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IL CORPO COME MASCHERA.

DAI «MONSTRA» MEDIEVALI


AI GIGANTI DI RABELAIS

di Vito Carrassi

Ancora più importante è il motivo della maschera. È il motivo più


complesso e più ricco di significato della cultura popolare. La maschera è legata
alla gioia degli avvicendamenti e delle reincarnazioni, alla relatività gaia, alla
negazione gioiosa dell’identità e del significato unico, alla negazione della
stupida coincidenza con se stessi; la maschera è legata agli spostamenti, alle
metamorfosi, alle violazioni delle barriere naturali, alla ridicolizzazione, ai
nomignoli (accompagnati dai nomi); in essa è incarnato il principio giocoso
della vita; alla sua base sta il rapporto del tutto particolare della realtà e
dell’immagine, caratteristico di tutte le forme più antiche di riti e spettacoli. È
senz’altro impossibile esaurire il simbolismo estremamente complicato e
polisemico della maschera. Bisogna notare comunque che fenomeni come la
parodia, la caricatura, le smorfie, le smancerie, le scimmiottature, ecc., non sono
altro, in fondo, che suoi derivati. È nella maschera che si rivela molto
chiaramente l’essenza del grottesco1.

Dalle parole di Michail Bachtin emerge tutta l’importanza, la


significatività, l’esemplarità che la maschera e il mascheramento
rivestono nella cultura tradizionale e, più in particolare, nella visione e
rielaborazione carnevalesca della realtà, del mondo, della vita,
dell’individuo. Non solo si tratta di un fenomeno che include in sé un
simbolismo tanto esteso da apparire inesauribile (e mi pare che non possa
essere altrimenti), ma da esso sembrano addirittura derivare le varie
declinazioni del grottesco, dunque i meccanismi e i procedimenti tramite
i quali è possibile accedere a livelli differenti di percezione dell’esistente,

1
M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella
tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979, p. 47.

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magari issandosi nella sfera dell’immaginario, del meraviglioso, del
fantastico. Ci si maschera per porsi a distanza da se stessi e dal più o
meno banale spettacolo della consuetudine quotidiana, per evadere da un
rigido concetto di identità e osservarsi da una prospettiva altra, differente,
straniante. Ci si maschera per non farsi riconoscere e dunque per poter
agire più liberamente, sganciati dai vincoli di un ordine costituito che, a
lungo andare, diventa soffocante, oppressivo, deprimente. Ci si maschera
per entrare in una dimensione alternativa, per partecipare a un rito di
emancipazione collettiva – seppure di breve durata –, per offrire il
proprio personale contributo alla ridefinizione, giocosa quanto si vuole,
di vuoti stereotipi, di norme sclerotizzate, di uno sterile apparato di
principi e regole da rivitalizzare con i germi della novità,
dell’improvvisazione, del ribaltamento di prospettiva. La maschera,
dunque, come superamento del limite, o meglio, come tensione,
aspirazione, propensione al superamento di una condizione
inesorabilmente delimitata entro confini ben precisi. E il limite che ogni
uomo sperimenta per tutta la vita è innanzitutto il suo corpo, la sua
corporeità2.
È il corpo, proprio o altrui, a fornire il supporto sul quale si
compiono le operazioni di mascheramento, di travestimento, in ultima
analisi di trasformazione di un’identità in un’altra, sia pure solo sul piano
dell’apparenza. Il corpo è vincolo insopprimibile, ma allo stesso tempo è
materia prima – tanto più preziosa in quanto vivente – sulla quale può
sbizzarrirsi l’estro umano, che per un certo lasso temporale può disporne
a suo piacimento, in una cornice, qual è quella carnevalesca, che non solo
approva, ma anzi impone tanto attivismo creativo3. Senza un corpo non
può esserci una maschera, la quale ha d’altro canto bisogno di un
2
Cfr. L.M. Lombardi Satriani, Il corpo e il limite, in F. Castelli, P. Grimaldi (a cura di),
Maschere e corpi. Tempi e luoghi del carnevale, Meltemi, Roma 1997, p. 34: «L’uomo,
infatti, si sperimenta – né può non sperimentarsi – quale datità corporea; qualsiasi
esigenza egli intenda realizzare non può che tradursi in comportamenti biologicamente
condizionati. L’azione umana è costitutivamente possibile entro limiti, anche corporei,
invalicabili».
3
Cfr. ivi, p. 35: «Ma questo corpo io, nell’autonomia che lo spazio carnevalesco mi
garantisce, posso manipolarlo, enfatizzando alcune sue parti, mettendone in ombra altre,
riorganizzandolo nella proporzione delle sue parti, in qualche modo producendolo e
rendendolo atto a parlare una molteplicità di linguaggi».

