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DINAMICHE DEMOGRAFICHE NELLA SICILIA MODERNA:

1505-1806
DI
DOMENICO LIGRESTI
Fornendo un complesso di dati, la storia della popolazione e la demografia storica sono da circa 50
anni campi praticati ed hanno costituito un punto di riferimento per la storiografia e per le altre
scienze della società e dell’uomo. Particolarmente fecondo è stato il rapporto con la storia
economica. In Sicilia il patrimonio documentario di natura demografica appare dal 500 in poi. Ma
la più importante fonte documentaria per la descrizione della popolazione siciliana è quella dei
“RIVELI GENERALI DI BENI E DI ANIME”. Dati ufficiali risalgono al 1505. I riveli fino al
1747 hanno prodotto i ristretti o riassunti, redatti prima dal Tribunale Real Patrimonio ed in
seguito dalla Deputazione del Regno, in cui si riassumevano le principali informazioni sulla
situazione demografica dei comuni; ed i volumi, conservati presso l’Archivio di Stato di Palermo, in
cui sono raccolte le dichiarazioni di capifamiglia, commenti sulla composizione della famiglia. Tali
documenti hanno rappresentato la base per la storia della popolazione siciliana, a partire da
Francesco Maggiore Perni, Beloch, Maurice Aymard e di Biagio Longhitano. Le uniche fonti
diffuse sono costituite dalle registrazioni parrocchiali di battesimi, matrimoni e delle sepolture.
Questi strumenti di controllo si imposero dopo il Concilio di Trento. Alla fine degli anni ’70 del
1900 la ricerca demografica era entrata a far parte della storiografia sulla Sicilia, e cominciò ad
essere praticata da studiosi accademici:
 Restifo incrocia dati demografici e serie dei prezzi per fornire una valutazione delle
conseguenze sociali della peste messinese del 1743
 D’Amico tratteggia i lineamenti della dinamica demografica di un’area siculo-calabrese
 Nicotra e Ligresti affrontano il tema della periodizzazione delle crisi del 600 e 700
L’ampliamento e la diffusione degli studi riguardò le singole comunità o aree ristrette. Nel 1616
l’incremento demografico è stato altissimo, le famiglie riprendono a moltiplicarsi. Nel 1623 è anche
il punto terminale di questa crescita, e costituisce il punto iniziale di un periodo complesso,
manifestandosi come secolare stagnazione. Per tre anni la peste si ripresenta percorrendo tutta la
Sicilia. La stagnazione del secondo ‘600 e primo ‘700 è causato dal terremoto del 1693, dalla guerra
di Messina del 1674-78 che incidono con la morte di molte vite umane e con l’interruzione dei
traffici e flussi commerciali. Negli anni 30 del ‘700 riprende la fase espansiva. La Sicilia vive e
cambia quotidianamente. In età moderna troviamo le tonnare, le saline, torri di avvistamento contro
la pirateria, piantagioni di canna e di trappeti per la produzione dello zucchero, la produzione
agrumicola determinerà un diffondersi di piccole aziende per la trasformazione e
commercializzazione del prodotto. Prima dell’Unità, la Sicilia ha conosciuto fasi di abbondanza e di
scarsità demografica.
 La ricerca di Francesco Benigno si vede per il tentativo di collegare tematiche diverse. Di
rilievo appare la scelta metodologica di trasferire l’attenzione del ricercatore dal paese
nuovo alla città vecchia
 Davies punta l’attenzione sugli aspetti patrimoniali e sul movimento dei redditi e degli
investimenti dell’economia familiare di quattro casate feudali o neo-feudali che si
caratterizzano per l’attività di fondazione di nuove comunità
 Il modello grano/seta fondato sull’analisi della gestione dei patrimoni feudali si colloca
sull’interpretazione fatta da Aymard-Verga che pone la spinta alla colonizzazione nel
calcolo economico teso alla massimizzazione della rendita
L’immagine di una Sicilia di feudatari e latifondi aveva finito con l’oscurare le altre sicilie: la
Sicilia dell’allevamento, dello zucchero, della vite e del vino, dell’agrume, delle attività marinare e
portuali, della pesca del tonno e della conservazione del pesce, della produzione del sale. È noto che
la feudalità siciliana è urbanizzata; essa risiede a Palermo ed in centri demaniali e feudali che
accolgono famiglia titolata e famiglie di rango minore. Signori, patrizi, imprenditori controllano a
Palermo il ciclo dello zucchero, a Noto e Corleone il settore tessile, a Trapani e Marsala la
produzione del sale e dei coralli, a Siracusa il mercato degli schiavi e le forniture di vino e
alimentari verso Malta. La comunità feudale ha: una personalità giuridica (l’università); un
patrimonio (il demanio); un bilancio autogestito (gabelle). L’aumento di uomini, donne e bambini
consente il formarsi di corpi artigianali specializzati e di strati borghesi, una strutturazione della
famiglia di tipo nucleare, possibilità di mobilità territoriale, l’apertura dell’economia familiare al
mercato, un ruolo della donna collegato alla vita della comunità e stimola la creazione di servizi e
strutture produttive. Il tipo prevalente di insediamento siciliano era quello urbano con numerosi
centri di grande ampiezza. Sino al 1623 il popolamento di nuove aree continua a crescere; nel 1623-
51 il decremento urbano è collegato all’aspetto amministrativo; tra il 1651 e 1714 la diminuzione ha
per fondamento le cause politico-militari ed in parte dipende dal crollo di Messina e dal terremoto.
La vicenda di Palermo e Messina va considerata insieme per motivi anche istituzionali. Palermo era
un porto commerciale attivo di esportazioni e importazioni, sede dei gruppi mercantili e finanziari
siciliani ed esteri; il gruppo dirigente messinese era nobilar-aristocratico. Nel ‘700 le posizioni si
staccano ma Palermo potrà godere solo per un secolo il raggiungimento del suo sogno di essere la
capitale del Regno, ma nel 1817 sarà il regno stesso a dissolversi. Palermo diventerà semplicemente
uno dei sette capoluoghi di provincia, al pari con Messina e Catania. Nel ‘600 l’elemento centrale è
costituito dalla crisi della demanialità, dalla perdita di influenza politica, di prestigio, di controllo
del territorio.
Nella prima metà del secolo il territorio di molti centri demaniali viene smembrato e ceduto ai
privati. Anche il ceto medio, gli enti ecclesiastici vengono coinvolti in questa operazione. Quasi
tutto il carico fiscale finiva con il ricadere sulle università, dove nobiltà cittadina, clero e
maggiorenti lo scaricano sui ceti bassi. Demanio e feudo sono termini che hanno avuto in Sicilia un
significato prestigioso nel linguaggio politico. Con “demanio”, “demaniale” si intendeva tutto ciò
che è regio, pubblico e gestito dallo Stato, cioè insieme di diritti, rendite, fisco, giurisdizioni e tutti
quei territori soggetti all’autorità regia. Mentre il feudo era quell’insieme di diritti, giurisdizioni e
territori, il cui possesso e la gestione erano stati delegati dai sovrani al ceto dei feudatari. Questi
conflitti si svolgono all’interno del ceto dominante. Il baronaggio siciliano non ha il completo
dominio dell’isola. Sottoposto alla giurisdizione dei tribunali regi può venire contestato e aggredito
dalle elités dei suoi centri. Solo nel 1812 il parlamento produrrà la costituzione e le leggi per abolire
il regime feudale. Durante il Medioevo il fenomeno della schiavitù, in Sicilia, fu consistente,
alimentato dalla riduzione della popolazione musulmana nella fase iniziale della conquista
normanna, e poi dalla tratta che portò nei mercati siciliani, in transito verso altri paesi. Registrati nei
riveli del ‘500 tra i beni mobili, gli schiavi rappresentarono una presenza modesta, concentrata
soprattutto nelle grandi città portuali, spesso sede di mercato, soprattutto a Siracusa. Tra la fine del
‘500 e il primo del ‘600 veniva meno la richiesta di schiavi in quanto controllata dai portoghesi,
olandesi, francesi e inglesi e di cui la tratta si volgeva al mercato delle indie occidentali. Nei riveli
del XVIII secolo scompaiono riferimenti agli schiavi, la cui permanenza si evince dai documenti
notarili, dai dipinti e dalle opere letterarie.
