveva dato fuoco
nel bosco. Quando era stato interrogato, aveva negato qualsiasi
collegamento con la scomparsa della ragazza, ma non aveva
saputo spiegare perché avesse incendiato la sua auto.
“Non è tenuto a farlo” aveva spiegato il procuratore capo Alf
Bjòrnfot ad Anna-Maria Mella. “Uno è libero di dar fuoco alla
propria macchina, se ne ha voglia. Non prova niente.”
Avevano cercato inutilmente tracce di dna sui resti
carbonizzati della vettura. Il cadavere non fu ritrovato e il caso fu
archiviato. Si sapeva chi era l’assassino, ma non c’erano
abbastanza prove per portarlo in giudizio. Peter Snell era il
titolare di una ditta che si occupava di soccorso stradale. Prima
della scomparsa di Ronja Larsson, la polizia lo chiamava spesso
in caso di incidenti stradali. Dopo aveva smesso di farlo. E Snell
aveva minacciato di sporgere denuncia.
Rebecka rimase in silenzio per parecchi secondi. Poi rivolse
un sorriso malizioso ai poliziotti.
“Non preoccupatevi” disse. “Li colleghiamo al luogo del
delitto e poi emettiamo il mandato di perquisizione.”

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“E come?” chiese Anna-Maria incredula.
“Ce lo diranno loro stessi” rispose Rebecka. “Sven- Erik?”
L’ispettore alzò lo sguardo sorpreso.
“Hai il mio numero memorizzato sul cellulare?”
Sven-Erik Stålnacke e Rebecka Martinsson arrivarono nel
cortile di Tore Krekula alle cinque e un quarto del 28 aprile. Fu
la moglie ad andare ad aprire.
“Tore non c’è” disse. “Credo sia giù alla rimessa. Posso
telefonargli, se volete.”
“Ci andiamo direttamente” rispose Sven-Erik in tono
cordiale. “Le spiace accompagnarci per farci vedere dov’è?”
“Non potete non trovarla. Basta attraversare il paese e…”
“Meglio se ci accompagna” replicò Sven-Erik con un tono
gentile che non ammetteva obiezioni.
“Prendo solo la giacca.”
“Non si preoccupi” disse Sven-Erik guidandola delicatamente
fuori. “In macchina fa caldo.”
Salirono in macchina in silenzio.
“Deve scusare l’odore” disse Rebecka. “E il cane, stasera
devo lavarlo.”
Laura Krekula lanciò un’occhiata distratta a Vera, sdraiata nel
bagagliaio.
Rebecka digitò un sms sul cellulare. Era per Anna- Maria.
“Laura Krekula fuori casa” diceva.
La rimessa era costruita con blocchetti di cemento. Fuori
erano parcheggiati alcuni autobus, un paio di spazzaneve e una
nuovissima Mercedes E270 station wagon.
“Lì dentro, l’ufficio è subito sulla destra” disse Laura
Krekula indicando una porta che si apriva stranamente in alto
sulla parete. “Posso anche tornare a piedi, in fondo non fa poi

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così freddo.”
Rebecka guardò il cellulare: un sms di Anna-Maria. “Siamo
fuori” diceva. Annuì impercettibilmente.
“D’accordo” acconsentì Sven-Erik.
La signora Krekula si incamminò lungo la strada mentre
Sven-Erik e Rebecka entravano nell’officina. C’era un leggero
odore di gasolio, gomma e olio.
La porta dell’ufficio era aperta. Era solo un bugigattolo, lo
spazio strettamente necessario per una scrivania a cavalletti e una
sedia. Tore Krekula era seduto al computer. Quando Rebecka e
Sven-Erik entrarono, ruotò la sedia verso di loro.
“Tore Krekula?” chiese Rebecka.
L’uomo annuì. Sven-Erik sembrava imbarazzato, teneva gli
occhi bassi e le mani in tasca. Lasciava che fosse Rebecka a
parlare.
“Sono il procuratore Rebecka Martinsson e questo è
l’ispettore Sven-Erik Stålnacke.”
Sven-Erik abbassò leggermente la testa in segno di saluto,
senza togliere le mani di tasca.
“Ci siamo incontrati ieri” disse Tore Krekula. “E poi è una
specie di celebrità nella zona, non è un nome, che si dimentica
facilmente.”
“Sto indagando sulla morte di Hjörleifur Arnarson” proseguì
Rebecka. “Abbiamo motivo di credere che non sia stato un
incidente. E vorrei chiederle…”
Fu interrotta da uno squillo del cellulare. Lo tirò fuori dalla
tasca e lo guardò.
“Mi scusi, devo rispondere.”
Tore Krekula alzò le spalle come a dire che non gliene poteva
fregare di meno.

146
“Salve” disse Rebecka al telefono uscendo dalla porta. “Sì,
ho spedito il materiale ieri…”
La porta si richiuse e non la sentirono più.
Sven-Erik rivolse a Tore Krekula un sorriso di scuse.
Nessuno dei due disse niente per un bel po’.
“E così Hjörleifur Arnarson è morto” disse Tore alla fine.
“Cosa vuol dire che non è stato un incidente?”
“Sì, è una brutta storia” disse Sven-Erik. “Pare che qualcuno
l’abbia ucciso. E non ho idea di cosa ci facciamo qui, è il mio
capo che d’accordo con il procuratore…”
Un cenno in direzione di Rebecka.
“Si direbbe che abbiate fatto arrabbiare il mio capo” proseguì
Sven-Erik. “Non so cosa c’è di vero in quello che dice, ma di
sicuro le riesce facile scontrarsi con la gente.”
Tore Krekula non rispose.
“Insomma” proseguì Sven-Erik con un sospiro. “Immagino
che abbia sentito parlare della sparatoria di Regia.”
“Sì” rispose Tore. “I giornali ne hanno scritto parecchio.”
“E tutta colpa sua” aggiunse Sven-Erik in tono animato.
“Mette in pericolo i suoi uomini senza pensarci un attimo. Dopo
quel fatto ho dovuto mettermi in malattia…”
Si interruppe, apparentemente immerso nei ricordi.
“E adesso non riesce nemmeno ad aspettare che i tecnici
facciano il loro lavoro. Se qualcuno è stato a casa di Hjörleifur
Arnarson lo scopriremo presto. Dio santo, cosa non fa la tecnica
al giorno d’oggi. Basta aver perso un solo capello che quelli lo
trovano. Stanno passando al setaccio la casa di Hjörleifur con
tamponi e pinzette.”
Tore Krekula si passò una mano sulla testa. Era uno di quelli
che non perdono i capelli con gli anni.

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“Non che dimostri qualcosa” proseguì Sven-Erik guardando
il soffitto, come se si fosse dimenticato della presenza di Tore.
“Si può essere stati a casa di qualcuno senza per questo averlo
ucciso.”
In quel momento si aprì la porta e Rebecka rientrò.
“Scusatemi” disse in tono severo. “Dicevamo, Hjörleifur
Arnarson è stato trovato morto a casa sua. Lei o suo fratello siete
per caso stati da lui?”
Tore Krekula la guardò con aria astuta.
“Non lo nego” dichiarò dopo un attimo. “Ma non l’abbiamo
ucciso. Volevamo solo sapere cosa aveva visto. Voglio dire, la
polizia non ci racconta niente. In fondo i ragazzi abitavano qui in
paese, e mia zia Anni era la bisnonna di Wilma. Uno ha il diritto
di avere qualche informazione.”
“Quindi siete stati là” disse Rebecka. “Cosa vi ha detto?”
“Niente. Credeva che ve la sareste presa con lui, se ci avesse
detto qualcosa. Insomma, siamo tornati a casa con le pive nel
sacco.”
Rebecka guardò l’ora sul cellulare.
“Alle ore diciassette e cinquantasei, ordino una perquisizione
presso le abitazioni di Tore e Hjalmar Krekula, entrambi
sospettati della morte di Hjörleifur Arnarson.”
Si voltò verso Tore.
“Si tolga i vestiti, li portiamo con noi. Può tenere le mutande.
In macchina abbiamo degli abiti da prestarle.”
La polizia sta perquisendo le abitazioni di Tore e Hjalmar
Krekula. Sono seduta sulla tettoia della scala di Tore. Accanto a
me si è posato un corvo. Mi vede, potrei giurarci. Inclina la testa
di lato e mi osserva, anche se non c’è niente da guardare. Si
avvicina di un passo, poi si allontana di un passo. Giù in cortile,

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Laura rabbrividisce dal freddo. Quando è tornata dalla rimessa ha
trovato la polizia già lì, la donna con la lunga treccia bionda e
altri tre colleghi in uniforme. Non l’hanno lasciata entrare in
casa. Poi è squillato il telefono della donna poliziotto. E stata
una telefonata breve, ha detto soltanto: “D’accordo”, e sono
entrati.
Adesso portano via i vestiti di Tore. Capisco che sperano di
trovare tracce del sangue di Hjörleifur.
Arriva anche Tore e resta a guardare. In un primo momento
non dice niente, cerca lo sguardo della donna poliziotto ma lei lo
ignora. Allora sorride ai suoi colleghi e chiede se vogliono
frugare anche nel cassonetto dei rifiuti. E in effetti lo fanno. La
moglie di Tore resta in silenzio, non osa chiedere cosa stanno
cercando. Ha imparato a non far innervosire Tore.
Il corvo gracchia e chioccia e stride, sembra quasi che provi
vari suoni per vedere quale funziona con me. Ma io non posso
rispondere. Perciò prende il volo, si allontana di un centinaio di
metri, si posa su una betulla e mi chiama. In un batter d’occhio
sono seduta sul ramo accanto a lui.
Hjalmar apre la porta alla polizia che ha suonato il
campanello. Ha l’aria assonnata. I capelli sembrano una zolla
d’erba secca e scompigliata. La ricrescita della barba gli disegna
un’ombra scura sulle guance e sulla gola. Il ventre sporge come
quello di un maiale troppo pasciuto sotto la maglietta di cotone.
Quando i poliziotti gli chiedono gentilmente di aspettare fuori,
esce in mutande. Il poliziotto più anziano, con quei grandi baffi,
si impietosisce e gli dice di aspettare in macchina.
Atterro sui capelli del procuratore, sono come un corvo
appollaiato sulla sua testa. Le passo gli artigli tra le ciocche
scure, voltandole la testa verso Hjalmar. Lo vede seduto nella

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macchina della polizia, a occhi chiusi. Apre la portiera e gli parla.
Le picchietto sulla testa. Deve svegliarsi.
Fred Olsson, Tommy Rantakyrö e Sven-Erik Stålnacke
portarono fuori degli abiti dalla casa di Hjalmar Krekula e
frugarono in garage in cerca di un’eventuale arma del delitto.
Dopo un’ora e mezza comunicarono che avevano finito.
Rebecka Martinsson osservava Hjalmar Krekula. Aveva gli
occhi semichiusi, sembrava quasi che stesse per addormentarsi
con la testa appoggiata al finestrino della macchina. Poi le parve
che si accorgesse di lei. Voltò lentamente la testa e la fissò.
Rebecka si sentì passare da parte a parte. Il suo sguardo la
trafisse, come quando un luccio addenta l’esca senza pensare. E
lo sguardo di lei trafisse lui, come quando la punta dell’amo
penetra nelle fauci del luccio.
Rapidi flash le attraversano la mente.
Nessuno lo tocca più da quando era bambino. Dolore e
sofferenza incastonati in tutto quel grasso. Da questo non può
difendersi mangiando. Adesso è arrivato alla fine della strada.
Ma io l’ho toccato, si disse, anche se in realtà fu più
un’intuizione che un pensiero. Era piccolo. Nemmeno io ero
molto grande. Forse quindici anni. L’ho preso per le ascelle e
l’ho sollevato verso il cielo. Il sole allo zenit. Terra asciutta sotto
i piedi nudi. Dormiva in braccio a me. Era il mio fratellino? Mio
figlio? La mia sorellina?
Le si spezzò il cuore per la compassione. Avrebbe voluto
posare una mano sul finestrino, lasciare che lui posasse la sua
dall’altra parte del vetro.
“Ehi” disse Fred Olsson accanto a lei. “Ho detto che abbiamo
finito.”
Seguì lo sguardo di Rebecka e vide Hjalmar Krekula in

150
macchina.
“Che stronzo” disse tra i denti. “Ma se la vedrà brutta.
Credevano di potersela prendere con Mella e di passarla liscia?
Adesso si ritrovano senza mutande.”
Rebecka Martinsson annuì stancamente. Poi si avvicinò alla
macchina di Sven-Erik e aprì la portiera posteriore.
“Abbiamo finito” disse a Hjalmar Krekula.
Lui restò lì seduto nel suo corpo adiposo a guardarla. Sven-
Erik gli aveva messo una coperta a scacchi rossi e neri sulle
gambe nude.
Hanno bucato le gomme di Anna-Maria, si ripeté. Le hanno
rubato il cellulare e hanno attirato Jenny allo Järnvägsparken per
spaventarla a morte. Devo stare in guardia.
“Verrà con noi in centrale per essere interrogato” disse. “Non
è in stato di fermo, perciò dopo l’interrogatorio verrà
riaccompagnato a casa.”
Trattenne a forza la compassione, non lasciando che
trasparisse. Fissò gli occhi su un corvo seduto sulla tettoia della
scala.
“Le procureremo un paio di pantaloni.”
Trascrizione dell’interrogatorio di Tore Krekula.
Luogo: centrale di polizia di Kiruna.
Data e ora: 28 aprile ore 19,35.
Sono presenti gli ispettori Anna-Maria Mella e Sven- Erik
Stålnacke e il procuratore Rebecka Martinsson.
AMM: L’interrogatorio inizia alle diciannove e trentacinque.
Dica il suo nome.
TK: Tore Krekula.
AMM: Ha ammesso lei stesso di essere andato a trovare
Hjörleifur Arnarson insieme a suo fratello, ieri. Perché lo avete

151
fatto?
TK: Avevamo saputo che la polizia era andata a fargli qualche
domanda su Wilma Persson e Simon Kyrò. In effetti siamo
parenti, Wilma viveva dalla bisnonna Anni Autio, che è sorella di
nostra madre. Ma la polizia non ci dice mai niente, perciò
volevamo sapere cosa stava succedendo.
AMM: Può raccontarci della vostra visita a casa di Hjörleifur
Arnarson?
TK: Cosa volete sapere?
AMM: Ci racconti semplicemente com’è andata.
TK: Gli abbiamo domandato di cosa aveva parlato con la
polizia. Lui ha risposto: “Niente di particolare.” Ha detto che gli
avevate chiesto di Wilma e Simon, ma che non sapeva niente.
AMM: Chi glielo ha chiesto, lei o suo fratello?
TK: Io. Hjalmar non è molto loquace.
AMM: E poi?
TK: Poi? Poi niente. Ce ne siamo andati. Tanto non sapeva
niente.
AMM: Avete toccato qualcosa mentre eravate a casa sua?
TK: É possibile, non mi ricordo.
AMM: Ci pensi bene.
TK: Ho detto che non mi ricordo. Abbiamo finito? Qualcuno
deve lavorare per pagarvi lo stipendio, sapete.
AMM: L’interrogatorio viene chiuso alle diciannove e
quarantadue.
Trascrizione dell’interrogatorio di Hjalmar Krekula.
Luogo: centrale di polizia di Kiruna.
Data e ora: 28 aprile ore 19,45.
Sono presenti gli ispettori Anna-Maria Mella e Sven- Erik
Stålnacke e il procuratore Rebecka Martinsson.

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AMM: L’interrogatorio inizia alle diciannove e
quarantacinque. Dica il suo nome. HK: …
AMM: Il suo nome, grazie.
HK: Hjalmar Krekula.
AMM: Ieri lei e suo fratello siete andati a trovare Hjörleifur
Arnarson. Mi parli della visita.
HK: …
AMM: Può dirmi qualcosa della visita?
HK: …
AMM: Devo interpretare il suo silenzio come…
HK: Non ci ha detto niente. Posso andare?
AMM: Non ancora, abbiamo appena… Si sieda!
RM: Posso parlarti un attimo?
AMM: L’interrogatorio viene momentaneamente sospeso alle
diciannove e quarantasette.
“Dobbiamo lasciarlo andare” disse Rebecka ad Anna- Maria
Mella e Sven-Erik Stålnacke una volta usciti in corridoio, appena
fuori dalla sala interrogatori. “Abbiamo i vestiti, possiamo
sperare nelle analisi tecniche.”
“Non ci hanno detto niente!” esclamò Anna-Maria. “Non
possiamo lasciarli andare!”
“Non sono in stato di fermo. Hanno detto quello che avevano
da dire.”
“Abbiamo il diritto di trattenerli per sei ore per interrogarli.
Quindi quegli stronzi resteranno qui per sei ore.”
“Vuoi essere denunciata per abuso d’ufficio?” chiese
Rebecka in tono calmo. “Non abbiamo motivo di trattenerli.”
Fred Olsson e Tommy Rantakyrö li raggiunsero in corridoio,
attirati dalle voci animate.
“Rebecka dice che dobbiamo lasciarli andare” disse Anna-

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Maria.
“Li incastreremo lo stesso” rispose Fred con fare
consolatorio.
Anna-Maria annuì.
Dobbiamo riuscirci, si disse. Non sopporterei il contrario.
Dio, fa’ che ci sia qualcosa sui vestiti.
“Dopo tutto abbiamo ottenuto il mandato di perquisizione”
aggiunse Tommy Rantakyrö. “Ben fatto, Svempa.”
Sven-Erik abbassò gli occhi a terra, schiarendosi la voce a
indicare che aveva sentito il complimento.
“Sì, cazzo” continuò Tommy, sforzandosi di alleggerire
l’atmosfera cupa. “Avrei dato qualsiasi cosa per esserci anch’io.”
“Sì, anche la telefonata, un tempismo perfetto” confermò
Rebecka con uno sguardo di approvazione. “Per il momento
salutiamo i fratelli Krekula. Anna-Maria, hai tu i fascicoli su
Wilma, Simon e Hjörleifur?”
“Certo” rispose Anna-Maria, con un’ombra di esitazione
nella voce.
“Adesso che sono a capo delle indagini preliminari devo
vedere tutto il materiale. Pensavo di farlo stasera.”
Un’improvvisa rigidità si impadronì del gruppetto. Tutti
guardarono Rebecka.
“Emettendo il mandato di perquisizione ho preso in mano le
indagini, lo sapete” proseguì lei.
Adesso gli sguardi dei tre uomini si spostarono su Anna-
Maria.
“Certo” rispose lei in tono innaturalmente leggero. “Solo che
non siamo abituati a essere così formali. Con Alf Bjòrnfot in
genere facevamo rapporto a mano a mano che il lavoro
procedeva.”

154
“Come ho già detto prima” replicò Rebecka, con le parole che
quasi le si accalcavano sulle labbra, “adesso non avete a che fare
con Alf Bjòrnfot, ma con me. Voglio leggere tutto il materiale. E
naturalmente mi aspetto che mi teniate aggiornata non appena
succede qualcosa.”
“Mi aspetto!” le fece il verso Anna-Maria prima di riuscire a
trattenersi. Poi entrò nel suo ufficio e raccolse i fascicoli dalla
scrivania. Rebecka la seguì e li prese in consegna sulla porta. Gli
altri colleghi le tallonavano da vicino.
“Forse non sono molto in ordine” disse Anna-Maria.
“Non c’è problema” rispose Rebecka.
Lanciò uno sguardo verso il tabellone nell’ufficio di Anna-
Maria dov’erano appuntate le foto di Wilma, Simon e Hjörleifur,
con la data della scomparsa dei ragazzi, del ritrovamento di
Wilma e della morte di Hjörleifur. C’erano anche alcune mappe
della zona in cui era stato ritrovato il corpo di Wilma e del
Vittangijärvi. Il nome dei fratelli Krekula era scritto in cima al
tabellone.
“Domani lo spostiamo nella sala riunioni” disse Rebecka
indicandolo con un cenno del capo. “Così teniamo tutto nello
stesso posto. A che ora ci vediamo? Alle otto?”
Che pensassero pure quello che volevano, si disse Rebecka
uscendo con gli incartamenti sottobraccio. Ho io la responsabilità
e voglio che tutto vada come deve andare. Non è nel mio stile
restare passivamente a guardare. Se sono io a capo delle indagini
preliminari, sono io che decido.
“Accipicchia” commentò Anna-Maria una volta sparita
Rebecka. “Credete che domani mattina dovremo metterci in fila
per l’ispezione? In ordine alfabetico, come a scuola.”
“Ma stamattina ha fatto un ottimo lavoro con Tore Krekula”

155
osservò Sven-Erik. “Senza di lei…”
“Sì sì” replicò Anna-Maria impaziente. “Trovo solo che un
po’ di umiltà non le farebbe male.”
Ci fu un secondo di silenzio, lungo un’eternità. Sven- Erik
Stålnacke guardava Anna-Maria. Lei ricambiò lo sguardo, pronta
a difendersi.
“Be’, forse è il caso di andare” disse poi Fred Olsson,
ottenendo l’approvazione di Tommy Rantakyrö. Aggiunse che la
sua compagna ormai sarebbe stata furiosa: aveva chiamato più di
un’ora prima per la cena, e lui aveva promesso di fermarsi a
prendere un film lungo la strada.
Le voci corrono in fretta, in una città piccola come Kiruna.
Lars Pohjanen racconta ad Anna Granlund che Rebecka
Martinsson ha visto in sogno Wilma Persson e che la ragazza le
ha rivelato di non essere morta nel fiume. Che è stato per quello
che ha prelevato i campioni di acqua dai polmoni.
Anna Granlund crede a quel genere di cose: in fondo la
cugina di sua nonna era capace di fermare le emorragie. Il lavoro
di un tecnico di laboratorio è coperto dal segreto professionale,
ma non riesce a non raccontare quel dettaglio a sua sorella mentre
mangiano una pizza al Laguna.
Sua sorella promette di non dire niente a nessuno, ma la
famiglia non conta, e così la sera stessa lo racconta a suo marito.
Il marito della sorella invece non crede a quelle cose. Proprio
per quel motivo lo racconta a uno dei suoi amici mentre fanno la
sauna dopo l’allenamento in palestra. Forse ha bisogno di mettere
alla prova l’idea, di vedere la reazione dell’amico. L’amico non
dice granché e si limita a versare altra acqua sulle pietre roventi
del braciere.
L’amico però va a caccia con un anziano di Piilijärvi, Stig

156
Rautio. Quando lo incrocia per caso davanti al supermercato, gli
racconta l’episodio e gli chiede se conosceva Wilma Persson.
Certo che è stata uccisa. E stata Rebecka Martinsson, il
procuratore, quella che aveva ucciso quei pastori un paio d’anni
fa, è stata lei a…
Stig Rautio va a caccia sui terreni di Tore e Hjalmar Krekula.
Quel giorno decide di pagare i diritti di caccia e va a casa di Isak
e Kerttu Krekula, perché la moglie di Tore gli ha detto che è dai
genitori. In realtà non ci sarebbe fretta, ma è curioso. Corre voce
in paese, anzi in tutta Kiruna, che la polizia abbia perquisito le
case dei fratelli Krekula, che abbiano a che fare con la morte di
Wilma Persson e Hjörleifur Arnarson. Isak è a letto nella
cameretta, come sempre ormai, mentre Kerttu frigge la salsiccia e
prepara il purè di rape per i figli. Hjalmar è a tavola. Tore ha
davanti solo un caffè, ha già mangiato a casa, lui ha una moglie
che gli prepara la cena.
Kerttu non chiede a Stig se vuole del caffè. Capiscono che è
li per ficcare il naso, ma non possono dirgli niente, ha in mano la
busta con i soldi. Ha preso la prima che gli è capitata, per puro
caso è una di quelle della moglie, comprata al mercato di Kiruna,
carta fatta a mano con fiori secchi pressati dentro. Tore prende la
busta e gli lancia un’occhiata spregiativa. Sì, certo, dice lo
sguardo, è per darti delle arie.
Stig si pente di non aver cercato un’altra busta, una usata
sarebbe andata meglio, ma pazienza. Poi dice che ha sentito che è
passata la polizia, che idioti, che nullità, cosa cazzo credono, tra
un po’ passeranno anche da lui. Alla fine racconta la storia del
procuratore Martinsson e di Pohjanen. Che la donna ha sognato
Wilma ed è andata dal medico legale.
“Tra un po’ si metteranno a comprare sfere di cristallo, invece

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di dare la caccia ai ladri” scherza.
Ovviamente nessuno sorride. La battuta resta sospesa
nell’aria, goffa e ingenua. La famiglia Krekula è esattamente
come al solito: Hjalmar mangia purè di rape e salsiccia, Tore
picchietta sulla tazza con l’unghia e Kerttu gli versa dell’altro
caffè.
Sembra quasi che quel giorno non sia successo niente di
particolare. Non fanno commenti su quello che ha detto sulla
polizia. Cade solo un lungo e profondo silenzio in cucina. Poi
Tore conta le banconote nella busta da finocchio e chiede a Stig
se ha qualcos’altro da dire. No, niente. Se ne va senza niente di
nuovo da raccontare in paese.
Una volta uscito il vicino, Tore gli commenta alle spalle:
“Che stronzata, che il procuratore l’abbia sognata.”
Kerttu dice: “Il papà non reggerà per molto. Questa storia sarà
la sua morte.”
“La gente parla” dice Tore. “L’ha sempre fatto. Lasciali
parlare.”
Kerttu picchia una mano sul tavolo, gridando: “Facile dirlo,
per te!”
Inizia a sparecchiare, anche se Hjalmar non ha ancora finito
di mangiare. Un chiaro segnale che la conversazione è chiusa.
La conversazione è sempre chiusa, si dice Hjalmar. Anche
quella volta, l’autunno precedente, quando il papà aveva avuto
l’infarto. Johannes Svarvare aveva iniziato a straparlare tra i fumi
della sbronza. Anche allora la conversazione era stata subito
chiusa.
È la fine di settembre. Il sole sta tramontando sull’altra
sponda del lago. Hjalmar ha portato il fuoribordo a casa di papà
Isak. Adesso è posato sul tavolo della cucina, su uno strato di

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giornali vecchi. Johannes Svarvare lo sta smontando e
revisionando, come al solito. Problemi al carburatore, come al
solito.
Johannes Svarvare lavora al motore. Isak gli offre della vodka
in cambio dell’aiuto. La moglie di Tore è a una dimostrazione
Tupperware, perciò anche lui è a cena da Kerttu. In tavola non c’è
nemmeno spazio per respirare. Piatti di hamburger e pasta al
forno si mescolano a cacciaviti, chiavi, un coltellino, una
bottiglia di plastica con l’olio per il cambio, candele nuove e un
barattolo pieno di benzina in cui Isak metterà a bagno il filtro.
A Johannes si è sciolta la lingua. Il discorso passa leggero
come un valzer dai motori marini, alle varie barche che ha avuto o
costruito, a quella volta che lui e suo cugino hanno caricato sulla
barca a remi dello zio cinque pecore che erano al pascolo su un
isolotto del Rautasàlven e sono andati a sbattere contro una
roccia a Kutukoski e tutte le pecore sono affogate e per poco non
ci restavano secchi pure loro.
Non è la prima volta che sentono la storia delle pecore
affogate, ma Hjalmar e Tore hanno la bocca piena e ascoltano
proprio come quando erano piccoli.
“A proposito di affogati” dice Johannes mentre svita il
carburatore. “Ti ricordi l’autunno del ‘43, quando aspettavamo
quell’aereo che non è mai arrivato?”
“No” dice Isak con un tono d’avvertimento nella voce.
Ma Johannes ha bevuto e non è in grado di distinguere le
variazioni di tono.
“Scomparso. Mi sono sempre domandato dove potesse essere
precipitato. Arrivava da Narvik, avrebbe dovuto seguire il
Torneälven oltre lo Jiekajàrvi e l’Alajàrvi. Ma tu avevi chiesto
alla gente di quelle parti, e nessuno aveva visto né sentito l’aereo.

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Probabilmente ha sbagliato rotta, sai, dev’essersi diretto a sud
lungo il Taalojärvi e poi qualcosa dev’essere andato storto.
Avranno tentato un ammaraggio d’emergenza sull’Ovre
Vuolusjärvi o sul Harrijärvi o sul Vittangijärvi. Non credi? Tutti i
membri dell’equipaggio devono essere affogati come topi.”
Tore e Hjalmar tengono gli occhi fissi sul piatto. Kerttu è in
piedi accanto al piano della cucina, di spalle, apparentemente
intenta a fare qualcosa. Isak non dice niente, porge a Johannes la
chiave da otto perché smonti la valvola.
“L’ho detto a Wilma” prosegue Johannes. “Lei e Simon fanno
immersioni, potrebbero cercare il relitto. Provate nel
Vittangijärvi, le ho detto. Perché se fosse caduto nell’Ovre
Vuolusjärvi l’avremmo sentito, e lo Harrijàrvi è così piccolo. Da
qualche parte bisogna pur cominciare, no?”
Svita l’ugello, se lo infila tra le labbra e soffia per eliminare
eventuali scaglie metalliche. Poi lo solleva verso la finestra e
guarda attraverso il foro per vedere se è pulito. Lancia
un’occhiata verso Tore e Hjalmar.
“Avevo solo tredici anni, ma vostro padre mi portava con lui.
All’epoca bisognava lavorare.”
“E Wilma cos’ha detto?” chiede Isak in tono leggero, come se
in realtà non gli interessasse granché.
“Ha fatto fuoco e fiamme, ha voluto che le prestassi le carte.”
Adesso c’è un pizzico di soddisfazione nella sua voce. Un bel
ricordo, a quanto pare. Una ragazzina piena di vita che si
interessa a qualcosa che lui ha da dirle. Le loro dita vicine sulla
mappa.
Mette a mollo il filtro nel barattolo con la benzina, si asciuga
le dita sui pantaloni e butta giù le ultime gocce di vodka.
Invece di riempirgli di nuovo il bicchiere, Isak mette il tappo

160
alla bottiglia.
“Grazie, per oggi abbiamo finito” dice.
Johannes ha l’aria leggermente sorpresa. Credeva che gli
avrebbero offerto qualche altro giro e che il motore dovesse
essere rimontato. In genere funziona così.
Ma abita in paese e conosce Isak da una vita. Capisce
l’antifona, quando dice che è ora di andare. Ringrazia per
l’ospitalità, si dirige a passo instabile verso la porta e torna a casa
sua.
Kerttu resta perfettamente immobile, con la schiena girata e le
mani sul piano della cucina. Nessuno dice una parola.
“Cosa c’è, papà?” chiede Tore.
Isak sta cercando di alzarsi da tavola. E bianco in volto. Poi
cade, sbattendo la testa sul tavolo prima di finire a terra.
Tore si infila in tasca la busta. Hjalmar, come sempre, si dice
che sono un sacco di soldi di cui lui non vede nemmeno l’ombra.
Non sa quanto incassi la ditta. Non sa quanti ettari di bosco
possiedano e quanto ne ricavino. Ma è ovvio, Tore ha una
famiglia a cui badare.
Si sente un acciottolio quando Kerttu getta nel lavandino
piatti, posate e tazze da caffè.
“Ho due figli” dice senza guardarli. “E cosa me ne viene in
tasca?”
Hjalmar vede che le parole della madre feriscono Tore come
coltelli. Lui è abituato agli insulti fin da piccolo: scemo,
grassone, idiota, testa di legno. In realtà per la maggior parte
arrivavano da Tore e Isak, Kerttu stava quasi sempre zitta. Si
limitava a non guardarlo negli occhi.
É l’inizio della fine, si dice.
Ed è un pensiero quasi consolatorio. Pensa al procuratore

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Rebecka Martinsson, che ha visto Wilma dopo che è morta.
Tore lo guarda. Si dice che Hjalmar è silenzioso, come al
solito, ma allo stesso tempo non è affatto come al solito. Ha
qualcosa di strano.
“Stai male?” gli chiede brusco.
Sì, risponde Hjalmar a se stesso, sto male.
Si alza ed esce dalla cucina, dalla casa dei genitori. Attraversa
la strada, torna a casa sua, la sua triste casa piena di mobili,
tende, tovaglie, qualsiasi cosa, che non ha comprato lui.
E poi siamo andati a parlare con Johannes Svarvare, ricorda.
Mentre il papà era in terapia intensiva.
Nella sua testa, Tore apre la porta del vecchio ed entra in
cucina.
“Brutto stronzo” dice estraendo il coltello dalla cintola.
Hjalmar resta sulla porta. Johannes quasi se la fa addosso
dalla paura. E sdraiato sul divano, in preda ai postumi della
sbornia del giorno prima, quando ha smontato il motore nella
cucina dei Krekula. Si alza a sedere.
Tore pianta il coltello nel piano del tavolo, così Johannes
capirà che fa sul serio.
“Cosa sta succedendo?” balbetta Johannes.
“Quell’aereo che è scomparso” dice Tore. “Tutta quella storia.
Ti sei messo a chiacchierare come una vecchia comare. Hai tirato
in ballo cose dimenticate da tempo, e che dovrebbero restare
dimenticate. E hai mandato il papà in ospedale. Se non ce la fa, o
se vengo a sapere che hai detto in giro un’altra parola…”
Estrae il coltello e lo punta verso l’occhio di Johannes.
“Hai parlato con qualcun altro?” chiede.
Johannes scuote la testa. Fissa strabico la punta del coltello.
Poi se ne vanno.