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determinato contesto per sprigionare i suoi significati. La maschera crea
uno scarto rispetto a una presunta normalità, e in primo luogo rispetto a
un’immagine codificata – più o meno pacificamente accettata – del corpo
umano, che assurge a principale terreno di confronto fra concezioni della
realtà e immagini della stessa umanità. Se ci si maschera in un certo
modo piuttosto che in un altro è perché, evidentemente, si persegue uno
specifico effetto mimetico, capace di richiamare nella mente di chi
osserva quel preciso personaggio, quella precisa classe di individui –
umani, animali o chimerici che siano –, magari quell’idea astratta che,
grazie al tramite del corpo mascherato, acquisisce una plastica
concretezza. La maschera non lascia indifferenti, o almeno non dovrebbe,
ché altrimenti non si spiegherebbe tutta la cura con cui ci si affanna per
confezionarla e adattarla al suo portatore. Insomma, mascherarsi è un atto
di straordinaria valenza culturale, che incide in misura più o meno
profonda sulla compagine sociale nella quale si consuma. Le maschere
hanno un peso inequivocabile nell’economia carnevalesca e nella stessa
percezione di sé e del proprio ambiente, un peso che deve farcele
prendere sul serio, per paradossale che possa sembrare. Dietro le fattezze
più o meno vistose, più o meno stravolte dei corpi mascherati si cela
un’anima, che in qualche modo va a integrare, se non a rimpiazzare
provvisoriamente, quella che ciascuno si porta dentro durante il resto
dell’anno. Chi si maschera si assume un impegno, per il quale deve
rispondere all’intera collettività, specie se ci poniamo dal punto di vista
delle società tradizionali, che nel carnevale celebravano, innanzitutto, un
rito di propiziazione, di purificazione, di rigenerazione. Ma anche oggi,
per quanto si sia distanti anni luce dall’originaria mentalità carnevalesca,
non si può dire che la maschera sia vissuta come un banale travestimento,
anche se dovessimo limitarci alla mera dimensione estetica, aspetto
tutt’altro che trascurabile in un contesto che attribuisce tanto rilievo
all’apparenza. Se lo si facesse, letteralmente, a cuor leggero, non credo
che il mascherarsi resisterebbe all’azione logorante della postmodernità.
Esplicito o implicito che sia, il bisogno di celarsi temporaneamente in
un’altra identità, contraffacendo e obliterando, in misura più o meno
evidente, il proprio corpo, è qualcosa di inestirpabile dall’intimo

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dell’uomo. Che poi oggi, come si fa da più parti, si parli di un vasto e
generalizzato processo di carnevalizzazione4, che rende ormai superfluo,
svuotandolo di significato, il carnevale vero e proprio, è un altro
discorso, che ci invita, fra l’altro, a valutare l’eventuale consistenza di un
discrimine tra identità e maschera, tra corpo e corpo mascherato, ma non
è ciò che più mi preme in questa sede. L’argomento, semmai, si presta a
fornirci una preziosa pietra di paragone per apprezzare più efficacemente
l’assunto della presente trattazione5.
Non sempre e non necessariamente il corpo umano deve ricorrere a
risorse esterne per mascherarsi, o meglio per fare di sé una maschera.
Talvolta gli basta accentuare, sottolineare, enfatizzare o, viceversa,
attenuare, nascondere, finanche mutilare uno o più particolari anatomici
per dar vita a un individuo che, almeno apparentemente, non corrisponde
più a quello di partenza. Si pensi, a questo proposito, alla definizione
bachtiniana del corpo grottesco, alla cui costruzione si giunge attraverso
tutta una serie di interventi sul corpo concreto dell’uomo, sui suoi organi
esterni, a seconda della maggiore o minore consonanza con la
ricostruzione carnevalesca del mondo e della vita:

Il corpo grottesco […] è un corpo in divenire. […] È per questo motivo


che il ruolo più importante nel corpo grottesco è affidato a quelle sue parti e

4
Denso di spunti è, in proposito, il pregevole lavoro di M. Melotti, Oltre il Carnevale.
Maschere e postmodernità, in P. Sisto, P. Totaro (a cura di), Il Carnevale e il
Mediterraneo, Atti del Convegno internazionale di studio, Putignano 19-21 febbraio
2009, Progedit, Bari 2010; si veda in particolare p. 64: «Tuttavia la trasformazione più
evidente e che maggiormente incide sul Carnevale è il processo di carnevalizzazione
della società. La società del loisir è in un perenne Carnevale che consuma il
divertimento come una merce. In parte ciò serve a canalizzare in una miriade di rivoli le
tensioni, lo stress e le frustrazioni della nuova società globale. […] Le funzioni
psicologiche e sociali del Carnevale tradizionale non sono scomparse, ma si sono
distribuite in una molteplicità di eventi e di situazioni […]. Tutto costituisce
un’occasione di trasgressione, sfogo di pulsioni, canalizzazione della violenza,
ribaltamento temporaneo dei ruoli, acquisizione effimera di nuovi ruoli» (corsivi miei).
5
Teniamo a mente, per il momento, il seguente giudizio di L.M. Lombardi Satriani, La
contestazione folklorica e lo spazio carnevalesco, ivi, p. 324: «Una carnevalizzazione
siffatta si svolge non nel segno di una trasgressione reale, ma in quello della
banalizzazione conformistica, per cui appare fittiziamente esaltato un Carnevale
sostanzialmente tradito nelle sue istanze più profonde».

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luoghi dove esso va oltre se stesso, esce dai limiti prestabiliti, comincia la
costruzione di un nuovo (secondo) corpo: il ventre e il fallo. A essi è affidato un
ruolo di primo piano nell’immagine grottesca del corpo; ed è per questo che essi
diventano l’oggetto prediletto di un’esagerazione positiva, di
un’iperbolizzazione; possono perfino separarsi dal corpo, avere una vita
indipendente, così come possono soppiantare le restanti parti del corpo relegate
in una posizione subalterna (anche il naso può separarsi dal corpo)6.

Talvolta, però, non occorre neppure intervenire, dal momento che il


corpo, già dalla nascita o a seguito di un qualunque accidente, è capace di
assumere delle fattezze che lo pongono a una distanza più o meno palese
da quella che si può ritenere una normalità fisica, una distanza che
contribuisce, evidentemente, a connotare l’individuo in questione
secondo variabili parametri di anomalia, stranezza, diversità, che
rendono, per così dire, la sua individualità eccessivamente individuale,
una voce fuori dal coro. Ecco allora che quel corpo potrà essere inteso
alla stregua di una maschera, di un’involontaria maschera destinata a
svolgere sempre lo stesso ruolo, affibbiatole in ragione di credenze,
conoscenze e valori propri del suo contesto di appartenenza.
Emblematico, in tal senso, risulta un personaggio evocato da Orazio nelle
Satire (I, 5, 64), Messio Cicirro, del quale il suo avversario Sarmento
dice: «Nil illi larva aut tragicus opus esse cothurnis»; ovvero, in ragione
della mole imponente e della cicatrice che gli sfregia la fronte, non ha
bisogno di maschera o coturni per incarnare il personaggio del ciclope. Si
può dire che egli sia condannato a fare, letteralmente, la figura del
ciclope vita natural durante, prigioniero com’è della sua corporeità
mostruosa7. In questo caso il corpo diventa un limite doppiamente
invalicabile, dato che all’involucro fisico si aggiunge una sorta di patina
di matrice culturale che gli conferisce un significato prestabilito e

6
M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 347.
7
Sull’uso del termine larva nel passo oraziano chiarisce Bronzini che «indica maschera
facciale degli attori tragici nella sua oggettualità e funzionalità come parte del costume
teatrale […] ma non svela la natura funerea e la funzione paurosa che le maschere
potevano acquistare nel sistema cultuale e ludico romano» (G.B. Bronzini, Dalla larva
alla maschera, in M. Bettini, a cura di, La maschera, il doppio e il ritratto, Laterza,
Roma-Bari 1991, pp. 66-67). Avremo modo di ritornare sull’accezione infera di larva,
ossia di maschera, per interpretare la connotazione attribuita ai monstra medievali.