I tre antichi Valli (il Val di Mazzara, il Val di Noto e il Val Demone) presentano caratteri tali da
costituirli in subregioni. I tre Valli non avevano specifiche funzioni amministrative ma costituivano
una tripartizione tradizionale di cui l’amministrazione centrale si serviva per articolare il controllo
del territorio. Lungo la costa, in tutti i tre Valli si esercitava l’attività marinara, della pesca e della
produzione del sale. In età moderna si assiste a una serie di movimenti demografici che ribaltano i
processi precedenti, avvenuti tra il ‘200 ed il ‘500, in cui si era verificato un travaso da occidente a
oriente, a svantaggio del Val di Mazzara e a vantaggio del Val di Noto. Uno dei principali effetti
dello sviluppo demografico tra il 1505 ed il 1861 fu il riequilibrio territoriale in rapporto
territorio/abitanti. La Sicilia occidentale ebbe uno sviluppo demografico maggiore rispetto a quello
orientale; ciò a causa del fenomeno della colonizzazione interna tra il ‘600 e il ‘700. Le aree con più
continuità nella crescita demografica appaiono l’agrigentino, il nisseno, il catanese, il trapanese. La
popolazione provinciale di Messina aumenta sino al 1583, più lentamente sino al 1623, da cui inizia
un calo che diventa drammatico dal 1681 al 1747, seguito da una rapida ripresa sino al 1861. Nel
‘600 vi fu una crisi di relazione in confronto ad alcune aree europee che assunsero caratteri di
cambiamento qualitativo dei rapporti sociali e delle strutture economiche, ma considerando il
sistema della Sicilia non raggiunse in questo periodo il suo limite: riuscì a garantire il mantenimento
di una base produttiva differenziata e introdusse quei cambiamenti che servirono ad attivare una
nuova fase di sviluppo.
Il periodo 1623-1747 è quello in cui la provincia agrigentina si differenzia dalle altre, per la sua
crescita continua e regolare e per la colonizzazione interna. Ma nella seconda metà del ‘700
l’agrigentina è l’unica provincia a perdere popolazione, e nell’800 borbonico si porrà nella fascia
delle province con più basso sviluppo. Tra il 1747 e il 1861 essa registra il minor incremento dovuto
al rafforzamento dei centri urbani e delle aree litoranee. L’impulso commerciale è sostenuto ormai
dallo zolfo estratto in tutta l’area. In realtà già nel ‘700 le miniere di zolfo cominciavano ad essere
sfruttate tra Agrigento, Gela e Mazzarino.
Nei primi anni 50 del XVI secolo nell’ennese la popolazione aumentò. L’espansione demografica
continua nei 35 anni seguenti ma emergono in questa fase alcune differenziazioni importanti.
L’impronta urbana viene meno per due motivi: la diminuzione della popolazione con la perdita
demografica dei grandi centri e il sorgere di nuovi paesi. Tutte le città crollano: Nicosia,
Castrogiovanni, S. Filippo; viceversa alcuni nuovi piccoli centri rurali incrementano i loro abitanti.
Pur nella morsa di una crisi durissima, il contesto territoriale non rimane statico e non si limita ad
una semplice regressione, ma si modifica e si ristruttura, cercando una risposta al crollo delle
attività precedenti in un processo di ruralizzazione, di distribuzione della popolazione in piccoli
centri in grado di gestire e organizzare le emergenze annonarie. Tra tutte le comunità dell’ennese è
Agira a soffrire in maniera più acuta, sia dal punto di vista della perdita della popolazione sia per il
prolungamento della crisi ed il ritardo nel recupero.
L’area trapanese si sviluppa con regolarità nel ‘500. Utilizzando le sue aree granarie disponibili per
nuovi insediamenti, riesce a guadagnare popolazione anche nel 1651 e nel 1681, contraendosi
lievemente nel 1714, ma recuperando a discreto ritmo tra il 1714 e il 1806, e molto meglio nell’800
preunitario. L’equilibrio complessivo è il risultato di una favorevole articolazione e integrazione del
territorio, in cui le aree costiere e pianeggianti si sviluppano velocemente nel ’500 e nell’800, e
quelle granarie nel ‘600 e ‘700. I porti e gli approdi costieri volti verso la Spagna e l’Africa
costituiscono nel XVI secolo un importante complesso sia economico che militare. La crisi del ‘600
e le turbolenze dei traffici marittimi durante i conflitti di fine ‘600 e di inizio ‘700 si riflettono in un
depotenziamento economico e commerciale di queste aree; la ripresa economica, la produzione del
vino riavviano il meccanismo commerciale e le aree costiere nell’800 guadagnano di popolazione.
La provincia siracusana è all’inizio dell’età moderna tra quelle che hanno beneficiato dello sviluppo
della Sicilia orientale assieme al messinese. Si caratterizza per una rete insediativa abbastanza rada,
ma formato da città e cittadine popolose. Nel 1606 i tre comuni urbani si sono differenziati: Modica,
capitale dello stato e coinvolta nella costruzione di un apparato comitale sempre più ampio e più
complesso, ha triplicato i suoi abitanti; Scicli è pervenuta al raddoppio; Ragusa ha conseguito un
modesto incremento. Nel 1714 i tre centri ad insediamento urbano mostrano una situazione di
stagnazione e di decremento. I fattori esplicativi della dinamica demografica di quest’area sono
diversi. La natura feudale del potere non impedisce la dinamica tra un’area urbana predominante e
un’area rurale non cerealicola che avanza. Altra caratteristica del modicano è la diffusione
dell’enfiteusi. Nel corso dell’età moderna sembra che si sia messo in opera un processo di
integrazione e di specializzazione che equilibrò l’area cerealicola, diede impulso alla coltura
alternativa della vite; fu anche tentata la carta, purtroppo fallita, della grande produzione industriale
con la creazione di un’azienda saccarifera per l’esportazione, che per parecchi anni coinvolse molti
contadini per la produzione della canna, operai per il lavoro in fabbrica, mulattieri e carrettieri per i
trasporti. La crescita sarebbe stata notevole senza il terremoto del 1693, che distrusse Modica,
Ragusa e Scicli. Se la crisi del ‘600 fu non solo contenuta ma fronteggiata positivamente, al
contrario lo sviluppo del ‘700 fu molto limitato. Nell’800 borbonico la crescita si riallinea sui livelli
medi delle altre province.
L’area catanese è la seconda per ampiezza. Nel 1505 vi si contavano 18 università, le maggiori delle
quali comprendevano nel loro territorio amministrativo piccoli centri, casali. Il popolamento nel
‘500 e ‘600 avviene soprattutto con l’aumento della popolazione delle comunità già costituite, che
si espandono da piccoli villaggi a paesi e cittadine con migliaia di residenti. Il fenomeno appare con
chiarezza tra il 1636 e 1648, quando i casali delle città di Catania e di Acireale vengono venduti e
infeudati, cosicché acquisiscono l’autonomia amministrativa e vengono censiti singolarmente,
mentre all’interno degli stati feudali si realizza un processo di separazione e autonomia di alcuni
centri. Vino, seta, zucchero, legname, carbone, neve, prodotti dell’allevamento, pesce, sono
produzioni che necessitano di trasformazioni e manipolazioni e alimentano processi di
commercializzazione e di esportazione. La crisi del ‘600 ha anche qui caratteri e tempi suoi, che
sembrano superati presto se tra il 1651 e 1681 la popolazione provinciale continua a crescere. I
numeri dei censimenti dicono che tra il 1681 e 1714 la popolazione rimane sullo stesso livello; ma
si può anche sostenere che ha mostrato un accentuato dinamismo: ovviamente si parla del terremoto
e delle sue migliaia di vittime, alla totale distruzione di Catania e altri centri etnei. La crescita
settecentesca e ottocentesca non è una ripresa ma la continuazione di un trend che ha avuto inizio a
metà ‘600. Dal 1714 al 1861 la fascia montana continua a crescere
Anche per l’ampia provincia il ruolo della grande città, con la sua forza politica ed economico e le
sue funzioni istituzionali di controllo e di indirizzo, appare condizionante e determinante nella
dinamica demografica. Inizialmente il territorio è poco popolato. Nel 1548 Palermo è già diventata
una grande città, mentre il resto del territorio è cresciuto molto meno. Anche qui, come nel
messinese, inizia il processo di ripopolamento e di colonizzazione. La crescita continua fino al
1623: Palermo e la sua provincia raggiungono la popolazione massima in età spagnola, avendo
sfidato e superato i tempi durissimi delle crisi economiche, delle carestie e delle epidemie. La
dominazione spagnola lascia in eredità alla Sicilia una grande città capitale e la ritessitura di una
rete di insediamenti, ma un quadro di popolamento ancora fragile nel territorio della provincia.