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“Adesso almeno terrà la bocca chiusa” dice Tore.
“E Wilma e Simon?” chiede Hjalmar.
Ma Tore scuote la testa.
“Non troveranno mai niente, resteranno solo le chiacchiere di
un vecchio. Ma teniamoli d’occhio, per controllare che non si
immergano dove non devono.”
Hjalmar Krekula è fermo davanti a casa sua. Si sforza di
scacciare dalla mente i pensieri su Johannes Svarvare, Wilma,
Simon e tutto quanto. Viene colto da un’improvvisa riluttanza a
entrare in casa. Ma che alternative ha? Dormire nella legnaia?
Sven-Erik e Airi Bylund stanno andando verso il capanno di
Airi a Puoltsa. Vogliono solo dare un’occhiata, è una serata così
bella.
In macchina Sven-Erik racconta di come lui e Rebecka
Martinsson hanno incastrato Tore Krekula.
Airi lo ascolta, forse un po’ distrattamente, e dice: “Che
bravi.”
E Sven-Erik diventa di cattivo umore. Di punto in bianco.
Dice: “Meno male che ho fatto almeno qualcosa di giusto.”
Cerca di non pensare a come ha inquinato la scena del
crimine a casa di Hjörleifur, blaterando di morte accidentale
senza sapere un bel niente.
Vorrebbe che Airi dicesse qualcosa come: ma tu fai sempre
tutto giusto, amore, ma lei non apre bocca.
Viene sopraffatto dalla sensazione di non valere niente. Si
chiude in un silenzio scontento.
Anche Airi non dice niente.
Ma non è uno di quei silenzi riposanti. In genere stanno bene
senza parlare, in un silenzio pieno di sguardi e di sorrisi e di
gioia per essersi trovati, interrotto di tanto in tanto da qualche

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commento di Airi sui gatti, sui fiori, su Sven-Erik, su se stessa.
In questo silenzio invece rimbomba solo il pensiero di Sven-
Erik: finirà per lasciarmi. Sente che si è stancata della sua
insoddisfazione al lavoro. Sicuramente penserà che non faccio
altro che parlare di Anna-Maria, della
sparatoria di Regia e di tutto il resto. Ma lei non c’era. Non
può capire.
All’improvviso sono arrivati. Airi scende e dice: “Metto su il
caffè. Ne vuoi?”
E Sven-Erik non riesce a rispondere altro che: “Visto che lo
prepari…”
Airi entra in casa e lui resta fuori, senza sapere dove andare.
Gira attorno al capanno. Sul retro Airi ha un vero e proprio
cimitero felino. Ci sono sepolti tutti i gatti che ha avuto e anche
quelli di qualche conoscente, ricordati da piccole croci di legno e
belle pietre nascoste sotto la neve. L’estate scorsa, quando era in
malattia, l’ha aiutata a piantare una rosa selvatica. Si domanda se
sarà sopravvissuta all’inverno. Gli piace sedersi con Airi in
veranda e sentirla raccontare di tutti i gatti sepolti nel suo
giardino.
Mentre è lì che riflette, Airi gli compare a fianco e gli porge
una tazza di caffè.
Non vuole che si volti e torni in casa, perciò le dice:
“Raccontami di nuovo di Tigge-Tiger.”
Come un bambino che vuole sentire la sua favola preferita.
“Cosa devo raccontarti?” inizia Airi. “É stato il mio primo
gatto. All’epoca non mi piacevano molto. Mattias aveva quindici
anni e continuava a ripetere che dovevamo prendere un gatto. O
almeno una cocorita, o un qualsiasi altro animale. Ma io non
volevo. Poi però ha iniziato a venirci a trovare questo gatto a

164
strisce grigie. Abitavamo in Bangatan. Ovviamente non lo facevo
entrare, ma ogni giorno quando tornavo dal lavoro lo trovavo sul
cancello che miagolava. Una cosa straziante. Era la fine
dell’autunno, ed era magro come un anno di carestia.”
“Un sacco di gente si prende un gatto e poi non se ne occupa”
borbotta Sven-Erik.
“Ho chiesto in giro a tutto il vicinato, ma nessuno ne voleva
sapere. Stava diventando una vera e propria persecuzione. Se
andavo al lavatoio, si sedeva sul davanzale e mi fissava. Se ero in
cucina, si sedeva su un piedistallo che c’era in giardino e mi
fissava. Saltava fino ad aggrapparsi alla traversa della porta a vetri
e restava lì appeso a miagolare. Stavo diventando pazza. Mi
sentivo assediata. Ogni giorno quando tornavo dal lavoro mi
dicevo: fa’ che non ci sia quel gatto. Una sera Mattias rientra
tardi e trova il gatto fuori che miagola disperato. “Non possiamo
farlo entrare?” implora. Allora ho ceduto. “Fallo entrare” gli ho
detto. “Ma deve restare al piano di sotto, sarà il tuo gatto.” Come
no. Quel gatto mi seguiva ovunque andassi. Si acciambellava
sulle mie ginocchia, solo qualche volta su quelle di Mattias. Poi
Mattias è andato a vivere da solo. Quando io ogni tanto partivo
per un viaggio, il gatto se ne restava seduto a fissare Örjan. Dopo
qualche sera si rassegnava a sdraiarsi sulle sue ginocchia, ma
quando tornavo a casa, come quella volta che ero andata in
Marocco, non lo dimenticherò mai, mi graffiava, per dimostrarmi
quanto era arrabbiato.”
“In fondo lo avevi abbandonato” dice Sven-Erik.
“Sì, ma poi mi perdonava. Prima però doveva farmela pagare.
Una volta, quando Örjan era depresso e non aveva voglia di
niente, io e Tigge-Tiger ci siamo fatti il falò di maggio da soli.
Abbiamo lavorato tutto il giorno in giardino, poi ci siamo seduti

165
insieme a guardare il fuoco. E che acrobata che era. Quando
voleva entrare, di sera, si appendeva alla grondaia e si dondolava
verso la finestra, come per bussare. Allora bisognava aprire la
finestra. Lui saltava sul telaio e da lì in casa. Avevo un sacco di
vasi sul davanzale, ma non ne ha mai fatto cadere uno. Nemmeno
una volta.”
Restano seduti un momento in silenzio a guardare la betulla
sotto cui è sepolto Tigge-Tiger.
“E poi è invecchiato ed è morto” conclude Airi. “Mi ha resa
un’amante dei gatti.”
“Ci si affeziona” dice Sven-Erik.
Poi prende la mano di Airi. Come per dimostrare che è
affezionato a lei.
“La vita è troppo breve per tenersi il broncio” dice Airi.
Sven-Erik le stringe la mano. Sa che ha ragione. Ma cosa
deve fare del groppo di rabbia che gli opprime costantemente il
petto?

Ore 20,32.
“Avete chiamato l’interno di Måns Wenngren allo Studio
Meijer & Ditzinger. In questo momento non può rispondere alla
vostra chiamata. Lasciate un messaggio dopo il bip.”
“Ciao, sono io. Volevo solo dirti che ti penso e che mi
manchi. Chiamami se puoi.”
Rebecka guarda Vera che è fuori in giardino a fare i suoi
bisogni. É una chiara serata di primavera. Sente il lungo richiamo
del chiurlo maggiore. Non è l’unica a essere vittima di una
nostalgia amorosa.
“Perché dev’essere tutto così difficile?” chiede al cane.

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Ore 21,05.
“Ciao amore. Sto studiando le carte di un caso di omicidio
ma preferirei infilarmi a letto con te. Non essere arrabbiato, ti
prego.”
Rebecka appoggia il cellulare sulla sedia del bagno, dopo
avere inviato l’sms a Måns, e apre l’acqua della doccia. Strofina
Vera con lo shampoo e poi la risciacqua.
“E vedi di non rotolarti subito in un sacco di schifezze” si
raccomanda. “D’accordo?”
Vera le lecca le mani in segno di ringraziamento. É d’accordo.

Ore 23,15.
“Avete chiamato l’interno di Måns Wenngren allo Studio
Meijer & Ditzingen In questo momento non può rispondere alla
vostra chiamata. Lasciate un messaggio dopo il bip.”
Rebecka chiude senza lasciare un messaggio. Dà da mangiare
a Vera.
“Non mi merito di essere punita” dice.
Vera si avvicina e si pulisce la bocca sui suoi pantaloni.

Ore 4,36.
Rebecka si sveglia e si allunga per prendere il telefono.
Nessun messaggio da Måns. Nessuna chiamata persa. Ha i
documenti dell’indagine sparsi attorno a sé sul letto. Vera russa ai
suoi piedi.
“Va tutto bene” dice facendo ssst nel buio. “Adesso dormi.”

167
Mercoledì 29 aprile

Alle sei e cinque del mattino, Rebecka Martinsson telefonò


ad Anna-Maria Mella che rispose a voce bassa per non svegliare
il marito. Robert si accoccolò contro la sua schiena e si
riaddormentò. Anna-Maria sentiva il suo fiato caldo sulla nuca.
“Ho letto gli appunti della tua conversazione con Johannes
Svarvare” esordì Rebecka.
“Mmm.”
“Hai avuto l’impressione che volesse dire qualcosa, ma poi ha
interrotto bruscamente la conversazione sdraiandosi sul divano e
chiudendo gli occhi.”
“Sì, anche se prima si è tolto la dentiera e l’ha infilata in un
bicchiere.”
Rebecka Martinsson si mise a ridere.
“Ti spiace se gli chiedo di rimettersi la dentiera e fare due
chiacchiere con me?”
Anna-Maria esitava tra più sensazioni contrastanti. Era ovvio
che Johannes Svarvare dovesse essere interrogato un’altra volta,
anzi le seccava che non fosse venuto in mente a lei, e ancora di
più che Rebecka volesse interrogarlo al posto suo. Ma aveva
ragione. Allo stesso tempo capiva che Rebecka l’aveva chiamata
per porgerle il calumet della pace. Era una bella cosa. Rebecka
era in gamba. Decise di non tenere il broncio.
“Non c’è problema” rispose. “Quando l’ho interrogato, in
fondo stavamo indagando su quello che sembrava un incidente

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con qualche dettaglio da chiarire.”
“Hai scritto che ha ammesso di aver parlato con Wilma, e di
aver parlato troppo.”
“Sì.”
Anna-Maria si sentì prendere dal malumore. Aveva davvero
gestito male quell’interrogatorio.
“Ma non ha specificato di cosa avevano parlato?”
“No, avrei dovuto insistere un po’ ma, come ti dicevo,
all’epoca non era un’indagine per omicidio.”
Tacque. Piantala di giustificarti, si disse.
“Ascolta” disse Rebecka. “Va benissimo così, hai scritto tutto
nel rapporto, compresa l’impressione che non avesse detto tutto
quello che sapeva. Così sappiamo da chi andare adesso che
abbiamo un po’ più di carne al fuoco.”
“Grazie” disse Anna-Maria.
“Grazie a te.”
“Per cosa?”
“Per avermi dato fiducia, consentendomi di parlare con lui.”
“Posso sempre occuparmi del terzo round, se ce ne sarà
bisogno. Quando andrai a parlarci?”
“Adesso.”
“Adesso? Sono le…”
“Sì, ma sai come sono i vecchi. Quando finalmente
potrebbero svegliarsi all’ora che vogliono, sono in piedi alle
quattro. Sicuramente è già alzato.”
“Spero che tu abbia ragione.”
“Sì che ho ragione. Sono seduta in macchina davanti a casa
sua e mi sta guardando da dietro le tende per la terza volta.”
“Questa è fuori di testa” concluse Anna-Maria dopo avere
riattaccato.

169
“Chi?” borbottò Robert annaspando con una mano sul suo
seno.
“Rebecka Martinsson. È a capo delle indagini preliminari. E
cazzo, mi è simpatica, insomma, voglio dire, quella volta a
Jiekajàrvi le ho salvato la vita, è una cosa che in qualche modo ti
cambia. Ed è bello parlare con lei quando si rilassa. Anche se
siamo così diverse. E molto brava nel suo lavoro.”
Robert la baciò sul collo, premendole il bacino sui glutei.
Anna-Maria sospirò.
“Anche se mi dà fastidio che voglia davvero prendere in mano
le indagini. Avrei preferito occuparmene di persona.”
“Deve capire che sei la femmina alfa” disse Robert
strizzandole i capezzoli.
“Sì” rispose Anna-Maria con voce rauca.
“Non hai letto un libro da poco? Come si intitolava?
Le donne che non si aiutano a vicenda finiscono
all’inferno?”
“No, ti stai sicuramente riferendo a Gli uomini che non sanno
tenere la bocca chiusa quando le loro mogli fanno le stronze
finiscono all’inferno. Ehi! Cos’hai intenzione di fare di questo
ben di Dio?”
“Non saprei” le mormorò lui nell’orecchio. “La femmina alfa
cosa ne pensa?”

Johannes Svarvare offrì il caffè a Rebecka. Lei non volle che


tirasse fuori le tazzine buone e chiese una tazza normale, ma
declinò l’offerta di una tartina. L’uomo puzzava di sporco,
l’igiene non doveva essere delle migliori in quella casa. Indossava
una maglietta della salute con un gilet di lana sopra e un paio di
pantaloni di un completo nero con il sedere lucido per l’uso

170
tenuti su da una cintura. Non poteva fare a meno di provare una
forte ripugnanza all’idea di mettere in bocca qualcosa che fosse
passato per le sue mani. Chissà quando le aveva lavate l’ultima
volta. Il pensiero che si fosse tolto la dentiera con le stesse mani
con cui aveva preso il pane le dava i brividi.
Però posso permettere a un cane di leccarmi la bocca, si
disse.
Sorrise e abbassò gli occhi su Vera che annusava in giro sotto
il tavolo della cucina, divorando briciole e resti di cibo e
leccando la gamba del divano dov’era colato qualcosa che poi si
era seccato.
Soprattutto tu, piccola schifosa. Bisogna proprio essere fuori
di testa.
“Conosceva Wilma, non è vero?” chiese.
“Sì” rispose Johannes bevendo un bel sorso di caffè.
Ha paura che gli chieda certe cose, si disse Rebecka. Iniziamo
da quelle facili.
“Mi parla un po’ di lei?”
Il vecchio sembrò sorpreso dalla domanda. E sollevato.
“Era così giovane” rispose scuotendo la testa. “Troppo
giovane. Ma sa, è piacevole veder arrivare dei ragazzi in un paese
del genere. E quando si è trasferita a casa di Anni, anche Simon
Kyrò ha iniziato a venire a trovare spesso sua nonna. C’era più
vita. Ormai solo noi vecchi siamo rimasti ad abitare qui. E lei e i
suoi amici sembravano…”
Alzò le mani piegando le dita ad artiglio, con una smorfia che
voleva essere spaventosa.
“Trucco nero attorno agli occhi e vestiti neri. Ma erano
divertenti. E non erano per niente cattivi. Una volta hanno preso
in prestito gli slittini a spinta dai vecchi del paese e hanno fatto

171
una gara. Saranno stati almeno una decina. Se ne sono andati in
giro per il paese strillando come matti, correndo e spingendosi
l’un l’altro. Dicono che i giovani stanno tutto il giorno attaccati
al computer, ma lei non era così.”
“Veniva spesso a trovarla?”
“Sì, le piaceva sentir parlare dei vecchi tempi. Per me non
sono storie vecchie, tutto mi sembra successo da poco. Lo capirà
anche lei. É solo il corpo che invecchia, qui dentro mi sento…”
Si picchiò un dito sulla tempia con un sogghigno.
“… un diciassettenne.”
“Si è mai pentito di averle parlato di qualcosa?”
Il vecchio si zittì e si mise a fissare un taglio sulla tela cerata.
“Le voleva bene?”
Annuì.
“É stata uccisa, sa. Lei e Simon si sono immersi, e qualcuno
ha fatto in modo che non emergessero più. Almeno lei.
Formalmente Simon risulta ancora scomparso. Ma probabilmente
è in fondo al Vittangijärvi.”
“Non l’hanno trovata nel Torneälven, a valle di Tervaskoski?”
“Sì, ma qualcuno ce l’ha portata dopo. Non crede di dover
raccontare quello che sa, per Wilma?”
Il vecchio continuava a fissare la superficie del tavolo.
“Bisogna lasciare che le vecchie storie restino sepolte” disse.
La mano di Rebecka si mosse praticamente di sua iniziativa e
andò a coprire il taglio sulla tela cerata.
“Ma a volte le vecchie storie tornano a galla” disse. “E adesso
Wilma è morta. Sono sicura che lei ha il senso dell’onore. Pensi a
Wilma. E ad Anni Autio.”
L’ultima frase l’aveva sparata a caso. Non sapeva in che
rapporti fosse con Anni.

172
Il vecchio si versò dell’altro caffè. Rebecka notò che
appoggiava la mano sinistra sulla destra per renderla stabile.
“D’accordo” cedette. “Ma non dica che gliel’ho detto io. Le
ho raccontato di un aeroplano che era scomparso nel ‘43, doveva
essere precipitato da qualche parte. Ci avevo pensato sopra
parecchio, e avevo le mie ipotesi su dove potesse essere finito. Ho
raccontato a Wilma che secondo me era affondato nel
Vittangijärvi, nello Harrijärvi o nell’Övre Vuolusjärvi.”
“Che aeroplano era?”
“Non lo so, non l’ho mai visto. Era tedesco. I tedeschi
avevano parecchi magazzini a Luleå, uno era proprio di fianco
alla cattedrale. Il tenente Walther Zindel era il loro capo. Le
truppe tedesche nella Norvegia settentrionale e nella Lapponia
finlandese avevano bisogno di attrezzature e provviste, così
usavano il porto di Luleå. La flotta inglese era decisamente
superiore, perciò non osavano fare gli approvvigionamenti lungo
la costa norvegese.”
“So che gli abbiamo concesso di usare la nostra rete
ferroviaria” disse Rebecka lentamente. “Per i trasferimenti dei
soldati in licenza.”
Johannes Svarvare si succhiò la dentiera e la guardò come se
fosse ritardata.
“Insomma” proseguì. “Isak Krekula faceva il trasportatore. A
dodici anni ho finito la scuola e ho iniziato a lavorare per lui. Ero
forte, ero già in grado di caricare e scaricare i camion. Ogni tanto
guidavo anche, all’epoca non si era così rigidi. Quella sera del
‘43, Isak andò a Kurravaara con uno dei camion, e io lo
accompagnai. Le ferrovie svedesi avevano interrotto i trasporti per
conto dei tedeschi, perciò eravamo pieni di lavoro, anche se in
realtà non ci mancava nemmeno prima. Le truppe andavano

173
sfamate. Restammo a lungo ad aspettare l’aereo. Io, Isak e alcuni
uomini del paese che aveva ingaggiato per aiutarci. La mattina
dopo rinunciammo. Isak pagò un ragazzino del paese perché
tenesse d’occhio il cielo e telefonasse se l’aereo saltava fuori. Ma
sembrava essere stato inghiottito dal nulla. Più tardi Isak venne a
sapere che non era mai arrivato a destinazione. Ma sa, di queste
cose non si parlava. Né allora, né poi. Erano faccende delicate,
capisce.”
Delicate quanto?, si chiese Rebecka. Abbastanza da uccidere
due ragazzi per impedire che si tornasse a parlare di quell’aereo?
Non era possibile.
“É successo tanto tempo fa” disse Johannes Svarvare. “É
acqua passata. Nessuno vuole ricordare. E tra un po’ tutti quelli
che hanno qualcosa da ricordare saranno morti. Le ragazze
allineate lungo la ferrovia per salutare con la mano i soldati
tedeschi diretti a Narvik, la folla che festeggiava l’attentato
contro il giornale socialista Norrskensflamman, tutti quelli che
ruotavano attorno ai tedeschi di stanza nel Norrbotten, accidenti
quanto leccavano il culo al console Weiler!, tutti i minatori che
non dovevano fare il servizio militare perché vendevamo acciaio
ai tedeschi, tutta quella gente non era di sicuro dispiaciuta. No,
solo dopo si è cominciato a dire che avevamo il coltello alla gola.
Il re stesso era un simpatizzante.”
Si asciugò una goccia di caffè che gli era colata dall’angolo
della bocca.
“Pensavo solo che poteva essere divertente per dei ragazzi
cercare un relitto.”
Rebecka rifletté.
“Mi ha chiesto di non dire che mi ha raccontato queste cose”
disse. “A chi non lo devo dire? Ha paura di qualcuno in

174
particolare?”
Johannes restò un attimo in silenzio, poi raddrizzò la schiena
e la guardò negli occhi.
“I Krekula” disse. “Isak non si è mai tirato indietro di fronte a
niente. Avrebbe potuto dar fuoco a una casa con un’intera
famiglia addormentata dentro. E i suoi figli sono come lui. Erano
così arrabbiati, quando ho detto di avere raccontato a Wilma
dell’aereo. Discorso chiuso, hanno detto. Ho lavorato per loro per
tutti questi anni, li ho aiutati in tutti i modi. Ero sempre a
disposizione. Sempre. E poi vengono qui e…”
Concluse la frase lasciando cadere pesantemente una mano
sul tavolo. Vera, che si era sdraiata sotto, sollevò la testa e
abbaiò.
“Perché? Cos’aveva di speciale quell’aereo?”
“Non lo so. Deve credermi. Adesso ho detto tutto quello che
so. Crede che i Krekula abbiano a che fare con la morte di
Wilma?”
“E lei?”
Gli vennero le lacrime agli occhi.
“Non avrei dovuto dirle niente. Volevo solo farmi bello ai
suoi occhi. Volevo che trovasse divertente parlare con me. Si è
sempre così soli. É tutta colpa mia.”
Una volta uscita sulla scala, Rebecka fece un profondo
sospiro.
Che pena gli uomini, si disse. Non voglio morire da sola.
Guardò Vera che si era fermata ad aspettarla accanto alla
macchina.
Un cane non basta, pensò.
Accese il telefono. Erano le sette e dieci. Nessun messaggio.
Nessuna chiamata persa.

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Vaffanculo, disse mentalmente, rivolta a Måns. Scopati pure
qualcun’altra, se vuoi.

Sono seduta sul davanzale di Hjalmar Krekula. Lo guardo


mentre si sveglia di soprassalto. L’angoscia gli batte dentro il
petto. L’angoscia è forte, ha le nocche dure come papà Isak.
L’angoscia si è sfilata la cintura dai pantaloni.
Dorme molto in questo periodo. É sempre stanco, non ha la
forza di fare niente. Ma il suo sonno è irregolare e inaffidabile.
L’angoscia lo sveglia, spesso alle tre o alle quattro del mattino.
Sono notti chiare, impreca contro la luce e si dice che è per
quello, ma sa bene che non è così. Il cuore gli batte come
impazzito. A volte ha paura di morire sul serio. Anche se ha
iniziato ad abituarsi. Sa che dopo un po’ il cuore si calma.
Mi viene in mente che io non dormirò mai più.
A volte mi sogna. Sogna che ho scavato un buco nel ghiaccio
con il coltello, da sotto. Sogna l’acqua che è uscita dal buco
quando ci ho infilato la mano. Nel sogno l’acqua non fa che
salire, salire, fino a farlo affogare. Poi si sveglia e respira
profondamente.
A volte sogna la mia mano che si stringe come una morsa
d’acciaio attorno alla sua e lo trascina giù con me.
Sogna che il ghiaccio sottile si spezza sotto di lui. L’acqua
nera.
Non riesce a badare a se stesso. Com’era ridotto al mio
funerale. Sporco e con i capelli unti.
Hjalmar Krekula guarda l’ora sul cellulare. Le sette e dieci.
Dovrebbe essere al lavoro da un pezzo. E Tore non ha chiamato
per chiedergli dove cazzo è.
Ma forse ha deciso di lasciargli un giorno libero, adesso che

176
l’ha aiutato a… no, scaccia le immagini e i pensieri sgradevoli su
Hjörleifur Arnarson. É così inutile. É tutto così maledettamente
inutile.
Sono abituato a fare come vuole Tore, si dice. Prima ero
obbligato. Poi è diventata un’abitudine. É successo dopo che ci
siamo persi nel bosco. Ho smesso di pensare da solo. Di provare
emozioni. Mi sono limitato a fare come mi dicevano.

È l’ottobre del 1957. È sabato. I ragazzi più grandi giocano a


bandy sul ghiaccio del lago.
Tore chiede il permesso a papà Isak di andare a vedere la
partita. Va bene. Prende con sé la sua mazza e se ne va. Anche
Hjalmar lo raggiungerà, ma prima deve andare a prendere l’acqua
e la legna per la sauna. Isak accende un gran fuoco nel capanno,
dopo aver aperto un foro nel ghiaccio vicino al pontile così che
Hjalmar possa riempire il grande paiolo sul fuoco.
Hjalmar porta l’acqua. Tore no, anche se quell’autunno ha
iniziato ad andare a scuola. Il primo giorno di scuola il papà ha
preso Hjalmar per un orecchio e gli ha detto: “Prenditi cura di tuo
fratello, capito?”
É passato poco più di un anno dall’episodio nel bosco. Tore
riceve ancora lettere e pacchetti, anche se meno frequentemente.
La cartella nuova è un regalo del Club dei boscaioli di
Stoccolma.
Hjalmar si prende cura di Tore. Il che significa che Tore ha
potere sui compagni di classe e anche sui bambini più grandi.
Tore ruba, minaccia, picchia e decide chi dev’essere la vittima
designata degli scherzi e delle botte dei compagni. Stabilisce che
è un ragazzino magro con gli occhiali che si chiama Alvar. Se
qualcuno si mette in mezzo o addirittura reagisce, chiama

177
Hjalmar. Anche Alvar ha un fratello maggiore, ma nessuno vuole
fare a botte con Hjalmar perciò non si intromette. E il loro padre
è affogato due anni prima. Durante l’ultima ora a volte qualcuno
dei compagni alza la mano per andare in bagno. Quando suona la
campanella, le scarpe di Alvar sono piene d’acqua. Oppure trova
le maniche del giaccone piene di carta bagnata. Dopo la
ginnastica gli rubano i pantaloni, ed è costretto a tornare a casa in
mutande. Alvar ha sempre paura. Va via di corsa dopo la scuola.
Implora la maestra di poter uscire prima che suoni la campanella.
Dice che gli fa male la pancia, ed è sicuramente vero. Torna a
casa dalla madre con i vestiti e i libri strappati, ma non osa mai
raccontare chi è stato. Anche il fratello maggiore sta zitto.
Ecco com’è fatto il piccolo eroe di Piilijärvi. Ma
naturalmente il Club dei boscaioli di Stoccolma non ne ha idea.
A ogni modo adesso Hjalmar ha finito di portare l’acqua e la
legna per la sauna della sera e può correre dall’altra parte del
paese a guardare la partita. Usano piantine di betulla come porte.
Non tutti hanno i pattini, alcuni devono correre sul ghiaccio. Le
mazze sono quasi tutte fatte in casa.
Tore si illumina quando vede arrivare Hjalmar, anche se fa
finta di niente. Hjalmar sente che c’è qualcosa di strano nell’aria,
qualcosa gli dice che farebbe meglio a tornarsene a casa in fretta,
ma non lo fa.
Hans Aho tira in porta, ma Yngve Talo para. Qualcuno cerca
di prendere il rimpallo, si crea una mischia davanti alla porta.
A quel punto Tore scende sul ghiaccio con la sua mazza e la
sua palla e si mette a tirare contro l’altra porta.
“Ascolta, ragazzino, levati dal campo!” urla il portiere che era
corso in attacco.
“Piantala, Tore!” grida una delle ragazze che stanno

178
guardando la partita.
Ma Tore non la pianta. Il portiere torna indietro e glielo ripete
un’altra volta.
Tore lascia il campo con un sogghigno, ma dopo un po’ è di
nuovo lì che dribbla con la palla.
A quel punto la partita si ferma. I giocatori dicono a Tore di
andarsene a casa. Tore gli chiede se sono i padroni del lago o
cosa. A lui non risulta niente del genere.
“Hjalmar!” grida. “Sono i padroni del lago? Ti risulta
qualcosa del genere?”
Quando i ragazzi grandi giocano, i piccoli devono stare fuori
dai piedi, è una legge non scritta.
I giocatori guardano Hjalmar. Qualcuno ha la sua età, gli altri
sono tutti più grandi. Vogliono vedere se ha intenzione di
immischiarsi in quella storia. Tutti sanno che i fratelli Krekula
fanno lega. Non che Hjalmar abbia una sola possibilità contro
l’intera squadra di bandy, ma il fatto di essere in inferiorità in
genere non lo spaventa. Tutti si chiedono fino a che punto si
arriverà.
Hjalmar è furibondo. Quello stronzo di Tore. Perché deve
sempre mettersi a litigare inutilmente? Questa volta dovrà
cavarsela da solo. Gira la testa dall’altra parte e si mette a
guardare il lago.
I giocatori afferrano il messaggio. Hjalmar non ha intenzione
di immischiarsi.
Uno di loro, Torgny Ylipää, che ce l’ha da parecchio con
Tore, gli dà uno spintone.
“Torna a casa dalla mamma” gli dice.
Tore risponde con un altro spintone. Forte. Torgny finisce col
culo a terra.

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“Torna a casa tu” dice Tore.
Torgny si rimette in piedi in un attimo. Tore solleva la mazza,
ma uno dei ragazzi la afferra e blocca il colpo. Torgny coglie la
palla al balzo e molla un pugno sul naso a Tore.
“Tornatene a casa” ripete.
Tore si mette a piangere. Forse perde sangue dal naso,
nessuno fa in tempo a vedere. Corre via con la mano sul viso. La
sua mazza rimane sul ghiaccio. Uno dei giocatori la mette da
parte.
“Ricominciamo?”
E si rimettono a giocare.
Dopo un quarto d’ora arriva papà Isak. Bianco di rabbia,
attraversa il campo puntando dritto verso Hjalmar. La partita si
interrompe di nuovo e tutti sul campo e fuori guardano Isak che
afferra il figlio maggiore e lo porta via tenendolo per il bavero.
Lo trascina per le strade del paese senza dire una parola. Si
sente solo il suo respiro affannoso mentre attraversano il cortile
di casa. Quando capisce che lo sta portando verso la sauna,
Hjalmar inizia ad avere paura sul serio. Cos’ha intenzione di
fare?
“Papà” dice. “Aspetta. Papà.”
Ma Isak gli dice di chiudere il becco. Non ha intenzione di
ascoltare nessuna spiegazione.
Sono arrivati al pontile. Al foro da cui Hjalmar ha tirato su
l’acqua meno di un’ora prima.
Isak gli toglie il berretto e lo getta a terra. Hjalmar oppone
resistenza, ma la stretta sul bavero si è fatta più forte. Isak lo
costringe a inginocchiarsi accanto al foro nel ghiaccio e gli infila
la testa sott’acqua.
Hjalmar agita le braccia. Il freddo gli fa scoppiare la testa. É

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forte, riesce a tornare in superficie e a prendere fiato, ma Isak ha
di nuovo il sopravvento.
Hjalmar pensa di essere sul punto di morire.
E poi succede davvero. La luce del sole gli invade la testa. É
una bella giornata d’estate. Cammina a piedi nudi nel bosco,
sente le pigne e gli aghi di pino sotto i piedi, ma le piante sono
callose e non gli dà fastidio. Deve riportare a casa i cavalli che
pascolano nel bosco. Li vede tra gli alberi che strofinano il collo
l’uno contro l’altro. Agitano la coda per scacciare le mosche. C’è
un buon odore di ledum palustre e di terra scaldata dal sole.
Corteccia, muschio, resina. Le formiche marciano avanti e
indietro lungo una pista che attraversa il sentiero. I cavalli
nitriscono allegri quando lo vedono arrivare.
Quando riprende i sensi è sdraiato a pancia in giù sul
pavimento dello spogliatoio, nella sauna. Il fuoco è acceso. Si
mette a quattro zampe e vomita l’acqua del lago, poi si sdraia
sulla schiena.
Isak sta fumando una sigaretta sopra di lui.
“In questa famiglia si sta uniti” dice. “Ricordatelo, la
prossima volta.”

Rebecka Martinsson spinse la pesante porta del municipio.


Toccare le belle maniglie intagliate a forma di tamburello
sciamanico le diede un brivido di piacere.
All’interno si apriva il grande atrio con i soffitti altissimi, le
pareti in mattoni, l’arazzo Soltrumman, ispirato ai tamburi magici
degli sciamani lapponi, con tutti i colori della montagna estiva e
autunnale.
Si presentò al bancone dall’usciere. “Devo consultare
l’archivio municipale” disse.

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Lui le chiese di aspettare e dopo un attimo la raggiunse un
uomo in jeans e giacca nera, con le scarpe di pelle lucida e i
capelli scuri e pettinati all’indietro.
“Jan Viinikainen, responsabile dell’archivio” si presentò
porgendole la mano come si usa nel sud della Svezia. Lei gliela
strinse, ma il gesto risultò rigido, si vedeva che entrambi avevano
imparato da adulti a salutare in quel modo. “In cosa posso aiutare
le forze dell’ordine?”
Rebecka sollevò un sopracciglio con aria interrogativa.
“Be’” rispose lui. “É una celebrità, qui in città. Sui giornali si
è scritto molto, quando ha ucciso quei pastori. Legittima difesa,
lo so.”
Rebecka represse il desiderio di girare sui tacchi e andarsene.
Non capisce, si disse. La gente non capisce, crede di poter
dire qualsiasi cosa senza conseguenze.
“Non so bene cosa sto cercando” esordì incerta. “Vorrei
sapere tutto su una vecchia ditta di Piilijärvi, Autotrasporti
Krekula.”
Allargò le braccia e alzò le spalle come a scusarsi.
“Che periodo?”
“Ha iniziato l’attività negli anni quaranta. Quel che c’è.”
L’uomo rimase un attimo a riflettere, poi la invitò a seguirlo
con un gesto. Scesero la scala che portava al seminterrato e
oltrepassarono quello che doveva essere l’ufficio del signor
Viinikainen, proprio di fronte al cancelletto dipinto di bianco che
portava all’archivio. L’uomo aprì le porte del santuario e invitò
Rebecka a precederlo con un ampio gesto della mano.
Oltrepassarono file e file di scaffali di metallo. Dappertutto
c’erano raccoglitori di varie fogge e dimensioni, con dorsi di
tessuto, plastica, metallo. C’erano libri rilegati a mano, in pelle,

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vecchi documenti elegantemente legati con nastri e sigilli che
sporgevano dagli scaffali. Sopra pesanti scaffali di quercia erano
posate vecchie macchine da scrivere Triumph o Facit, ormai
andate in pensione. C’erano grandi cassettiere per le mappe
catastali, schedari di metallo si alternavano a scatoloni di cartone.
Qua e là spuntavano rotoli di carte di tutte le dimensioni possibili
e immaginabili. Entrarono in una sala interna dove il signor
Viinikainen azionò un sistema di scaffali mobili con un
meccanismo semiautomatico.
“Si manovra così” disse muovendo una lunga leva che fece
scivolare lentamente di lato lo scaffale. “Io controllerei il registro
delle imprese, e anche l’annuario commerciale. Là in fondo c’è il
materiale dell’ufficio tecnico.”
Rebecka si tolse il cappotto e Jan Viinikainen tornò alla sua
scrivania.
Quando si dice un ago in un pagliaio, pensò Rebecka. Non so
nemmeno cosa sto cercando. Fece un giro tra gli scaffali, notò
alcuni articoli di frenologia degli anni trenta e quaranta, i libri
contabili della casa del povero di Jukkasjàrvi, i registri dei
laboratori artigianali della scuola.
Piantala di frignare, si disse. Non hai che da rimboccarti le
maniche.
Dopo un’ora e dieci minuti trovò qualcosa sulla ditta
Krekula. Era un’annotazione sugli autisti della municipalità di
Kiruna, quanti erano e che mezzo avevano, rendiconti, firmatari,
indirizzari.
Riprese a cercare con più energia, slegò nastri che non
venivano slegati da sessantanni e aprì schedari che non venivano
aperti da altrettanto tempo, arricciando il naso per le nuvole di
polvere che si sollevavano. Alla fine si ritrovò con un mal di testa

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feroce per tutta la polvere e la cellulosa che aveva respirato.
Il responsabile dell’archivio venne a vedere come andava.
“Bene” rispose. “Almeno ho trovato qualcosa.”