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univoco, alla stregua, sostanzialmente, di una maschera perennemente
all’opera, che suo malgrado infrange le barriere temporali tracciate dalla
ritualità carnevalesca per estenderla, potenzialmente, all’intero anno. La
sua presenza, insomma, determina un richiamo, più o meno esplicito, più
o meno recepito al carnevale, rendendo altresì fluido il confine che
separa la persona dal personaggio, l’individuo dal tipo, il corpo dalla
maschera.
Nella deformazione corporea può dunque ravvisarsi una fonte di
carnevalesco, un’occasione per definire e ridefinire le categorie sulle
quali gli individui e le comunità costruiscono la propria identità e, di
conseguenza, gestiscono il rapporto con l’alterità. Se quest’ultima è
interna al gruppo, come nell’esempio oraziano, si creano i presupposti
per un ampio ventaglio di possibilità, che vanno dalla completa
accettazione al rifiuto totale, passando per tutta una serie di gradi
intermedi di compromesso, dove magari la distanza viene determinata da
minori o maggiori livelli di curiosità, derisione, ripugnanza, paura.
Franco Porsia parla di una «irresistibile forza di attrazione generata dal
‘diverso’; e questa passione per il meraviglioso, lo strano, l’inusitato, il
mitico, non è in contraddizione con la repulsione (variamente motivata)
generata dal mostro, ma costituisce il termine antitetico di un rapporto
dialettico»8. Il povero Messio Cicirro, allora, soddisfa un’intima e
profonda necessità, più o meno inconfessata, dell’animo umano, una
necessità che è in parte assolta appunto dal carnevale e dal
mascheramento, ma che non può certo essere messa a tacere per tutto il
resto dell’anno. Da qui ad arrivare al processo di carnevalizzazione
postmoderna della vita e della società ce ne passa, ma non si può negare
l’esistenza, lungo tutta la storia, di immagini, meccanismi, sistemi, in una
parola, perché no, di maschere in grado di garantire quella dose di
carnevalesco quotidiano necessaria a vivere, se non a sopravvivere.
Naturalmente occorreva anche una certa indole carnevalesca per
adattarsi alla convivenza con un Messio Cicirro o con bestioni del suo
stampo e conservare, al contempo, la consapevolezza di non trovarsi nel

8
F. Porsia (a cura di), Liber monstrorum, Dedalo, Bari 1976, p. 35.

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bel mezzo di una messinscena teatrale9. Tanto più se ad essere richiamato
alla memoria era un personaggio, il ciclope, afferente al mito, ossia a un
immaginario collettivo costruitosi sui racconti e non certo sulla visione
diretta. Del resto, le strade non pullulavano mica di maschere viventi,
giacché si trattava (e si tratta) pur sempre di eccezioni, di scherzi,
diciamo così, di cui la natura si serviva per rammentare all’uomo la sua
imperscrutabile onnipotenza.
La natura o Dio? La domanda non è affatto peregrina se ci si
colloca al momento del trapasso dall’Antichità pagana al Medioevo
cristiano. Con l’avvento della nuova fede si ridisegna giocoforza la
dialettica con l’altro, il diverso, l’a-normale. Ciascun elemento – umano,
animale, vegetale o inanimato che sia –, in quanto creato dal volere
divino, deve essere inserito all’interno di un più vasto quadro d’insieme
comprensibile solo al Creatore. È soprattutto Agostino a spendersi in tal
senso, erede com’era di uno sconfinato retaggio classico di chimere,
mostri e meraviglie assortite che rischiava di turbare la purezza del
messaggio cristiano, specialmente nelle masse popolari. È l’uomo, a
causa della sua limitatezza, a rendere strane e inusitate determinate forme
assunte dalla natura – oltre, ovviamente, alla perniciosa fantasia degli
autori classici, che con le loro opere alimentano le credenze più
inverosimili. Fatto sta che gli stessi autori cristiani, pur memori del
magistero agostiniano, concedono sempre uno spazio, soprattutto nei testi
enciclopedici, ai monstra, ovvero a casi più o meno noti di corporeità
deformi che vanno ad arricchire lo spettacolo del creato. Non si tratta più
di individui isolati, alla Messio Cicirro per intenderci (che comunque non
spariscono), ma di intere razze, intere popolazioni connotate secondo le
più svariate anomalie fisiche (ma anche caratteriali o comportamentali,
che però non ci interessano in questa sede), a incarnare fantasie vecchie e
nuove di una società medievale che maschera l’Altro per rispecchiare se
stessa, i suoi timori, le sue idiosincrasie, le sue aspirazioni, i suoi sogni,
più o meno inconfessabili. Infatti, questa enorme mascherata viene
ambientata il più lontano possibile, in un Altrove tanto distante da poter
essere solo immaginato e, dunque, arredato a proprio piacimento. In

9
Bronzini ci ricorda che «la mentalità popolare ignora il concetto di rappresentatività»
(Dalla larva alla maschera, cit., p. 73).