Nella prima metà del ‘700 borbonico si ricreano le condizioni di un rapido sviluppo che coinvolge
sia Palermo che il territorio provinciale in tutte le sue articolazioni. Tra il 1505 ed il 1861 la
provincia palermitana non solo aumenta notevolmente la sua densità demografica ma ha realizzato
profondi processi di ristrutturazione e di ridistribuzione al suo interno. Dapprima è Palermo a
sostenere l’incremento demografico sino al 1623, poi si ha una fase di equilibrio tra il 1623 e il
1714, infine il territorio provinciale prende il sopravvento e ricostituisce i rapporti iniziali con il suo
capoluogo ma in una situazione mutata.
Se le dimensioni demografiche delle città portuali ci indicano che si tratta di centri attivi, operosi,
dinamici, non da meno è il mondo della montagna, con il suo popolamento sparso e variegato e con
le sue ricche e popolose città, centro di grandi fiere di bestiame, piazze commerciali e finanziarie.
Con un salto di tre secoli e mezzo, nel 1861 si trova una situazione profondamente diversa: nella
pianura la popolazione è aumentata, grazie allo sviluppo urbano di Palermo, Catania, Messina,
Trapani, Marsala e Siracusa.
COMUNITA’ SICILIANE IN ETA’ MODERNA
SAGGI
DI DOMENICO LIGRESTI
1. Il sistema del privilegio: la formazione dell’identità urbana e i processi di
autonomia dei ceti dirigenti locali nella Catania del ‘400
Catania è una comunità civica che si regge su regolamenti, statuti, forme di tassazione, rapporti con
il territorio e con le altre città. Il corpus dei privilegi che garantisce una comunità è il frutto della
forza politico-economico, del prestigio culturale, delle capacità militari. I privilegi se potevano
rafforzare le autorità e il prestigio di una comunità, poteva anche costituire una forma di intervento
e di pressione volta a indebolirne le capacità di resistenza e a creare fazioni e gruppi che avessero
per riferimento istituzioni politiche e religiose. Nel 1412 è dato dalla regina Bianca il privilegio
dello scrutinio (elezioni). Durante il regno di Alfonso si ebbero delle modifiche nel 1423, quando la
città ottiene una Tribunale di appello il cui giudice sarà eletto secondo la forma di elezione degli
altri ufficiali, e nel 1427; nel 1432 il sovrano interviene nella nomina dei giurati e concede
l’istituzione della Mastra, elenco degli abilitati a concorrere alle cariche amministrative. Con tale
atto si realizza la prima chiusura del sistema politico cittadino ed il suo affidamento a una ristretta
oligarchica.
Il parlamento siciliano aveva giurato Ferdinando re nel 1474, e da allora negli affari del Regno si
era avvertita la sua influenza. In Sicilia cercò di esercitare e di aumentare i suoi poteri avvalendosi
dell’apparato di un ceto, quello togato; fece dell’isola base finanziaria e militare per la conquista di
Napoli e per le spedizioni del nord-Africa; introdusse l’inquisizione spagnola e decretò l’espulsione
degli ebrei. Gli ultimi anni del regno di Giovanni erano turbolenti. Sul versante militare, squadre
tunisine percorrono il Mediterraneo catturando molte imbarcazioni siciliane.
Catania è città regia e le decisioni più importanti dell’amministrazione locale devono essere
approvate dalle autorità superiori. La forma del governo urbano e i criteri di scelta degli
amministratori sono stati oggetto tra il 1459 e il 1470 di numerosi capitoli che hanno avviato il
processo di monopolizzazione del potere locale da parte di una ristretta oligarchica. Il Consilium
generale è stato sostituito dal Consiglio dei sessanta. I populares nel 1470 riescono ad ottenere dal
re Giovanni l’emanazione di altri capitoli a favore del popolo ma la nobiltà continua a riproporre un
regime chiuso.
 I populares trovano un loro spazio politico-istituzionale
 Il quadro amministrativo della città è formato dal patrizio, dal giudice del patrizio, da 6
giurati, da 2 giudici della corte giuratoria, dal tesoriere, da 2 notai, da 2 riformatori dello
studio
 Il governo regio è rappresentato dal capitano di giustizia e dal suo giudice, cioè il castellano
 Il vescovato ha un suo corpo amministrativo e vanta sulla città e sul territorio giurisdizioni,
diritti fiscali e poteri di controllo
 Anche la piccola comunità ebraica si autogoverna con il proto ed i maggiorenti che vigilano
sull’osservanza della legge mosaica e svolgono funzioni fiscali e giudiziarie
I rapporti tra la città e il vescovo si erano aggravati nel ‘400 con l’assunzione di Giovanni Pesce e in
seguito ai privilegi di Alfonso. Il Pesce contestò ai cittadini l’esercizio degli usi civici nella Piana
dei comuni e mantenne i diritti di dogana sull’estrazione di prodotti dal porto. Alla fine del ‘300 e
nel corso del ‘400 altre usurpazioni del demanio comunale erano avvenute a favore delle famiglie
del patriziato catanese. Tali vicende sfociavano in tumulti. Ferdinando aveva nominato viceré
Ferdinando de Acuna. La scelta di Acuna appare equilibrata tanto da ottenere la prima conferma per
il successivo triennio luglio 1491 e la seconda nel 1494. Momenti salienti dei sei anni di vice-regno
dei d’Acuna furono costituiti dalla cacciata degli ebrei del 1492 e dalla riforma monetaria del 1500.
Sembra che tra lui e Catania si sia creato un rapporto di vicinanza; nominò sua erede universale la
moglie Donna Maria d’Avila, e tra le sue ultime volontà vi fu la costruzione di una cappella nella
cattedrale di S. Agata.
L’anno 1492 è scandito da eventi importanti; uno di questi è l’ordine di procedere all’espulsione
degli ebrei che non accettano di convertirsi al cattolicesimo. A Catania la comunità ebraica ha
convissuto con quella cristiana più di mille anni. Viveva dapprima separata con quella cristiana e
concentrata in un quartiere, chiamata la prima giudecca, formatasi nel V secolo. Nel ‘300 Federico
d’Aragona aveva decretato che i giudei abitassero separati dai cristiani, anche se i più ricchi erano
esenti dall’obbligo. Si formò così la seconda giudecca, abitata dal ceto più colto, con sinagoga,
ospedale, scuola, cimitero. Gli ebrei non possono possedere beni immobili né schiavi cristiani o
esercitare pubblici uffici, è vietato ai loro medici di curare cristiani. La gran parte appartiene al ceto
popolano e medio, è dedito all’agricoltura, alla pastorizia, al piccolo commercio, alla produzione e
tintura di stoffe alla lavorazione di vetri colorati e di oggetti di oreficeria, al prestito ad interesse. Il
decreto di espulsione giunge il 18 giugno 1492 con due proroghe sino al 1493 per consentire
l’espletamento delle formalità previste. Ammassati nei principali porti dell’isola, l’esodo ha tra i
punti di concentrazione anche Catania, dove iniziano le tristi operazioni di imbarco di centri del
vicino regno di Napoli. Tra gli ebrei pochi accettano la conversione, e quei pochi saranno nel futuro
oggetto di vigilanza dell’inquisizione spagnola e considerati sospetti solo in quanto convertiti.
L’intera cittadella della giudecca si spopola, il che rappresentava di per sé un danno economico.

2. Tra vendite e riscatti del Regio demanio di Sicilia in età spagnola: il


travagliato caso di Aci
Aci fu dichiarata nel 1398 città demaniale nel parlamento di Siracusa. Nel Regno di Sicilia vigeva
un’articolazione dei diritti sul territorio (proprietà, possesso, giurisdizioni) che si fondava sul
demanio regio controllato e gestito dal sovrano, dall’altro il feudo, consistente in quote di territorio
e giurisdizioni cedute dai sovrani in beneficio ai privati in cambio di beni e servizi da questi
prestati. Benché la feudalità fosse considerata fondante della regalità nella costituzione degli antichi
regni europei, i singoli feudi e feudatari erano soggetti alle leggi biologiche e politiche e potevano
decadere dal titolo. In tal caso il beneficio tornava nelle mani del re. Poteva accadere che il re
volesse gratificare un suo leale servitore o ricambiare un servizio o incassare una buona somma di
denaro cedendo in feudo un territorio demaniale. Con il termine feudo s’intendeva qualsiasi bene
demaniale concesso secondo il relativo diritto. I contenuti del feudo variarono nel corso del tempo:
prevalentemente militare nei primi secoli dopo l’impianto dei normanni, si trasforma e sempre più
nettamente in bene economico privilegiato, ed assume per le nuove nobiltà del ‘600 e ‘700 un
valore simbolico come riconoscimento di uno status appena conquistato.