Fuori, Vera l’aspettava nel bagagliaio. Quando Rebecka si


sedette in macchina, si alzò e agitò sconsolatamente la coda.
“Grazie per la pazienza” le disse. “Adesso ti porto a fare un
giro.”
Andò verso il Luossavaara e poco dopo fece scendere Vera,
che si accucciò immediatamente a fare i suoi bisogni.
“Capisco, piccola, scusami” disse in tono colpevole. “Cattiva
coscienza?” sentì dire alle sue spalle. Era Krister Eriksson.
Indossava una tuta da ginnastica arancione che contrastava con la
pergamena rosata del viso.
Le sorrise. Lei gli guardò i denti: erano bianchi e regolari,
l’unica parte del viso che non era stata danneggiata dal fuoco.
“E questa chi è?” chiese guardando Vera. “Tintin sarà
gelosa.”
“É il cane di Hjörleifur Arnarson. Sono stata costretta a
prenderla, altrimenti le avrebbero staccato un biglietto per il
paradiso.”” Krister annuì serio.
“Ho sentito che hai preso in mano le indagini preliminari”
aggiunse. “Wilma Persson sarebbe contenta.”
“Non credo a queste cose” rispose Rebecka di malavoglia.
Lui scosse la testa e le strizzò l’occhio. “Sei stato a correre?”
chiese lei cercando di cambiare argomento.
“Mmm, in genere faccio qualche scatto sulla salita che porta
al vecchio ascensore della miniera. Ma ho finito.”
Rebecka alzò gli occhi verso l’edificio che ospitava
l’ascensore in disuso, grigio e spettrale.

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Se anche gli edifici possono diventare dei fantasmi, questo ne
è sicuramente un esempio, si disse. Scommetto che di notte
spaventa i passanti facendo uh-uh.
“Sì, è impressionante” commentò Krister come se le avesse
letto nel pensiero. “Ti va di fare due passi?” chiese poi. “Devo
defatigare i muscoli. Aspetta che prendo il giaccone dalla
macchina.”
Tornò con addosso un giubbotto verde menta che sembrava
avere alle spalle una ventina d’anni e parecchi lavaggi.
Dio santo, si disse Rebecka. Ma forse il suo aspetto fa sì che
se ne freghi dei vestiti.
Peccato, si disse poi mentre Krister la precedeva giocando
con Vera. Aveva un corpo snello e allenato che sarebbe stato bene
con qualsiasi cosa addosso. Tranne forse le tute usate da Susan
Lanefelt ai suoi corsi di ginnastica in televisione.
“Perché sorridi?” le chiese tutto allegro.
“Sono contenta” mentì lei senza difficoltà. “Adoro il
Luossavaara. La vista che offre.”
Si fermarono a guardare il panorama. Le cime di granito sullo
sfondo, che digradavano verso la città. Il monte Adnamvaara con
il caratteristico profilo piramidale. Le pale eoliche della miniera
di rame dismessa di Viscaria. La chiesa di legno dipinto di rosso
che voleva assomigliare a una tenda lappone. Il palazzo
municipale con la torre dell’orologio, uno scheletro di ferro nero
con le decorazioni sporgenti. Le aveva sempre ricordato una
betulla spoglia in inverno, o le corna di una renna. Il deposito
delle locomotive a forma di ferro di cavallo, con le piccole
abitazioni rosse dei ferrovieri. Gli alti condomini di Gruvvägen e
Högalidsgatan.
“Guarda! Oggi si vede il Kebnekaise.”

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Krister indicò la catena montuosa azzurrina a nordovest.
“Non riconosco mai la cima del Kebne” aggiunse. “Non è
quella che sembra la più alta, a quanto ho capito.”
Rebecka gliela indicò. Krister inclinò la testa verso di lei per
seguire meglio la direzione indicata dal suo dito.
“Vedi il Tuolpagorni, con quel piccolo cratere?” gli spiegò.
“Quello subito a destra è il Kebne.”
Krister si allontanò da lei.
“Scusami” disse. “Ti sto troppo vicino e puzzo di sudore.”
“Non importa” rispose lei, sentendosi attraversare da
un’onda.
“La montagna più alta della Svezia” dichiarò lui tutto allegro
strizzando gli occhi in direzione del massiccio.
“L’edificio più bello della Svezia nel 2001” ribatté Rebecka
indicando la chiesa.
“L’edificio più bello della Svezia nel 1964” disse Krister
indicando il municipio.
“La città più bella della Svezia” replicò lei ridendo.
“L’architetto che l’ha disegnata intendeva creare un’opera d’arte.
All’epoca si progettavano ancora città con pianta a scacchiera,
con viali e piazze e case a schiera. Le strade di Kiruna invece
seguono liberamente le pendici della montagna.”
“Mi sembra inconcepibile che vogliano spostare l’intera
città” disse Krister.
“Anche a me. Lo Haukivaara è un monte così perfetto per
ospitarla.”
“Ma il filone metallifero corre sotto l’abitato…”
“… e quindi l’abitato andrà spostato.”
“Sai, io non sono di qui, ma mi sembra che alla gente non
importi niente. Quando chiedo in giro cosa ne pensano del

186
trasloco, in genere alzano tutti le spalle. La mia vicina di casa di
ottant’anni pensa che debbano spostare l’abitato verso ovest,
perché così dovrà fare meno strada per arrivare ai negozi. Lo
trovo così strano. L’unica che sembra avere un’opinione in merito
è quella che quando il trasloco diventerà realtà non ci sarà più.”
“Io invece credo che alla gente importi” rispose Rebecka in
tono esitante. “Solo che gli abitanti di Kiruna sanno da sempre
che è grazie alla miniera che sono qui. E se la miniera non è in
attivo, non c’è di che vivere. Perciò se la compagnia mineraria
vuole spostare la città, non si discute. Si accetta e basta. E una
volta che lo abbiamo accettato, pensiamo di non potercene
dispiacere.”
“Anche se una cosa non esclude l’altra.”
“No, lo so. Ma credo che ci voglia un po’ per rendersene
conto. Per capire che, anche se siamo costretti ad accettarlo,
abbiamo il diritto di dispiacerci per una città che non sarà più la
stessa.”
“Bisognerebbe tenere dei concerti d’addio nelle case da
abbattere” filosofeggiò Krister. “Lacrime. Musica. Letture.
Racconti.”
“Io vengo” rispose Rebecka con un sorriso.
Ricordava com’era andata quando era salita sul Luossavaara
con Måns: aveva freddo ed era irrequieto. Lei avrebbe voluto
mostrargli le cose e parlare. Come adesso.

Rebecka Martinsson era seduta sul divano nel locale caldaia


di Sivving. Aveva un paio di grossi calzettoni di lana e un
maglione lavorato a maglia che un tempo era appartenuto a suo
padre.
Sivving era davanti al fornello elettrico, con uno dei

187
grembiuli di Maj-Lis che Rebecka non aveva mai visto, a righe
bianche e azzurre con dei volant in fondo e lungo le bretelle.
Stava scaldando del luccio affumicato in una padella di ghisa.
Una delle presine all’uncinetto di Maj-Lis era posata sul manico.
In una casseruola d’alluminio bollivano delle patate.
“Devo fare una telefonata” disse Rebecka. “D’accordo?”
“Dieci minuti” rispose Sivving. “Poi è pronto in tavola.”
Rebecka digitò il numero di Anna-Maria Mella, che rispose
immediatamente. Sullo sfondo si sentiva il pianto di un bambino.
“Scusa, ti disturbo?” chiese Rebecka.
“Nessun problema” rispose Anna-Maria con un sospiro. “É
Gustav. Mi sono chiusa al cesso per fare i miei bisogni e sfogliare
una rivista d’arredamento in santa pace, e adesso è qua fuori
appeso alla maniglia in preda a un attacco isterico. Aspetta un
attimo!”
“Robert!” urlò. “Vieni a prendere tuo figlio!”
Rebecka sentì una voce maschile che tentava di distrarlo:
“Gustav, Gustav! Vieni dal papà.”
“Non capisci che non… Portalo via da qui!” strillò Anna-
Maria. “Prima che mi tagli le vene!”
Dopo un attimo Rebecka sentì che il bambino urlante veniva
allontanato dalla porta del bagno.
“Ecco” disse Anna-Maria. “Adesso possiamo parlare.”
Rebecka le riferì brevemente cosa le aveva raccontato
Johannes Svarvare sull’aeroplano scomparso, e sul fatto che si
sentiva minacciato dai fratelli Krekula.
“Credo che avessi ragione tu fin dall’inizio” ammise
Rebecka. “Sono stati loro.”
Anna-Maria assentì.
“Nel pomeriggio sono stata anche all’archivio municipale”

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proseguì Rebecka. “Solo per prendere qualche informazione sulla
ditta.”
“Sì?”
“Ho trovato qualcosa sulle varie ditte della città. Sai, quanti
veicoli possedevano e quanti autisti avevano alle loro dipendenze.
Nel 1940 la ditta Krekula aveva due camion, nel 1942 quattro,
nel 1943 otto e nel 1944 undici.”
“E quindi…?”
“Be’, è un bell’incremento. Qualcosa come il cinquecento per
cento. Inoltre nello stesso periodo ha acquistato cinque furgoni
refrigerati. Nessuna delle altre ditte di autotrasporti ha avuto una
crescita neanche lontanamente paragonabile.”
“Ah.”
“Isak Krekula era in buoni rapporti con l’esercito tedesco.
Niente di strano in sé, la stessa cosa valeva per parecchia altra
gente. A Luleå i tedeschi avevano enormi magazzini di viveri e
attrezzature, e avevano bisogno di camion per farli arrivare sul
fronte orientale. Ho trovato la copia di un contratto tra l’esercito
tedesco e la Autotrasporti svedesi. Durante l’inverno tra il ‘41 e il
‘42 i soldati tedeschi stavano morendo di freddo nella Lapponia
finlandese, perciò l’addetto militare tedesco in Svezia ordinò dei
dormitori prefabbricati ad alcuni produttori locali. Fece un
contratto anche per il trasporto sul fronte orientale, appunto
quello con la Autotrasporti svedesi. Quell’inverno i loro camion
fecero la spola tra il Norrbotten e il fronte. Anche la ditta di Isak
Krekula era nella lista allegata al contratto. Documento firmato
con il benestare del ministero degli esteri e del governo svedese.”
“D’accordo” disse Anna-Maria, sforzandosi di non mettersi a
leggere un articolo sulle cabine-armadio.
“I trasporti per conto dei tedeschi continuarono anche una

189
volta consegnati tutti i prefabbricati. Compresi i trasporti d’armi,
ma ovviamente di questi il contratto non faceva parola. A ogni
modo ho trovato una lettera del tenente Walther Zindel, l’ufficiale
responsabile degli approvvigionamenti tedeschi a Luleå, a Martin
Waldenström, direttore della Lkab” proseguì Rebecka. “Nella
lettera si chiede che Isak Krekula venga sciolto dal contratto
triennale che ha firmato con la Lkab, perché i quattro camion che
sta utilizzando nella miniera devono essere noleggiati all’esercito
tedesco in Lapponia.”
“Scusa se sono un po’ tarda di comprendonio, ma…” iniziò
Anna-Maria.
“Non sei tu che sei tarda, è che non significa niente. Ma il
ragionamento che ho seguito è questo. Come ha fatto Isak
Krekula a crescere molto più rapidamente dei suoi concorrenti?
Quello degli autotrasporti era un mercato redditizio durante la
guerra, e tutti avrebbero voluto investirci qualcosa. Ma lui dove
ha trovato tutti quei soldi? Non potevano essere gli utili della
ditta, altrimenti anche i suoi concorrenti avrebbero fatto
altrettanto. E il mio vicino di casa, Sivving, dice che i Krekula
sono sempre stati una famiglia di braccianti, perciò non è da
qualche eredità che sono arrivati.”
“Credi che abbia fatto qualcosa di illegale?”
“Forse. Da qualche parte i soldi devono pur essere arrivati.
Mi sono domandata anche perché il tenente Zindel abbia chiesto
al direttore della miniera di liberare Krekula dal suo contratto con
la Lkab. Perché proprio lui? Sicuramente c’erano anche altre ditte
di autotrasporti che avevano un contratto con la miniera.”
“E quindi?”
“E quindi non lo so” sospirò Rebecka. “Non so nemmeno
cosa fare per scoprire che tipo era Isak Krekula o per sapere

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qualcosa sui suoi rapporti con Walther Zindel. E per di più non ci
servirebbe a niente. Anche se scoprissimo che si trattava di
attività illegali, non dimostreremmo che Tore e Hjalmar Krekula
hanno a che fare con la morte di Wilma e Simon.”
“Sempre che Simon sia morto” obiettò meccanicamente
Anna-Maria.
“É ovvio che è morto” replicò Rebecka impaziente. “Non
appena si scioglierà il ghiaccio sul Vittangijärvi lo troveremo.”
“Grazie, mi stavo solo sforzando di essere aperta a tutte le
possibilità. Compresa quella che potesse averla uccisa lui.”
“Per poi uccidere Hjörleifur Arnarson? Difficile, no? Adesso
seguiamo questa pista, non abbiamo abbastanza risorse per
dividerci su più fronti.”
“Non c’è che da aspettare, allora” disse Anna-Maria.
“Speriamo che le analisi del corpo e della casa di Hjörleifur, o
quelle dei vestiti di Hjalmar e Tore Krekula, diano qualche
risultato. Speriamo che il ghiaccio sciogliendosi ci faccia trovare
la porta della legnaia e il corpo di Simon e che ci siano delle
impronte digitali o qualche altra traccia.”
Sivving si schiarì la voce e lanciò a Rebecka uno sguardo
imperativo.
“Devo chiudere” disse Rebecka. “Ci vediamo domani mattina
alla riunione.”
“Johannes Svarvare mi ha detto che Isak Krekula ha avuto un
infarto la settimana prima della scomparsa di Wilma e Simon”
aggiunse Anna-Maria. ” É stato a quel punto che mi è sembrato
che volesse aggiungere qualcos’altro, ma poi si è trattenuto.”
“Ha paura di loro” disse Rebecka.
“Viene da domandarsi se Isak Krekula ha avuto l’infarto
perché ha saputo che Wilma e Simon si sarebbero immersi. C’è

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qualcosa di losco in questa storia, è un peccato che il ghiaccio sia
fragile. Dobbiamo per forza aspettare. E io odio aspettare.”
“Anch’io odio aspettare.”
“E io pure!” disse Sivving posando sonoramente la casseruola
delle patate. “Odio aspettare con il cibo in tavola che diventa
freddo.”
Anna-Maria rise.
“Cosa c’è per cena?”
“Luccio affumicato.”
“Luccio affumicato? Mai assaggiato.”
“Buono! E voi?”
“Abbiamo già cenato” disse Anna-Maria. “Ha scelto Gustav,
perciò abbiamo mangiato “salciccia”.”
“Be’” disse Sivving quando Rebecka ebbe riattaccato. “Come
vanno le cose?”
“Così così” rispose Rebecka. “Credo che i fratelli Krekula
siano colpevoli, ma…”
Alzò le spalle.
“Dobbiamo sperare nelle analisi tecniche.”
Sivving mangiò in silenzio. L’aveva sentita parlare degli
Autotrasporti Krekula e dei tedeschi. Sapeva bene con chi
avrebbe potuto fare due chiacchiere per scoprire parecchie cose in
proposito. La domanda era solo se la persona in questione era
disposta a farlo.
Måns Wenngren è seduto nel suo appartamento di Floragatan
a Stoccolma. Le luci sono spente. Il televisore è acceso e diffonde
il suo tremolante chiarore. Danno una vecchia puntata della sit-
com di Seinfeld che ha già visto.
Rebecka non ha chiamato per tutto il giorno. Non un sms,
niente. La sera prima gli aveva mandato dei messaggi e l’aveva

192
chiamato, ma lui non aveva risposto. Aveva anche lasciato un
messaggio in segreteria.
Adesso è pentito di non averle risposto. Ma dev’essere
sempre tutto alle sue condizioni. Vuole vivere a Kiruna. Sta
lavorando e non ha tempo per parlare con lui.
Il giorno prima aveva intenzione di farle capire che non
sarebbe rimasto lì ad aspettare i suoi comodi come un idiota
innamorato.
“Sì, sono incazzato” dice ad alta voce nell’appartamento
vuoto. “E ne ho motivo.”
Allontana il cellulare. Se non si farà sentire entro domani, la
chiamerà lui.
“Ma non ho intenzione di chiedere scusa” dice ad alta voce.
Gli manca. Pensa che sarà bello fare la pace. Ha intenzione di
andare a trovarla nel fine settimana. Può prendersi il venerdì
libero. Non è prevista nessuna riunione importante.

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Giovedì 30 aprile

Il vento aumentò fino a diventare una vera e propria bufera di


neve: scherzi del tempo d’aprile a Kiruna. Quando Rebecka si
svegliò, dalla finestra non si vedeva altro che raffiche bianche,
gonfie di neve, che soffiavano attorno alla casa.
Alle cinque e mezza, mentre si stava versando il caffè, squillò
il telefono. Guardò il numero: era Maria Taube, la sua ex collega.
Lavoravano insieme da Meijer & Ditzinger, prima che Rebecka si
trasferisse a Kiruna.
Schiacciò il tasto rispondi ed emise uno sbadiglio teatrale.
“Oh, scusami!” disse Maria Taube. “Ti ho svegliata?”
Rebecka si mise a ridere.
“No, stavo scherzando. Ero già in piedi.”
“Lo sapevo! Sei una stacanovista. Ti si può chiamare a
qualsiasi ora senza rischiare di svegliarti. Anche se speravo che la
calma del Norrland ti contagiasse.”
“In effetti è così, ma qui ci si alza all’alba.”
“Ah, lo so, chi si alza per primo si becca una medaglia. Anche
le mie zie sono fatte così, a cena si mettono a litigare su chi è in
piedi da prima. “Mi sono svegliata alle cinque e mi sono detta
che tanto valeva alzarsi a pulire le finestre!” “Io mi sono svegliata
alle tre e mezza ma mi sono costretta a restare a letto un’altra
oretta!””
“Un po’ come noi” rispose Rebecka bevendo un sorso di
caffè. “Sei già al lavoro?”

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“Per strada. E sono a piedi. Ascolta.”
Rebecka sentì un coro di uccelli primaverili al telefono.
“Qui c’è una tempesta di neve” disse.
“Stai scherzando! Quaggiù i ristoranti hanno già tirato fuori i
tavolini e i soci dello studio raccontano dei tulipani spuntati nei
giardini delle loro case di campagna.”
“Hai il tempo di annusare i tulipani?”
“No, cara, sono ancora incastrata nel mio solito stile di vita,
mi ammazzo di lavoro e ho solo relazioni distruttive.”
“Puoi cambiare i tuoi schemi” disse Rebecka con il tono
brioso di un’annunciatrice televisiva. “Il tuo corpo è in grado di
fare cose nuove, è la tua mente che te lo impedisce. Abbi il
coraggio di provare. Mettiti l’orologio al polso sbagliato. Hai già
camminato all’indietro, oggi?”
“Sei davvero un profeta del lato oscuro” rispose piano Maria.
“In effetti ho letto da poco un libro sull’attenzione consapevole.
Dice che bisogna vivere nel presente. Ma hanno provato a vivere
nel presente da Meijer & Ditzinger?”
“Måns sta facendo il cattivo?”
“In effetti sì. Avete litigato? É così di cattivo umore. Ieri si è
fatto venire un attacco perché ho dimenticato di inserire Alea
Finans nella lista delle dilazioni di pagamento.”
“No, non abbiamo proprio litigato, ma ce l’ha con me.”
“E perché? Non devi permettergli di avercela con te. Devi
tenerlo allegro, sazio e soddisfatto, in modo che se ne sbatta se la
Alea paga cinquemila corone di interessi di mora. In fondo hanno
un giro d’affari di due miliardi.
E non dire una parola sulla perdita di prestigio dello studio,
perché mi sono appena beccata l’intera lezione. Allora, perché ce
l’ha con te?”

195
“Trova che tengo troppo le distanze. E non gli va che resti
quassù. Cosa dovrei fare? Trasferirmi a casa sua finché si stufa e
inizia a uscire la sera a rimorchiare stagiste?”
Maria Taube non commentò.
“Sai anche tu che ho ragione” continuò Rebecka. “Certi
uomini e certi cani sono fatti così. E solo quando guardi da
un’altra parte e mostri un estremo disinteresse che si avvicinano
agitando la coda.”
“Ma ti ama” tentò Maria debolmente.
Anche se sapeva che aveva ragione l’amica. A Måns aveva
fatto bene che Rebecka si fosse trasferita a… Kurrkivare, o come
cavolo si chiamava. Era un uomo che tollerava male la vicinanza.
Entrambe lo avevano visto perdere interesse per donne belle e
dotate solo perché si erano affezionate troppo a lui.
“Ma se non fosse fatto così” proseguì Maria “potresti pensare
di tornare a Stoccolma?”
“Credo che mi ammalerei” rispose Rebecka senza l’ombra di
un sorriso nella voce.
“Allora resta lì. Potete avere una relazione a distanza. In
fondo sentire un po’ la mancanza dell’altro è il massimo.”
“Sì” rispose Rebecka.
Anche se ormai non sento più la sua mancanza, si rese conto.
Mi piace. Mi piace quando è qui. Funziona bene. Mi capita di
sentire la mancanza del sesso. Di voler dormire con la testa sul
suo braccio. E adesso che non si fa sentire ovviamente mi sento
subito piccola piccola e ho paura di perderlo. Ma faccio fatica a
sopportare la sua irrequietezza quando si ferma per più di tre
giorni. Quando inizio a sentire di dovermi inventare qualcosa per
non farlo diventare di cattivo umore. E il fatto che non vuole
capire perché ho bisogno di vivere qui. E adesso che mi tiene il

196
broncio, e che non risponde al telefono.
Per un attimo si domandò se fosse il caso di chiedere a Maria
Taube se pensava che fosse uscito con qualcun’altra. Se c’era
qualche candidata in ufficio.
Neanche morta, si disse poi. Una volta sarei rimasta sveglia
metà della notte a immaginarmi un sacco di cose. Ma non ce la
faccio più. Non voglio più.
“Sono arrivata al lavoro” disse Maria ansimando al telefono.
“Senti che sto facendo le scale invece di prendere l’ascensore?”
Rebecka stava per dire: bisogna chiedersi continuamente cosa
farebbe la personal trainer Blossom Tainton in questa situazione,
ma non aveva più voglia nemmeno di fare sempre la spiritosa.
C’erano troppe battute fra lei e Maria. E forse tutte e due a volte
si trattenevano dal telefonare proprio per quel motivo. Era una
forzatura.
“Grazie della chiamata” disse invece con sincero calore.
“Mi manchi” ansimò Maria. “Non possiamo vederci, la
prossima volta che scendi a Stoccolma? Non devi mica stare tutto
il tempo in posizione orizzontale.”
“Chi è quella che sta sempre…”
“Va bene, va bene, ti chiamo. Baci!” disse Maria chiudendo la
telefonata.
Vera si alzò e abbaiò.
Un attimo dopo si sentirono i passi pesanti di Sivving sulla
scala. Bella era già in cima e raspava alla porta del piccolo
ingresso.
Rebecka la fece entrare. Bella corse immediatamente ad
annusare le ciotole di Vera. Erano vuote, ma per sicurezza ci
diede una bella leccata, ringhiando verso Vera che si teneva a
rispettosa distanza. Poi i due cani si salutarono e si misero a

197
giocare sollevando i pezzotti dal pavimento.
“Che tempo” ansimò Sivving. “Nevica praticamente di lato.
Guarda!”
Si tolse la neve dalle spalle, dove si era accumulata in due
mucchietti ghiacciati.
“Mmm” rispose Rebecka. “Pare che a Stoccolma stiano già
cantando Benvenuto maggio radioso.”
“Sì sì” replicò Sivving con impazienza. “Poi però vengono
ammazzati per strada mentre tornano dal falò del primo maggio.”
Non gli piaceva che Rebecka paragonasse Kiruna a
Stoccolma a vantaggio di quest’ultima. Aveva paura di perderla di
nuovo.
“Hai tempo?” le chiese.
Rebecka assunse un’espressione dispiaciuta e stava per dire
che purtroppo doveva andare al lavoro, ma Sivving la precedette.
“Non ho intenzione di chiederti di spalare il cortile” sibilò.
“Ma c’è una persona che dovresti incontrare. Nel tuo interesse. O
meglio, in quello di Wilma Persson e Simon Kyrò.”

Rebecka si sentì oppressa non appena varcò insieme a


Sivving la porta della casa di riposo Oasi di montagna. Si
spazzolarono alla meglio la neve dai vestiti ai piedi della scala
dipinta di giallo senape e salirono la rampa coperta di linoleum
grigio. La tappezzeria lavabile e i pratici mobili di pino
identificavano immediatamente il luogo come un istituto
pubblico.
In cucina due persone accasciate su una sedia a rotelle
stavano facendo colazione. Una delle due era tenuta dritta con dei
cuscini perché non cadesse di lato. L’altra gridava: “Sì, sì, sì!” a
volume sempre crescente, finché un assistente le posò una mano

198
sulla spalla. Sivving e Rebecka si affrettarono a passare oltre,
cercando di non guardare.
Risparmiatemelo, vi prego, si disse Rebecka. Risparmiatemi
di finire in una casa di riposo tra vecchi sempre più senili e
incontinenti. Risparmiatemi di farmi pulire il sedere e venire
parcheggiata davanti al televisore, circondata da infermieri con la
voce gentile e la schiena a pezzi.
Sivving la precedeva nel corridoio a passi più veloci che
poteva. Anche lui sembrava braccato dal disagio.
“La persona che dobbiamo incontrare si chiama Karl- Åke
Pantzare” spiegò Sivving a bassa voce. “Mio cugino lo conosceva
bene, si frequentavano molto quando erano giovani. So che
durante la guerra ha fatto parte della resistenza, come anche mio
cugino, ma lui ormai è morto. E non era un argomento di cui
parlava volentieri. Ecco la sua camera.”
Si fermò davanti a una porta con la foto di un vecchio e la
scritta “Qui vive Karl-Åke”.
“Aspetta un attimo” disse Sivving appoggiandosi al
corrimano che seguiva tutto il corridoio per permettere ai
vecchietti ancora in piedi di avere qualcosa a cui reggersi. “Devo
riprendermi.”
Si passò una mano sul viso e respirò a fondo.
“Mi butta così giù” disse a Rebecka. “Accidenti. E dire che è
un bel posto. Le ragazze che ci lavorano sono tutte dei tesori, ci
sono ricoveri che sono molto peggio. Eppure… É questo che ci
aspetta? Promettimi di spararmi prima. Oh, scusami.”
“Va tutto bene” disse Rebecka.
“Me ne dimentico, sai. Che sei davvero stata costretta a
sparare… Bah, è come parlare di corde a casa dell’impiccato.”
“Non c’è bisogno di misurare le parole, ti capisco.”

199
“É solo che è così deprimente” continuò Sivving. “Ci penso
spesso, anche se mi sforzo di non farlo. Adesso poi, con il
braccio e tutto.”
Annuì in direzione del lato offeso. Quello che trascinava. La
mano di cui non poteva più fidarsi perché lasciava cadere le cose.
“Finché posso…” iniziò Rebecka.
“Lo so, lo so.”
Sivving agitò una mano come a chiudere il discorso.
“E perché poi questi posti devono avere sempre nomi così
spudorati? Oasi di montagna, Casa del sole, Giardino delle
rose?”
Rebecka rise.
“Radura” aggiunse.
“Sembra il nome di una rivista dei battisti. Adesso però
entriamo. Karl-Åke non ricorda granché dei fatti più recenti, ma
non lasciarti ingannare se ti sembra un po’ confuso, per tutto il
resto la sua memoria non ha niente che non va.”
Bussò alla porta e la aprì.
Karl-Åke Pantzare aveva i capelli bianchi accuratamente
pettinati all’indietro. Le sopracciglia e le basette erano
cespugliose, con i peli lunghi e ispidi, tipici dei vecchi. Sopra un
paio di pantaloni immacolati e stirati con la piega, indossava
camicia, gilet di lana e cravatta. Era chiaro che una volta doveva
essere molto attraente. Rebecka gli guardò le mani: le unghie
erano corte e pulite.
Salutò allegramente sia Sivving sia Rebecka, ma in fondo allo
sguardo amichevole vagava un’ombra angosciata.
Aveva già incontrato quelle persone? Avrebbe dovuto
riconoscerle?
Sivving si affrettò a mettere fine alla sua incertezza.

200
“Sivving Fjàllborg” si presentò. “Di Kurravaara. Quando ero
ragazzo mi chiamavano Erik. Arvid Fjällborg è mio cugino. O
meglio era, ormai è morto da parecchi anni. E questa è Rebecka
Martinsson. Nipote di Albert e Theresia Martinsson. Anche lei è
di Kurravaara, ma non vi siete mai incontrati prima.”
Karl-Åke Pantzare si rilassò.
“Erik Fjällborg” ripeté allegro. “Certo che mi ricordo. Sei
invecchiato, però.”
Strizzò l’occhio per sottolineare che stava scherzando.
“Bah” replicò Sivving fingendosi offeso. “Ma se sono ancora
un ragazzino.”
“Come no” ridacchiò Karl-Åke Pantzare. “Ne sono passati di
anni, da quando eri un ragazzino.”
Accettarono il caffè che venne loro offerto e Sivving ricordò a
Karl-Åke Pantzare una drammatica partita di pesca sul ghiaccio
che lui e suo cugino avevano fatto sul lago Jiekajaure.
“Arvid raccontava sempre che andavate in città in bicicletta
quando c’era da ballare, di sabato. Diceva che i tredici chilometri
da Kurravaara alla città non erano niente, il problema era se
incontravate una ragazza di Kaalasluspa e dovevate
accompagnarla in bici e poi tornare fino a casa. E alle sei
bisognava comunque essere in piedi per mungere. Ogni tanto
capitava che Arvid si addormentasse sullo sgabello. Come si
arrabbiava lo zio Algot!”
Seguì il consueto riepilogo di parenti in comune. Una sorella
di Karl-Åke aveva affittato una casa a Lahenperä. Sivving credeva
che fosse degli Utterstròm, ma Karl-Åke disse che era degli
Holmqvist. Un altro cugino di Sivving, fratello di Arvid, e un
fratello di Karl-Åke erano stati una promessa degli sci, avevano
perfino gareggiato a Soppero. Elencarono tutti i malati della

201
famiglia. Chi se n’era andato per sempre o si era anche solo
trasferito in città e chi aveva ereditato la casa di famiglia.
Alla fine Sivving ritenne che Karl-Åke Pantzare si fosse
scaldato a sufficienza per entrare in argomento. Raccontò senza
tanti giri di parole che suo cugino gli aveva rivelato che entrambi
avevano fatto parte della resistenza nel Norrbotten. Spiegò anche
che Rebecka era procuratore e che stava indagando su due ragazzi
uccisi che si erano immersi in cerca di un aereo tedesco nel
Vittangijärvi.
“Te lo dico chiaro, perché so che resterà fra noi. C’è motivo
di credere che Isak Krekula di Piilijärvi, quello della ditta di
autotrasporti, sia coinvolto nella faccenda.”
Karl-Åke Pantzare si rabbuiò.
“Perché siete venuti da me?”
“Perché abbiamo bisogno d’aiuto” disse Sivving. “Non
conosco nessun altro che sappia come andavano le cose allora.”
“Si fa meglio a non parlarne” disse Karl-Åke Pantzare.
“Arvid avrebbe fatto meglio a tenere la bocca chiusa, cosa gli è
saltato in testa?”
Si alzò e prese un vecchio album di foto dalla libreria.
“Adesso vedrete” disse.
Tirò fuori un ritaglio di giornale infilato nell’album. Risaliva
a cinque anni prima.
“Pensionato ucciso durante una rapina” diceva il titolo.
L’articolo riferiva che un uomo di novantasei anni e la moglie di
ottantadue erano stati uccisi nella loro casa di Boden. Rebecka
lesse rapidamente e con disgusto che la donna era stata trovata
con un cuscino legato sul viso. Era stata picchiata e soffocata, ed
era stata “profanata” dopo la morte.
Profanata, si disse Rebecka. Cosa intendono?