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sostanza, il carnevale perenne cui si accennava in precedenza viene
spostato in regioni di confine, vale a dire ai margini del mondo
conosciuto, a oriente soprattutto in India – che assurge a vero e proprio
regno delle meraviglie –, a occidente nelle isole che si immaginano
disseminate nell’Oceano Atlantico. Da una parte e dall’altra sembra
delinearsi una sospensione di norme e principi apparentemente universali
ed è curioso che alcuni autori, per spiegare tali fenomeni, ricorrano a
motivazioni di sapore carnevalesco. Scrive Ranulf Higden, monaco
inglese del XIV secolo: «Nei posti più lontani del mondo spesso
accadono nuove cose meravigliose, come se in segreto la natura giocasse
con maggior libertà ai bordi del mondo di quanto non faccia apertamente
e più vicino a noi nel centro»10. E Giraldus Cambrensis:

[…] proprio come i paesi dell’Oriente sono degni di nota e si distinguono


per certi prodigi [ostentis] peculiari ed indigeni, allo stesso modo anche i
confini dell’Occidente sono resi interessanti dalle loro proprie meraviglie
naturali [naturae miraculis]; come se [la natura], talvolta stanca del vero e del
serio, si mettesse in disparte e si allontanasse, e in queste remote zone si
abbandonasse ad eccessi timidi e nascosti11.

I capitoli che Isidoro di Siviglia e la nutrita schiera di enciclopedisti


medievali dedicano alle maschere dell’alterità inconciliabile possono
essere letti come altrettante sfilate allegoriche, dove ciascun monstrum, in
ossequio alla sua stessa etimologia, è deputato a monstrare qualcosa che
non si potrebbe esprimere altrimenti12. Se nei carnevali tradizionali è
necessario travestirsi o modellare con le proprie mani fantocci di
cartapesta per rendere concretamente presenti figure più o meno
immaginarie, ma significative nel contesto rituale, nell’Altrove esotico
sono i corpi stessi a incarnare direttamente significati, principi, valori o,
più semplicemente, capricci della fantasia.

10
Citato in L. Daston, K. Park, Le meraviglie del mondo. Mostri, prodigi e fatti strani
dal Medioevo all’Illuminismo, Carocci, Roma 2000, p. 29 (corsivo mio).
11
Ibidem (corsivo mio, tranne i termini latini).
12
Cfr. F. Porsia (a cura di), Liber monstrorum, cit., p. 35: «Povera [la società
medievale] di linguaggi che potessero esprimere aspirazioni e proteste, essa ne trovava
uno, ermetico e limitato, nel meraviglioso».

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Sarebbero innumerevoli i testi che potremmo citare, ma non è
questa la sede per stilare inventari facilmente rintracciabili in lavori
specialistici13. Basterà soffermarsi un momento su un’opera che più di
altre si fa notare, in ragione di un’esemplarità che si adatta
particolarmente al nostro discorso: il Liber monstrorum, un breve trattato
risalente all’VIII-IX secolo. Nelle sue succinte rubriche viene riassunta
una parte consistente dell’apparato teratologico del Medioevo, tanto in
ambito umano quanto in quello animale. Circa la prima categoria, che ci
interessa più da vicino, l’autore raggruppa 56 casi di razze o individui
mostruosi, caratterizzati da uno o più aspetti che li pongono al di fuori di
una comune e condivisa idea di umanità. L’anonimo autore è
decisamente scettico riguardo all’effettiva esistenza di tali creature, ma
nondimeno si piega a soddisfare il desiderio del suo interlocutore
(probabilmente solo una formula retorica) di essere edotto «sulle terre
incognite e sulla credibilità da accordare a quel così gran numero di
mostri che son detti viventi nelle regioni sconosciute della terra, nei
deserti e nelle isole dell’oceano, e nei nascondigli dei monti più
lontani»14. Siamo immediatamente indirizzati in un Altrove ignoto, in
luoghi inospitali o remoti quali isole, deserti e monti, in territori nei quali
può accadere tutto e il contrario di tutto senza che ciò possa avere
ricadute tangibili sulla vita di chi scrive o di chi legge. Un po’ come le
maschere carnevalesche: per quanto possano spaventare o inquietare, si
sa che sono destinate a svanire nel giro di qualche giorno, allorché si
ritornerà, per una legge che è al contempo naturale e sociale, alla vita di
sempre, fatta di uomini e donne tendenzialmente normali. Tanto vale,
allora, accantonare qualsiasi illusoria pretesa di accertare la verità
riguardo ai racconti tramandati dalle «opere dei filosofi e dei poeti» e
godersi piuttosto lo spettacolo. Del resto, questa rapida ma appariscente
carrellata di mostri che altro è se non una sfilata di maschere, più o meno
terrificanti, che si lasciano osservare innocue dalla fantasia di chi scorre