Svuotato il feudo del suo ruolo militare, pochi erano i signori che vantavano un ascendente tale da
poter reclutare nelle loro terre una milizia fedele. I feudatari siciliani avevano ottenuto un vantaggio
e cioè quello di eliminare la devoluzione del feudo al demanio e acquisire di fatto una piena
proprietà del bene. Qui i feudatari furono padroni di allodi, con giurisdizione privilegiata e si
consideravano proprietari perpetui con diritto di far succedere maschi e femmine, ascendenti, di
comprare, vendere, affittare, donare i loro feudi. Nel ‘500 l’aspetto economico del feudo era
predominante: secondo i calcoli di Maurice Aymard la percentuale degli introiti delle rendite e dei
diritti feudali non superarono il 10-20%, mentre lo sfruttamento privatistico delle produzioni
rendeva il 90% degli introiti.
Nonostante il dettato del parlamento di Siracusa la terra di Aci fu data in feudo nel 1420 a Fernando
Velasquez Porrado. Il barone cercò in tutti i modi di aumentare la popolazione e di incrementare il
commercio. Si determinò un flusso di popolazione verso Aci; i catanesi non cessavano di protestare.
Intanto il Velasquez aveva intrapreso una verifica dei titoli di proprietà di tutti i beni ricaduti nel
suo territorio; quando il titolo di proprietà non era provato, procedeva alla confisca. Tra gli altri
diritti usurpati vi erano quelli sulle acque destinate alla macerazione del lino ed ai mulini. Nel 1439
la baronia passò nelle mani della famiglia catanese dei Platamone. L’affare entrò in un giro di
prestiti e contributi offerti al re Alfonso da Battista Platamone, il quale aveva goduto di una borsa di
studio per frequentare le università dell’Italia settentrionale; fu tra i maggiori operatori economici e
finanziari del suo tempo, finanziatore, consigliere e amico del re. Quando Alfonso conquistò il
regno di Napoli, il Platamone ne era uno dei componenti più stimati. La signoria dei Platamone
cessò nel 1462.
Le popolazioni delle città e dei centri demaniali non potevano sopportare l’idea di poter essere
assoggettate ad un potere baronale, ed i gruppi dirigenti urbani dovevano sostenere una lotta per
tenere sotto controllo le attività che si svolgevano nei feudi incardinati nel loro territorio, per
ottenere dai feudatari il pagamento dei donativi e delle gabelle cittadine.
Il XVI secolo fu caratterizzato da un forte rafforzamento dell’area urbana demaniale. Il ruolo
istituzionale, il controllo del territorio, la possibilità di ricavare ricche entrate dalle imposte, tasse,
dogane, la presenza di ceti dinamici nobiliari, patrizi e mercanti, costituiscono per le città il volano
di una ricchezza e di uno sviluppo che creano e richiamano popolazione dai loro territori portando a
fine secolo la popolazione siciliana ai livelli più alti di urbanizzazione in Europa. Ma nel primo
‘600, per il bisogno di finanziare le sue guerre e le sue imprese in tutto il mondo, la Spagna portò al
limite massimo la tassazione e nel triennio 1620-30 fu costretta a vendere tutto il demanio. I territori
e le giurisdizioni regi furono ceduti dal governo, determinando la nascita di nuovi comuni feudali e
una nuova gerarchia amministrativa. Si formeranno delle società d’affari tra ricchi residenti e
mercanti esteri che impegneranno tutte le risorse pubbliche dell’amministrazione comunale per poi
impossessarsene a titolo di pagamenti e interessi per le somme anticipate, portando allo
svuotamento del ruolo pubblico e politico delle amministrazioni locali.

3. Processi di formazione dell’identità locale in età moderna: popolazione,


egemonie sociali e religiosità nell’area ionico-messinese
Messina e Val Demone sono tra le subregioni siciliane in cui nel corso del tempo si sono verificate
variazioni demografiche. È l’area di rifugio nel medioevo, priva di terre granarie, all’inizio dell’età
moderna con 54 centri amministrativi. Uno degli elementi più importanti per la comprensione delle
diversità della dinamica demografica in aree diverse della Sicilia è costituito dal rapporto che si
stabilisce tra grande città e territorio. La Messina del ‘500 ci fornisce un elemento di riflessione, e
cioè l’immigrazione, ovvero l’esistenza di consistenti flussi migratori. Un aumento che continua
fino al 1606. Messina assorbe popolazione dalla sua provincia. All’inizio del ‘500 in Val Demone i
centri amministrativi più importanti, oltre Messina, erano Taormina, Francavilla, Patti, Naso,
Castroreale, Monforte, Randazzo. Nel corso del secolo la Sicilia diventa zona di frontiera di una
guerra combattuta tra Spagna e Turchia. Le rotte del Mediterraneo orientale e meridionale si
chiudono, e il sistema economico si orienta verso il settentrione italiano ed europeo. Il messinese
cerca di sfruttare la guerra come occasione di sviluppo economico ma è nei settori della seta e dello
zucchero che gioca la sua carta vincente. Tra il 1621 e 1651 la popolazione rimane stabile. Messina
ha finito di attirare uomini, i peloritani e il taorminese aumentano lievemente e si incrementa l’area
dei Nebrodi. Segue un secolo tremendo caratterizzato da continue flessioni demografiche. Il disastro
della guerra e della repressione si è sommato a quello della crisi dell’industria del setificio. Questi
fattori accentuano il saldo negativo tra il 1681 e 1714, che però si registra in gran parte dell’isola a
causa della recente negativa contingenza climatica ed annonaria del 1709-1710, oltre che degli
effetti del terremoto. La pesante perdita di popolazione di Messina e di alcuni centri vicini ha una
genesi di carattere epidemiologico, mentre i territori che riescono a barricarsi dietro il cordone
sanitario superano i tassi di incremento delle altre province, escluse Agrigento e Caltanissetta.
Giardini è un piccolo centro in formazione nel ‘700 e rivendica e ottiene nell’800 la sua autonomia
da Taormina. Lo studio della dinamica demografica conferma l’avvicendarsi di processi alternati di
sviluppo e di crisi con fenomeni di aumento e decremento ed attivazione di flussi di popolazione in
uscita ed in entrata. Dapprima si registra una fase espansiva tra il 1505 e 1636, ed in lievissimo
incremento sino al 1681. Il sistema si blocca alla fine del ‘600 e per tutto il ‘700. Straordinario sarà
lo sviluppo della prima parte dell’800 sino all’Unità. Il cuore di questa differenziazione è costituito
dal ‘700 con una Sicilia in forte crescita, un messinese prima in crisi e poi in lenta ripresa, e la parte
del Val Demone che prolunga la crisi sino alla fine del secolo prima di accordarsi allo sviluppo
dell’800. Messina come Taormina vivono in pieno un processo di forte rafforzamento dell’area
urbana demaniale, ed una conversione economica che come colonne portanti il trasferimento dello
zucchero da Palermo, l’impianto e lo sviluppo del ciclo della seta, l’attività edilizia. La loro
posizione istituzionale, il controllo del territorio, la possibilità di ricavare ricche entrate dalle
imposte, tasse, dogane di cui sono i titolari, la presenza di ceti nobiliari, patrizi e mercantili,
costituiscono la ricchezza di un prestigio e di uno sviluppo che creano e richiamano popolazione dai
loro territori. Intorno al 1575 ed al 1591-92 due catastrofi demografiche si abbattono sulla Sicilia, e
incidono in modo grave nel Val Demone per la mancanza di una produzione frumentaria. Il sistema
riproduttivo viene colpito, ma la reattività appare ancora elevata. Dopo la crisi del 1575, i pochi
anni di tranquillità avevano consentito non solo la ripresa ma anche l’aumento della popolazione
segnalato nel 1583. Messina rappresentò per le popolazioni del distretto una possibilità di
sopravvivenza considerato lo sviluppo economico, l’aumento della ricchezza, l’avvio di nuovi
settori produttivi che proprio in quel periodo la caratterizzavano.
Messina dopo i primi decenni del secolo finisce di crescere e di assorbire popolazione dal territorio.