202
Come se le avesse letto nel pensiero, Karl-Åke Pantzare
spiegò: “Le hanno infilato una bottiglia rotta nella vagina.”
Rebecka continuò a leggere. L’uomo era ancora vivo alle sette
del mattino, quando era arrivata l’assistente domiciliare per fare
alla donna la sua iniezione di insulina. Ma era stato picchiato
selvaggiamente con pugni e calci, ed era morto poco dopo
all’ospedale. Secondo l’articolo, la polizia aveva bussato a tutte
le porte del vicinato, fino a quel momento senza risultato. A
quanto si sapeva, la coppia non teneva in casa grosse somme di
denaro né altri oggetti di valore.
“Era uno di noi” disse Karl-Åke Pantzare. “Lo conoscevo. E
non è stata una rapina, ne sono sicuro. É stato qualche neonazista
del Fronte nazionalsocialista o qualche altro estremista di destra
che ha scoperto che aveva fatto parte della resistenza. Non si è al
sicuro nemmeno dopo tanto tempo. I giovani cercano di far colpo
sui vecchi nazisti in questo modo. Hanno obbligato il vecchio a
guardare che gli picchiavano a morte la moglie. Perché un
rapinatore avrebbe dovuto profanarla? Volevano torturarlo. Ci
stanno ancora cercando. E se ci trovano…”
Concluse la frase scuotendo la testa.
É ovvio che ha paura, si disse Rebecka. É più facile rischiare
la vita quando sei giovane, sano e immortale, che non quando sei
chiuso ad aspettare in un posto del genere.
“Eravamo obbligati a fare qualcosa” proseguì il vecchio come
tra sé. “Le navi tedesche arrivavano nel porto di Luleå una dopo
l’altra, molte senza nemmeno essere registrate dalla capitaneria.
Ovviamente caricavano minerale di ferro. E scaricavano viveri ed
equipaggiamenti, armi e soldati. Ufficialmente i soldati erano
solo quelli diretti a casa, in licenza. Col cazzo! Ho visto intere
unità delle SS salire e scendere da quelle navi. Venivano trasferiti

203
in treno fino in Norvegia o in camion verso il fronte orientale.
Abbiamo pensato spesso al sabotaggio. Ma così avremmo
dichiarato guerra al nostro stesso paese. Dopo tutto erano
doganieri e poliziotti svedesi che controllavano i porti, i depositi
e i convogli. Se fossimo stati sotto occupazione sarebbe stata
un’altra cosa. I tedeschi avevano molti più problemi con la
Norvegia occupata, tra la resistenza e il territorio ostile, che con
la Svezia cosiddetta neutrale.”
“Cosa puoi raccontarci di Isak Krekula e della sua ditta?”
insistette Sivving.
“Non so, erano molte le ditte del genere. Ma so che alcuni dei
trasportatori della zona erano informatori dei tedeschi. Almeno
uno. Anche se non sapevamo chi fosse. E la cosa ci preoccupava
parecchio, perché gran parte del nostro lavoro consisteva nel
tenere in attività Kari.”
“Cos’era?” chiese Rebecka.
“La Xu, lo spionaggio della resistenza norvegese, aveva una
base in territorio svedese, non lontano dal lago Tor- neträsk.
Nome in codice Kari. E la stazione radio al suo interno era
Brunilde. Kari trasmetteva a Londra le informazioni di dieci
sottostazioni della Norvegia del nord. Era azionata da un
generatore a vento. Era stata costruita in una depressione
naturale, perciò la si poteva scoprire solo arrivandole a quindici
metri di distanza.”
“C’era una cosa del genere in Svezia?”
“Ce n’erano parecchie. Le basi Sepal in territorio svedese
erano gestite con l’aiuto dei servizi segreti inglesi e dell’Oss
americana. Si occupavano di spionaggio, sabotaggio,
reclutamento e addestramento con armi, mine ed esplosivi.”
“É stato grazie a quelle basi che gli inglesi sono riusciti ad

204
affondare la Tirpiz” spiegò Sivving a Rebecka.
“Sia le stazioni radio sia i generatori avevano bisogno di
manutenzione” proseguì Karl-Åke. “E il personale aveva bisogno
di viveri ed equipaggiamento. Insomma, non potevamo fare a
meno dei trasportatori, ma era un problema delicato coinvolgere
una persona nuova, soprattutto da quando sapevamo che ce n’era
uno che faceva l’informatore. Dio santo, una volta io e un nuovo
autista, un tipo di Ranea, eravamo diretti a Pälsta con un carico
di mitra. Abbiamo fatto una deviazione per evitare la strada di
Kilpisjärvi, che era controllata dai tedeschi, ma ci hanno fermati a
un posto di blocco. All’improvviso l’autista si è messo a parlare
in tedesco con l’ufficiale. Ho creduto che mi avesse tradito, non
sapevo nemmeno che parlasse tedesco. Stavo per buttarmi giù dal
camion e mettermi a correre più veloce che potevo, quando
l’ufficiale si è messo a ridere e ci ha lasciati andare, dopo essersi
fatto consegnare alcuni pacchetti di sigarette. Il tipo aveva solo
fatto una battuta. Dopo gli ho dato una bella lavata di capo:
avrebbe dovuto dirmi che sapeva il tedesco! Anche se all’epoca
c’era un sacco di gente che lo parlava. Era la lingua straniera che
si imparava a scuola. Sai, come l’inglese al giorno d’oggi. Quella
volta è andata bene.”
Karl-Åke Pantzare prese l’album e lo aprì a una certa pagina.
Indicò una foto che sembrava scattata negli anni quaranta, un
giovane uomo sorridente, ritratto a figura intera, appoggiato a un
pino. Era estate e il sole gli illuminava i capelli biondi. Indossava
una camicia con le maniche arrotolate e dei pantaloni troppo
larghi, con un risvolto approssimativo in fondo. Con una mano si
teneva il braccio opposto, nell’altra stringeva una pipa.
“Axel Viebke” disse Karl-Åke Pantzare. “Anche lui faceva
parte della resistenza.”

205
Emise un profondo sospiro e proseguì: “Avevamo nascosto
tre prigionieri di guerra danesi fuggiti da una nave tedesca nel
porto di Luleå. Lo zio di Axel aveva un fienile a est di Sävast, è lì
che li portammo. Bruciarono tutti dentro. Si disse che fu un
incidente.”
“Tu invece cosa credi che sia successo?” chiese Sivving.
“Credo che sia stata un’esecuzione in piena regola: i tedeschi
vennero a sapere dove si nascondevano e li uccisero. Non
scoprimmo mai chi aveva parlato.”
Karl-Åke Pantzare strinse le labbra.
Rebecka si mise a sfogliare l’album.
In una foto c’erano Axel Viebke e Karl-Åke Pantzare di
fianco a una bella ragazza con un vestito a fiori. Era molto
giovane, e aveva i capelli leziosamente agghindati in un tirabaci
che le copriva un occhio.
“Eccovi di nuovo qua” disse. “Chi è la ragazza?”
“Ah, qualche sua fiamma” rispose Karl-Åke Pantzare senza
nemmeno guardare la foto. “Aveva un debole per le femmine,
Axel. Andavano e venivano in continuazione.”
Rebecka tornò alla foto di Axel appoggiato al pino. Si vedeva
che la pagina era stata aperta spesso, aveva l’angolo sgualcito e
più scuro delle altre. Nella foto si intravedeva l’ombra del
fotografo.
Un seduttore, si disse. É proprio in posa, pigramente
appoggiato al tronco, la pipa in mano.
“É lei che l’ha scattata?” chiese.
“Sì” rispose Karl-Åke Pantzare con voce roca.
Rebecka si guardò attorno. Karl-Åke Pantzare non aveva foto
di figli in giro per la camera, né foto nuziali nell’album.
Mi sa che ti piaceva un po’ troppo, si disse guardando il

206
vecchio.
“Sarebbe stato contento che lei parlasse con noi” disse poi.
“Che continuasse a essere coraggioso.”
Karl-Åke Pantzare annuì, con gli occhi lucidi.
“Non so granché” rispose. “Sull’autista, intendo. Gli inglesi
ci avevano detto semplicemente che c’era un trasportatore che
faceva rapporto ai tedeschi e che dovevamo stare attenti. Lo
chiamavano Volpe. E di sicuro Isak Krekula era in buoni rapporti
con i tedeschi, lavorava molto per loro, e lì contavano solo i
soldi.”

“Adesso devi darti una regolata” disse Tore Krekula.


Era in camera di Hjalmar e guardava il fratello, sdraiato a
letto con una coperta sulla testa.
“So che sei sveglio. Non sei malato! Adesso piantala!”
Alzò le veneziane con tanta violenza che i cordini sembrarono
cedere. Avrebbe voluto che cedessero. Fuori volteggiava la neve.
Quando Hjalmar non si era presentato al lavoro, era andato a
casa sua con la copia delle chiavi. Non che ce ne fosse bisogno.
Nessuno in paese chiudeva la porta, di notte.
Hjalmar non rispose. Restò immobile come un morto sotto le
coperte. Tore avrebbe avuto voglia di strappargliele di dosso. Ma
qualcosa lo trattenne. Non osava. La persona che vi si nascondeva
sotto era imprevedibile. Sembrava quasi che dalla coperta uscisse
una voce: dammi solo una scusa, dammi solo una scusa. Non era
come lo Hjalmar di prima, che si poteva manovrare come si
voleva.
Si sentiva impotente. Gli dava una sensazione strana vedere
che la gente non faceva quello che diceva lui. Non ci era abituato.
Prima quella poliziotta, e adesso Hjalmar.

207
E che minaccia poteva usare? La sua minaccia era sempre
stata Hjalmar.
Fece un giro per la casa. Mucchi di piatti sporchi. Pacchetti
vuoti di patatine e di biscotti. In cucina c’era puzza di
immondizia. Grandi bottiglie di plastica vuote. Vestiti per terra.
Mutande, gialle davanti, marroni dietro.
Tornò in camera. Ancora nessun movimento sotto la coperta.
“Cazzo” disse. “Cazzo, che porcile. E tu, tu mi fai schifo.
Come una schifosa balena spiaggiata. Blah!”
Girò sui tacchi e se ne andò.
Hjalmar sentì la porta richiudersi rumorosamente.
Non ce la faccio più, si disse. Non c’è via d’uscita.
Di fianco al letto c’era un sacchetto aperto di croccantini al
formaggio. Ne prese una manciata.
Una voce nella testa. Quella del maestro Fernström. “Sei tu
che decidi cosa fare della tua vita.”
No, Fernström non aveva mai capito niente.
Non voleva pensarci. Ma a cosa serviva quel che voleva o non
voleva? I pensieri precipitavano nella sua testa come attraverso
una botola aperta.

Hjalmar ha tredici anni. Alla radio trasmettono il dibattito tra


Kennedy e Nixon prima delle elezioni. Kennedy è un donnaiolo,
nessuno crede che possa vincere. Ma a Hjalmar non interessa la
politica. É seduto con i gomiti sul banco di legno laccato della
scuola, la testa appoggiata alle mani, i palmi sulle guance. Ci
sono solo lui e il maestro Fernström. Tutti gli altri sono andati a
casa e quando l’odore di stalla e di lana bagnata è sparito insieme
a loro è venuto fuori l’odore di scuola. L’odore di polvere e di
carta, il tanfo acido dello straccio usato per pulire la lavagna, il

208
profumo di sapone del pavimento e un odore caratteristico del
vecchio edificio.
Hjalmar sente che ogni tanto il maestro alza gli occhi dai
compiti che sta correggendo, ma non incrocia il suo sguardo. I
suoi occhi seguono le venature del legno sul banco.
Assomigliano a una donna sdraiata. Più a destra c’è un animale
fantastico, o forse una pernice, il nodo del legno è un occhio.
Poi entra in classe il rettore Bergvall. Il maestro Fernström
interrompe la correzione e chiude il quaderno.
Il rettore lo saluta, poi dice: “Ho parlato con i medici di
Kiruna e la madre di Elis Sevä. Gli hanno messo sei punti. Il naso
non era rotto, ma ha una commozione cerebrale.”
Fa una pausa, aspettando una reazione da parte di Hjalmar.
Ma lui si limita a fare come al solito, sta zitto e guarda da
un’altra parte, la cartina della Palestina dietro la cattedra, o
l’armonium, o i disegni degli alunni appesi al muro. Tore aveva
preso la bicicletta di Elis Sevä, che gli aveva detto di
restituirgliela immediatamente. Tore aveva risposto: “Dai, l’ho
solo presa in prestito.” Era scoppiata una lite e uno degli amici di
Tore era corso a cercare Hjalmar.
Il maestro Fernström guarda il rettore e scuote
impercettibilmente la testa, come a dire che è inutile aspettarsi
una risposta da Hjalmar Krekula.
Il rettore, provocato dal silenzio del ragazzo, diventa tutto
rosso in viso e parla con voce affannata. Dice che è una cosa
grave, molto grave. Percosse, ecco come si chiamano. Dio santo,
picchiare un compagno con una chiave a croce, ci sono delle
leggi che lo proibiscono, e valgono anche a scuola.
“È stato lui a cominciare” dichiara Hjalmar come al solito.
La voce del rettore sale di un tono quando dice di pensare che

209
Krekula stia mentendo per salvarsi la pelle. Che i compagni
sosterranno la sua versione solo per paura.
“Il signor Fernström dice che Krekula è un talento della
matematica” continua il rettore.
Hjalmar tace, guarda fuori dalla finestra.
Il rettore perde la pazienza.
“Ma a cosa gli serve, quando è insufficiente praticamente in
tutte le altre materie?” grida. “Soprattutto in condotta!”
Ripete due volte l’ultima frase.
Allora Hjalmar lo guarda negli occhi, uno sguardo pieno di
disprezzo.
Il rettore si preoccupa immediatamente di ritrovarsi con le
finestre di casa sfondate.
“Krekula deve imparare a tenere a bada il suo temperamento”
dice in tono conciliatorio.
E aggiunge che per un po’ dovrà studiare con il vicerettore.
Lascerà la classe per due settimane. Così avrà la possibilità di
riflettere sulla situazione.
Poi se ne va.
Il maestro Fernström sospira. Hjalmar ha la sensazione che
sospiri per il rettore.
“Perché fai sempre a botte?” gli chiede. “Non sei uno
stupido. E sei davvero dotato in matematica. Dovresti continuare
a studiare, Hjalmar. Hai ancora la possibilità di recuperare nelle
altre materie, in modo da entrare al ginnasio.”
“Bah” dice Hjalmar.
“Cosa bah?”
“Il papà non me lo permetterebbe mai. Io e Tore dobbiamo
lavorare con lui.”
“Parlerò io con tuo padre. Sei tu che decidi cosa fare della tua

210
vita. Lo capisci? Se smetti di fare a botte e…”
“Chi se ne frega” lo interrompe Hjalmar con veemenza.
“Tanto non ho voglia di studiare. Preferisco lavorare e
guadagnare soldi. Posso andare adesso?”
Il maestro Fernström sospira di nuovo. E questa volta è per
Hjalmar.
“Vai” dice. “Sparisci.”

A ogni modo Fernström va a parlare con il vecchio. Un giorno


Hjalmar torna a casa e trova Isak furibondo. Kerttu sta
preparando le frittelle con viso arcigno mentre Isak impreca
andando su e giù per la cucina.
“Il tuo maestro se n’è andato con la coda fra le gambe” dice a
Hjalmar. “I miei ragazzi non diventeranno mai dei contabili dalla
faccia pallida, gliel’ho detto chiaro e tondo. Matematica, eh? Chi
ti credi di essere? Sei troppo intelligente per lavorare sui camion,
eh? Non è di gusto del signorino? Sono i camion che ti danno da
mangiare da quando sei nato.”
Prende fiato come se la rabbia stesse per soffocarlo, come se
gli premesse un cuscino davanti alla bocca.
“Se non ti va bene prenderti la responsabilità della famiglia,
non sei più il benvenuto qui, lo capisci? Studia pure matematica,
se vuoi, ma da qualche altra parte.”
Hjalmar vorrebbe dire che non ha mai pensato di andare al
ginnasio, che è un’invenzione del maestro, ma non riesce a
emettere un suono. La paura gli blocca la voce. E c’è anche
qualcos’altro. Un’improvvisa illuminazione.
L’illuminazione è che è davvero bravo in matematica.
Addirittura un talento, come ha detto il rettore. Fernström l’ha
detto al rettore ed è andato fino a Piilijärvi per dirlo anche a suo

211
padre.
E quando Isak urla: “Cosa pensi di fare?”, e Hjalmar non
risponde, e Isak gli dà un manrovescio, e poi un altro, fino a
fargli rimbombare le orecchie, Hjalmar ha davvero la percezione
di poter diventare un contabile dalla faccia pallida, che è
qualcosa al di fuori della portata del resto della famiglia, ed è
questo che fa venire a Isak la schiuma alla bocca dalla rabbia.
Hjalmar va a sedersi in riva al lago. Deve tenere la guancia
riparata dal sole, perché gli brucia.
Vede due corvi che giocano. Uno fa dei voli acrobatici con un
bastoncino nel becco, l’altro lo segue da vicino. Eseguono gran
volte, rotazioni, picchiate verso l’acqua per poi impennarsi di
nuovo in alto.
Quello con il bastoncino si infila intrepidamente nella
chioma di un albero, sembra che debba andare a sbattere contro il
tronco o un ramo e rompersi l’osso del collo, ma un attimo dopo
è fuori dall’altra parte, come un coltello nero lanciato attraverso
il fogliame. Volteggia sopra il lago emettendo un sonoro koorp, e
naturalmente gli cade il bastoncino. I due corvi continuano a
roteare per un po’ sopra la superficie dell’acqua, prima di
decidere di lasciar perdere e dirigersi verso le cime dei pini.

Atterro sul pontile accanto a Hjalmar. Ha tredici anni e una


guancia rosso fuoco. Le lacrime gli rigano il volto anche se non
vuole piangere. E poi arriva la rabbia, lo afferra con una tale forza
da farlo tremare. Odia Isak, che gli ha urlato contro. Odia Kerttu,
che si è voltata dall’altra parte come al solito. Odia il maestro
Fernström, perché cazzo ha dovuto andare a parlare con il papà?
Hjalmar non gliel’ha chiesto. Non gli è mai passato per la testa di
andare al ginnasio. Gli è stato negato qualcosa che tanto non

212
aveva mai avuto. Perché piange, allora?
La rabbia che ha dentro è un ferro rovente. Si alza, sembra
quasi che abbia le ali. Cerca Tore che sta montando un ugello più
grande sul carburatore del motorino.
“Vieni con me, andiamo a Svappavaara” gli dice.

La Volkswagen nera del maestro Fernström è parcheggiata in


strada come al solito, a cento metri dalla scuola.
Hjalmar ha con sé un piede di porco. Inizia dai fanali
anteriori e posteriori. Ben presto l’asfalto è cosparso di pezzi di
vetro simili a diamanti, ma non basta, ha ancora tanta rabbia nei
muscoli che deve venir fuori. Sfonda il parabrezza e i finestrini, e
poi anche il lunotto. Si spezzano con uno schianto, spruzzando
vetri dappertutto. Tore indietreggia di qualche passo.
Passano di lì alcuni ragazzini, Tore gli sibila: “Se fate la spia,
la prossima volta tocca a voi”, e quelli spariscono come topi
spaventati.
Hjalmar sale sul tetto, saltella un paio di volte, il tetto si
piega, poi salta sul cofano.
Succede tutto in fretta, in tre minuti hanno finito ed è ora di
andare.
“Filiamocela adesso!” grida Tore, che è già seduto sul
motorino.
Hjalmar ha le braccia stanche ed è coperto di sudore. Adesso
è calmo. Non piangerà mai più.
Apre la portiera della macchina e fruga nella cartella sul
sedile anteriore. Tore lo chiama, preoccupato che passi qualche
adulto. Non c’è il portafoglio, solo tre libri di matematica, Il
grande libro del calcolo, Aritmetica pratica, Manuale di
geometria, e un fascicolo dal titolo Turning Points in Physics - A

213
Series of Lectures Given at Oxford University. Hjalmar se li
infila sotto il giaccone, tutti tranne Il grande libro del calcolo.
Quello è troppo grosso, se lo deve tenere sottobraccio.
Li lascio lì. Volo via con la termica. Su, verso l’alto.

Devo mettere in moto il procuratore Rebecka Martinsson e


Hjalmar Krekula.
Rebecka Martinsson è seduta nel suo ufficio, dopo le udienze
della mattina.
C’era stato un caso di guida senza patente, uno di guida
pericolosa, uno di aggressione e uno di abuso del fiduciario. I
fascicoli devono essere riordinati, le sentenze registrate. Sa che
se si mette di buona lena non ci vorrà più di una mezz’ora. Ma
non ne ha voglia, una grigia fiacchezza si è impossessata di lei.
La tempesta di neve è passata. Di colpo, come succede nelle
zone di montagna, proprio quando sembrava che non dovesse mai
finire. Quando il vento fischiava e soffiava e la neve umida e
collosa d’aprile si infilava nel bavero della gente, all’improvviso
il vento si è calmato. Le nubi sono passate oltre e il cielo è
tornato azzurro e sereno.
Guarda il cellulare. Spera che lui la chiami, o le mandi un
sms. Fuori dalla finestra il sole brilla sulle facciate delle case e
sui tetti, su tutta la neve appena caduta.
Due cornacchie si posano sull’albero davanti alla finestra.
Gridano e la chiamano, anche se lei non se ne rende conto.
Le persone non fanno caso agli uccelli. Provano spesso
grandi emozioni grazie a loro, ma non si chiedono mai perché.
Perché il cinguettio di venti uccellini su una betulla può scaldare
il cuore e dare una scossa di felicità?
L’abbaiare di un cane non risveglia simili sensazioni. O

214
quando si alzano gli occhi al cielo e si vede un volo di uccelli. O
tutte quelle emozioni forti, quando un centinaio di cornacchie si
raduna e si mette a strepitare in una sera d’estate. O il grido
funereo della civetta o della strolaga in una notte estiva. O una
rondine che saetta sotto un tetto verso i piccoli che strillano nel
nido.
La gente non si chiede perché l’interesse per gli uccelli
aumenti a mano a mano che si invecchia e ci si avvicina alla
morte.
No, ci sono tante cose che non si sanno fino a quando si
muore.
Le cornacchie la chiamano concitate, e Rebecka si dice che
deve uscire a godersi la bella giornata. Si ricorda che è da molto
che non va sulla tomba di sua nonna. Bene. Finalmente è in
piedi.

Uno stormo di corvi atterra nel cortile di Hjalmar Krekula, i


becchi e le penne risplendono al sole.
Cazzo quanto sono grandi, si dice Hjalmar quando li vede
dalla finestra.
Ha la sensazione che guardino proprio lui. Quando esce sulla
scala, si spostano leggermente di lato, ma nessuno prende il volo.
Restano lì a gracchiare piano. Non sa se trovarlo spettrale o
esserne ammirato. Lo osservano.
Devo andare sulla tomba di Wilma, si dice. Nessuno può
trovarci niente di strano. In fondo la conoscevo.

La neve copre il cimitero di Kiruna. Alti mucchi separano le


tombe e i vialetti spalati, sembra quasi di entrare in un labirinto.
Rebecka si guarda attorno. Ci mette un po’ a orientarsi, la neve

215
rende tutto diverso. Quasi nessuno ha fatto in tempo a spazzare le
tombe dopo la tormenta di ieri, sono ancora nascoste sotto la
neve. Il sole fa scintillare tutto quel bianco. Le betulle formano
dei portali con i rami piegati, appesantiti dalla neve.
Di solito legge le lapidi a mano a mano che passa, le
piacciono i vecchi titoli: possidente, guardaboschi, cancelliere
parrocchiale. E i vecchi nomi: Gideon, Eufemia, Lorentz.
La tomba del nonno e della nonna è coperta di neve. E doveva
esserlo già prima della tormenta di ieri. Afferra la pala con una
fitta alla coscienza.
Si mette a spalare. La neve appena caduta è soffice e leggera,
ma quella sotto è ghiacciata, umida e pesante come piombo. Il
sole le ferisce gli occhi e le bagna la schiena. Si dice che non
sente mai la nonna particolarmente vicina quando viene qui. No,
preferisce andarle incontro all’improvviso in altri posti, nel
bosco, o a volte a casa. Quando Rebecka va al cimitero è più che
altro un atto di volontà, un dedicare alla nonna pensieri ed
emozioni.
Anche se ti farebbe piacere che tenessi in ordine qui, pensa
rivolgendosi a sua nonna, e si ripromette di occuparsi di più della
tomba, in futuro.
E in effetti i suoi pensieri iniziano a ruotare attorno alla
nonna. Rebecka ha quindici anni e percorre in motorino i tredici
chilometri tra la città e Kurravaara, entra in cortile scoppiettando
sul suo Puch Dakota con la cartella in spalla. La scuola è quasi
finita, in autunno andrà al liceo. Sono le sei di sera. La nonna è
nella stalla. Rebecka lancia il giaccone sul grosso calderone in
ghisa. Sotto c’è un focolare. D’inverno la nonna scalda l’acqua
per le vacche. Inumidisce un po’ di foglie secche di betulla da
mescolare all’avena bagnata, quante volte hanno strappato

216
insieme le foglie dai rami. Le mani della nonna sono sempre
ruvide e screpolate. Quando Rebecka era piccola faceva il bagno
nel calderone della stalla ogni sabato. La nonna metteva delle
assicelle di legno sul fondo in modo che i piedi non si
bruciassero.
Tutti quei suoni, si dice Rebecka davanti alla tomba. Tutti
quei suoni pacifici che non sentirò mai più, le vacche che
ruminano, il latte che schizza contro il secchio, le catene che
tintinnano mentre le vacche tendono il collo per arrivare al fieno,
il ronzio delle mosche e le rondini che sfrecciavano verso il nido
sotto il tetto della stalla. La nonna che mi dice in tono severo di
andare a cambiarmi, non si va nella stalla con i vestiti della
scuola. Io che rispondo: “Chi se ne frega”, e mi metto a
spazzolare Punakorva.
La nonna non protestava. La sua severità era tutta scena. Con
lei ho vissuto una vita libera.
E poi è morta da sola. Mentre io studiavo all’università a
Uppsala. Ma non sono ancora pronta per pensarci. Ci sono
troppe cose che non posso perdonarmi. E questa è la peggiore.
Mentre Rebecka Martinsson suda e affonda la pala nella
neve, un’ombra si posa su di lei: c’è qualcuno alle sue spalle. Si
volta.
É Hjalmar Krekula.
Sembra uno scappato di casa. Uno che ha dormito per strada
con i vestiti addosso, che ha frugato nei bidoni della spazzatura
in cerca di scatolette da portare al deposito in cambio di pochi
spiccioli.
In un primo momento si spaventa. Ma poi sente il cuore
pesante, gonfio di compassione. Ha davvero un aspetto terribile.
Sta crollando.

217
Rebecka non dice niente.

Hjalmar la guarda. Non si era aspettato di trovare lì il


procuratore. Prima era andato nella parte nuova del cimitero,
dove c’è la tomba di Wilma. Tutte quelle più recenti erano state
spazzate di fresco. I parenti dovevano essere corsi non appena era
uscito il sole e aver passato lì la pausa pranzo, a far bella la
tomba. Su quasi tutte le lapidi c’è scritto qualcosa come “amato”,
“compianto”. Si era domandato vagamente cosa avrebbero scritto
per lui. Se la moglie di Tore si sarebbe occupata della sua tomba.
Forse lo farà solo per evitare chiacchiere in paese. Era rimasto
bloccato un attimo davanti alla tomba di un bambino. Aveva
calcolato rapidamente che età aveva Samuel quando era morto.
Due anni, tre mesi e cinque giorni. Sull’angolo superiore sinistro
della lapide c’era una foto del piccolo. Non aveva mai visto una
cosa del genere. Non che andasse spesso per cimiteri. C’erano
una corona con un orsacchiotto, dei fiori e un lumino.
“Povero piccolo” disse sentendo una pressione nel petto.
“Povero piccolino.”
Non era riuscito a fermarsi sulla tomba di Wilma. Si era
limitato a passare davanti alla lapide provvisoria, una stecca di
alluminio con una targa di plastica. “Persson Wilma”. Regali,
fiori, alcuni lumini tremolanti. Era appena arrivato nella parte
vecchia del cimitero, domandandosi cosa diavolo ci facesse lì,
quando ha visto il procuratore.
L’ha riconosciuta dal cappotto e dai lunghi capelli scuri. Non
saprebbe dire perché è andato nella sua direzione. Si è fermato a
una certa distanza. Quando si è voltata e l’ha visto si è
spaventata, se n’è accorto.
Adesso vorrebbe dirle di non avere paura, ma non riesce a

218
spiccicare parola. Rimane lì impalato come un idiota. Ma è stato
così per tutta la sua vita. Un idiota di cui la gente aveva paura.
Lei non dice niente. La paura scompare dal suo sguardo,
sostituita da qualcos’altro. Qualcosa che Hjalmar sopporta a
fatica. Non ci è abituato. Non è abituato al silenzio della gente.
Di solito è lui quello che sta zitto e lascia che gli altri parlino e
decidano.
“Io vorrò essere sparso al vento” finisce per dire dopo un po’.
Lei annuisce.
“Sei venuta a trovare quelli che hai ucciso?” le chiede poi.
Lo sa. Ha letto di lei sui giornali. E la gente parla.
“No” risponde lei. “Sono venuta a trovare mia nonna. E anche
mio nonno.”
Indica con un cenno del capo la tomba che sta ripulendo dalla
neve.
Solo dopo si accorge che nella domanda sembrava esserci un
“anche tu” che Hjalmar non aveva detto ad alta voce. Ma c’era.
Sei venuta anche tu a trovare quelli che hai ucciso?
Rebecka volta la testa e indica con un dito. Aggiunge con
voce calma: “Quelli che ho ucciso sono sepolti laggiù. E lì.
Thomas Söderberg non è sepolto qui.”
“Sei stata assolta” dice Hjalmar.
“Sì” risponde. “Hanno detto che è stata legittima difesa.”
“Come ti sei sentita?”
Anche qui l’accento sembra essere su un “tu” inespresso.
Non la guarda negli occhi. Tiene i propri fissi sulla neve, come se
fosse davanti a un altare e mostrasse rispetto.
Cosa vuole?, si chiede Rebecka.
“Non lo so” inizia poi esitante. “All’inizio non sentivo
granché. Non ricordavo nemmeno molto. Ma poi è andata sempre

219
peggio. Non riuscivo a lavorare. Cercavo di riprendermi, ma ho
commesso un errore che è costato un sacco di soldi allo studio
legale per cui lavoravo, è vero che hanno una buona
assicurazione, ma comunque… E così mi hanno fatta andare in
malattia. Camminavo avanti e indietro per casa. Non volevo
uscire. Dormivo male, mangiavo male. L’appartamento era una
stalla.”
“Sì” dice lui.
Restano in silenzio mentre una signora si avvicina e va oltre.
Li ha salutati con un cenno passando. Rebecka ha risposto al
saluto, Hjalmar sembra non essersene nemmeno accorto.
Rebecka si dice che forse sta per confessare. Cosa farebbe, in
quel caso? Gli dovrebbe chiedere di seguirla in centrale. Ma se
rifiuta? E se confessa e poi cambia idea e la uccide?
Lo guarda a lungo negli occhi, e le torna in mente una cliente
dello studio, una prostituta che aveva un sacco di appartamenti.
Non nascondeva il suo lavoro, si era rivolta a loro semplicemente
per una questione fiscale. Una volta erano usciti a bere qualcosa,
Måns era alticcio e le aveva chiesto spudoratamente se non avesse
paura dei suoi clienti. Era seduttivo, adulatorio, molto
affascinato. Rebecka si era vergognata per lui e aveva abbassato
lo sguardo sul tavolo. La donna aveva mantenuto un
atteggiamento amichevole, si vedeva che era abituata a quel
genere di curiosità. E aveva risposto di no, che non aveva paura.
Aveva l’abitudine di guardare a lungo i nuovi clienti negli occhi.
“Così si capisce se bisogna aver paura o no” aveva detto. “Negli
occhi si trova tutto quello che c’è da sapere su una persona.”
Rebecka guarda a lungo negli occhi di Hjalmar. E no, non ha
bisogno di aver paura di lui.
“Sei finita in un ospedale psichiatrico” dice lui.

220
“Sì, alla fine ho dovuto essere ricoverata. Ero impazzita. É
successo quando Lars-Gunnar Vinsa ha ucciso il figlio e poi si è
suicidato. Non ce l’ho fatta a reggere anche quello. È stato come
se si fossero spalancate tutte le porte che cercavo di tenere
chiuse.”
Hjalmar riesce a malapena a respirare. É esattamente così,
avrebbe voglia di dire. Prima Wilma e Simon. Ed è stato brutto,
ma ha retto. Poi però c’è stato Hjörleifur Arnarson.
“Ti sentivi sprofondare sempre di più?” chiede. “Hai toccato
il fondo?”
“Penso proprio di sì. Anche se non ricordo molto del periodo
peggiore. Stavo così male.”
Mi hanno fatto l’elettroshock, si disse. E mi tenevano sotto
osservazione. Non ho voglia di parlarne.
Se ne stanno lì in piedi, Rebecka Martinsson e Hjalmar
Krekula. Per lui è così difficile fare domande, per lei è così
difficile rispondere. Avanzano a fatica in quella conversazione,
come due escursionisti finiti in mezzo a una tempesta di neve.
Arrancano nel vento contrario, a testa bassa.
“Non ricordo” ripete. “In seguito mi sono detta che se si
ripensa a un’occasione in cui si è stati molto tristi, la sensazione
di tristezza ritorna. E se si pensa a una volta in cui si è stati molto
felici, si prova la stessa felicità. Ma ripensando a una situazione
di angoscia, non si prova più quella sensazione. È come se il
cervello dicesse stop, si rifiuta di tornare a quel punto. Ci si può
solo ricordare che era così. Non si può risentire quello che si è
provato.”
Tristezza?, si domanda Hjalmar. Dolore? Felicità?
Rimangono in silenzio.
“E tu?” chiede alla fine Rebecka. “Chi sei venuto a trovare?”

221
“Volevo salutare lei.”
Rebecka capisce che sta parlando di Wilma.
“La conoscevi bene?” gli chiede.
Sì, articolano le sue labbra, anche se non esce alcun suono.
Poi annuisce.
“Com’era?”
“Era a posto” dice, e poi aggiunge con un sorriso sghembo:
“Andava male in matematica.”