Con la rivolta del 1674-78 e le conseguenze nel sistema economico, produttivo e istituzionale
s’inverte il flusso migratorio: Messina si riduce e coinvolge nel decremento quell’area costiera che
aveva nel secolo precedente goduto dello sviluppo. Nella prima metà dell’800 Messina diventa
nuovamente un centro produttivo e mercantile. I piccoli e medi imprenditori e commercianti locali,
le nuove produzioni agricole, la ripresa del cabotaggio e dello scambio interno contribuiscono a
sostenere lo sviluppo della città.
Un diverso aspetto della formazione dell’identità di queste popolazioni è costituto, in età spagnola e
nel ‘700, dal rapporto con i ceti eminenti. L’identità nobiliare appare forte nei casi di signorie che
durano per più di generazioni. Nelle infeudazioni del tardo ‘500 e ‘600 c’è poco dell’immagine
dell’antico signore feudale. Si tratta spesso di un proprietario terriero o un imprenditore che
acquista sul mercato le giurisdizioni, gli uffici, le cariche col titolo di feudo. In realtà con il termine
feudo in Sicilia si intendeva un’entità formale giuridica e non una proprietà terriera reale. Tre sono i
benefici goduti nel Regno:
 Il feudo nobile, con giurisdizioni su vassalli e diritto di essere rappresentato nel Parlamento
del regno
 Il feudo rurale, un’area territoriale che poteva essere di grande estensione
 Il feudo finanziario, comprendente entità produttive oppure rendite, diritti, uffici, monopoli,
gabelle di ogni tipo ed altro
Le più antiche famiglie parlamentari che avevano feudi abitati in Val Demone erano Lanza,
Ventimiglia e i Romano. Le famiglie appartenenti ai grandi lignaggi baronali medioevali avevano
avuto e continuavano ad avere con Messina stretti rapporti. Molti signori del primo ‘500 proveniva
da dinastie locali di militi oppure da gruppi formatisi nell’area mercantile, amministrativo-
giudiziaria e delle professioni di Messina e Catania. Nel ‘600 e nel ‘700 il quadro si complica per il
bisogno di denaro che assale la monarchia spagnola, la quale a partire dal 1610 inizia a mettere in
vendita tutto, attirando gli acquirenti con l’offerta di privilegi e titoli. Sono venduti i casali di
Taormina e di Savoca e messe in vendita. Nell’acquisto intervengono non solo patrizi e affaristi
messinesi, ma anche famiglie provinciali ascese con l’occupazione delle cariche ed il commercio
della seta, togati, casate catanesi, siracusane e palermitane, mercanti esteri, soprattutto genovesi. Il
feudo con le sue giurisdizioni è considerato un bene patrimoniale, che passa con estrema facilità per
motivi economici e di interesse, è venduto, dato in dote, in pegno, in affitto, il titolo può essere
scorporato dal possesso, ed il possesso stesso è un semplice diritto di gestione delle entrate
finanziarie e degli uffici.
Il Val Demone e l’area taorminese fu l’ultimo territorio conquistato dagli arabi ed il primo ad essere
liberato dai normanni. Una delle differenze tra arabi e popolazioni locali era determinata dalla
religione, gli uni musulmani e gli altri cristiani ortodossi. Nel conflitto, i gruppi contrapposti
tendono ad esaltare le differenze, e la religione costituì uno dei principali elementi di
riconoscimento identitario. I normanni accettarono la continuità e il ripristino del rito greco-
ortodosso, ma nel corso dei secoli i governi succedutisi privilegiarono il rito di obbedienza romana
riducendo quello greco. In età moderna appare assicurata l’egemonia cattolica, ma ancora
persistono istituzioni, enti e nuclei di osservanza ortodossa. A metà del ‘700 tra i titoli delle matrici
troviamo S. Agata catanese ad Alì, S. Nicolò a Scaletta, a Roccella e a Mola; l’Assunzione a
Savoca, a Francavilla e a Novara di Sicilia. In complesso abbiamo 16 chiese dedicate alla Vergine
su 40 rilevate, con 5 sotto titolo dell’Annunziata, 3 dell’Assunta, una della Concezione e una della
Purificazione, una della Grazia e una del Rosario. Non pochi sono i riferimenti ai santi del culto
bizantino e delle origini, e minori quelli relativi ai culti diffusi dalla religiosità controriformistica.

4. Nicolosi casale di Paternò dalle origini medioevali alla fine del feudalesimo
Espulsi i musulmani dalla Sicilia, i re normanni e svevi affidarono a signori laici ed ecclesiastici
compiti di governo, di amministrazione e di controllo del territorio nel quadro dell’organizzazione
feudale del regno. Conventi, torri e castelli rappresentarono i nuclei di un nuovo reticolo
insediativo. Furono i monaci le avanguardie del popolamento e del dissodamento di zone disabitate
e boscose. A partire dal XII secolo furono costruiti numerosi monasteri nel territorio etneo. Nuovi
sistemi fortificati determinarono la nascita di nuovi centri come: Aci Castello, Motta S. Anastasia,
Paternò, Randazzo, Castiglione. In epoca normanna-sveva lo sfruttamento del bosco fu regolato e
vigilato dalle autorità centrali. Dal XV secolo sui fianchi del vulcano prendeva corpo un gruppo
sociale di affittuari, piccoli proprietari, contadini liberi e autonomi, con una forte coscienza di
gruppo, tutelata e irrobustita dall’organizzazione corporativa e dalla presenza compatta alla
cerimonia sacra e profana ed una capacità di intervento politico e militare. Nelle vicinanze delle
città e dei villaggi si ritrovava il tipico giardino siciliano, composto da vari tipi di alberi da frutto,
limoni e verdure. Il territorio era anche adatto all’allevamento e alla pastorizia. Attività integrative
erano quelle della cottura della legna per la produzione del carbone, della conservazione e vendita
della neve nei periodi estivi, della coltivazione del gelso, del lino, del cotone che davano luogo ad
attività di industria domestica, artigianale o manifatturiera. Alla fine del medioevo tutta la fascia
costiera e etnea mostrava un paesaggio ordinato, coltivato, rigoglioso ed era già caratterizzata da
una forte presenza umana.
L’ordinamento feudale fu introdotto a Paternò con la prima assegnazione della contea a Adelaide,
figlia del marchese di Monferrato e moglie del Gran conte Ruggero. In questo periodo Paternò era
l’unico centro importante, ma nel territorio e nel bosco vi erano piccoli casali, chiese, monasteri,
ville, magazzini, fondachi, ecc. Espulsi i francesi dalla rivolta del Vespro e trasferita la corona agli
aragonesi, Manfredi junior ebbe dapprima confermati i beni del padre, poi li ebbe confiscati da
Ferdinando II d’Aragona. La guerra si concluse nel 1302 con la pace di Caltabellotta: Federico
rimaneva re di Sicilia, e a suggello del patto prendeva in moglie una figlia di Carlo II d’Angiò,
Eleonora. A lei il re assegnò un patrimonio personale di città, terre e castelli che da un lato veniva
amministrato autonomamente come un bene feudale dalla camera reginale, dall’altro rimaneva
incardinato al Demanio regio in cui veniva reintegrato alla morte della titolare. Tra le altre terre,
Eleonora ebbe anche quella di Paternò.
Messina perdeva nel corso del ‘300 potere politico ed economico a favore di Catania, la quale
divenne per lunghi periodi la capitale del regno, residenza di re e regine. Federico II d’Aragona fece
costruire un edificio presso l’hospitalem San Nicolò, erigendolo in monastero. Nei pressi di Paternò
morì nel 1337 Federico, e qui prese residenza la regina Eleonora, dove morì nel 1343. La metà del
XIV secolo apriva un periodo tragico: una grave pestilenza del 1347-48 in pochi anni dimezzò
popolazione, mentre permaneva lo stato di belligeranza con Napoli e l’ordine e la sicurezza erano
minacciati dalla fragilità della monarchia causata dalla successione di re minorenni e dallo
strapotere dei grandi feudatari. Nel 1360 Paternò tornò ad essere in possesso della regina Costanza,
moglie di Federico III.
Alla morte di Federico III nel 1377 la successione a Maria pose il regno nelle mani dei grandi
feudatari, aprendo un periodo di confusione e di anarchia. Artale Alagona si comportava come un
sovrano: creava ufficiali, distribuiva le rendite del Demanio, trattava con le potenze estere.
Raimondo Moncada rapì la regina e la fece condurre in Catalogna, dove nel 1391 andò sposa a
Martino il Giovane, figlio di Martino il Vecchio.
Durante la riconquista aragonese la contea di Paternò fu confiscata e concessa in feudo da Martino I
al catalano Pere Fonollet nel 1392. Nel 1398 si riunì a Siracusa il Parlamento del regno per sancire
la piena sovranità di Martino I e della regina Maria, e per definire il quadro politico-istituzionale del
regno. Il Parlamento prese la forma che mantenne fino alla Costituzione del 1812. A Siracusa fu
dichiarata città regia; Paternò fu reintegrata nella camera reginale, ricostituita nel 1404 a favore
della seconda moglie di Martino il Giovane, la regina Bianca di Navarra. Anche costei ebbe con
Paternò e con San Nicolò l’Arena un rapporto privilegiato. L’anno successivo firmò la costituzione
della città. L’attività di Etna si affiancava ai disordini e alle lotte provocate dagli uomini. In età
aragonese sono attestati almeno otto importanti eruzioni: nel 1285, 1323, 1329, 1333, 1351, 1381,
1408, e nel 1444. Nicolosi fu colpita dagli eventi del 1408-1409. Martino I moriva nel 1409 durante
una spedizione militare in Sardegna, lasciando vicaria la moglie Bianca ed erede il padre Martino il
Vecchio II. Che nel frattempo era divenuto re di Aragona. La lontananza del sovrano e delle sue
truppe, la sua morte, il vicariato in mano a una donna, riaccendevano le contese della feudalità e di
alcune città che chiedevano maggiore spazio.Un congresso dei rappresentanti dei vari regni
spagnoli a Caspe, nel 1412 decise per l’attribuzione della corona d’Aragona e di Sicilia a
Ferdinando de Antequera, che avviò l’opera di una nuova pacificazione in Sicilia, da dove fu
allontanata Bianca ed inviato il primo viceré, l’infante Giovanni. Poco dopo Alfonso diventava re,
rendendosi protagonista di un’attività politica imperialistica, che lo portò alla conquista del regno di
Napoli.
Ma la guerra richiedeva risorse finanziarie imponenti ed il regno di Alfonso si caratterizzò per un
drastico incremento della pressione fiscale. Alla disperata esigenza di reperire nuove fonti di entrata
si deve la decisione del re di vendere la contea di Paternò a Nicolò Speciale. Ricadere sotto il
dominio feudale non piaceva agli abitanti della contea. Qui erano state istituite nuove comunità
conventuali e dato ordine e forma alle strutture del governo locale e dell’amministrazione
giudiziaria, con le cariche dei giurati, del capitano e quelle minori di giudici, mastri, notai,
archivisti. Rispetto alla massa di braccianti, garzoni, poveri e vedove che vivevano al confine
dell’indigenza, spesso si tratta di una quota di famiglie modesta, capace di mobilitarsi e di tessere
rapporti sovralocali. Il progetto di riscattarsi, pagando alla corte la somma ottenuta con la vendita,
non riuscì perché incrociò Guglielmo Raimondo Moncada. Dai calcoli dei demografi sembra che tra
la colletta del 1376 e quella del 1439 le famiglie del territorio si siano ridotte. La spiegazione di
questo calo probabilmente va trovata nella separazione da Paternò di Mompileri con i suoi abitanti
nel 1399. Il trasferimento dovette essere un evento traumatico, e mentre alcune famiglie si
trasferivano a Catania, molti di coloro che rimasero presero parte alle sommosse degli anni 1449-51
contro l’oppressione fiscale e le vendite di beni demaniali a feudatari.
Non si hanno dati certi sulla popolazione siciliana in età medioevale, che è stimata dagli storici con
criteri diversi e con varie incongruità nelle serie che ne derivano. Alla fine del ‘200 era più popolato
e più dinamico il versante nord dell’Etna, mentre l’equilibrio e la crescita nell’400 ha privilegiato il
versante sud. Maggiore concordanza si riscontra tra gli storici nelle valutazioni relative al ‘400,
mentre all’inizio del ‘500 fu effettuato un rivelo ufficiale dei fuochi su tutto il regno. La crescita si
ebbe soprattutto sul versante sud e nel territorio catanese ed è collegata al costituirsi di numerosi
casali nell’area collinare e montana.
Nel corso dell’età moderna l’area etnea crebbe tumultuosamente nell’aspetto demografico e
aumentò nel numero degli insediamenti, molti dei quali acquisirono l’autonomia amministrativa. Il
primo censimento di Nicolosi seguì l’autonomia amministrativa nel 1676 e fu realizzato nel 1681.
Prima di allora la sua popolazione era compresa assieme a quelle di Paternò, Camporotondo e
Malpasso fino al 1593; nel ‘600 sembra che i tre casali fossero conteggiati con Catania invece che
con Paternò. Seguì un periodo di forte incremento della popolazione siciliana fino al successivo
censimento del 1548. L’evoluzione demografica del ‘600 appare atipica rispetto all’andamento
generale della popolazione siciliana, che dal 1616 al 1714 rimase stabile. Nell’area paternese si
registrano continui aumenti ai vari censimenti: tra 1616 e 1623, tra il 1623 e 1636, tra il 1636 e
1651, tra il 1651 e 1681, tra il 1681 e 1714. Tali curve ascendenti non sono interrotte se non per
eventi catastrofici che causarono distruzioni ai campi, alle colture, agli edifici ed elevate mortalità,
né dagli effetti negativi della guerra contro la ribelle Messina e i francesi (1674-78).
In tale contesto di crescita di lungo periodo si inserisce lo sviluppo di Nicolosi, che è difficile
determinare con precisione prima del 1681 e dopo tale data, considerato il numero dei censimenti
successivi (1714, 1747 e 1806). Nel decennio 1621-30 gli atti di matrimonio registrati furono 81;
nel 1631-40 i matrimoni salirono, come anche a Paternò e Malpasso. L’inverso accade nel decennio
1641-50 con un crollo dei matrimoni. Tra il 1649-53 i matrimoni aumentarono.
La comunità di Nicolosi fu censita nel momento in cui nasceva come autonoma università feudale.
Dalle dichiarazioni dei capofamiglia conservati presso l’Archivio di Stato di Palermo risulta un
numero di famiglie e di abitanti inferiori a quelli indicati nel ristretto. Le donne prevalevano sui
uomini e molte di loro dichiarano in qualità di capofamiglia. La condizione delle donne
capofamiglia era peggiore di quella degli uomini. Pochi erano coloro che vivevano soli. La maggior
parte dei nicolositi viveva in famiglie con un numero di componenti oscillante tra 4 e 6. Le famiglie
con 2 o 3 componenti comprendevano 158 persone. Le famiglie numerose, da 7 a 9 componenti,
erano 21. La famiglia patriarcale con figli, nipoti e collaterali coresidenti in un unico aggregato, non
esisteva. Il matrimonio costituiva il momento in cui l’uomo e la donna abbandonavano il tetto
paterno e formavano una nuova casa. Una famiglia estesa è quella di una coppia di marito e moglie
che ospita la sorella del capofamiglia. I capofamiglia nubili e celibi sono appena 15, e si dividono in
due celibi e 7 nubili solitari, un celibe e una nubile con nipoti, due nubili che vivono con la sorella e
due celibi che anch’essi hanno in casa la sorella. Era dichiarata nei riveli soltanto l’età per la
popolazione maschile per ragioni militari. Risulta una piramide larga per la prevalenza di bambini
fino a 10 anni e di adolescenti da 11 a 20 anni.
I 33 anni dal 1681 al 1714 appaiono molto positivi: i dati ufficiali mostrano un notevole incremento
della popolazione; anche le indicazioni della nuzialità confermano tale crescita con i 39 matrimoni
celebrati nel 1700-1702. Nicolosi trae vantaggio dai processi di ristrutturazione degli insediamenti e
dai movimenti di popolazione che interessarono l’area etnea in seguito ai gravi eventi vulcanici e
sismici tra il 1669 e il 1693. Nel 1722-30, 1731-40, 1741-50 e 1751-60 la media annua dei
matrimoni sembra indicare un decremento o un rallentamento demografico. Dopo quasi 40’anni dal
censimento del 1714, il quadro presentato da quello effettuato tra il 1747 e 1752 risultò statico: il
numero degli aggregati censiti era aumentato, ma le famiglie avevano meno componenti, e quindi la
percentuale di incremento della popolazione si limitò al 7%.