Wilma è seduta in cucina da Anni e si strappa i capelli per la


disperazione di fronte al libro di matematica che ha davanti. Deve
studiare svedese e matematica. Anni lava i piatti guardando fuori
dalla finestra: in cortile c’è Hjalmar che spazza la neve passando
avanti e indietro con il trattorino. In fondo Anni è sua zia.
Wilma impreca sul libro di matematica. Quello che le esce di
bocca farebbe impallidire uno scaricatore di porto.
“Cazzo, merda, puttana, troia!” esclama con sentimento.
“Ehi, ragazzina” la rimprovera Anni.
“Ma non ne ho voglia” geme Wilma. “Sono stupida, non
capisco niente. Questa cazzo di algebra. Il prodotto della somma
di due termini per la loro differenza è uguale al quadrato del
primo termine meno il quadrato del secondo. Adesso mando
affanculo tutta questa roba, chiamo Simon e ce ne andiamo a fare
un giro in motoslitta.”
“Va bene.”
“Ahh! Ma devo imparare questa roba!”
“Allora non chiamarlo.”
Anni vede che Hjalmar ha quasi finito e mette su il caffè.
Cinque minuti dopo infila dentro la testa e dice che ha finito.
Anni non lo lascia scappare: ha appena messo su il caffè, non

222
possono mica berselo tutto lei e Wilma. Ha anche scongelato dei
dolcetti alla cannella.
Hjalmar si lascia convincere e si siede al tavolo della cucina.
Tiene addosso il giaccone, limitandosi a tirare giù la cerniera a
metà, come a dire che non ha intenzione di fermarsi a lungo.
Non dice niente. Non lo fa mai, la gente ci è abituata. Anni e
Wilma si fanno carico della conversazione, sanno che è inutile
cercare di coinvolgerlo con un sacco di domande.
“Be’, adesso chiamo Simon” dice Wilma andando
nell’ingresso, dove il telefono è posato su un tavolinetto in teak
con specchio e sgabello.
Anni si alza per prendere un biglietto da cinquanta corone da
un barattolo di cacao sulla cappa del camino. Fa parte del rituale
che cerchi di convincere Hjalmar ad accettare dei soldi per averle
spazzato il cortile. Lui rifiuta sempre, e in genere finisce per
andarsene con un sacchetto di dolci o dello spezzatino in un
contenitore di plastica. O anche con niente. Mentre Anni fruga
nel barattolo, Hjalmar avvicina il libro di matematica di Wilma.
Dà una rapida occhiata al testo e poi risolve una dopo l’altra una
decina di equazioni.
“Ah già!” esclama Anni guardando il libro. “Me n’ero quasi
dimenticata. Eri bravo in matematica quando andavi a scuola.
Forse potresti aiutare Wilma. É disperata.”
Ma Hjalmar deve scappare. Tira su la cerniera, borbotta un
grazie per il caffè e afferra il biglietto da cinquanta per evitare di
discutere.
Quella sera Wilma si presenta a casa sua con il libro di
matematica in mano.
“Ho saputo che te ne intendi di questa roba!” dice senza tanti
giri di parole, andando direttamente a sedersi in cucina. “Che sei

223
un genio.”
“Ah, non so se…” inizia Hjalmar, ma viene subito interrotto.
“Devi insegnarmi. Non ci capisco niente.”
“Ma no, non è vero” tenta di schermirsi Hjalmar, ma Wilma si
è già tolta il giaccone.
“Sì, invece” insiste.
“È vero” ammette lui. “Ma non sono una maestrina.”
Wilma lo guarda implorante. Supplichevole, persino. E a quel
punto è obbligato a sedersi accanto a lei.
Sgobbano e sudano entrambi per più di un’ora. Lei strilla e
strepita come fa ogni volta che qualcosa le va storto. E, con suo
stesso stupore, lo fa anche lui. Picchia il pugno sul tavolo e dice
che deve guardare il libro, non fuori dalla finestra. Sta per caso
meditando? O cosa cazzo sta facendo? E quando lei si mette a
piangere per la stanchezza sulle equazioni di secondo grado, le
accarezza la testa e le chiede se vuole una bibita. Così si bevono
una Coca-Cola.
E alla fine Wilma capisce cosa deve fare con quella maledetta
radice quadrata.
Sono entrambi esausti. La testa vuota. Hjalmar scalda due
fagottini di carne. Li divorano, e altrettanto fanno con il gelato
alla panna.
“Cazzo, come sei intelligente” dice Wilma. “Perché guidi i
camion? Dovresti fare il professore.”
Hjalmar ride di lei.
“Il professore di matematica.”
Come potrebbe capire? Dopo aver completato i libri rubati
dalla macchina del maestro Fernström, non ha mai smesso di fare
calcoli. Ha ordinato testi da librerie universitarie e negozi di libri
usati. Attualmente sta studiando il teorema di Lagrange e i gruppi

224
di permutazioni. Ha concluso da tempo i corsi della scuola per
corrispondenza Hermods, e non solo quelli di matematica.
Andava a dare gli esami a Stoccolma, raccontando di dover
andare in Finlandia a fare acquisti, o a Luleå a ritirare un motore.
A venticinque anni ha preso la maturità. Il fine settimana
successivo è andato a festeggiare al capanno. Si è comprato una
bottiglia di vino. Non che sia abituato a bere, e meno che mai
vino, ma si è seduto in cucina con il bicchiere pieno di vino
rosso. Aveva un sapore schifoso. Hjalmar sorride al ricordo.
Lavorano ancora un po’, ma alla fine è ora di andare a casa.
Wilma si infila il giaccone.
“Non dirlo a nessuno” le raccomanda prima che se ne vada.
“Sai, né a Tore… né a nessun altro. Che so la matematica.”
“Ma certo” risponde lei allegra.
É già da qualche altra parte con la testa. Probabilmente da
Simon Kyrò. Lo ringrazia per l’aiuto e se ne va.

Rebecka Martinsson e Hjalmar Krekula sono ancora al


cimitero. Rebecka ha l’impressione di essere su una barca e che
Hjalmar sia finito in acqua. Lui si aggrappa disperatamente allo
scafo, ma lei non riesce a issarlo a bordo. Ben presto sarà
assiderato, la stretta si allenterà e finirà per affogare. Non c’è
niente che lei possa fare.
“Come va?” gli chiede.
Si pente immediatamente delle sue parole. Non vuole saperlo.
Non è una sua responsabilità.
“Ho una specie di bruciore di stomaco” risponde Hjalmar
dandosi una manata sul petto.
“Ah” risponde lei.
“Adesso devo andare” riprende lui senza dar segno di

225
muoversi.
“Anch’io” risponde lei.
Ha il cane in macchina, dovrebbe davvero andarsene.
“Uno si chiede cosa può fare” dice lui mentre un tic gli
contrae il viso.
Lei guarda in direzione degli alberi, evitando di incrociare il
suo sguardo.
“Quando stavo male andavo a camminare nei boschi. A volte
aiutava.”
Hjalmar se ne va a passi strascicati.
Rebecka si sente cadere le braccia per l’impotenza.

Erano le due e un quarto del pomeriggio quando Rebecka


Martinsson tornò alla centrale. Sulla porta andò quasi a sbattere
contro Anna-Maria Mella. Vera saltò addosso alla poliziotta per
la gioia, lasciandole impronte bagnate sui jeans.
Anna-Maria aveva gli occhi lucidi e pieni di vita, le guance
rosse. I capelli sembravano non veder l’ora di essere liberati,
alcuni ciuffi spuntavano dalla treccia come se volessero prendere
il volo.
“Hai sentito?” chiese. “Abbiamo la risposta del laboratorio.
Sul giaccone di Tore Krekula c’era del sangue di Hjörleifur
Arnarson.”
“Evviva” disse Rebecka, come se qualcuno l’avesse svegliata
bruscamente da un sogno. Dopo l’incontro con Hjalmar Krekula
al cimitero, era rimasta profondamente immersa nei suoi pensieri.
“Cosa avete intenzione…”
“Ovviamente lo arrestiamo. Stiamo andando a casa sua.”
Anna-Maria si bloccò con aria colpevole.
“Avrei dovuto chiamarti, è vero, ma tanto hai avuto udienze

226
tutta la mattina, no? Vuoi venire con noi?”
Rebecka scosse la testa.
“Prima che tu vada” disse posandole una mano sul braccio
per fermarla. “Sono stata al cimitero.”
Anna-Maria cercò coraggiosamente di nascondere
l’impazienza.
“Ah” disse con simulato interesse.
“C’era anche Hjalmar Krekula. Era lì per Wilma. Credo che
sia sull’orlo di… non so cosa. Ma non sta bene. Ho avuto la
sensazione che volesse confidarsi.”
Anna-Maria diventò subito più interessata.
“Cosa ti ha detto?”
“Non so, è stata più che altro una sensazione.”
“Non offenderti” disse Anna-Maria. “Ma non è che stai
semplicemente facendo delle proiezioni su di lui? Forse questa
storia ti ricorda la tua. Il fatto che sei stata male, quando… lo
sai.”
Rebecka sentì qualcosa che le si annodava dentro.
“Può anche essere, naturalmente” rispose in tono sostenuto.
“Ne parliamo quando torno” concluse Anna-Maria. “Ma resta
lontana da Hjalmar Krekula, d’accordo? È un tipo pericoloso.”
Rebecka scosse la testa pensierosa.
“Non mi farebbe mai del male.”
“Le ultime parole famose” disse Anna-Maria con un sorriso
sghembo. “Parlo sul serio, Rebecka. Suicidio e omicidio possono
essere molto vicini tra loro. L’anno scorso abbiamo avuto un tizio
che ha commesso un suicidio allargato a Laxforsen. Prima ha
liberato dalle sofferenze terrene la moglie e i figli di sette e
undici anni, poi si è suicidato con un’overdose di pastiglie di
ferro. I reni e il fegato hanno smesso di funzionare, ma ci ha

227
messo quasi quattro mesi a morire. Era ricoverato all’ospedale di
Umeå, con tubi dappertutto, accusato di omicidio.”
Calò il silenzio. Anna-Maria avrebbe voluto mordersi la
lingua. Ripensò a quando Rebecka aveva ucciso quegli uomini a
Jiekajärvi. Ma era una cosa completamente diversa. E a quando
era uscita di testa e voleva togliersi la vita. Ma anche quella era
un’altra cosa. Perché era sempre tutto così complicato? Il terreno
attorno a Rebecka Martinsson sembrava sempre minato. Che
sfiga averla trovata sulla porta proprio in quel momento.
Tommy Rantakyrö e Fred Olsson arrivarono di corsa dal
corridoio. Salutarono velocemente Rebecka e guardarono Anna-
Maria con aria interrogativa.
“Andiamo a prendere Tore Krekula” disse lei. “Vuoi
presenziare all’interrogatorio?”
Rebecka annuì e il branco sparì fuori dalla porta, abbaiando e
guaendo con il naso a terra.
Rimase lì con la sensazione di essere stata lasciata fuori.
Su, su, cercò di dirsi. Non fare la bambina.
All’improvviso Vera si mise ad abbaiare. In cortile Krister
Eriksson aveva parcheggiato e aveva fatto scendere Tintin e Roy.
Quando la vide si illuminò e si diresse verso di lei.
“Ti stavo proprio cercando” disse con un sorriso tanto largo
da tendere la sottile pelle rosa del viso. “Potresti tenere Tintin per
un po’? Si innervosisce molto se la faccio restare in macchina
durante l’addestramento di Roy.”
Vera rimase ferma, agitando amichevolmente la coda mentre
Tintin e Roy le annusavano la pancia e il sedere.
“Volentieri” rispose Rebecka.
“Come va?” le chiese poi, dandole l’impressione di leggerle
dentro.

228
“Bene” mentì.
Gli raccontò del giaccone di Tore Krekula e che gli altri erano
andati ad arrestarlo.
Krister rimase in silenzio ad aspettare, guardandola con
comprensione.
Era bravo a restare zitto e ad aspettare, si disse Rebecka. Che
aspettasse pure. Non aveva intenzione di parlargli di Hjalmar
Krekula e del loro incontro al cimitero.
Poi all’improvviso Krister sorrise e le diede un colpetto sul
braccio. Come se non ce la facesse a non toccarla.
“Ciao allora. Vengo a prenderla stasera.”
Ordinò a Tintin di restare con Rebecka, poi tornò alla
macchina con Roy e ripartì.

Laura Krekula ci mise un bel po’ ad aprire la porta, poi rimase


sulla soglia a fissare i poliziotti. Anna-Maria non riuscì a
trattenersi dall’agitarle il tesserino sotto il naso.
Vide la paura negli occhi della donna. Tommy Rantakyrö e
Fred Olsson avevano assunto un’espressione seria.
Non mi fa affatto pena, si disse Anna-Maria. Come fa ad aver
sposato uno così?
“Siete di nuovo qui” disse la donna con voce flebile.
“Cerchiamo Tore” annunciò Anna-Maria.
“É al lavoro” disse la donna. “Di sicuro non lo trovate a casa
in pieno giorno.”
“É sua la macchina lì davanti?” chiese Anna-Maria.
“Sì, ma è andato a Luleå e non tornerà prima di stanotte”
rispose la moglie.
“Le spiace se diamo un’occhiata? Uno degli autisti giù alla
rimessa ci ha detto che era a casa.”

229
La donna si fece da parte e li lasciò passare.
I poliziotti aprirono gli armadi, guardarono in garage e in
lavanderia, mentre la donna restava nell’ingresso. Dopo cinque
minuti ringraziarono e se ne andarono.
Quando furono usciti, Laura Krekula salì al primo piano.
Prese la lunga chiave esagonale della botola che portava in
soffitta, la aprì e tirò giù la scala pieghevole.
Tore Krekula scese, in pochi passi oltrepassò la moglie e
imboccò la scala che portava al piano terra.
Laura lo seguì senza dire niente. Lo guardò infilarsi il
giaccone e gli stivali. Una volta pronto per uscire, andò in cucina,
spalmò del burro su una galletta, affettò del salame e glielo mise
sopra.
“Non una parola su questa storia” disse con la bocca piena.
“Non metterti a chiamare tua madre o tua sorella. Capito?”

Hjalmar Krekula sta sciando nel bosco. Il sole del pomeriggio


è caldo. La neve fresca sugli alberi inizia già a sciogliersi e a
colare. Sono seduta tra le gocce d’acqua sulle betulle. Mi sposto
da un albero all’altro, posandomi senza peso sui rami più sottili.
D’inverno sono neri e gelati, ma ormai stanno già virando al
violetto. Il colore della primavera. Salgo come una lince su un
tronco di pino che odora di resina, la corteccia dello stesso bruno
dorato dei biscotti allo zenzero di Anni. I rami sono avvolti in
uno spesso maglione di lana verde. Mi ci nascondo in mezzo,
tendo un agguato a Hjalmar.
Devono essere più di vent’anni che non scia. E l’attrezzatura
è ancora più antiquata, vecchi sci di legno senza cera né sciolina,
attacchi Rottefella. Gli sci non scorrono, ogni tanto deve fermarsi
a raschiare via la neve che si è incollata sotto. Affonda

230
continuamente, anche se cerca di restare sulla pista battuta dalle
motoslitte. Gli scarponi di pelle non ingrassata si bagnano in un
attimo. I pantaloni pure.
I bastoncini affondano, è faticoso estrarli dalla neve profonda.
Il puntale, di quelli vecchi, un cerchietto di plastica fissato al
bastoncino con una striscia di pelle, si blocca ogni volta. Quando
lo estrae, ha sopra un cilindro di neve di trenta centimetri.
Pensa che avanzare è una fatica terribile, ma senza sci non
sarebbe possibile. E se quegli sci andavano bene per suo padre e i
suoi amici, perché non dovrebbero andare bene per lui? Cosa dire
dei lapponi, che una volta giravano per i boschi con attrezzature
molto più rudimentali e un bastoncino solo?
Ogni tanto alza gli occhi. Vede le gocce d’acqua che
tremolano sui rami degli alberi.
Il sudore gli cola dalla fronte e gli brucia negli occhi.
É arrivato al riparo che lui e Tore hanno costruito
vent’anni prima a sud di Ripukkavaara.
Si siede e tira fuori il termos e il contenitore di plastica con i
panini. Il sole gli scalda il viso.
Subito dopo aver preso in mano un panino viene sopraffatto
da una grande stanchezza. Lo posa accanto a sé.
Il vento agita le cime dei pini con un sussurro sonnolento,
come il cucchiaio di legno di Anni che rimesta in un pentolone. I
rami chinano la testa di qua e di là. Non oppongono resistenza, si
lasciano cullare. Un attimo fa gli sembrava che il canto degli
uccelli gli perforasse le orecchie, come lo stridio di due lame
affilate l’una contro l’altra. Adesso gli fa un effetto
completamente diverso. Cinguettano e gorgheggiano. In
lontananza un’accetta si abbatte su un tronco.
Si sdraia su un fianco. Dalla tettoia del riparo cadono alcune

231
gocce.
Gli viene in mente una frase. “In me languisce il mio spirito,
agghiaccia il mio cuore.” Da dove arriva? E qual cosa che ha
letto nella Bibbia che tiene nel capanno di Saarisuanto?
Che bisogno c’è di tormentarsi su quel che è stato? Quando
suo padre gli ha infilato la testa nel foro nel ghiaccio. È passato
quasi mezzo secolo. Non ci pensa mai, perché dovrebbe
cominciare adesso?
Gli si chiudono gli occhi. La neve sospira stanca per la
primavera nel bosco. Il sole scalda. Si addormenta nel tepore del
rifugio.
Viene svegliato da una presenza. Apre gli occhi e in un primo
momento vede solo un’ombra davanti al sole, nera e irsuta.
Ritrova immediatamente la lucidità: è un orso.
La bestia si alza sulle zampe posteriori davanti a lui, adesso
distingue qualcosa più del semplice profilo: il naso, la pelliccia,
le zampe, le unghie. Per tre secondi rimane perfettamente
immobile a guardarlo.
È finita, si dice Hjalmar.
Altri tre secondi. E in quell’intervallo di tempo si sente
invadere da una grande calma.
Vada come vada, si dice pensando alla sua morte.
Dio lo guarda attraverso gli occhi dell’orso.
Poi la bestia si volta, si rimette a quattro zampe e si allontana
goffamente.
Hjalmar sente battere il cuore. Sono i colpi della vita, le dita
dello sciamano sulla pelle di un tamburo. È la pioggia sul tetto di
lamiera del capanno di Saarisuanto, in una sera d’autunno in cui
si è a letto con il fuoco che scoppietta nella stufa.
Il sangue gli scorre nelle vene. È l’acqua che si libera dal

232
ghiaccio, che scorre sotto la neve, che risale il tronco degli alberi,
che precipita da un dirupo.
L’aria gli entra e gli esce dai polmoni. È il vento che solleva il
corvo nel suo gioco, che sferza la neve in vortici taglienti, che
increspa delicatamente il lago la sera e poi cala e permette alla
superficie di tornare ferma e lucida.
Mio Dio, prega Hjalmar in mancanza di qualcun altro o
qualcos’altro a cui rivolgersi in quello stato di grazia che lo ha
pervaso. Fermati, fermati.
Ma sa che quella sensazione non può durare a lungo. Rimane
seduto immobile finché si spegne a poco a poco.
Poi vede che i panini sono spariti. Sono stati quelli ad attirare
l’orso.
Torna a casa sugli sci in preda a un senso di esaltazione.
Adesso può succedere qualsiasi cosa, si dice. Sono libero.
L’orso avrebbe potuto prendermi. Avrebbe potuto essere finita.
Cercherà quelle righe nella Bibbia. “Agghiaccia il mio
cuore.”

Anni è come trasparente, ormai. Si è addormentata sul divano


della cucina. Sono seduta accanto a lei e le osservo il petto. I
muscoli lì dentro sono così stanchi, ben presto non avranno più
forze. Il suo respiro è veloce e superficiale. Il sole primaverile
entra dalla finestra e le scalda le gambe. All’improvviso apre gli
occhi e ho l’impressione che mi veda.
“Mettiamo su il caffè?” chiede.
E mi rendo conto che in effetti sta parlando con me, anche se
non mi vede. Anche se non è affatto sicura che io sia qui.
Si mette lentamente a sedere, la mano sinistra appoggiata
dietro la schiena, la destra aggrappata allo schienale della sedia

233
dipinta di bianco. Poi solleva le gambe con entrambe le mani fino
a farle sporgere dal divano. I piedi nelle pantofole, le mani a
cercare sostegno nel tavolo. Un piccolo gemito di sforzo e dolore,
eh-heh-heh, le esce dalle labbra mentre si mette in piedi.
Riempie d’acqua il bollitore, apre il barattolo del caffè e ne
versa alcuni cucchiaini.
“Ho pensato che potremmo riempire il termos e andare a
bercelo in veranda, visto che il sole è così caldo.”
Poi le ci vuole un secolo per prendere il termos, riempirlo di
caffè, infilare il giaccone e uscire in veranda. Per non parlare
della fatica di sedersi sui gradini. Anni ride.
“Ho il telefono in tasca. Così se non riesco a rimettermi in
piedi posso chiamare qualcuno. Pare che tu non abbia potuto
farlo.”
Si versa il caffè. E caldo. Beve lentamente, godendosi il sole
sulle guance e sul naso. Per la prima volta da quando sono morta
pensa che forse riuscirà a vedere un’altra estate. Che deve solo
stare attenta a non cadere, per non finire in ospedale.
I corvi atterrano in cortile. Saltellano in giro come se fossero
loro i padroni, con il sole che gli fa risplendere le penne nere e
lucide. Voltano il becco di qua e di là, senza dire granché. Ho
l’impressione che stiano recitando, che fingano di essere delle
persone serie. Trascinano in terra la coda a cuneo come se fossero
dei pavoni. Se fossi davvero seduta qui, ci scherzerei sopra con
Anni. Cercheremmo di indovinare da dove arrivano questi signori
importanti. Anni direbbe subito che sono dei pastori laestadiani
venuti a convertirci. Io scommetterei che sono un assistente
sociale, un preside e un consigliere comunale. “Mi hanno
beccata” direi.
Anni si versa un altro po’ di caffè. Tiene la tazza tra le mani.

234
Anch’io voglio tenere in mano una tazza di caffè fumante.
Voglio sedermi davvero accanto ad Anni sulla scala. Voglio che
Simon arrivi in macchina. Ah, come sorrideva quando mi
guardava. Come se qualcuno gli avesse fatto un regalo bellissimo.
Mi manca da star male. Le mie mani non possono toccare niente.
Quando una macchina entra in cortile, per un attimo penso
quasi che sia lui. Ma è Hjalmar. I corvi saltano su un albero.
Spegne il motore e scende pesantemente dalla macchina.
Adesso è davanti ad Anni e non ha la minima idea di come
dire quello che deve dire. All’inizio non fa niente, lascia che sia
Anni a portare avanti la conversazione.
“Sto qui seduta a parlare con i morti” dice. “Devo essermi
rimbambita. Ma cosa ci posso fare? Tra un po’ non conoscerò più
nessuno di vivo.”
Poi si zittisce. Ripensa a una vecchia zia che si lamentava
sempre della solitudine. Ricorda che era un tormento andarla a
trovare.
Adesso sono ridotta come lei, si dice. Da non credersi.
“Stai andando al capanno?” gli chiede, più che altro per
cambiare discorso.
Lui annuisce.
“Anni” riesce finalmente a dire.
Solo allora la vecchia si accorge dell’espressione strana del
nipote.
“Cosa c’è?” gli chiede. “Isak?”
Hjalmar scuote la testa.
“Su, cosa c’è, ragazzo? Poika, mikä sinulla on?”
È costretto a sorridere sentendosi chiamare ancora ragazzo.
Anni si aggrappa alla ringhiera con la mano esile che sembra
l’artiglio di un uccello e si mette in piedi. Allora lui lo dice.

235
“Perdonami.”
La voce non è granché, si sente che non è abituato a parlare.
E che non è abituato a dire quella parola. Gli esce rauca, come se
l’avesse scritta su un pezzo di carta e l’avesse tenuta in bocca
tanto a lungo da renderla tutta sgualcita.
L’ultima volta che l’ha pronunciata dev’essere stato tanto
tempo fa, quando le prendeva da Isak. E all’epoca significava
“pietà”.
“Per cosa?” chiede Anni. Anche se lo sa.
Lo guarda, e lo sa.
E lui capisce che lo sa.
“No!” grida Anni con tanta forza che i corvi sbattono le ali
sull’albero. Ma non si alzano in volo.
Agita l’artiglio verso Hjalmar. No, non lo perdona.
“Perché?” grida.
È una figuretta esile in cima alla scala, ma l’aria attorno a lei
vibra di energia. È una sacerdotessa con una maledizione stretta
nel pugno chiuso.
Hjalmar allunga una mano e si appoggia alla macchina,
premendosi l’altra sul petto.
“Volevano raggiungere il relitto di un vecchio aeroplano”
dice. “Ma quando il papà l’ha saputo ha avuto l’infarto. Non
bisogna scavare nel passato.”
Sente lui stesso che suona come una giustificazione. Suona
sbagliato. Ma non sa cosa dire.
“Tu?” grida Anni. “Da solo?”
Lui scuote di nuovo la testa.
“Non è vero” dice Anni.
La sua voce è ormai priva di forza. Si afferra alla ringhiera per
non cadere.

236
“Non può essere vero.”
Poi emette un suono, come se avesse un animale in gola. E
quando l’animale ha esalato il suo lamento, si volta verso Hjalmar
con sguardo ardente. Le parole sono un gorgoglio di rabbia.
“Vattene! Codardo! Non osare mai più farti vedere da queste
parti. Hai sentito?”
Hjalmar si siede in macchina. Unisce le mani davanti a sé, poi
vi posa il viso. Adesso se ne va. Deve solo riprendersi un
pochino.
Esce dal cortile di Anni e si dirige verso nord. Non appena il
nodo che ha in gola si scioglierà, chiamerà il centralino della
polizia e chiederà di parlare con il procuratore Rebecka
Martinsson.

Isak Krekula è sdraiato sulla schiena nella cameretta al piano


terra. Ha i piedi gelati. Trema di freddo. Dalla cucina si sente il
pesante ticchettio del pendolo, come una macchina di morte.
Prima era appeso a casa dei suoi genitori. Quando sono morti è
finito a casa sua e di Kerttu. Quando anche lui se ne sarà andato,
Laura lo porterà da lei e Tore e anche loro ascolteranno il
ticchettio aspettando il loro turno.
Chiama Kerttu. Dove diavolo è la vecchia?
“Ehi. Tule tänne!”
Finalmente arriva. Isak brontola e mugugna di
insoddisfazione mentre gli posa una coperta sui piedi.
La sta chiamando da un sacco di tempo. Perché non sente?
Brutta vecchia sorda come una campana.
“Metto su il caffè” dice Kerttu tornando in cucina.
Isak continua a macinare il suo scontento come un mulino.
Quando la chiama deve arrivare. Non lo capisce? Lui non si può

237
muovere.
“Hai sentito? Mi ascolti? Maledetta puttana.”
L’ultima parte la aggiunge a voce più bassa. Ha sempre potuto
esprimersi liberamente in quel modo, era lui che portava il
mangiare in tavola ed era padrone a casa propria. Ma cosa si può
fare quando si è costretti a letto in quel modo?
Chiude gli occhi, ma non riesce ad addormentarsi. Ha freddo.
Grida a Kerttu di portare un’altra coperta, ma non arriva nessuno.
Nella sua testa è l’agosto del 1943. È una giornata di fine
estate. Lui e Kerttu sono a Luleå. Stanno parlando con William
Schörner, il capo della sicurezza delle SS, davanti al magazzino
militare tedesco vicino alla cattedrale. Sono lì per caricare una
fila di camion con sacchi contrassegnati dall’aquila e pesanti
casse di legno da manovrare con cautela.
William Schörner è come sempre perfettamente rasato e
pettinato. Non sembra nemmeno sudare sotto il sole. Il capo degli
approvvigionamenti, il tenente Walther Zindel, si infila due dita
nel colletto, evidentemente accaldato. Isak l’ha visto tendere il
braccio nel saluto nazista solo quando c’era Schörner nei paraggi.
Si vede che i due tedeschi sono sotto pressione. La guerra si
sta mettendo male per la Germania. Ora è tutto diverso: la Svezia
accoglie sempre più ebrei, l’opposizione ai tedeschi nel paese è
andata crescendo per tutta la primavera e l’estate. Lo scrittore
Vilhelm Moberg ha pubblicato sui giornali degli articoli in cui
sostiene che i treni che attraversano la Svezia trasportano soldati
tedeschi non solo in licenza e disarmati, ma anche con pistole e
baionette. Alla fine di luglio il governo svedese ha cancellato
l’accordo con la Germania e ben presto le ferrovie svedesi
interromperanno i trasporti per conto dei tedeschi. La gente ha
iniziato a odiare Hitler. A Berlino quattro svedesi sono stati

238
condannati a morte per spionaggio. Il sommergibile svedese
Ulven è stato affondato in aprile e pare che un secondo
sommergibile, il Draken, sia stato colpito dalla nave tedesca
Altkirch. In luglio sono stati affondati due pescherecci svedesi al
largo delle coste nordoccidentali dello Jutland, e sono morti
dodici pescatori. La popolazione si infuria quando Berlino
risponde alle proteste della Svezia affermando che i pescatori si
erano resi colpevoli di sabotaggio alle boe luminose tedesche.
Sia Zindel che Schörner si rendono conto che la gente a
Luleå si è molto raffreddata. Negli uffici postali, nei ristoranti,
dappertutto l’atmosfera è cambiata. Gli inviti a cena delle
famiglie dell’alta borghesia sono diminuiti. La moglie svedese di
Zindel resta quasi sempre a casa da sola.
Andando a Luleå, Isak Krekula aveva in mente di rinegoziare
il compenso per i suoi servizi. Ora che le ferrovie non
collaboreranno più, i tedeschi dipenderanno interamente dagli
autotrasportatori per rifornire le truppe in Norvegia e nella
Lapponia finlandese. Inoltre inizia a risentire personalmente
dell’ostilità della gente, e vuole essere risarcito.
Ma già mentre salta giù dal camion davanti al magazzino
capisce che non ci sarà nessuna trattativa: il capo della sicurezza
delle SS William Schörner è a Luleå. Isak preferirebbe non avere
nulla a che fare con lui, ma quando è in città, cosa che succede
abbastanza spesso, prende in mano lui l’intera attività. L’ultima
volta che l’ha pagato, ha tirato indietro la busta proprio mentre
Isak stava per afferrarla, lasciandolo lì con il braccio teso a
sentirsi uno stupido.
“Isak” aveva detto. “Un nome semita, nicht wahr? Non sarete
mica ebreo?”
E Isak era stato costretto ad assicurargli che non era così.

239
“Non posso fare affari con gli ebrei, lo capite anche voi.”
E Isak gli aveva di nuovo assicurato di non avere origini
ebraiche.
Quella volta Schörner era rimasto a guardarlo a lungo.
“D’accordo” aveva finito per dire, allungandogli la busta con
i soldi. Come se comunque non fosse del tutto convinto.
Adesso William Schörner sembra un barile di polvere da
sparo ambulante. Le disfatte militari e la remissività degli svedesi
nei confronti degli Alleati sono una specie di campo minato. Per
esempio, la settimana scorsa ha saputo che ci sono tre
sommergibili polacchi alla fonda al largo di Mariefred, e nessuno
fa niente, nemmeno il governo tedesco. È controllato e flirta con
Kerttu come al solito, ma è circondato da un campo energetico
che vibra per la tensione. È pronto a esplodere, non vede l’ora di
esplodere.
Il ministro degli esteri svedese ha espresso i suoi timori per la
cancellazione dell’accordo per il trasporto dei militari tedeschi
con le parole: “Gli ultimi colpi della belva ferita possono essere
terribili.” William Schörner è quella belva.
Ma Kerttu non si accorge di niente. Isak la guarda a denti
stretti mentre tuba e fa le fusa per i complimenti di Schörner. I
capelli rossi le ricadono leggermente su un occhio come quelli di
Rita Hayworth. Indossa un vestito blu a pois bianchi, con la vita
alta e la gonna a campana. William Schörner dice che deve stare
attenta, un giorno o l’altro qualcuno se la mangerà in un boccone.
Ha un debole per Kerttu, e lei a sua volta gli ha fatto diversi
favori, raccontandogli cose sentite in giro. Poco più di un anno
prima un aereo tedesco era stato costretto a un atterraggio
d’emergenza da qualche parte nei boschi dell’interno. In quei
giorni Kerttu e Isak erano a Luleå, e Kerttu ne aveva approfittato

240
per andare dal parrucchiere. Quando era uscita era in grado di
dire dov’era atterrato l’aereo, glielo aveva rivelato la moglie di un
boscaiolo. Il marito non aveva riferito niente alla polizia, forse
pensava di guadagnarci qualcosa, visto che il pilota e tutti i
passeggeri erano morti nell’atterraggio. Un’altra volta l’aveva
informato di un giornalista che aveva scattato alcune foto a
vagoni ferroviari carichi di armi tedesche. Cose del genere, un po’
di tutti i tipi. Kerttu fa quell’effetto alla gente, fa venire voglia di
confidarsi. Vogliono tutti essere fissati da quegli occhioni verdi.
Fa bene al cuore essere guardati da una donna giovane e bella.
Schörner trascrive le informazioni che lei gli passa in un taccuino
con la copertina di pelle nera. Prende appunti a matita, poi mette
il taccuino nella ventiquattrore. Se le informazioni vengono
confermate e si rivelano utili, Kerttu riceverà un compenso. La
volta che gli ha raccontato dell’aeroplano ha avuto mille corone.
Più soldi di quanti ne guadagna in un anno suo padre Matti.
In questo modo ha messo da parte parecchi risparmi. Dato che
vive ancora a spese dei genitori, li ha prestati a Isak, che a sua
volta li ha investiti nella ditta di autotrasporti. Anche Isak viene
pagato bene dall’esercito tedesco. Non fa molte domande e le
commesse abbondano.
Adesso Schörner li prende da parte e chiede a Isak se può
prestargli Kerttu per una commissione.
Kerttu si finge offesa e domanda se Herr Schörner ha
intenzione di chiedere anche il suo parere. Lei non è mica di
proprietà di Isak.
Schörner ride, dice che Kerttu è un’avventuriera e che sa bene
che sarà d’accordo.
Isak risponde che Kerttu decide da sola, ma vorrebbe sapere
di cosa si tratta.