I comportamenti nuziali sono collegati a diversi aspetti della mentalità, della religiosità, delle
condizioni economiche e delle attività produttive prevalenti o tipiche. La serie di matrimoni, unica
disponibile nell’Archivio parrocchiale della Chiesa Madre, riguarda due periodi, uno tra 1621-50 ed
uno tra 1731-50. I quattro mesi preferiti per i matrimoni erano gennaio, febbraio, maggio e
settembre. Da rilevare anche che nel XVII secolo si registra anche un buon numero di matrimoni di
luglio e agosto, fenomeno ridimensionato nel secolo successivo, in cui invece guadagna qualche
punto il mese di aprile e diminuisce la quota dei matrimoni di maggio. I mesi con minor numero di
matrimoni erano quelli di dicembre, marzo e giugno. La principale spiegazione di questa dinamica è
di natura religiosa, in quanto i bassi valori di marzo, aprile, e dicembre sono dovuti all’osservanza
dei divieti canonici nei periodi della Quaresima e dell’Avvento. Ciò spiega in parte gli elevati tassi
di gennaio, febbraio e maggio. Le altre cause delle variazioni mensili potrebbero essere di natura
economica. La prevalenza del semestre autunno-inverno potrebbe collegarsi al dinamismo
dell’economia montana in questo periodo, e al confluire delle risorse finanziarie che avrebbero
consentito di affrontare le spese di un matrimonio. La struttura della nuzialità a Nicolosi conferma i
risultati ottenuti in altri studi, ed appare appartenere ad un contesto socio-economico omogeneo che
caratterizza molti di questi centri etnei.
Nel medioevo il territorio di Paternò fu più volte infeudato a diverse casate di feudatari, appartenne
alla Camera Reginale, fu di pertinenza regia, parti di esso finirono con l’esservi smembrato, vi
sorsero nuove comunità che determinarono cambiamenti nell’organizzazione politico-
amministrativa signorile e civile. Benché Malpasso non fosse dotata di piena autonomia prima del
‘600, aveva già nel XVI secolo un suo ruolo importante nella gestione del territorio. Nella seconda
metà del ‘500 a Paternò il corpo amministrativo, cioè i giurati della città creavano i giurati dei
casali. A Nicolosi poche abitazioni sparse del XII secolo si erano all’inizio del ‘500 raggruppate e
ricongiunte in più nuclei. La permanenza insediativa, l’aumento demografico, la lotte e la reazione
sostenute contri i disastri del vulcano, il consolidarsi di interessi produttivi ed economici, il
confronto/scontro con le comunità che sorgevano vicine, avevano avviato un processo
d’identificazione collettiva, una coscienza di essere comunità. Nel complicato intreccio di
giurisdizioni laiche ed ecclesiastiche che gravavano sul territorio, cominciavano a delinearsi dei
confini amministrativi, si costituivano le prime rappresentanze locali, si fissavano i culti e le
tradizioni religiose e civili, si finanziava la costruzione di chiese dotandole di arredi e di immagini
sacre e si avviava quel processo di rivendicazione per ottenere la costituzione di una parrocchia con
i servizi sacramentali che si concluse con la concessione vescovile del 1601. Sorgeva anche un ceto
intermedio capace di dare voce alle istanze della gente. Uno degli elementi di rafforzamento
dell’identità collettiva fu costituito dall’esigenza di affrontare i pericoli, i rischi, le distruzioni che
periodicamente l’attività del vulcano infliggeva al territorio; la condivisione di un comune dolore
per la perdita di vite umane, delle case, delle colture; l’unione di intenti e l’impegno che ogni volta
comportava una faticosa opera di ricostruzione. Proprio in una fase di transizione verso il definirsi
di una configurazione insediativa più concentrata ed il costituirsi del senso di comunità, s’inserì una
serie di eventi vulcanici.
Certo è che i due anni, 1536-37, furono per la comunità di Nicolosi travagliati: campi, vigne, orti,
frutteti furono sommersi dalla pioggia di cenere e ricoperti dalle lave. Per le scosse o per la lava
molte abitazioni crollarono. Gli abitanti abbandonarono il paese, rifugiandosi nei centri vicini meno
coinvolti nei fenomeni vulcanici.
Superato il grande trauma dell’eruzione e riavviata l’opera di ricostruzione, la comunità si
presentava abbastanza forte da non risentire di un altro evento per essa sconvolgente. Colpiti e
impauriti dagli eventi vulcanici, preoccupati dalle scosse del terremoto, i monaci si trasferirono a
Catania.
Nel clima cattolico-riformistico i grandi fenomeni naturali appaiono in un contesto di prodigi,
miracoli, apparizioni, guarigioni miracolose, avvolti in un’atmosfera tra il fantastico ed il
miracoloso. In un’area dominata dai miti e dalle credenze sui demoni e diavoli, dei e ninfe, da
misteri e fenomeni inspiegabili, un crollo di abitazioni avvenuto il 22 febbraio 1633 in un quartiere
di Nicolosi può diventare nella descrizione di Pietro Carrera opera del demonio. Nel 1639 si registrò
in tutto il territorio di Paternò un’invasione di cavallette che minacciarono il raccolto del vino e
dell’olio, per cui i giurati emanarono un bando che ordinava a tutti gli abitanti di andare in
campagna.
I lunghi regni di Ferdinando il Cattolico, di Carlo V e di Filippo II furono caratterizzati da una
tendenza verso lo sviluppo economico e l’incremento demografico. La fragilità strutturale
dell’economia assoggettava le popolazioni a violente contingenze: carestie, epidemie, variazioni
climatiche. Di fronte a queste emergenze l’uomo era indifeso, senza risorse, medicinali, ripari e
senza conoscenze. Il mancato coinvolgimento diretto della Sicilia in periodi di guerra con le
distruzioni, le morti, le malattie, l’aumento demografico e le esigenze della guerra contro
l’invasione ottomana nel Mediterraneo, potrebbero avere costituito elementi di stimolo per lo
sviluppo, le potenzialità di questo territorio: legname e carbone erano necessari per usi sia civili che
militari; prodotti dell’allevamento e il vino trovavano un mercato aggiuntivo
nell’approvvigionamento dell’esercito e della flotta; a Messina si sviluppava un mercato di tessitura
e di esportazione della seta grezza. Tra gli elementi di freno si potrebbero considerare l’aumento dei
prezzi dei cereali, l’aumento della pressione fiscale e la difficoltà dei traffici e dei collegamenti con
gli altri paesi di un Mediterraneo diviso tra due fedi e due potenze ostili e dominio di pirati e
corsari. Tra la fine del ‘500 ed il primo ‘600 i segnali di crisi e di difficoltà aumentarono: crisi
agraria e alimentare nel 1591-92 e nel 1604-1606, crollo delle esportazioni del grano, collasso della
finanza statale. Ma è soprattutto a partire dagli anni 30 del ‘600 che l’isola entra in una fase secolare
di stagnazione e di destrutturazione economica caratterizzata da basso livello delle esportazioni
cerealicole, crisi della produzione e dell’esportazione serica e dello zucchero, catastrofi naturali,
instabilità sociale, rivolte, aumento della pressione fiscale, contrazione della produzione e del
commercio, stagnazione demografica. Le difficoltà in cui la Monarchia spagnola si trovò in ordine
al reperimento di risorse monetarie necessarie a finanziare le guerre in cui era coinvolta, indusse il
governo siciliano a porre in vendita tra il 1630 ed il 1645 gran parte del suo patrimonio. La
convergenza di crisi economica, oppressione fiscale, perdita di prestigio dello stato, carestie, unite
al deficit di direzione politica da parte dei gruppi dirigenti centrali e alla perdita di prestigio e di
funzione dirigente da parte dei ceti amministrativi cittadini e periferici, determinò una situazione di
conflittualità politica e sociale, di cui gli aspetti più eclatanti furono le rivolte del 1647-48 in varie
parti dell’isola e la rivolta di Messina del 1674-78. Ad aggravare la situazione intervengono la
colata lavica del 1669 ed il terremoto del 1693.
Le cronache narrano che l’8 marzo 1669 sul far della sera si levò un vento impetuoso che durò una
ventina di minuti, dopo di che il cielo si tinse di rosso fuoco. Alle tre di notte iniziarono ad
avvertirsi delle scosse che indussero la popolazione di Nicolosi ad abbandonare le case ed a
rifugiarsi nelle campagne. Le popolazioni coinvolte preparavano processioni e penitenze. Il vescovo
ordinò che venisse esposto il Santissimo Sacramento sulle porte delle chiese e autorizzò la
processione che muovendo da Malpasso giungesse a Nicolosi per portarvi la reliquia della loro
patrona S. Lucia. Appena giunti tutti i fedeli al villaggio delle Potichelle nella chiesa di S. Maria
della Misericordia si udì un terribile tuono cui seguì un violento terremoto. Gli abitanti di Nicolosi
fuggono ancora più lontano verso i vicini paesi. Fu in quell’occasione che da piano S. Lio a monte
Frumento si aprì una fessura e poco dopo nella pianura della Nocilla si formarono varie voragini
che eruttavano globi di fumo con rombi e scoppi. Sul finire del giorno se ne apriva un’altra più
vasta. Nicolosi venne seppellita completamente e nelle vicinanze si formò un cono di sabbia rossa.
La lava si diresse verso il mare in diversi fiumi. Dopo quattro mesi di orrore, esauritosi il periodo
eruttivo, rimasero da valutare gli enormi danni da esso prodotti; inoltre i danni alle colture e alle
strutture produttive furono enormi.
In seguito all’eruzione del 1669 nelle varie comunità etnee si aprì un confuso periodo di discussioni
e di contrasti in merito ai problemi della ricostruzione e della scelta dei siti in cui riedificare.
Mompileri fu completamente distrutta e gli abitanti si trasferirono formando insieme ad altri il paese
di Massa Annunziata. Era stato il principato di Paternò a subire le devastazioni maggiori. Il
cardinale don Aloisio duca di Montalto e principe di Paternò risolse di inviare a Catania un
procuratore generale con l’incarico di tentare una ristrutturazione del territorio della signoria e
riunire gli abitanti di Malpasso, Camporotondo e Nicolosi in un unico grande centro, che potesse
accogliere anche gli abitanti di altri comuni disastrati. Si cominciò a fabbricare il nuovo villaggio,
chiamato Fenicia Moncada. I nicolositi non accettarono tale decisione e chiesero al vicario principe
di Campofranco l’autorizzazione a ritornare nell’antico sito. Al rifiuto delle prime suppliche il
canonico Macrì di Nicolosi si recò a Paternò dove si era trasferito don Andrea Randazzo pregandolo
di recarsi con lui a Catania presso il vicario generale per eseguire il ritorno al vecchio sito. Nel
frattempo Fenicia Moncada prendeva forma, ma la scelta del luogo apparve infelice fin da subito,
trovandosi vicino alla palude, provocando molti morti per malaria. Vedendo ciò i nicolositi
correvano di nascosto a dissotterrare le loro case e vigne. I nicolositi tornarono ad edificare le loro
case nel vecchio sito che presentò al Campofranco una nuova supplica, ricevendo una risposta
positiva a condizione che si restaurassero le case entro poco tempo e si raggruppassero un gran
numero di abitanti. Fu subito restaurata la chiesa delle Grazie dove si stabilirono i sacramenti nel
1671.
Dopo questo confuso periodo la situazione si assestò, gli equilibri territoriali si consolidarono,
l’economia e la popolazione ripresero a svilupparsi. Per qualche tempo l’intreccio dei rapporti tra le
varie comunità confinanti non fu completamente risolto: rimanevano in comune tra gli abitanti dei
vari centri gli originari diritti di pascolo, legnatico e di raccogliere le ghiande. La struttura
amministrativa del nuovo comune era simile a quella degli altri piccoli centri: a capo del governo
locale stavano 4 giurati eletti annualmente tra i componenti delle famiglie più importanti ed
approvati dall’autorità feudale; la difesa del territorio e i compiti di polizia erano affidati ad un
capitano di giustizia nominato dal signore e coadiuvato da qualche milite; i due notai avevano cura
di tutti gli atti che dovevano essere registrati. Nel 1766 il Comune sottoscrisse un accordo con il
Moncada: in cambio della concessione del diritto di pascere, il principe avrebbe assegnato
all’amministrazione locale alcuni terreni boschivi, impegnandosi a costruire il municipio, a
costruire una scuola pubblica. Tale accordo fu dichiarato nullo nel 1782 dal Tribunale del Real
Patrimonio. Nel 1776 presso il giudice don Michele Spina a Nicolosi furono raccolte una serie di
testimonianze che attestavano che nel corso del tempo i pedaresi avevano usurpato dei territori
appartenenti a Nicolosi, spostando e cancellando i segni dei confini tra i due paesi.
Nel 1681 si ebbe il primo rivelo dei beni degli abitanti di Nicolosi. Le carte conservate presso
l’Archivio di Stato di Palermo contengono le dichiarazioni di 184 capifamiglia. I riveli erano
effettuati per ordine del viceré per determinare in ogni singola università del Regno di Sicilia il
numero delle famiglie, degli abitanti, dei maschi sa 18 a 50 anni soggetti alla leva militare, ed il
valore dei beni allodiali posseduti da ogni famiglia. Le somme degli abitanti e dei valori
patrimoniali servivano alla Deputazione del Regno per assegnare ad ogni centro dell’isola la quota
del donativo che doveva pagare alle casse regie. La dichiarazione si faceva solo sui beni allodiali,
cioè sulle proprietà. I beni dichiarati nel 1681 dagli abitanti di Nicolosi riguardavano le case, gli
alberi di gelso, il frumento seminato, gli animali da lavoro. Mancano del tutto i riferimenti a
botteghe e ad attività artigianali e professionali. Secondo la relazione preparatoria per la stima del
valore dei beni da dichiarare, le coltivazioni soggette a rilevamento erano nel 1714 i vigneti, le terre
scapole, l’ulivo. Sorgeva anche un nuovo mestiere, quello della guida: l’Etna era entrato a far parte
del percorso del Gran Tour dei nobili europei, e diventava oggetto di studi scientifici; Nicolosi si
accreditò come porta dell’Etna.
La coscienza comunitaria e l’orgoglio municipalistico si accompagnavano all’ampliarsi e al
consolidarsi di un ceto civile che poteva dare espressione e forma al desiderio naturale dei residenti
di fornire alla loro piccola patria un decoro urbano e di arricchire e abbellire i luoghi della socialità
civile e religiosa. Nel ‘600 fu eretta una chiesa dedicata alle Anime del Purgatorio, ma ormai
maturavano l’esigenza e la richiesta dell’autonomia amministrativa, della separazione da Paternò e
da Belpasso, di una chiara attribuzione di responsabilità e di competenze in ordine alle scelte
riguardanti persone e luoghi. La costituzione di una università richiedeva la presenza di un’élite
capace di assumersi tali compiti, l’esistenza di un gruppo sociale di possidenti che vivevano di
rendita e che potevano permettersi di avviare i loro figli al sacerdozio o al conseguimento di un
titolo di studio. Mario nacque a Nicolosi nel 1773 e morì nel 1839. Fu discepolo di Gioeni, studioso
di storia naturale, di fisica e di meteorologia. Scrisse: Memoria dell’eruzione dell’Etna avvenuta nel
1809, Giornale dell’eruzione dell’Etna avvenuta 27 ottobre 1811, Registro di osservazioni
metereologiche dal 1811 al 1819, e Giornale dell’eruzione dell’Etna avvenuta il 27 maggio 1819.
Carlo Gemmellaro nacque a Nicolosi nel 1787, studiò medicina e chirurgia a Catania, laureandosi
nel 1809, e partecipando al clima di attività culturale dominata dagli allievi di Giannagostino De
Cosmi. Carlo si interessava anche di politica, storia, letteratura; in campo scientifico si inserì in
quella tradizione di studi geologico-vulcanologici che negli anni precedenti era stata consolidata da
Giuseppe Recupero e da Giuseppe Gioeni. Visitò quasi tutta l’Europa occidentale, conobbe
numerosi scienziati, nuove teorie, nuove e raffinate tecniche di osservazione, che utilizzerà nella
realizzazione della grande opera della sua vita, il progetto di uno studio sistematico dell’Etna e dei
territori confinanti, facendo di Catania un punto di riferimento obbligato degli studi internazionali di
geologia e di vulcanologia. Carattere sistematico, studi, osservazioni, riflessioni condotte nell’arco
di diversi decenni, assumono le opere Elementi di Geologia, La creazione, quadro filosofico, La
vulcanologia dell’Etna, che comprende la Topografia, La Geologia, la Storia delle sue eruzioni.
Morì nel 1866 per cancro alla gola. Dopo i fenomeni sismici ed eruttivi del 1669 e del 1693,
Nicolosi risorgeva dalle ceneri: venivano ricostruite le chiese abbattute con l’utilizzo di più pregiati
materiali, con più elegante disegno e maggior decoro delle facciate e degli interni; fu ricostruita la
chiesa delle Anime del Purgatorio; venne restaurata anche quella di S. Maria delle Grazie. Nel 1812
il Parlamento del Regno dichiarò decaduto il regime feudale e così decadde l’ultimo vincolo
istituzionale che teneva legata la comunità al suo passato.

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