241
D’accordo, dice Schörner. Il fatto è che tre prigionieri di
guerra danesi sono fuggiti da una nave tedesca ormeggiata nel
porto di Luleå.
“Voglio trovarli” dice Schörner, che poi sorride, strizza un
occhio e offre loro una sigaretta.
Isak capisce che dietro quel sorriso il tedesco è furibondo.
Durante l’estate la resistenza danese si è organizzata come si deve
e i tedeschi hanno enormi problemi: azioni di sabotaggio,
propaganda antitedesca di ogni genere.
Bisogna rispondere ai colpi, Schörner lo sa, occhio per
occhio, dente per dente. In Norvegia i tedeschi hanno potenziato
la strategia del terrore contro la popolazione civile, una scelta
diventata indispensabile dopo che la venticinquesima divisione
ha lasciato il paese per trasferirsi sul fronte francese.
“Qualcuno li nasconde” dice Schörner. “Il movimento di
resistenza è attivo anche qui. Ho dei sospetti su un giovane che
potrebbe sapere dove sono i danesi. E so che ha un punto debole:
gli piacciono le belle ragazze.”
Poi racconta come ha pensato di procedere. Promette di
pagare bene.
Isak ha la testa piena di immagini. Vede Kerttu che torna da
quella piccola escursione con i capelli in disordine e fili di paglia
tra i vestiti. Ma si tratta di un sacco di soldi. E Kerttu accetta
senza lanciare nemmeno un’occhiata nella sua direzione. Quindi
cosa ci può fare? Niente.
Isak ha ottantacinque anni. È sdraiato sulla schiena nella
cameretta e si dice, come ha fatto per tutta la vita: non avrei
potuto impedirglielo.
La chiama di nuovo. Ha sete. Ha ancora freddo.
Kerttu compare sulla porta con un bicchiere d’acqua in mano.

242
Quando lui la guarda, lei svuota il bicchiere in un sorso solo.
“Mi hai sempre fatto schifo” gli dice. “Lo sai, vero?”

Esattamente in quel momento suonano alla porta. È la


polizia. Quella piccola ispettrice dai capelli chiari, Anna- Maria
Mella. E altri due poliziotti in cortile. Chiedono di Tore.
Kerttu Krekula capisce che è una cosa seria. La polizia non
parla del mandato di arresto, ma non è necessario. Kerttu è fuori
di sé. Perde il controllo.
“Siete impazziti?” chiede. “Perché ci perseguitate? Cosa
volete da lui?”
E rimane lì a gridare come se l’avessero impalata, mentre la
polizia entra in casa e si guarda attorno.
“Il mio ragazzo” ripete. “Il mio povero ragazzo.”
Quando la polizia se ne va, si accascia sul tavolo della cucina
con la fronte su un braccio. Con l’altro si copre la testa.
Isak grida dalla cameretta. Cosa diavolo sta succedendo? Chi
erano? Lei non risponde.
Sono atterrata a quattro zampe sul lavandino della cucina,
come un gatto. È questo che voglio vedere. Maledetta Kerttu.
Siamo solo tu e io, adesso. La seguo sulla pista da ballo di
Gültzauudden, a Luleå. La seguo mentre torna al 28 agosto 1943.

A Gültzauudden si balla. Suonano gli Swingers, canzoni


come Il sole splende su di noi, Con te tra le mie braccia, Ain’t
Misbehavin’ e altre all’ultimo grido. Zanzare e moscerini
pungono a tempo di valzer e i fili del telefono sono appesantiti
dalle rondini in fila come sugli spalti.
I ragazzi indossano vecchi completi rivoltati, le ragazze vestiti
riadattati o gonne di cellulosa. In quel periodo di razionamenti

243
sono tutte snelle come giunchi.
Kerttu non si sente a suo agio ad arrivare al locale da sola. E
Schörner non ha nemmeno voluto che si mettesse il vestito più
bello.
“Non devi farti notare troppo” ha detto. “Devi essere una
ragazza normale, che viene da… il posto da dove vieni.”
“Piilijärvi” ha precisato lei.
“Ma naturalmente non sei fidanzata, vivi da tua cugina a
Luleå e stai cercando lavoro.”
Kerttu prende una bibita e ciondola a bordo pista. Due
ragazzi si avvicinano per invitarla e lei risponde: “Forse più
tardi.” Si sente una ragazza tappezzeria e una regina di ghiaccio
allo stesso tempo, beve la bibita più lentamente che può, in modo
da non farla finire troppo presto. Ma con la coda dell’occhio vede
l’uomo che interessa a Schörner. Glielo ha mostrato in una foto.
Axel Viebke.
A quel punto arriva Schörner. Si è fatto prestare la Auto-
Union Wanderer del responsabile degli approvvigionamenti. I
ragazzini fuori dalla pista da ballo, seduti sulle betulle come
tordi, si accalcano attorno alla macchina sportiva.
Schörner, che capisce a prima vista chi è il capo della piccola
banda, gli allunga cinque corone per tenerla d’occhio. Non vuole
trovare graffi, né che a qualche buontempone salti in testa di
infilare una zolletta di zucchero nel serbatoio.
Poi va verso la pista da ballo, in uniforme com’è. Una certa
rigidità si diffonde attorno a lui. Compra una bibita, ma la tocca
appena. Si avvicina a Kerttu e le chiede se vuole ballare.
“No, grazie” risponde lei ad alta voce. “Non ballo con i
tedeschi.”
Schörner si irrigidisce e diventa pallido in volto. Poi gira sui

244
tacchi, torna alla macchina e se ne va.
Kerttu cerca Axel Viebke con lo sguardo, lo fissa negli occhi.
Poi abbassa lo sguardo. E poi cerca di nuovo i suoi occhi.
Axel si libera dal gruppo di amici e si avvicina.
“E con i ragazzi di Vuollerim, ci balli?”
Kerttu ride mostrando i denti bianchi e risponde di sì.
Gli racconta che si è trasferita a casa della cugina a Luleå per
cercare lavoro. E la cugina sembra essersi dimenticata di averle
dato appuntamento alla pista da ballo, perché non si è fatta
vedere, ma non importa, perché Kerttu e Axel Viebke ballano
tutta la sera.
Quando la musica finisce, vorrebbe accompagnarla a casa. Lei
risponde che può farle compagnia per un pezzo di strada.
Scendono verso il fiume, le betulle pendule stanno per ingiallire,
l’estate è quasi finita. C’è un’atmosfera malinconica e romantica.
Axel dice di aver ammirato il modo in cui ha respinto
l’ufficiale tedesco che l’aveva invitata a ballare. Chi si credeva di
essere, lui e la sua bella macchina!
“Odio i tedeschi” risponde lei.
Poi resta in silenzio e guarda il fiume.
Axel le chiede a cosa sta pensando. Lei gli domanda se sa che
tre prigionieri danesi sono fuggiti da una nave in porto.
“Spero che se la cavino” sospira poi. “Chissà dove saranno
andati.”
Lui la guarda. Lei si sente come in un film. Come Ingrid
Bergman.
“Se la caveranno” risponde lui carezzandole una guancia.
“Come fai a saperlo?” chiede lei con un sorriso.
Nel sorriso c’è una leggera ombra di condiscendenza. Come
se pensasse che è solo un ragazzino che non sa proprio niente.

245
Anche se è lei che è molto più giovane.
“Lo so” risponde Axel. “Perché sono stato io a nasconderli.”
Lei si mette a ridere.
“Diresti qualsiasi cosa pur di baciare una ragazza.”
“Pensa pure quello che ti pare” insiste lui. “Tanto è così.”
“Allora voglio incontrarli.”

Due giorni dopo è seduta nell’Auto-Union Wanderer di


Walther Zindel insieme a Schörner, con due militari tedeschi sul
sedile posteriore. Le loro armi sono sul fondo della macchina.
È una bella giornata di fine estate. I prati sono punteggiati di
pagliai e si sente l’odore del fieno scaldato dal sole. Nei pascoli
le vacche si gustano gli ultimi steli d’erba. Devono
continuamente rallentare l’andatura perché le strade sono piene
di contadini con cavalli e carretti. I sorbi sono carichi di frutti
rossi e lucidi. Un padre torna in città a piedi con le sue due
bambine dopo aver raccolto bacche. Si vede dall’andatura che la
gerla che ha sulle spalle è pesante. Le bambine portano piccoli
secchi smaltati pieni di mirtilli.
L’ultimo tratto lo fanno a piedi. Il sentiero attraversa il bosco
e costeggia alcune torbiere. Alla fine arrivano al fienile dello zio
di Axel Viebke. È piccolo e di legno grezzo, ma quel sole rende
tutto bello. Il fienile brilla argentato in mezzo alla radura.
William Schörner ordina agli altri di fare silenzio ed estrae
l’arma.
Solo in quel momento Kerttu diventa vagamente consapevole
che Axel Viebke si sentirà tradito. Prima non ci aveva pensato.
Era stata più che altro un’avventura.
Schörner e gli altri due militari si avvicinano al fienile.
Entrano. Dopo un attimo tornano fuori.

246
“Non c’è nessuno” dice Schörner scontento, guardando
Kerttu con aria accusatoria.
Lei apre la bocca per difendersi. Ieri è stata lì insieme ad Axel
e ha incontrato i danesi, tre tipi simpatici.
In quel momento si sentono delle voci in lontananza, una
risata. Si avvicinano. Schörner si nasconde in fretta tra gli alberi
con gli altri, trascinando Kerttu e dicendole di sdraiarsi e stare
zitta.
Poi li vedono arrivare: Axel e i danesi. È così bello, con i
capelli ricci e la risata allegra. Sono stati a pesca. Axel ha un
luccio e tre persici infilzati per le branchie su un ramoscello di
salice. Nell’altra mano ha una pipa. I danesi hanno canne da
pesca di betulla.
Kerttu è felice di vederlo. Poi però le si annoda lo stomaco.

Sonja dal centralino trasferisce una chiamata al cellulare di


Rebecka.
È uscita con i cani per godersi il caldo sole pomeridiano.
Tintin e Vera zampettano in giro, esplorando il cortile. Vera scava
entusiasticamente accanto alla catasta di legna, sollevando una
nuvola di terra e muschio. Probabilmente un povero topo
terrorizzato si è nascosto lì, convinto che sia arrivata la sua
ultima ora. Tintin si avvia a passo di valzer verso il recinto in cui
il vicino tiene i cavalli, che però sono abituati ai cani e non la
degnano di uno sguardo. Trova un bel mucchio di letame, ne
divora golosamente la metà e si rotola nel resto. Rebecka decide
di non intervenire. Farà la doccia a tutte e due quando
rientreranno, e poi le lascerà asciugare davanti al fuoco. È tentata
di chiamare Krister Eriksson per raccontargli come si comporta la
sua bella signorina appena lui volta le spalle. Evidentemente ha

247
bisogno di prendersi una vacanza e comportarsi da cane.
Proprio mentre sta per chiamarlo, il telefono squilla. In un
primo momento pensa che sia lui che la sta cercando per
telepatia, ma è il centralino della polizia. Sonja dice che c’è una
chiamata per lei. Poi sente un uomo che si schiarisce la voce.
“Salve. Sono Hjalmar Krekula. Voglio dichiararmi colpevole”
dice.
Poi si corregge: “Cioè, confessare.”
“Ah” risponde Rebecka.
Cazzo, si dice. Non ho un registratore.
“Sono stato io a ucciderli. Wilma Persson e Simon Kyrò.”
C’è qualcosa che non va, Rebecka lo sente con tutto il suo
essere. Dai rumori si capisce che è in macchina. Dov’è diretto?
Pensieri, rapidi come vipere. Lisa Stòckel che si è lanciata
contro un tir. Il padre di Nalle che si è sparato.
“D’accordo” dice poi in tono calmo. “Vorrei registrare la sua
dichiarazione. Può venire in centrale?”
Allontana il telefono dall’orecchio per deglutire. Non deve
sentire che è nervosa o spaventata.
“No.”
“Possiamo venire noi. È a casa?”
“No. Deve bastare così. Adesso l’ho detto. Adesso lo sa.”
No, no. Non deve riattaccare. Si vede davanti un ragazzino
con il viso rigato di lacrime.
“No, non basta” tenta di convincerlo. “Come faccio a sapere
se dice la verità? È pieno di gente che confessa…”
Ma ha già riattaccato.
“Cazzo!” esclama a voce alta, tanto che i cani si bloccano e la
guardano.
Ma non appena si accorgono che non ce l’ha con loro,

248
riprendono quel che stavano facendo. Vera ha trovato una pigna e
la deposita davanti alle zampe di Tintin. Poi indietreggia di un
paio di passi e schiaccia a terra la parte anteriore del corpo.
Andiamo, dice. Giochiamo un pochino. Prova a prenderla. Tintin
ostenta uno sbadiglio teatrale.
Rebecka cerca di chiamare Anna-Maria Mella, ma non
risponde.
“Chiamami subito” lascia detto in segreteria.
Guarda i cani. Vera ha le zampe e la pancia sporche di terra e
fango. Tintin si è profumata di merda di cavallo sul collo e dietro
le orecchie.
“Sporcaccione” dice loro. “Furfanti. E adesso cosa cazzo
faccio?”
Non appena se lo chiede ad alta voce, ha la risposta. Deve
andare a casa di Hjalmar. Per impedirgli di… E i cani? Deve
portarli con sé, sporchi e luridi come sono.
“Venite con me” dice.

Ma no. A casa di Hjalmar Krekula non apre nessuno. Rebecka


arranca nella neve umida, fa il giro della casa e guarda dentro
dalle finestre. Arriva alla conclusione che non è in casa. In effetti
la macchina non c’è.
Anni Autio. Forse lei lo sa.
Anche da Anni nessuno apre.
Sopra la casa vola in tondo uno stormo di corvi.
Cos’hanno?, si domanda Rebecka.
Prova ad abbassare la maniglia, la porta è aperta ed entra.
Anni è sdraiata sul divano della cucina, con gli occhi chiusi.
“Scusi l’intrusione” dice Rebecka.
Anni apre un occhio.

249
“Io… la porta era aperta e… Sto cercando Hjalmar Krekula.
È sua zia, non è vero? Sa dov’è?” “No.”
L’occhio si richiude.
Se fossi in lui, si dice Rebecka, me ne andrei.
“Ha un capanno da qualche parte?”
“Se le dico dov’è mi lascia in pace? Posso disegnarle una
mappa. Non voglio più sentirlo nominare. Non voglio parlare con
nessuno. Mi aiuti ad alzarmi. Trova carta e penna vicino alla
bilancia, sul piano della cucina.”

E se arrivo troppo tardi?, si dice Rebecka mentre guida come


una pazza lungo la E10 per poi svoltare a sinistra dopo
Kuosanen, verso il fiume Kalix. E se si è sparato? Se lo trovo in
una pozza di sangue sul pavimento? Se non ha più la nuca? O la
faccia? Può anche essere. Può fare in tempo a succedere.
Cerca di chiamare di nuovo Anna-Maria. Ancora la segreteria.
“Sto andando al capanno di Hjalmar Krekula” dice. “Ha
confessato l’omicidio di Wilma e Simon. E ho una brutta
sensazione. Non incazzarti, non c’è pericolo. Ma telefonami. Se
posso, rispondo.”
Poi chiama Krister Eriksson.
“Ciao” risponde lui prima di lasciarle il tempo di dire
qualcosa.
È un ciao tenero. Ha qualcosa di intimo, come se fosse felice
di sentirla. Sembra il saluto che precede l’attimo in cui un uomo
infila la mano sotto i capelli dell’amata, attorno al suo collo. Ha
visto che era lei e ha risposto così. È un ciao da innamorato.
Rebecka si deconcentra. Sente una corrente calda che parte
da un punto in mezzo alle costole e scende giù fino al bacino.
“Come sta la mia ragazza?” chiede Krister, e le ci vuole un

250
momento per realizzare che sta parlando di Tintin.
Risponde che va tutto bene, tira fuori la storia che aveva
bisogno di uscire per un po’ dal ruolo del cane poliziotto per fare
il cane e basta e che si è rotolata nella merda di cavallo.
“Questa sì che è la mia bimba” replica Krister Eriksson con
una risata orgogliosa.
Poi Rebecka gli spiega dove sta andando e perché.
“Martedì, quando abbiamo perquisito casa sua” dice. “Non so
come spiegarlo…”
Krister Eriksson torna serio e aspetta. Ma non le dice che non
deve assolutamente andarci da sola.
“Quando l’ho guardato, ho visto un’altra persona” prosegue
Rebecka. “Come se dovessi, non dico aiutarlo, ma sapere che
abbiamo qualcosa che ci lega. È successo qualcosa. Mi trovo
davanti a una scelta.”
Cerca goffamente le parole per comunicare quella sensazione,
ma si sente solo ridicola.
“Capisco” dice invece Krister.
“Non credo in queste cose” replica Rebecka.
“Non ce n’è bisogno. Fa’ semplicemente quello che ti sembra
giusto. Prenditi cura di Tintin, però.”
“Non permetterei mai che le succedesse qualcosa.”
“Lo so.”
Cala il silenzio. Ci sarebbero molte cose da dire, ma alla fine
Krister si limita a salutare e a chiudere la telefonata.

Il capanno di Hjalmar Krekula a Saarisuanto è costruito con


legname di recupero. I telai delle finestre e la porta sono dipinti
di blu e i due gradini che portano all’ingresso sono di legno
grezzo. Il tetto è di lamiera ondulata, il camino in muratura. Dei

251
bei pini crescono sul pendio che porta al fiume. C’è anche una
vecchia rimessa per barche dipinta di rosso, pericolosamente
inclinata sotto il peso della neve. Forse reggerà un’altra estate,
ma non è detto. Non lontano dal capanno, proprio in riva al
fiume, c’è una sauna con un comignolo di ferro che spunta dal
tetto. Un pontile di legno è tirato in secca sulla riva, mezzo
coperto di neve.
Il sentiero è stato spalato, ma non arriva fino al capanno. La
macchina di Hjalmar è parcheggiata nel punto in cui si
interrompe. Nell’ultimo tratto Rebecka deve seguire la pista delle
motoslitte. C’è già passato qualcuno, probabilmente Hjalmar.
Dev’essere stata una passeggiata faticosa, ogni due tre passi è
affondato nella neve.
Vera e Tintin corrono in giro come pazze per la felicità, senza
staccare il naso dal terreno. Ci sono tracce di renne che hanno
seguito la pista battuta per risparmiare le forze. Alcune pernici
hanno lasciato i loro ghirigori tra le betulle. Un po’ più in là è
passato un alce. In poco più di un quarto d’ora arrivano alla casa.
Rebecka bussa. Non ottenendo risposta, apre la porta ed
entra.
Il capanno è costituito da un’unica stanza. Appena dentro c’è
l’angolo cottura. Sopra il fornello e il lavandino sono appesi dei
vecchi armadietti a sportelli scorrevoli. Sullo scolapiatti c’è una
bacinella arancione rovesciata, con la spazzola ordinatamente
allineata a fianco.
Subito a sinistra, un tavolo e tre sedie spaiate, con vari strati
di vernice troppo densa, l’ultimo di un azzurro fiordaliso. Un po’
più in là, un divano con i cuscini a righe verdi, nocciola e marroni
appoggiati ai braccioli, per non assorbire troppa umidità. Il
caminetto è acceso, ma il fuoco non è ancora riuscito ad avere la

252
meglio sull’umidità.
Hjalmar Krekula è seduto sul divano. Non si è preoccupato di
rimettere a posto i cuscini, si è seduto direttamente sul fondo
duro. Ha ancora addosso il berretto di pelo sintetico e il
giaccone.
“Cosa ci fai qui?” chiede.
“Non lo so” risponde Rebecka, fermandosi dov’è. “Ascolta,
ho fuori due cani che stanno per distruggerti la porta, posso farli
entrare? Sono tutti sporchi.”
“Fa’ pure.”
Rebecka apre ai cani. Vera rovescia quasi il tavolo nella foga
di arrivare per prima a salutare Hjalmar. Tintin fa l’indifferente:
dà un’annusatina in giro, ignora Hjalmar e si sdraia su un fianco
davanti al caminetto.
Hjalmar non può evitare di accarezzare Vera, e lei prende quel
gesto come il segnale che può saltare sul divano.
Rebecka la richiama con voce severa per farla scendere, ma
Hjalmar agita una mano come a dire che non importa. A quel
punto Vera si sente pronta a fare un passo avanti e gli si
arrampica in grembo. È un po’ difficile trovare posto, Hjalmar ha
la pancia troppo grossa, ma alla fine ci riesce e si mette a
leccargli calorosamente la bocca.
“Senti un po’” prova a dire lui con simulata severità, anche se
in realtà inizia a toglierle grumi di neve dalla pelliccia. Vera
apprezza e si accoccola con tutto il suo peso su di lui, sempre
leccandogli la bocca.
“Si è appena mangiata un topo” dice Rebecka. “Pensavo ti
facesse piacere saperlo.”
“Ah, cazzo” risponde lui con l’ombra di una risata nella voce.
“Sono innocente” dice Rebecka. “Non sono stata io a

253
educarla così.”
“Giù, brava” dice Hjalmar. “Così va bene. E allora chi ti ha
educata?”
Rebecka tace.
Niente bugie, si dice poi.
“É il cane di Hjörleifur Arnarson” risponde.
Hjalmar annuisce pensoso, accarezzando le orecchie di Vera.
“Non mi ero accorto che avesse un cane” dice poi. “Vuoi del
caffè?”
“Sì, grazie.”
“Allora forse dovrai preparartelo da sola. Come vedi sono
piuttosto occupato qui. Il caffè è nello stipetto.”
Rebecka trova una caffettiera a filtro e prepara il caffè.
Accanto al fornello c’è una Bibbia aperta. Legge ad alta voce i
versetti sottolineati.
“In me languisce il mio spirito, agghiaccia il mio cuore. Ti
piacciono i salmi?”
“Non particolarmente, ma ogni tanto leggo qualcosa. È
l’unico libro che c’è qui.”
Rebecka lo prende in mano e lo sfoglia. È piccolo e nero, con
il bordo delle pagine dorato. Il testo è così minuscolo da risultare
quasi illeggibile.
“Lo so” dice lui come se le avesse letto nel pensiero. “Uso la
lente d’ingrandimento.”
Il libro dà una bella sensazione tra le mani. Rebecka si
meraviglia della qualità della carta. Stampata nel 1928 e non
ancora ingiallita. Ha un buon odore. Sa di chiesa, di nonna, di
un’altra epoca.
“E tu la leggi?” chiede Hjalmar.
“Ogni tanto” ammette lei. “Non ho niente contro la Bibbia. È

254
la Chiesa che…”
“Cosa leggi?”
“Ah, dipende. Mi piacciono i profeti. Sono così intelligenti.
Mi piace la lingua. E sono così umani. Giona, per esempio. È
così terribilmente lagnoso e inaffidabile. Dio gli dice: “Va’ a
Ninive e predica.” E Giona parte subito in direzione opposta.
Alla fine, dopo aver passato tre giorni nella pancia del pesce,
annuncia la distruzione di Ninive. Ma poi, quando gli abitanti
della città fanno penitenza e Dio cambia idea e decide di non
distruggerli, Giona si incazza perché ha annunciato la rovina, e
pensa che perderà la faccia se non succede quel che aveva
profetato.”
“Il ventre della balena.”
“Sì, la cosa interessante è che debba morire prima di
cambiare. E anche dopo, non è un uomo buono e illuminato, non
è cambiato per sempre. È solo l’inizio di un viaggio. Tu cosa
leggi?”
Apre la Bibbia alla pagina con il segnalibro viola.
“Giobbe” dice strizzando gli occhi per leggere i versetti
sottolineati. “0h, se tu volessi nascondermi nella tomba,
occultarmi, finché sarà passata la tua ira…”
“Sì” dice Hjalmar annuendo come un devoto laestadiano in
un banco di chiesa.
Un uomo tormentato che legge di un uomo tormentato, pensa
Rebecka.
“Trovo che Dio sia preciso al mio vecchio, incazzato come
una bestia” dice Hjalmar grattando Vera sulla pancia.
Sorride come a dire che sta scherzando. Rebecka non
ricambia il sorriso.
Vera sospira soddisfatta. Tintin, davanti al fuoco, sospira in

255
risposta. Questa sì che è vita, per un cane.
Rebecka continua a leggere in silenzio. “Ohimè! Come un
monte finisce in una frana e come una rupe si stacca dal suo
posto, e le acque consumano le pietre, le alluvioni portano via il
terreno: così tu annienti la speranza dell’uomo. Tu lo abbatti
per sempre.”
Si guarda attorno. Alle pareti, rivestite di pannelli di pino
ingialliti, è appeso un po’ di tutto. Un dipinto a olio di un mulino
a vento in una baia in cui il sole sta per tramontare, un coltello
sami, una rosa intagliata piuttosto rozzamente, uno scoiattolo
impagliato su un ramo, un orologio ricavato da una padella di
rame. Ci sono anche dei fiori artificiali in un vaso di porcellana
sul davanzale della finestra. E alcune fotografie.
“Ti mostrerò il mio segreto” annuncia Hjalmar all’improvviso,
alzandosi. Vera salta svogliatamente a terra.
Solleva un pezzotto e libera un quadrato di linoleum. Sotto
c’è un’asse schiodata, solleva anche quella ed estrae un
pacchetto. Sono tre libri di matematica avvolti in un pezzo di tela
cerata a scacchi bianchi e rossi. C’è anche una cartelletta di
plastica. Apre il pacchetto e ne sparge il contenuto sul piccolo
piano della cucina, davanti a Rebecka.
Legge i titoli ad alta voce: Analisi multidimensionale,
Discrete Mathematics, Mathematics Handbook.
“Gli stessi che usano all’università” commenta Hjalmar, non
senza una vena d’orgoglio nella voce.
Poi aggiunge con rabbia: “Non sono l’idiota che credevi.
Guarda nella cartelletta e vedrai.”
“Non credevo un bel niente. Perché li tieni nascosti sotto il
pavimento?”
Hjalmar sfoglia i libri.

256
“Per il papà e per Tore” dice in tono addolorato. “E anche per
la mamma, in realtà. Ne avrebbero fatto un caso nazionale.”
Rebecka apre la cartelletta. C’è dentro un diploma di maturità
rilasciato dalla scuola per corrispondenza Hermods.
“Venivo qui ogni volta che avevo un po’ di tempo libero”
dice. “Proprio a questo tavolo, a rompermi la testa sui libri. Per le
altre materie, la matematica invece mi è sempre risultata facile. Ci
sono portato. Avrei potuto iscrivermi all’università con questi
voti, ma…”

È il 1972. Ha venticinque anni. Per tutta l’estate si è chiesto


se andare da Tore e dal padre a dire che lascia la ditta per mettersi
a studiare. Di notte rimane sveglio e glielo spiega. A volte
promette che è un impegno temporaneo e che riprenderà a
lavorare non appena avrà preso la laurea. Altre volte grida loro di
andare affanculo e che preferirebbe dormire sotto un ponte
piuttosto che tornare. Alla fine non dice niente a nessuno.

“Bah, non è successo e basta” dice a Rebecka.


Lo sta di nuovo guardando, e gli fa male. Qualcosa dentro di
lui si sta spezzando. È costretto a sedersi. La sedia della cucina è
la più vicina.
I cani sono subito da lui, tutti e due, a leccargli le mani.
Si mette a piangere. Il dolore esce a fiotti caldi.
“Cazzo!” esclama. “Che vita. Cazzo. Sono ingrassato e ho
lavorato come uno schiavo. Questa era la mia unica…”
Indica i libri di matematica con un cenno del capo.
Si preme una mano sulla bocca, ma non riesce a smettere, il
pianto continua a uscire in conati rumorosi.
“Hai portato un registratore?” riesce poi a dire. “È per questo

257
che sei qui?”
“No” risponde Rebecka.
E continua a guardarlo, a guardarlo. Una testimone del suo
dolore, adesso che gli erompe da dentro. Non lo tocca. Vera gli
posa una zampa sulle ginocchia, Tintin si sdraia ai suoi piedi.
Poi Rebecka distoglie lo sguardo. Hjalmar si alza e rimette a
posto i libri sotto il pavimento. Lei sta osservando una foto in
bianco e nero di un uomo e una donna sulla scala d’ingresso di
una casa. Sul gradino più basso sono seduti due bambini. Devono
essere Tore e Hjalmar con i loro genitori. Isak e… come si chiama
la madre, Kerttu. Ha qualcosa di familiare, si dice Rebecka. Cerca
di ricordare se per caso ha già visto quella foto da Anni Autio. O
da Johannes Svarvare. No.
Poi la riconosce. Era nell’album di Karl-Åke Pantzare. La
ragazza che stava tra Karl-Åke e il suo amico Axel Viebke. Certo
che è lei.
Kerttu, si ripete.
E poi pensa che Hjalmar e Tore hanno i tipici capelli bianchi
di chi da giovane li aveva rossi e sono molto chiari di pelle.
Volpe, ricorda Rebecka. Karl-Åke non aveva detto che gli
inglesi chiamavano Volpe l’informatore dei tedeschi? Kerttu in
finlandese significa volpe. Kerttu.

Volteggio sopra la testa di Anni mentre arranca con l’aiuto


dello slittino a spinta fino a casa di sua sorella. Kerttu ci mette
almeno cinque minuti per aprire la porta, e comunque lascia solo
una stretta fessura.
“Cosa vuoi?” chiede poi scontenta quando vede la sorella.
“Sei stata tu?” ribatte Anni.
“Di cosa stai parlando?”

258
“Non ci provare” dice Anni con la voce che le trema di
rabbia. “Hjalmar mi ha detto tutto. Stava andando al capanno. Mi
ha raccontato di aver… sei stata tu a obbligarli, o cosa?”
“Sei impazzita? Torna a casa e mettiti a letto.”
“E Tore! E da tanto che qualcuno avrebbe dovuto dargli una
bella lezione.”
Kerttu cerca di chiudere la porta, ma Anni è furiosa.
“Brutta…” dice allungando le braccia scheletriche attraverso
la fessura e trascinando fuori Kerttu.
“Devi dirmi tutto” insiste scuotendola per il vestito.
Io rido, seduta sulla scala. In realtà non è affatto divertente,
ma Dio santo, è come assistere alla lotta tra due carcasse di pollo.
Kerttu urla: “Mollami!”, ma poi le forze non le bastano per
parlare e fare a botte. Due vecchiette ansimanti che se le danno di
santa ragione.
Forza Anni!, grido. Fagliela vedere!
Solo i corvi mi sentono e si mettono a stridere sul tetto della
stalla.
Anni stringe più che può il vestito di Kerttu, la spinge verso
la ringhiera. Kerttu le molla uno schiaffo. Anni si mette a
piangere, non per il dolore alla guancia, ma perché le fa male
dentro. Odia Kerttu, e le fa male.
“Traditrice” sibila. “Maledetta, maledetta…”
Non riesce ad andare oltre perché Kerttu le dà una testata.
Anni perde la presa e cade dalla scala.
Si mette faticosamente a quattro zampe, piangendo
rumorosamente per l’impotenza e il dolore.
“Sparisci” gracchia Kerttu rauca. “Sparisci prima che ti aizzi
contro i cani.”
Anni striscia verso lo slittino a spinta e si alza in piedi.

259
Poi inizia a spingerlo e lo segue zoppicando, uscendo
faticosamente dal cortile fin sulla strada.
Quando la sorella non è più in vista, Kerttu torna in casa. In
cucina c’è Tore.
“Hai sentito?” chiede la madre.
Lui annuisce.
“Hjalmar ha perso la testa. E Anni! Mi pare che siano tutti
pazzi. Tuo fratello vuole rovinarci. Non pensa a quello che fa.
Non pensa a te e alla tua famiglia. Alla tua vita.”
Fa una piccola pausa per massaggiarsi la schiena indolenzita,
nel punto in cui è andata a sbattere contro la ringhiera.
“Non gli è mai importato di te. Lo sappiamo bene.”
“È al capanno?” chiede Tore.
Kerttu annuisce.
“Prendo la motoslitta e vado a parlargli” dice Tore.
“Il papà non sopravviverà” dice Kerttu sedendosi
faticosamente al tavolo della cucina. Posa la testa sul braccio. È
l’agosto del 1943, davanti a un fienile di legno grigio. Kerttu è
sdraiata sulla pancia, tra gli alberi. Axel Viebke e i tre prigionieri
danesi sono entrati nel fienile. Schörner le parla all’orecchio.

“Va’ fino al fienile e chiamali” le dice.


Lei scuote la testa.
“Vai” insiste lui. “Andrà tutto bene.”
Allora obbedisce. Si ferma davanti al fienile e chiama Axel.
Deve gridare il suo nome due volte, solo allora il giovane
compare sulla scala. Un sorriso di stupore sul viso. Escono anche
i tre danesi.
A quel punto Schörner e gli altri due si avvicinano. Non
indossano l’uniforme, ma la pistola nella mano di Schörner e i

260
fucili in quelle degli altri dicono tutto quel che c’è da dire. In uno
svedese dal forte accento tedesco, Schörner ordina ad Axel e ai
danesi di mettere le mani dietro la testa e inginocchiarsi.
Kerttu guarda a terra. Vuole che Axel pensi che è stata
costretta in qualche modo. Non vuole che pensi male di lei. Ma
Schörner capisce, e non permette un inganno del genere. Le si
avvicina, sempre con la pistola puntata contro Axel Viebke, e le
accarezza una guancia.
Kerttu non vede il disprezzo nello sguardo di Axel, ma lo
percepisce.
Schörner punta la pistola alla testa di Axel e dice che vuole i
nomi di chi fa parte del suo gruppo.
Lui risponde che non sa di cosa sta parlando, che…
Non riesce ad andare oltre, perché Schörner allontana la
pistola dalla testa di Axel e fa fuoco.
Due secondi dopo, uno dei danesi si accascia di lato. Axel
perde sangue da un orecchio, tanto vicina è stata la detonazione.
Gli altri due tedeschi si scambiano un’occhiata.
Kerttu ha gridato, ma adesso tutto il bosco è in silenzio.
Abbassa gli occhi sulle ginocchia che le tremano. Il terreno è
coperto di delicati fiori di parnassia ed eufrasia. Dopo un po’ si
tornano a sentire gli uccelli che cantano e le colombelle che
tubano.
Kerttu osserva muschi e licheni mentre Schörner prende Axel
a calci nello stomaco e lo trascina verso il fienile.
Tiene gli occhi fissi su cespugli sfioriti di ledum palustre e di
ginepro mentre uno dei tedeschi sbatte Axel contro la parete e
Schörner prende il coltello e gli trapassa una mano inchiodandola
alle tavole ingrigite.
“Parla!” grida Schörner.

261
Ma Axel non apre bocca.
Kerttu vede il suo viso bianco, bianchissimo. Lo vede perdere
conoscenza. Poi vede cespugli di mirtillo, mirtillo rosso, moretta
e falso mirtillo.
E poi. Sì, poi Schörner impreca per la frustrazione, cerca di
far rinvenire Axel estraendo il coltello e prendendolo a schiaffi.
Ma Axel non reagisce.
Kerttu sente tre spari, e pensa: non sta succedendo davvero,
non sta succedendo davvero. Poi uno dei tedeschi va alla
macchina e torna con una tanica di benzina, e quando se ne vanno
il fienile brucia come un pino secco.
Schörner riporta Kerttu da Isak e gli dice che la sua fidanzata
si è comportata molto bene. Poi prende Kerttu per il mento e le
dice che sa di potersi fidare di lei e che le farà avere una bella
ricompensa. Dovranno avere un po’ di pazienza, ma ci penserà lui
personalmente.
Isak vede gli spruzzi di sangue sul viso di Schörner e deve
ripetere più volte a Kerttu di entrare nella cabina del camion. Alla
fine uno dei tedeschi ce la siede di peso.
Qualche giorno dopo il Norrbottenskuriren parla
dell’incendio e dice che non è stato possibile identificare i tre
uomini morti insieme ad Axel Viebke. Kerttu nota che
stranamente non c’è il giornale sulla scrivania di Isak in ufficio.
Ma non le dice niente, non le fa domande. E lei nemmeno.
Meglio dimenticare e andare avanti.
Non ci sarà mai nessuna ricompensa. Non incontreranno più
Schörner. A settembre il capo degli approvvigionamenti Zindel li
informa che arriverà un plico per Kerttu da Narvik con un aereo
che atterrerà a Kurravaara.
Isak, Johannes Svarvare e tre ragazzi di Kurravaara che

262
avrebbero dovuto aiutarli a scaricare aspettano invano l’aereo per
tutta la sera e tutta la notte. Poi se ne vanno.
Isak viene a sapere che l’aereo è scomparso e Kerttu se lo
immagina precipitato nel bosco da qualche parte, con dentro una
ventiquattrore. Una ventiquattrore nera come quella di Schörner,
dove c’è scritto tutto quello che lei, Kerttu, Volpe, ha riferito
all’esercito tedesco. Nel periodo della raccolta delle bacche sta
male dall’angoscia.

“Vuoi raccontarmi com’è andata?” chiede Rebecka dopo aver


versato il caffè a entrambi. Hjalmar posa la tazza sul tavolo
davanti al divano. Vera adesso è sdraiata ai suoi piedi, mentre
Tintin si è addormentata davanti al caminetto. Rebecka è
appoggiata alla parete. Fa fatica a non guardare la foto della
famiglia Krekula. Vorrebbe poterla confrontare con quella della
ragazza insieme ad Axel Viebke nell’album di Karl-Åke Pantzare.
Ma è lei. È Kerttu.
“Da dove devo cominciare?” chiede Hjalmar. “Siamo andati al
lago.” “Chi?”
“Io…”
Esita un attimo. Poi prende lo slancio e conclude: “Io, Tore e
la mamma.”

È il 9 di ottobre. Hjalmar è sul sedile posteriore del


fuoristrada di Tore, il fratello è al volante, la madre sul sedile del
passeggero. Quella mattina era stata da Anni e aveva chiesto di
Wilma. Come di sfuggita, tanto per fare conversazione. Anni le
aveva detto che Simon era passato a prenderla per una delle loro
avventure. Sarebbero stati fuori tutto il giorno. Anni non sapeva
dove, ma Kerttu aveva capito. E subito dopo era andata alla

263
rimessa a parlare con i suoi figli.
“Sono andati di sicuro al Vittangijärvi. È da lì che dovevano
iniziare a cercare, secondo Johannes Svarvare. Dobbiamo
raggiungerli.”
Non aveva detto altro. Tore aveva preso il fuoristrada e aveva
imboccato la strada per Luonatti.
Adesso la ghiaia rimbalza contro il telaio della macchina
mentre Tore zigzaga abilmente tra le buche.
Hjalmar si chiede: cosa diavolo faremo una volta là?
Nessuno dice niente.

Hjalmar guarda Rebecka, cercando le parole.


“Capisci” dice. “Non è andata come si può pensare. Nessuno
ha detto: li ammazziamo. È semplicemente andata così.”
“Cerca di spiegarmi” dice Rebecka. “E bevi il caffè, prima
che diventi freddo.”
Una melodia le suona in tasca. Tira fuori il telefono: il
numero di Måns.
“Rispondi pure” dice Hjalmar. “Non mi disturba.”
“No” risponde Rebecka. “Scusa, avrei dovuto spegnerlo.”
Lascia che finisca di squillare e poi lo spegne.
“Scusami” ripete. “Racconta.”
“Non c’è molto da dire. Siamo arrivati lì. Kerttu ha tagliato la
sagola. Io sono andato a prendere la porta.”
“Che avete messo sopra il foro nel ghiaccio?”
“Sì.”

Attraversano il bosco sul fuoristrada. Il lago è bello in modo


quasi insopportabile. Quando spengono il motore c’è un silenzio
incredibile. Il sole brilla sul ghiaccio lucido. Sembra quasi un

264
gioiello d’argento in mezzo al bosco.
Ed ecco il foro nel ghiaccio, con una croce di legno sopra.
Restano lì un attimo a guardare le bolle che salgono in
superficie.
“Dammi il coltello” ordina Kerttu. Tore estrae il coltello che
porta alla cintola e glielo passa.
Poi dice a Hjalmar: “Va’ a prendere una porta.”
Indica una casa estiva apparentemente deserta. Hjalmar alza
gli occhi e guarda in quella direzione. Kerttu inizia a perdere la
pazienza.
“C’è sicuramente la porta di una latrina o qualcosa del
genere. Sbrigati.”
E Hjalmar sale alla casetta, sfila dai cardini la porta della
legnaia e torna giù al lago. Quando arriva al foro nel ghiaccio,
Kerttu ha già tagliato la sagola e tolto la croce di legno.
“Appoggiaci sopra la porta” ordina indicando il foro.
E lui fa come gli viene detto. E quando la madre gli dice di
mettersi sulla porta, lui esegue.
La luce è davvero abbagliante, si riesce a malapena a tenere
gli occhi aperti. Hjalmar li strizza verso il cielo. Tore fischietta
una melodia. Passano alcuni minuti. Poi si intravede qualcuno
sotto il ghiaccio, che raspa la porta. È solo qualcuno. Chiunque.
Hjalmar non pensa né a Wilma né a Simon.
Kerttu è silenziosa, guarda da un’altra parte. Anche Hjalmar
guarda da un’altra parte, solo Tore fissa la porta con interesse.
Sembra quasi che la vita fluisca in lui.

“Cos’ha fatto Tore?” chiede Rebecka. “C’era anche lui, no?”


“Niente” risponde Hjalmar. “Sono stato io. Sono stato io
che…”

265
La persona sotto il ghiaccio si allontana a nuoto. Tore la
segue con gli occhi, ha smesso di fischiettare.
“È lei” dice a bassa voce. “È piccola, dev’essere lei.”
Hjalmar non vuole sentire. Non è lei. È solo qualcuno.
Adesso quel qualcuno sta cercando di fare un buco nel
ghiaccio, pesta e raschia con il coltello da sub.
Tore ha l’aria divertita.
“Che gatta selvatica!” esclama in tono ammirato. “Certo che
ha forza di volontà, bisogna riconoscerlo.”
Resta a una certa distanza a osservare il buco che si allarga
sempre di più. Alla fine quel qualcuno sporge una mano.
Tore si avvicina di corsa e l’afferra.
“Buon giorno, buon giorno!” dice agitando la mano avanti e
indietro, ridendo.
Guarda Hjalmar con aria di sfida. Lo stesso sguardo che gli
ha rivolto per tutta la loro infanzia: prova a fermarmi se ci riesci,
dimmi qualcosa se hai il coraggio.
Hjalmar non dice niente. Cancella qualsiasi espressione dal
viso, come ha sempre fatto, e lascia che suo fratello faccia come
vuole.
All’improvviso Tore si ritrova con il guanto in mano. Quel
qualcuno è riuscito a liberarsi dalla sua stretta.
“Cazzo!” esclama eccitato.
Poi vede quel qualcuno che si allontana a nuoto sotto il
ghiaccio e lo rincorre agitando il guanto da sub.
“Aspetta!” grida ridendo. “Hai dimenticato qualcosa! Ehi!”
Rimane costantemente sopra quel qualcuno che sta nuotando
sotto il ghiaccio.
“Puttana!” grida.

266
Adesso è arrabbiato. Ha il fiato corto, non è abituato a
correre. Il ghiaccio è lucido e scivoloso e quel qualcuno là sotto
nuota piuttosto in fretta.
“Maledetta puttana!”
Adesso è tornato sotto la porta, pesta i pugni, la graffia.
Poi nuota di nuovo via, sempre seguito da Tore.
E poi è finita, si ferma. E anche Tore.
“Ecco” ansima. “Ecco.”
Si inginocchia e preme il viso contro il ghiaccio.

“Emettiamo un avviso di ricerca per Tore Krekula” dice Anna-


Maria Mella a Sven-Erik Stålnacke, Tommy Rantakyrö e Fred
Olsson, riuniti alla centrale.
“Cominciate dai colleghi di Gällivare, Boden, Luleå, Kalix e
Haparanda. Diramate l’elenco di tutti i veicoli della ditta e della
famiglia.”
Il cellulare le segnala l’arrivo di un sms: un messaggio in
segreteria. Compone il numero della casella vocale e ascolta.
“Cazzo!” esclama.
I colleghi sollevano un sopracciglio con aria interrogativa.
“Rebecka è andata a Piilijärvi per parlare con Hjalmar
Krekula. Pare che le abbia telefonato per confessare.”
Fa il numero di Rebecka. Cellulare spento.
“Che sconsiderata!” sbotta.
I colleghi non commentano. Anna-Maria guarda Sven- Erik,
vede che sta pensando a Regia. Se c’è qualcuno di sconsiderato
sei tu, si sta dicendo.
All’improvviso si sente incredibilmente stanca e triste. Cerca
di corazzarsi contro l’inevitabile commento di Sven-Erik, ma si
sente disarmata e indifesa, non ha la forza di stringere i pugni,

267
rimboccarsi le maniche e alzare la guardia.
Do le dimissioni, pensa. Non ne posso più. Faccio un altro
figlio.
Passano solo pochi secondi, ma fanno in tempo a succedere
un sacco di cose. Anna-Maria guarda Sven-Erik.
Sven-Erik guarda Anna-Maria. Alla fine lui dice: “È andata
come è andata. Si va a Piilijärvi.”
E tutto il peso cade dalle spalle di Anna-Maria, come la neve
da un tetto in primavera.
È andata come è andata. Intendeva a Regla.

Hjalmar beve il caffè reggendo la tazza con entrambe le mani.


Vera gli raspa una gamba con la zampa, incoraggiante: non deve
smettere di accarezzarla.
“Cercavo di non pensare che era lei” dice a Rebecka. “Non ce
la facevo. È morta lì. Io c’ero.”
“Ma dopo hai cominciato a pensare a lei?”
“Sì” risponde in un bisbiglio. “Molto.”
“Com’è finita nel fiume?”
“La mamma ha detto che dovevamo spostarla. Non voleva che
la trovassero lì, c’è l’aereo. Non si doveva sapere. L’abbiamo
tirata su, poi abbiamo aspettato anche lui, ma non è tornato in
superficie.”
Chiude gli occhi. Si rivede mentre sfonda la porta e butta i
pezzi nel lago.
Ma non abbiamo pensato agli zaini, si dice. Uno crede di
mantenere la lucidità, ma non è così.
Si passa una mano sul viso e prosegue: “L’abbiamo portata
fino alla strada con la nostra macchina. Ce l’avevo in braccio io,
sul sedile posteriore. È stato allora che ha iniziato a diventare

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insopportabile. E poi quella sensazione non se n’è più andata. Se
non l’avessi tenuta tra le braccia, forse avrei potuto… non so,
dimenticare. L’abbiamo caricata sulla loro macchina, nel
bagagliaio. Sono sceso fino a Tervaskoski, lì il ghiaccio non si
era ancora formato. La benzina è bastata giusta giusta. Tore ha
accompagnato a casa la mamma ed è tornato a prendermi.
Abbiamo portato la nostra macchina alle rapide e l’abbiamo
buttata dentro. Poi abbiamo nascosto le chiavi della loro sopra
una delle ruote.”

“Tua madre” dice Rebecka dopo un po’. “Credo che durante


la guerra vendesse informazioni ai tedeschi.”
Hjalmar annuisce.
È possibile, si dice. Ricorda un ballo a cui lui e Tore avevano
partecipato da ragazzini. Uno della loro età gli aveva fatto il
saluto nazista in segno di disprezzo. Il padre di quel ragazzo era
comunista. Era finita in una rissa da manuale. Si erano separati
solo quando qualcuno aveva gridato che stava arrivando la
polizia.
Ricorda cosa ripeteva Kerttu quando Tore si era perso nel
bosco. “È la punizione.”
Ricorda le parole di Isak nella sauna. Era stato dopo che
Johannes Svarvare aveva detto di aver parlato dell’aereo. Dopo
l’infarto di Isak. Dopo la morte di Wilma.
L’atmosfera in casa era torbida e pesante per tutte le cose di
cui non si poteva parlare. Kerttu si lamentava più che mai di
quanto fosse difficile occuparsi di Isak, anche se stava meglio,
quell’inverno. All’inizio del marzo successivo, una mattina non si
alzò dal letto. I dottori dissero che probabilmente aveva avuto un
altro piccolo infarto durante la notte. Da quel momento rimase

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infermo, ma durante quell’inverno stava meglio.

“Tuo padre puzza” dice Kerttu a Hjalmar.


È seduta in cucina, con le scarpe e il cappotto buono e la
borsetta in grembo, aspettando che Tore e Laura vengano a
prenderla per accompagnarla in città. Deve fare una visita medica.
È l’unica occasione in cui lascia il paese, quando deve andare dal
dottore.
È per quello che si accorge dell’odore di Isak. Perché lei si è
fatta la doccia, si è profumata e si è messa la biancheria e i vestiti
puliti.
Isak è a fare due passi in paese. È in piedi, nonostante il grave
infarto dell’autunno precedente. Se si vive in un paese piccolo,
ogni tanto bisogna fare un giretto. Si passa a casa di qualcuno, ci
si siede in cucina, si beve il caffè e si scambia qualche
informazione sulle ultime novità. Ma non c’è molta gente con cui
può farlo, solo Johannes Svarvare e pochi altri. Con la maggior
parte dei compaesani non parla più. Nel corso di una vita si
accumulano molte ingiustizie, si rompono molti rapporti. Gli
affari sono affari, ha sempre detto Isak quando qualcuno si
arrabbiava e si sentiva ingannato.
“Non è facile come credete voi, stare tutto il tempo a casa con
lui” si lamenta Kerttu includendo l’assente Tore nella
conversazione.
La sua voce ha un tono duro, distaccato.
“Io continuo a occuparmene, ma tu fa’ in modo che si lavi”
dice secca a Hjalmar.
Si sente suonare il clacson in cortile: è arrivata Laura.
Hjalmar sospira. Adesso dovrà litigare con Isak. Cosa può
fare? Legarlo sotto la doccia? Spazzolarlo a forza?

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Un’ora e mezza dopo, quando Isak torna a casa dal suo giro,
Hjalmar è seduto in cucina.
“Sto scaldando la sauna” dice. “Mi fai compagnia?”
Sul tavolo ha sei birre.
Isak non ha nessuna voglia di fare la sauna. È stato a casa di
qualcuno a bere qualcosa di più forte del caffè, Hjalmar se ne
accorge subito, ma nota che sta guardando con bramosia le birre
sul tavolo.
Hjalmar manipola il padre con abilità. Non la fa lunga, non
ripete due volte la domanda. Finge che gli sia indifferente, Isak
non deve assolutamente sospettare che abbia il compito di farlo
lavare. Mentre resta sulla porta senza dire niente, Hjalmar prende
le birre e un asciugamano, solo uno. Isak si sposta per lasciarlo
passare.
Arrivato alla sauna, mette le birre in un secchio pieno di neve,
così resteranno fresche.
Si spazzola energicamente e poi si siede, rovescia dell’acqua
sulle pietre roventi provocando un sonoro sfrigolio. Il vapore
ardente sale fino alla panca più alta, dov’è seduto, bruciandogli la
pelle. Cerca di non pensare al fatto che la pancia gli pesa sulle
cosce. Dio, quanto è diventato grasso.
Invece pensa che ormai si vede da tante cose che quella è la
casa di due vecchi. Prima quando si accendeva la sauna c’era
sempre un buon odore di pino, sapone e fuoco. Adesso quando
versa l’acqua sulle pietre si libera una puzza di sporcizia
incrostata, è da molto che le panche non vengono spazzolate.
Si è quasi dimenticato di Isak, quando sente sbattere la porta.
Si china a prendere una birra dal secchio.
Isak entra e si arrampica sulla panca più alta, si apre anche lui

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una lattina, la scola, ne apre subito un’altra.
Non rimane granché di lui, si dice Hjalmar. Il vecchio corpo
rugoso, i capelli troppo lunghi e sottili, la pelle chiazzata e
floscia. Non molto tempo prima i muscoli si gonfiavano ancora
sotto le maniche arrotolate della camicia ed era in grado di
sollevare da solo il piano di carico di un camion.
La rabbia, si dice Hjalmar, la rabbia che ha dentro invece è
rimasta forte come prima. È il pilastro che lo tiene in piedi. La
rabbia contro i compaesani che sparlano alle sue spalle, quegli
stronzi, metà di loro sarebbe disoccupata senza la sua ditta, la
rabbia contro il fisco, dannate sanguisughe, culi di pietra che non
hanno mai alzato un dito, contro gli amministratori locali, contro
le assicurazioni, contro i grandi manager, contro la gente di
Stoccolma, contro i giornali della sera, contro le celebrità, tutti
drogati, contro i disoccupati e gli assenteisti, maledetti
scansafatiche che vivono sulle spalle degli altri, contro tutto
quello che vede alla televisione, giochi a premi e reality show, col
cazzo che ha intenzione di pagare il canone, contro i responsabili
del reparto frutta e verdura dell’Ica di Skaulo, una poltiglia
marcescente coperta da una nube di moscerini, contro gli
immigrati e gli zingari, contro gli accademici, stronzi presuntuosi
con un bastone nel culo.
Contro Hjalmar. Quando il figlio maggiore ha compiuto
tredici anni, Isak ha smesso di picchiarlo, limitandosi a qualche
ceffone ogni tanto o una sberla sulla nuca. Quando ne ha
compiuti quattordici, ha smesso anche con quelli.
La rabbia però non era passata, aveva solo cambiato forma.
Con l’età Isak si è indebolito, non è più in grado di sollevare una
sedia e sbatterla a terra così forte da romperne lo schienale. Della
rabbia ha dovuto farsi carico la voce, che è diventata più stridula,

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più stridente. Il vocabolario si è fatto più rozzo, le parole
sembrano scavate fuori da un letamaio. Si rotola tra parolacce e
imprecazioni come un maiale nel fango.
Adesso ce l’ha con Kerttu. Fuori. Tutto quello che ribolle
dentro Isak deve venire fuori.
“Ah, cazzo! É andata dal dottore, vero?” esordisce.
Hjalmar si fortifica bevendo un sorso di birra.
“Dovrà pur far vedere le tette a qualcuno” continua Isak
scolando un’altra lattina.
Già, meno male che c’è qualcuno pagato per guardarle,
prosegue poi nel suo ragionamento. Così tutti gli altri possono
evitare di vedere tette pendule, pance cascanti, fighe vizze. No, ci
vogliono ragazze giovani, vero, Hjalle? Ah, cosa vuoi che ne
sappia Hjalle.
“Non sei mai stato con una donna, vero?”
Hjalmar vorrebbe dirgli di piantarla, ma sa che è meglio di no.
A ogni modo Isak si accorge di quanto gli dia fastidio sentir
parlare in quel modo sia di sua madre sia della sua verginità. Non
può saperlo con certezza, ma intuisce la verità.
“Nemmeno una bottarella da ubriaco?” chiede.
E il suo umore migliora decisamente. Non appena mette il
dito nella piaga di Hjalmar, la pressione dentro di lui diminuisce.
Hjalmar si osserva il ventre grasso che straborda sulle cosce.
“Almeno così smetti di parlar male della mamma” dice mentre
versa ancora acqua sulle pietre roventi, sollevando un’altra
nuvola sfrigolante di vapore.
Isak si blocca per un attimo: in genere Hjalmar non risponde.
Poi però non riesce a trattenersi.
“Tu credi che sia una santa” biascica. Adesso si notano i
cicchetti che si è fatto in paese e le birre.

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Si appoggia alla parete della sauna e molla una scoreggia.
“Che santa e santa” dice. “Se solo sapessi. Estate del ‘43. La
resistenza nascondeva partigiani danesi e norvegesi e disertori
finlandesi. Tua madre era un’esperta nel far parlare la gente. Era
giovane e graziosa, sai. Una volta dei danesi erano fuggiti da una
nave tedesca ancorata nel porto di Luleå. Erano in tre. E andata a
ballare è si è fatta confidare tutto da un tipo. Tutto. Dannata
femmina. Erano nascosti in un fienile nel bosco. Non hanno fatto
una bella fine.”
Hjalmar è sulle spine. Cosa? Di cosa diavolo sta parlando?
Isak si volta verso di lui, con una specie di sorriso sul viso.
Un sogghigno. A Hjalmar sembra che assomigli a un serpente, o a
una di quelle creature rivoltanti che si trovano rovesciando le
pietre. I denti gialli da vecchio gli sporgono dalla bocca. Non
porta la dentiera, ma anche gli originali non sono granché.
“Dove sono finiti Simon e Wilma?” chiede poi.
Hjalmar alza le spalle.
Isak non lo sa, nessuno gli ha raccontato niente, ma
ovviamente ha intuito qualcosa. E adesso l’alcol lo spinge a fare
domande. É furioso perché è stato escluso, lasciato fuori. È stato
catalogato tra i vecchi inutili. Quelli che devono essere protetti.
Quelli di cui non ci si può fidare. Non può sapere niente, non
può guidare. La rabbia lo rode dall’interno, come un parassita.
“Tua madre brucerà all’inferno” dice. “Tu credi che sarò io a
farlo, ma lei finirà qualche gradino più in basso, te lo assicuro.”
Adesso cambia voce, assume un tono assorto.
“Te lo assicuro, te lo assicuro” ripete.
Poi resta zitto, quasi pentito di aver parlato troppo.
“Bah” dice poi, tanto per provocare. “Non fa molto caldo.
Non hai scaldato bene le pareti.”

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Scende dalla panca ed entra in bagno. Hjalmar lo sente
sguazzare nella tinozza e poi uscire sbattendo la porta.

“E Hjörleifur Arnarson?” chiede Rebecka. “Com’è andata


con lui?”
“É stato Tore” risponde Hjalmar. “Lo ha colpito con un pezzo
di legno. Non potevamo rischiare. Poi l’abbiamo spostato e
abbiamo rovesciato lo sgabello, abbiamo aperto gli stipetti e ci
abbiamo infilato uno degli zaini. Doveva sembrare un incidente.”
Chiude gli occhi e ricorda che Tore gli aveva detto di tenere
sollevata la testa insanguinata di Hjörleifur, in modo da non
lasciare tracce sul pavimento, mentre lui lo tirava per le gambe.
Grazie a Dio, pensa Rebecka. Così possiamo incastrare anche
Tore. Le macchie di sangue sul suo giaccone e la testimonianza di
Hjalmar. A prova di bomba.
“E adesso cosa pensi di fare?” gli chiede. “Non vorrai
spararti?”
“No.”
Rebecka parla sempre più in fretta.
“Perché se quella era la tua intenzione… Non ce la faccio.
Dopo Lars-Gunnar Vinsa. Lo sai che c’ero anch’io quando ha
sparato a Nalle e poi si è ucciso. Mi aveva chiusa in cantina.”
“Lo so. L’ho letto sui giornali. Ma non lo farò.”
Abbassa gli occhi sulla tazza di caffè e poi scuote la testa.
“Anche se per un po’ ci ho pensato.”
La guarda.
“Mi hai detto di andare nel bosco. L’ho fatto, ed è successa
una cosa che non mi so spiegare. Un orso mi ha guardato. Era
vicinissimo.”
“Ah.”

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“Era come se ci fosse qualcosa più grande di me. E non
intendo l’orso. Dopo ho solo sentito che dovevo confessare.
Raccontare tutto. Farla finita con le menzogne.”
Lei lo guarda esitante.
“E perché sei venuto qui?”
“Pensavo di stare qui ad aspettare.”
“Aspettare cosa?”
“Non lo so. Quello che succederà. Tutto quello che deve
succedere.”
Tore Krekula ferma la motoslitta accanto alla macchina di
Hjalmar. Ce n’è anche un’altra, ed è solo dal camino di Hjalmar
che esce fumo. Perciò chi altro c’è, oltre a suo fratello? Manda
un sms con il numero di targa alla motorizzazione, la risposta
arriva immediatamente: Rebecka Martinsson, Kurravaara. Il
procuratore. Non ha importanza. La toglierà di mezzo. E poi
penserà a Hjalmar.
Quello di Hjalmar deve sembrare un suicidio. E tenuto conto
di com’è ridotto, magari ci penserà da solo. Con un po’ di opera
di convincimento. Così tutto sarà chiarito: Hjalmar ha ucciso
Wilma e Simon. E per quanto riguarda Hjörleifur Arnarson…
dunque, Hjalmar ha preso in prestito il suo giaccone… no, non
funziona, è così grasso che non riuscirebbe mai a infilarselo.
Allora così: erano insieme, dovevano parlare con Hjörleifur.
All’improvviso Hjalmar lo colpisce con un pezzo di legno.
Schizza del sangue anche sul giaccone di Tore. Sì, regge fino in
fondo. E alla fine Hjalmar ha ucciso il procuratore e si è
suicidato. In qualche modo. Dovrà improvvisare un po’. Si
sistemerà tutto, sì.
Stronzo di uno Hjalmar. Cosa cazzo ha in mente? Non ha un
minimo di cervello, in quella testa grassa. Lui può permettersi di

276
cedere alla pressione, ma Tore ha una famiglia a cui pensare,
Laura, i figli, anche se ormai sono grandi. E poi la mamma e il
papà. É da quando ha quindici anni che manda avanti lui la
baracca, praticamente. Non ha mai preso una settimana di
vacanza in tutta la sua vita, ha sempre lavorato come uno schiavo
e si è preso le sue responsabilità. Per cosa? Perché Hjalmar gli
tolga tutto? No di certo.

È Tintin a sentire la motoslitta per prima: solleva la testa e


drizza le orecchie. Poi Vera si mette ad abbaiare.
Solo dopo Rebecka e Hjalmar sentono il motore che si
avvicina sempre di più. Hjalmar si alza e guarda dalla finestra.
“È mio fratello” dice. “Si mette male.”
Rebecka fa un passo, ma non sa dove andare. Forse fuori, ma
poi?
“Non fai in tempo” dice Hjalmar. “É già qui.”
Rebecka sente il motore che si spegne.
Adesso scende, si dice. Adesso si avvicina al capanno.
Hjalmar si volta verso di lei, le parole gli escono di bocca più
veloci di quanto abbiano mai fatto in tutta la sua vita.
“In bagno” dice. “Chiudi la porta a chiave. C’è una finestra,
esci da lì. Corri verso il fiume, segui la pista delle motoslitte, è
ghiacciata e ti reggerà. È la tua unica possibilità. Cercherò di
trattenerlo, ma posso solo provare a parlargli. Non posso alzare le
mani su di lui. Non posso.”

Rebecka lotta con il gancio per chiudere la porta del bagno


dall’interno, per farlo entrare nell’anello bisogna tirare la
maniglia. La finestra è piccola e in alto. Rebecka sale sulla tazza,
deve tirare con entrambe le mani per riuscire ad aprirla. Sul

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davanzale ci sono dei detersivi e uno shampoo, li butta fuori sulla
neve, poi si aggrappa al telaio e si issa fino ad appoggiare i
gomiti sul davanzale. Divincolandosi come una biscia, riesce ad
appoggiare anche il bacino. La finestrella è più in alto di quanto
sembrasse da dentro, spera di non rompersi l’osso del collo
lasciandosi cadere a terra.
Qui finisce male, si dice.
Nello stesso momento Tore apre la porta del capanno.
“Dov’è?” chiede a Hjalmar.
Hjalmar non risponde. Vera si alza e si mette ad abbaiare.
Anche Tintin si alza.
“Lì dentro?” chiede accennando alla porta del bagno. Fa due
passi in quella direzione e strattona la porta.
“Vieni fuori!” urla pestando i pugni.
“Cosa cazzo le hai detto?” chiede a Hjalmar. “Rispondi!”
“La verità” risponde Hjalmar, ancora seduto sul fondo del
divano.
“La verità!” lo scimmiotta Tore. “Idiota di un grassone.”
Poi sferra un calcio contro la porta che cede senza problemi,
andando a sbattere contro il lavandino.
Tore guarda dentro. Vuoto. Ma la finestra è aperta.

Rebecka salta, atterrando sulla schiena come un coleottero.


La neve è morbida e bagnata, perciò non si fa male, ma è quasi
impossibile rimettersi in piedi, deve lottare disperatamente per
riuscire a girarsi.
Alla fine riesce a riportarsi in posizione verticale, ma a ogni
passo affonda fino all’inguine. Il fiume che un attimo prima
sembrava così vicino adesso sembra lontanissimo. Avanza a
fatica, le gambe tremanti per lo sforzo. Il sole che picchia

278
inesorabile la fa sudare copiosamente. Se solo riuscisse ad
arrivare alla pista battuta. Lì la neve è ghiacciata, potrà correre
lungo il fiume.

Tore guarda dalla finestra, verso il fiume, e vede il


procuratore che arranca nella neve e poi si mette a correre lungo
il fiume. Cosa crede, di scappare?
“Pensi che il ghiaccio regga il peso della motoslitta?” chiede
a Hjalmar.
“No” risponde lui.
I cani sono nervosi, si muovono in cerchio ringhiando.
Tore guarda suo fratello con aria sospettosa.
“Stai mentendo” dice.
Si infila i guanti. Andrà a prenderla. È una donna morta. È
già praticamente morta.
Quando apre la porta, Tintin esce.

Rebecka corre lungo la pista battuta sul fiume, un nastro di


ghiaccio abbagliante in mezzo alla neve fresca. È un piccolo di
renna dalle gambe tremanti, e il lupo è vicino. Ha i muscoli
spossati, fa fatica ad andare avanti. Le pulsano le tempie, lo
sforzo le fa la bocca amara.
Sente il rombo di un motore alle spalle, si gira. È Tore sulla
motoslitta.
La investirà. Morirà nella neve, gli organi interni spappolati,
il sangue che le cola dal naso e dalla bocca. Corri. Corri.

Tore scende a tutta velocità lungo il pendio che porta alla riva
del fiume, poi prende la motoslitta e la mette in moto. Si avvicina
rapidamente, succede tutto in pochi secondi. Rebecka si ferma e

279
si volta.
Non ce la faccio, si dice.
Ormai è a dieci metri da lei. Chiude gli occhi.
Pensa alla nonna, al leggero odore di stalla e di tabacco che
aveva sempre. A quando si alzava all’alba per accendere la stufa.
Rebecka beveva tè con latte e miele e mangiava tartine al
formaggio. La nonna beveva caffè e fumava le sue sigarette
arrotolate a mano. Pensa a suo padre. Lui, Rebecka e la nonna
stanno pulendo un mucchio di mirtilli rossi. Ognuno ha il suo
vassoio con sotto un giornale. Il rumore delle bacche pulite che
rotolano sul vassoio a formare un mucchietto. Eliminano i rametti
e le foglie e le bacche rovinate e spingono le altre in fondo al
vassoio. Ogni tanto Rebecka trova un ragno o un altro insetto che
deve essere salvato e lo porta fuori.
All’improvviso sente il rumore della motoslitta che
sprofonda: il ghiaccio si spezza con uno schianto, il motore
ribolle sott’acqua e poi tace. Le grida di Tore.
Quando riapre gli occhi, solo la parte posteriore della
motoslitta spunta dall’acqua, ma affonda rapidamente, ben presto
non si vedono più né Tore né la motoslitta. Il ghiaccio tintinna e
risuona come se galleggiasse in un bicchiere di vino. In un attimo
l’acqua non si vede più, ricoperta dalla poltiglia gelata che si è
formata nel punto in cui Tore è sprofondato. Poi il ghiaccio si
mette a oscillare. Rebecka viene invasa da un’ondata di paura.
Sente che la lastra inizia ad abbassarsi sotto i suoi piedi,
come un’amaca. Sprofonda sempre di più, il ghiaccio non si
spezza, ma vede con terrore che l’incavo in cui si trova si riempie
rapidamente d’acqua, ormai le arriva alle caviglie, alle ginocchia.
Poi arriva di corsa Tintin.
“Vattene!” grida Rebecka. “Sta’ attenta! Sparisci!”

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Ma il cane si avvicina sempre di più.

Dalla finestra, Hjalmar vede suo fratello scomparire sotto il


ghiaccio coperto di neve. Poi vede il cane che arranca verso la
pista battuta e quando la raggiunge si lancia verso Rebecka.
“Mio Dio” dice, e la intende davvero come una preghiera.
Rebecka è immobile sul ghiaccio, come paralizzata. Grida
qualcosa al cane, cerca di mandarlo via. Sta affondando
lentamente, come se fosse al centro di una ciotola.
Poi il ghiaccio si spezza. Hjalmar la vede agitare le braccia, e
un secondo dopo è sparita.

Volo sopra il fiume, insieme a tre corvi, giriamo in tondo, in


tondo. Hjalmar Krekula esce dal capanno e chiude accuratamente
la porta perché Vera non scappi. Poi si mette a correre. La
velocità è quella che è, segue la pista lasciata dalla motoslitta di
Tore, che però non è ancora ghiacciata. Quando raggiunge la riva,
affonda nella neve fino alla vita.
É bloccato, non riesce a liberarsi. Si dibatte inutilmente, è
come affondato nel cemento.
“Rebecka!” grida. “Rebecka! Sono bloccato nella neve!”
Gracchio insieme ai corvi. Atterriamo su un albero, straziando
l’aria con le nostre grida acute, stridenti, malauguranti.

La lastra di ghiaccio affonda, l’acqua sale, le arriva ormai alle


ginocchia. Poi Rebecka sente la lastra che si spezza. Un attimo
dopo è immersa nell’acqua gelida.
Neve e ghiaccio la ricoprono. Annaspa in cerca del bordo, di
qualcosa a cui afferrarsi. Sente Hjalmar che la chiama, che grida
di essere rimasto bloccato nella neve.

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Il ghiaccio è spesso almeno mezzo metro, ma è friabile,
continua a cedere. È immersa in una zuppa di ghiaccio e neve.
Quando cerca di aggrapparsi al bordo, le si spezza tra le dita e le
cade addosso in grossi blocchi.
Tintin corre fino a lei.
Hjalmar non riesce a vedere Rebecka, il ghiaccio è troppo
spesso, ma vede il cane.
“Il cane!” grida. “Sta venendo da te!”
Poi lo vede precipitare nel buco, la lastra non ha retto.
Hjalmar sente Rebecka gridare: “Cazzo!”
Il cane ulula come un pazzo, poi si zittisce di colpo: sta
impegnando tutte le sue energie per cercare di sopravvivere.
Nuota freneticamente e raspa il ghiaccio in preda al panico, ma il
ghiaccio continua a sbriciolarsi.
Rebecka annaspa con un braccio cercando di aggrapparsi al
bordo, mentre con l’altra mano tiene stretta la pelliccia di Tintin.
La corrente è forte, sente che le trascina le gambe sotto il
ghiaccio. Il freddo le risucchia le energie.
Fa ricorso a tutte le forze che ha, dà alcune sgambate
nell’acqua e contemporaneamente solleva Tintin per la pelliccia
con una mano e le spinge il sedere con l’altra.
E Tintin riesce ad arrampicarsi sul ghiaccio, che questa volta
la regge.
“Chiama il cane!” urla Rebecka a Hjalmar. “Chiamala!”
Hjalmar fa come gli dice. “Qui, bella! Sì, vieni qui. Braaava!”
E Tintin obbedisce. Nell’ultimo tratto barcolla per la fatica,
poi sprofonda accanto a lui.
“Ce l’hai?” chiede Rebecka.
Ormai ha le gambe stese davanti a sé, sotto il ghiaccio.
Sembra quasi che ci sia qualcuno che la tira per i piedi.

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“Ce l’hai?”
E Hjalmar risponde con la voce piena di pianto: “Ce l’ho, è
qui con me.”
“Non lasciarla andare!” grida ancora Rebecka.
“La tengo per il collare” risponde. “Non la mollo.”
Adesso non può più rispondergli, deve cercare di opporre
resistenza con tutte le sue forze.
Annaspa inutilmente con le mani mentre la corrente le spinge
i fianchi contro il bordo, ormai è quasi sdraiata sulla schiena, sta
per essere risucchiata. Le cade della neve sul viso, se la toglie con
un braccio e solo allora si rende conto di quanto faccia freddo in
acqua.
Non ce la fa più, ormai ha le spalle sott’acqua. La corrente la
trascina via.
Poi Hjalmar si mette a cantare.

Hjalmar afferra Tintin per il collare, in una morsa d’acciaio. Il


cane trema di freddo.
Cerca di nuovo di uscire dalla neve, ma è impossibile.
Rebecka grida chiedendogli se ha il cane, lui risponde di sì.
Lo tiene stretto e pensa che ce l’ha. In quel momento è
l’unica cosa che ha. Il fatto che il cane sia vivo, che sopravviverà.
Tintin si mette a guaire, sembra quasi che pianga, poi si sdraia
nella neve.
Allora anche Hjalmar si mette a piangere. Piange per Wilma,
per Rebecka. Piange per Tore e per Hjörleifur. Per se stesso. Per
tutto quel grasso bloccato nella neve.
E poi si mette a cantare.
La sua voce intona un inno quasi di sua iniziativa, all’inizio
rauca e incerta, poi sempre più forte.

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“Come sorgente divina, ricca e possente, grande e profonda,
son l’amore, la grazia e la verità che sgorgan dal cuore di
Gesù.”
Sono passati molti anni dall’ultima volta che ha sentito
quell’inno, ma le parole gli salgono alle labbra senza la minima
esitazione.
“Le porte di perla del Paradiso ha aperto per me. Col suo
sangue mi ha salvato e fatto suo.”

Il sole primaverile riscalda la neve di un bianco sfavillante


che ricopre il ghiaccio. Non c’è anima viva per chilometri e
chilometri, a parte Rebecka nel fiume e Hjalmar nella neve.
Ombre azzurrine segnano la pista delle motoslitte e le orme
lasciate quel giorno da uomini e cani.
Rebecka è in acqua, il corpo sotto il ghiaccio. Vede le cime
degli alberi al limitare del bosco sull’altra riva. Non è riuscita ad
arrivarci.
Gli abeti hanno i tronchi neri e sono pieni di pigne. Le
betulle sono tenere e sottili. Nel sud della Svezia in questo
periodo iniziano a fiorire le piante. Magnolie e ciliegi, sottili
come signorine eleganti nei parchi. Quassù le betulle sono sì
sottili, ma non sembrano affatto delle signorine. Nodose e curve
come vecchie finlandesi, spiano l’arrivo della primavera.
Non era poi così lontano, si dice fiaccamente guardando gli
alberi. Avrei dovuto continuare a correre. Non avrei dovuto
fermarmi. È stato stupido.
Hjalmar canta come un folle sulla riva. Ma non ha una brutta
voce. “Miracolo dei miracoli, tutto mi ha perdonato. Della sua
meravigliosa bontà ora canto le lodi.” Quando attacca il
ritornello sembra quasi che i corvi vogliano unirsi al coro, tanto

284
gracchiano sugli alberi.
Poi Rebecka viene presa dal panico quando sente l’acqua
sulla bocca, sul naso.
Un attimo dopo è sotto il ghiaccio. La superficie inferiore è
ruvida e irregolare. Scivola inerme lungo la corrente nell’acqua
nera. Rotola, picchia la nuca contro il ghiaccio, o forse una
pietra, non lo sa. È tutto nero.

Anna-Maria Mella, Sven-Erik Stålnacke, Fred Olsson e


Tommy Rantakyrö scendono dalla Ford Escori accanto alle
macchine di Hjalmar e Rebecka.
“Ho una brutta sensazione” dice Sven-Erik guardando verso il
bosco, dove un sottile filo di fumo si alza verso il cielo da uno
dei capanni.
“Anch’io” conferma Anna-Maria con voce seria.
É armata, i colleghi anche.
Poi sentono qualcuno che grida, un suono spaventoso che
fende il silenzio, un urlo che non vuole fermarsi. Inumano.
I poliziotti si guardano. Nessuno riesce a dire una parola.
Poi si sente una voce maschile: “Zitta! Piantala di gridare!”
Il resto non lo sentono, perché stanno già correndo lungo la
pista delle motoslitte. Tommy Rantakyrö, il più giovane, è davanti
a tutti.

Rebecka scivola sotto il ghiaccio. Niente aria. Raspa


inutilmente con le mani.
Il freddo le fa scoppiare la testa. I polmoni le esplodono.
Poi va a sbattere contemporaneamente con le ginocchia e la
schiena. È bloccata, a quattro zampe. La corrente l’ha spinta fino
alla riva. È in ginocchio sulle pietre gelide e ha il ghiaccio sopra

285
la schiena.
Risale più che può, poi spinge con le gambe con tutte le sue
forze.
E il ghiaccio sopra di lei cede, evidentemente vicino alla riva
era fragile e sottile. Si alza di colpo attraverso il ghiaccio. I
polmoni risucchiano l’aria, poi si mette a urlare, senza fermarsi.

Hjalmar smette di colpo di cantare e guarda sconvolto


Rebecka che urla a perdifiato: è spuntata improvvisamente dal
ghiaccio come lo stelo di una pianta.
“Zitta!” le grida alla fine. “Piantala di gridare! Vieni a
prendere il cane!”
Tintin è sdraiata esanime al suo fianco.
Allora Rebecka si mette a piangere. Risale la riva sguazzando
nell’acqua e nel ghiaccio e piange rumorosamente. Hjalmar
invece si mette a ridere, ride fino ad avere mal di pancia. Sono
anni che non ride, al massimo qualche volta guardando la
televisione, ma adesso non riesce quasi a respirare.
Rebecka torna al capanno a prendere una pala. Lungo la
strada vomita due volte.

Quando Anna-Maria Mella e i suoi colleghi arrivano al


capanno, vedono Rebecka e Hjalmar Krekula giù in riva al fiume.
Hjalmar è affondato nella neve, spunta solo il torace. Rebecka sta
spalando attorno a lui. Ha i vestiti e i capelli bagnati, il cappotto
è gettato a terra. Perde sangue da una ferita alla testa. Le
sanguinano anche le mani, ma sembra non accorgersene, continua
a spalare con ostinata frenesia. Hjalmar ha ripreso ha cantare.
Adesso è arrivato a: “Col suo sangue, col suo sangue ha lavato i
miei peccati, alleluia.” Vola neve da tutte le parti.

286
I poliziotti si avvicinano con circospezione. Tommy
Rantakyrö e Fred Olsson mettono via le pistole.
“Cos’è successo?” chiede Anna-Maria.
Ma né Hjalmar né Rebecka rispondono.
Hjalmar tiene stretta Tintin e canta. Anche Tintin è bagnata. È
sdraiata sulla neve, ma solleva leggermente la testa e agita
debolmente la coda.
“Rebecka” dice Anna-Maria. “Rebecka.”
Non ottenendo risposta, si avvicina e afferra la pala.
“Devi entrare nel capanno…” inizia, ma non riesce ad andare
oltre.
Rebecka le strappa di mano la pala e gliela dà in testa. Poi la
lascia andare e cade all’indietro nella neve.

Rebecka Martinsson è seduta su una sedia nel capanno di


Hjalmar Krekula. Qualcuno le ha tolto tutti i vestiti e l’ha avvolta
in una coperta. Il fuoco brucia allegro nella stufa. Ha una giacca
della polizia sulle spalle, tutto il suo corpo vibra per il freddo.
Salta praticamente sulla sedia, con i denti che battono. Le fanno
male le mani e i piedi, le cosce e il sedere. In testa ha un mulino
che macina.
Ha davanti a sé una tazza d’acqua calda. Anche Sven- Erik
Stålnacke è seduto al tavolo della cucina. Ogni tanto le preme
delicatamente un asciugamano bagnato sulle mani sbucciate,
sulla testa, sul viso.
“Bevi” le dice in tono incoraggiante.
Lei vorrebbe farlo, ma non osa. Sente che vomiterebbe subito
tutto.
“Tintin?” bisbiglia.
“Krister è venuto a prenderla.”

287
“Tutto bene?”
“É tutto a posto. Adesso bevi.”
Anna-Maria Mella entra con il telefono in una mano. Con
l’altra si preme una palla di neve sulla fronte.
“Come va?” chiede.
“Bene, bene” risponde Sven-Erik. “Tutto tranquillo.”
“Ho Måns al telefono” dice Anna-Maria. “Riesci a parlare?
Te la senti?”
Rebecka annuisce e tende la mano per prendere il telefono,
ma le cade a terra. Anna-Maria deve tenerglielo all’orecchio.
“Sì?” gracchia.
“Faresti qualsiasi cosa per attirare l’attenzione” dice Måns.
“Già” risponde lei con una risata che si trasforma in un colpo
di tosse. “Sono pronta a tutto.”
Poi Måns assume un tono serio.
“Mi hanno detto che ti hanno trovata in un fiume ghiacciato.
Che sei finita sotto il ghiaccio e poi sei saltata fuori.”
“Già” conferma lei con la voce rauca a forza di gridare.
“Credo di avere un aspetto orribile.”
Silenzio all’altro capo del filo. Le sembra che Måns stia
piangendo.
“Vieni” implora. “Vieni da me, amore mio, e tienimi stretta.”
“Sì” risponde lui con voce impastata, e si raschia la gola.
“Sono su un taxi per Arlanda.”
Rebecka chiude la telefonata.
“Noi ce ne andiamo” dice Anna-Maria a Sven-Erik.
“Dobbiamo registrare la confessione di Hjalmar Krekula.”
“Lui dov’è?” chiede Rebecka.
“É seduto fuori sulla scala. Abbiamo dovuto farlo riposare un
po’.”

288
“Aspetta.”
Rebecka si mette a quattro zampe sul pavimento. Le fa male
tutto, deve muoversi piano. Sposta il pezzotto, solleva il linoleum
e l’asse schiodata e tira fuori il pacchetto di tela cerata con i libri
di matematica e il diploma.
“Cos’è?” chiede Anna-Maria.
Rebecka non risponde. Esce con il pacchetto in mano.
“Cos’è?” chiede di nuovo Anna-Maria in tono irritato, ma si
ferma quando vede lo sguardo di Sven-Erik.
Lasciala stare, dicono i suoi occhi.
Rebecka barcolla verso la scala dov’è seduto Hjalmar.
Fred Olsson e Tommy Rantakyrö sono lì accanto. Deposita il
pacchetto sulle ginocchia di Hjalmar.
“Grazie” dice lui. E si rende conto in quel momento che sono
molti, molti anni che non usava quella parola.
“Grazie” ripete. “Sei gentile, sai.”
Dà un colpetto con la mano sul pacchetto.
Rebecka torna dentro. Tommy Rantakyrö le mette una mano
sotto il gomito a sostenerla.
Anni si è addormentata sul divano buono nella stanza grande.
È un catafalco di pelle bianca, non particolarmente bello e troppo
ingombrante per quel locale. Sullo schienale sono posate alcune
tovagliette all’uncinetto, come protezione nel caso che qualcuno
abbia i capelli sporchi o con troppa brillantina.
Mi siedo in poltrona a guardarla. Non venivamo mai qui
dentro, mi fa un’impressione strana. Ci sedevamo sempre in
cucina a parlare. E quando ero viva, il televisore era nel piccolo
disimpegno al piano di sopra. La stanza grande veniva usata solo
per le occasioni importanti, funerali o battesimi. Per esempio,
quando veniva il prete gli si offriva lì il caffè in tazze di

289
porcellana.
É sera, il sole si è abbassato. La luce nella stanza è calda e
sonnolenta.
Quando sono morta Anni ha chiesto a Hjalmar di portarle giù
il televisore, e adesso si sdraia spesso qui a fare un riposino.
Immagino che non ce la faccia più a salire le scale. Si è stesa un
plaid sulle gambe. È uno di quelli buoni, prima era sempre
accuratamente ripiegato sul bracciolo. Non dovrebbe essere
usato, infatti Anni non ha avuto cuore di aprirlo completamente e
se l’è posato sulle gambe piegato in due. Se potessi, glielo
stenderei sopra per bene. Anni pazzerella, cosa c’è da conservare,
ormai?
Mi guardo attorno. É tutto così ordinato qui dentro, ma non
si sente molto l’impronta di Anni. Qui ha raccolto tutte le sue
cose più belle: la libreria di legno scuro con i libri, non molti, in
file regolari, alcuni soprammobili a buon mercato, un cigno di
vetro cavo con un liquido rosso all’interno che dovrebbe salire di
livello con l’alta pressione, un piatto dipinto di Tenerife, regalo
di qualcuno perché Anni non c’è mai stata. Le fotografie dei
parenti nelle cornici spolverate con cura. Ce n’è una mia di
quando ero piccola, con un aspetto assurdo: ho i capelli appena
lavati, incollati alla fronte. Ricordo quel vestito, le cuciture mi
sfregavano contro la pelle e il cavallo della calzamaglia mi
arrivava a metà coscia. Come hanno fatto a infilarmelo? Devono
avermi drogata.
Anni è così piccola sotto il maglione di lana e i due golf.
Poco più che pelle e ossa. Ma respira. E adesso le tremolano le
palpebre, le mani e le gambe iniziano a sussultare, come quelle di
un cane che dorme. Ha un livido sulla guancia, dove Kerttu l’ha
colpita.

290
Sono seduta sulla sua poltrona buona e cerco di ricordare se
le ho mai detto quanto fosse importante per me. Vorrei
ringraziarla per avermi amata senza condizioni. E per non essermi
mai stata addosso, potevo andare e venire come un gatto, lei era
sempre a casa a riscaldarmi un po’ di minestra o a imburrarmi del
pane se avevo fame. La mamma diceva che mi viziava. Ed era
vero. Voglio ringraziarla anche per questo. La mamma era così
diversa, con tutte le sue emozioni. Drammi, pianti, urla e
imprecazioni un attimo, lacrime agli occhi, sensi di colpa e sete
d’affetto l’attimo successivo. “Perdonami, piccola mia, sei la cosa
migliore che mi sia mai capitata, perdonami.” Alla fine ero
diventata un’adolescente fredda come il ghiaccio. “Dammi un
sacchetto, devo vomitare” mi limitavo a dire quando diventava
così piagnucolosa. Anni aveva detto: “Certo che può vivere qui,
se ha bisogno di staccare per un po’. Così può iniziare a studiare
un po’ di matematica.” La mamma credeva che sarei impazzita, in
paese. “A me faceva quell’effetto” aveva detto. Ma si sbagliava.
Sono seduta sulla poltrona buona di Anni e penso che le
volevo bene. Non gliel’ho mai detto, forse perché sono allergica
alle esternazioni d’affetto, la mamma me l’avrà ripetuto mille
volte ma lei è un uccellino con il becco spalancato. Però avrei
dovuto dirglielo. Tutte le volte che si sedeva sul divano con le
gambe sollevate e cercava di massaggiarsi i piedi, avrei dovuto
farglielo io. Avrei dovuto spazzolarle i capelli. Avrei dovuto
aiutarla a fare le scale la sera. Invece non capivo niente. Restavo
sdraiata sul mio letto ad ascoltare musica.
Devo guardarla più da vicino. La stanza è in penombra e non
riesco a vedere se il suo petto si solleva. Non è un po’ troppo
ferma?
Sei qui? Una voce dalla porta della cucina. Quando mi volto

291
la vedo sulla soglia.
É proprio lei, anche se non assomiglia alla Anni sdraiata sul
divano.
No. Sorride intuendo la mia domanda. Sto solo dormendo.
Ho ancora altri sedici anni da vivere. Ma adesso è ora che tu
vada, no?
Sì, risponde qualcosa dentro di me. E di colpo siamo sulla
riva del fiume. É estate. La spiaggia sulla riva opposta non
sembra affatto quella del lago di Piilijärvi, ma la barca è quella di
Anni. E il suo vecchio barchino a remi, quello che le ha costruito
suo cugino secoli prima. L’acqua sciaborda contro lo scafo, c’è
odore di pece. Il sole forma come dei cucchiaini luccicanti nelle
increspature dell’acqua. Le zanzare cantano i loro monotoni
salmi estivi, Anni molla gli ormeggi e regge la barca mentre io
salto a bordo e sistemo i remi negli scalmi.
Anni spinge la barca al largo e salta dentro anche lei. Inizio a
remare.
Mentre remo vedo Hjalmar. Sta cantando nella cappella del
carcere, insieme ad altri sette detenuti. Il pastore del carcere è un
uomo dai capelli radi, sulla quarantina. È piuttosto bravo con la
chitarra. Stanno cantando a gran voce “hai ancora una fede da
bambino” fino a far tremare le tristi pareti della cappella. Il
pastore è particolarmente soddisfatto di Hjalmar. È grande e
grosso e ispira rispetto, e dato che tutti vogliono andare
d’accordo con lui c’è più gente che partecipa alle funzioni del
mercoledì. E il pastore può mostrare i risultati del suo lavoro
all’intera comunità, e tutti sono contenti. Perché è bello quando
quegli uomini dal passato criminale ottengono il permesso di
partecipare alla messa della domenica nella chiesa evangelica e
testimoniano la loro fede in Gesù. Raccontano volentieri delle

292
loro vite peccaminose prima della conversione, e la
congregazione è tutta un fremito.
Il più felice di tutti è Hjalmar. Nella sua cella ci sono dei
nuovi libri di matematica.
Le sue guance carnose sono arrossate. Gli piace cantare, ci dà
dentro con “una fede da bambino è un ponte dorato per il
paradiso“.
Gli piace scherzare dicendo che di sicuro lui non chiederà
mai la grazia.
Continuo a remare. Due corvi si avvicinano volteggiando
sopra le cime dei pini, volano in cerchio sopra le nostre teste.
Lancio un’occhiata verso l’alto, verso le lunghe remiganti nere, le
code a forma di cuneo. Li sento battere le ali, poi atterrano sulla
barca, con naturalezza, come se avessero prenotato un posto. Non
mi sorprenderei se tirassero fuori ciascuno la sua piccola valigia
da sotto le ali. Il loro piumaggio ha riflessi d’arcobaleno sotto il
sole, hanno becchi così pieni di forza, neri e arcuati, con quei
baffetti alla base, e spessi collari di piume. Uno dei due cerca di
beccare un tafano che ci ha seguite sul lago.
Parlottano tra loro con suoni arrotati, sembra quasi che
dicano korv, korv, korv. Ma poi uno fa un suono chioccio e l’altro
sembra scoppiare a ridere. Non so proprio cosa pensare di questi
uccelli.
Remo. Lascio che la pala vada a fondo e poi spingo. Mi piace
sentire di nuovo il mio corpo. Il sudore che mi cola lungo la
schiena. Il legno del remo, liscio per l’uso, nelle mie mani.
Quella sensazione nei muscoli della schiena e delle braccia a
ogni vogata, lo sforzo, la stanchezza, la ripresa.
Adesso ce la fai da sola, dice Anni alzandosi. Devo tornare.
Loro ti faranno compagnia ancora per un po’. Guarda gli uccelli

293
che chiocciano e gracchiano in risposta.
Poi non c’è più. I corvi mi osservano con i loro occhi simili a
bottoni di vetro nero. Non mi resta che continuare a remare.
Il sole scalda. I corvi aprono il becco, ma adesso sono
silenziosi. Provo solo felicità, una gioia che mi sale dentro come
la linfa nel tronco di una betulla.
I corvi prendono il volo con un verso, vanno nella direzione
da cui sono venuta, con energici colpi d’ala. Spariscono nel cielo.
Remo. Sono forte e invincibile come un alce e remo. Faccio
leva con i piedi, spingo l’acqua in lunghe vogate.
Sto arrivando, penso con un senso di felicità. Sto arrivando.

294
Domenica 3 maggio

Il fine settimana è agli sgoccioli. Il pallido sole della sera


entra di lato nella cucina di Rebecka a Kurravaara.
Måns la guarda. Sente una nostalgia fortissima, anche se è
seduta a un metro e mezzo di distanza da lui. I capelli lisci e
scuri. Gli occhi con un alone grigio scuro attorno all’iride. L’ha
tenuta stretta, ha fatto l’amore con lei, ma con delicatezza, è tutta
coperta di lividi. Sta ancora male, le gira la testa ed è molto
stanca per la commozione cerebrale.
Guarda la cicatrice che ha sopra il labbro. Gli piace. Gli piace
soprattutto la cicatrice, quello che ha di brutto. Viene invaso da
una tenerezza simile a quella che ha provato la prima volta che ha
tenuto in braccio sua figlia.
“Come ti senti?” chiede versandole un bicchiere di vino.
Rebecka legge l’etichetta. Decisamente troppo caro, sprecato
per lei.
“Bene” risponde.
Non prova niente riguardo a quel che è successo. Non pensa
niente. Com’è stato finire a mollo nel fiume ghiacciato? Essere
trascinata sotto il ghiaccio? Terribile, è ovvio. Ma è finita.
Percepisce la preoccupazione di Måns.
Sa che ha paura che stia di nuovo male. Le parla con una voce
delicata, troppo delicata.
C’è qualcosa che si frappone tra loro. Ha desiderato tanto che
venisse ad abbracciarla, ma adesso che è lì si nasconde nella

295
stanchezza e nei lividi.
E non riesce a non pensare a una cosa: quando Tore è arrivato
sulla motoslitta e lei ha creduto che fosse finita, quando stava per
affogare sotto il ghiaccio, non ha pensato a Måns nemmeno una
volta. Ha pensato alla nonna e a suo padre. Ma non a Måns. Di
lui si è ricordata solo quando Anna-Maria le ha passato il
telefono.

Si sente una macchina entrare in cortile. Rebecka va alla


finestra della cucina: è Krister Eriksson. Scende e va verso la
porta restando curiosamente chino in avanti. Rebecka bussa alla
finestra per attirare la sua attenzione e gli fa cenno di salire.
Dopo un attimo è sulla porta della cucina. Måns si alza in
piedi.
“Scusate” dice Krister. “Non sapevo che avessi… Avrei
dovuto telefonare…”
“No, no” lo rassicura Rebecka.
Presenta i due uomini. Måns tende la mano.
“Un attimo” dice Krister Eriksson. “Devo solo…”
Apre la cerniera del giaccone. Sotto c’è un cucciolo.
Minuscolo, con il naso a patata. Si è addormentato al tepore del
corpo di Krister, ma quando il giaccone si apre sbuffa e agita le
zampe nel sonno.
“Se lo tieni un attimo, possiamo salutarci” dice a Rebecka
porgendoglielo. Poi ride al vedere la sua espressione estasiata.
Il cucciolo si sveglia. É ancora cieco, così piccolo da stare in
una mano.
“Oddio” bisbiglia Rebecka.
É così morbido, caldo e inerme. Sa di cucciolo.
Vera si avvicina agitando la coda.

296
“Tu lo saluterai un’altra volta” le dice Rebecka.
“É di Tintin?” chiede poi mentre Måns e Krister si stringono
la mano. Måns si raddrizza e tira in dentro la pancia. Osserva
incuriosito il viso di Krister, ma è attento a non fissarlo troppo.
“Sì” risponde Krister. “Sono nati un po’ troppo presto, ma è
andato tutto bene. É tuo, se lo vuoi.”
“Non dirai sul serio” risponde lei. “Il cucciolo di Tintin, varrà
almeno…”
“Ho sentito quello che hai fatto” dice Krister Eriksson
guardandola negli occhi.
Non gliene frega niente se c’è lì il suo uomo. Potrebbero
anche esserci tutti gli uomini del mondo. La guarda negli occhi, a
lungo. <
E lei guarda lui.
“Non puoi assolutamente avere un cane” dice Måns. “Hai
detto tu stessa che non sai cosa fare di Vera. Lavori troppo. E
quando ti trasferirai a Stoccolma? Lo sai che i cani non possono
stare in città.”
Afferra scherzosamente ma con decisione Rebecka per il
collo. Il gesto è rivolto a Krister, significa: è mia.
Poi gli chiede se vuole un bicchiere di vino. Krister risponde
che deve guidare. Rebecka sposta lo sguardo sul cucciolo.
“Com’è andata con Kerttu Krekula?” chiede Krister.
“L’interrogatorio non ha dato risultati” mormora Rebecka con
le labbra e il naso premuti contro il cucciolo. “Dice che lei e Tore
hanno cercato di fermare Hjalmar. L’abbiamo rilasciata. Non ci
sono prove a parte il racconto del figlio, non basta per
incriminarla.”
Krister chiude un attimo gli occhi. Si immagina Kerttu isolata
in paese, con Isak come unica compagnia.

297
“Ha avuto una possibilità” dice. “Ma si è condannata da sola
a una pena più severa di quella che le avrebbe assegnato la
società.”
“Devo andare” aggiunge poi. “Non posso tenerlo lontano
dalla mamma troppo a lungo. Tintin è a casa con gli altri tre.”
Lascia vagare lo sguardo su Rebecka un altro po’.
“Non devi decidere adesso” dice. “Pensaci su. Diventerà un
bel cane.”
“Credi che non lo sappia?” risponde Rebecka. “Non so cosa
dire.”
“Grazie?” suggerisce lui con un sorriso.
“Grazie” dice lei ricambiando il sorriso.
Quando gli restituisce il cane, le loro mani si sfiorano. Måns
si schiarisce la voce, impaziente.

Krister Eriksson porta giù il cucciolo tenendolo sotto il


giaccone. Fa le scale reggendosi al corrimano, non vuole cadere
con quell’affanno in braccio.
Si siede in macchina, posa il cucciolo avvolto nel giaccone
sul sedile a fianco.
Poi mette in moto. Stringe le labbra. Guarda il cucciolo che si
è riaddormentato, pensa alla stretta di Måns Wenngren sul collo
di Rebecka. Li immagina che si baciano, sente lui che le dice: ha
sicuramente una cotta per te, quel poliziotto.
Quando torna a casa, restituisce il cucciolo a Tintin, che lo
lecca accuratamente.
Poi le accarezza la testa. Si è sdraiata su un fianco per lasciar
poppare il piccolo e i fratelli. Le veneziane sono abbassate, c’è
buio nella stanza anche se fuori la sera è chiara.
“Cosa speravo?” si chiede. “Che mi gettasse le braccia al

298
collo?”
Pensa a quando era immersa nell’acqua gelata, e poi ha tirato
fuori il suo cane. A come è sparita sotto il ghiaccio. Cerca di
pensare che l’amore è dare, non ricevere. Dovrebbe bastargli
essere uno che dà. Amare senza pretendere niente in cambio. Ma
non ci riesce. Vuole averla. E la vuole tutta per sé.
“Credo di essermi innamorato di lei” dice a Tintin. “Come
cazzo è successo?”

299
Ringraziamenti

In tutti i miei libri i morti si manifestano. Ah, come spero che


questa vita non sia l’unica che ci è data, anche se è già
abbastanza.
Molte cose di questa storia sono vere. Per esempio, l’esercito
tedesco aveva dei grandi depositi a Luleå, le ferrovie svedesi non
trasportavano solo militari in licenza, l’esercito tedesco
noleggiava camion e autisti svedesi per i trasporti verso il fronte
orientale, molte navi tedesche non sono mai state registrate nel
porto di Luleå. Anche Walther Zindel è esistito davvero.
Ma molte altre sono mie invenzioni. Ho fatto quel che faccio
sempre quando scrivo le mie storie, ho preso in prestito eventi,
persone, luoghi, esperienze personali o cose che ho sentito
raccontare, e li ho uniti a fatti inventati. Per esempio, una volta
due bambini si sono davvero persi nei boschi attorno a Piilijärvi,
e uno è davvero tornato a casa dopo una settimana. Ma non erano
fratelli, e non avevano litigato: il più piccolo si era stancato e il
più grande era andato a cercare aiuto. Quando ne ho sentito
parlare, la mia testa ha subito iniziato a ricamarci sopra una
storia.
Ovviamente mi sono documentata sulla guerra. Voglio citare
in particolare Slaget om Nordkalotten di Lars Gyllenhaal e James
F. Gebhardt, Spelaren Christian Günther di Henrik Arnstad,
Svenskarna som stred för Hitler e Dar jàrnkorsen vàxer di Bosse
Schön.
Molte persone mi hanno dato una mano, e voglio citarne

300
alcune: il primario Lennart Edström, che mi aiuta a cercare di
capire cosa succede nelle persone che oltrepassano il confine, il
primario Jan Lindberg, che mi aiuta con i miei cadaveri, la
professoressa Marie Alien, che sa spiegare il patrimonio genetico
dell’acqua in modo che perfino io riesco quasi a capirlo, il
procuratore Cecilia Bergman, il sommozzatore Pelle Hansson,
Jan Viinikainen dell’archivio municipale e l’appassionato di
aeroplani Göran Guné. Grazie a tutti. Se c’è qualche errore, non è
per colpa vostra.
Un grazie particolare anche alla mia editor Rachel Åkerstedt
e alla mia editrice Eva Bonnier che offrono incoraggiamento e
resistenza nelle giuste dosi e al momento giusto. A tutte le
fantastiche persone della casa editrice che lavorano a vario titolo
sui miei libri. Agli abili e simpatici agenti della Bonnier Group
Agency. A Elisabeth Ohlson Wallin e John Eyre per la copertina
originale.
Grazie a mia madre per il suo eterno: continua a scrivere,
voglio sapere come va a finire, ho pensato a Hjalmar tutta la
settimana. Grazie per la tua pazienza quando sono di cattivo
umore. Grazie a papà e a Mona, che leggono, controllano i dati su
Kiruna, mi aiutano con il dialetto finlandese del Tornedal e mille
altre cose. Grazie a Perra Winberg e a Lena Andersson e a
Thomas Karlsén Andersson.
La vita è assolutamente imprevedibile, ma è bella. Grazie, Per.
Questo libro è quasi come il nostro terzo figlio. Ci sono mille
belle parole che vorrei dire, ma le sai già. Grazie a Christer, per
l’amore e per avermi sopportata quando c’era solo il libro, il
libro, il libro, e tutto il resto non era interessante.

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ÅSA LARSSON (1966) è cresciuta a Kiruna
Avvocato fiscalista, è autrice della fortunata serie poliziesca
che ha per protagonista il procuratore Rebecka Martinsson.
Una serie tradotta in venti Paesi che ha venduto nel mondo
più di due milioni e mezzo di copie, e di cui Marsilio ha già
pubblicato Tempesta solare, Il sangue versato, premiati entrambi
dall’Accademia svedese del Poliziesco, e Sentiero nero.

In copertina illustrazione di Fabio Visintin.


BiPi-Books

Stampato da
Grafica Veneta S.p.A Trebaseleghe (PD)

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Tavola dei Contenuti (TOC)
Frontespizio
Trama
FINCHÉ SARÀ PASSATA LA TUA IRA
Giovedì 16 aprile
Venerdì 17 aprile
Venerdì 24 aprile
Sabato 25 aprile
Domenica 26 aprile
Lunedì 27 aprile
Mercoledì 29 aprile
Giovedì 30 aprile
Domenica 3 maggio
Ringraziamenti
Tavola dei Contenuti (TOC)

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