13
Senza spingersi troppo lontano, mi limito a rimandare all’ottimo libro citato alla nota
10, nonché a un testo cui sono legato in quanto è stato il primo sul quale ho cominciato
a riflettere sui temi del mostro e del meraviglioso: G. Zaganelli, L’Oriente incognito
medievale. Enciclopedie, romanzi di Alessandro, teratologie, Rubbettino, Soveria
Mannelli 1997.
14
Ivi, p. 127.

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le pagine in cui sono immortalate? Vere e proprie allegorie di un mondo,
anzi di un anti-mondo che, con la sua deforme alterità, offre agli occhi
dei fedeli (ché tali erano i lettori del libro) un assaggio di aldilà,
un’immaginifica ma credibile15 prefigurazione dello scarto, formale e
sostanziale, che senz’altro avrebbe presentato quella realtà ultraterrena
verso la quale tendeva l’uomo medievale. Non dimentichiamo, a questo
proposito, come ci insegnano Meuli o Toschi, l’intima relazione che lega
le maschere dei nostri carnevali ai demoni, alle anime dei morti,
insomma alla dimensione infera, oscura, inconscia, del mondo come
dell’individuo. Proseguendo su tale direttrice, possiamo anche leggere,
nella rassegna proposta dal Liber, una sorta di salto nel passato, in un
mitico passato popolato da creature informi e deformi, in un caos
primordiale da cui noi stessi proveniamo e del quale sopravvivono
residui ai margini della Terra che fanno apprezzare, per contrasto, la
divina proporzione di un corpo normale, non mascherato, ma che
fungono pure da spauracchi dinanzi alle tentazioni di sovvertire l’ordine
naturale. Non è un caso che molti dei mostri in questione siano appunto il
parto spregevole di scellerate unioni contro natura16.
Nella lista del Liber ce n’è per tutti i gusti, ma volendo individuare
una categoria predominante sulle altre, la possiamo identificare nei
giganti, che è poi quella che ci interessa più da vicino. Fra personaggi
singoli di classica memoria e intere razze, si contano ben sedici esempi di
monstra connotati esplicitamente (a prescindere da eventuali, ulteriori
caratteristiche mirabili) per dimensioni fisiche imponenti, impressionanti,
in maggiore o minore misura esorbitanti dai comuni e consueti parametri.
Una prevalenza (si consideri che ci sono solo i pigmei a rappresentare il
campo inverso delle dimensioni minuscole) che è un chiaro indizio
15
Non dimentichiamo che nella Bibbia non mancano certo esempi di deformità
mostruosa, a cominciare dai giganti citati nella Genesi, per finire alle bestie e ai draghi
dell’Apocalisse.
16
Il riconoscimento di una trasgressione alle leggi naturali (e morali) può costituire il
pretesto per giustificare l’assoggettamento di un territorio e di un popolo stranieri, come
nel caso della conquista inglese dell’Irlanda. Si veda L. Daston, K. Park, Le meraviglie
del mondo, cit., p. 31: «Quando la natura agiva ‘contro le sue proprie leggi’, come
scrisse Giraldo, essa produceva meraviglie in una terra degna di essere conquistata; ma
quando gli irlandesi trasgredivano l’ordine morale, essi producevano orrori e segni di
depravazione che ne rendevano legittima l’espropriazione».

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dell’ancestrale attrazione dell’uomo per lo smisurato, per il colossale,
sostanzialmente per una proiezione amplificata e dilatata del proprio
corpo, con tutte le conseguenze che questo può comportare (e che
potremo apprezzare appieno nei giganteschi eroi di Rabelais). Un
principio che ritroviamo ancora oggi nelle enormi figure in cartapesta che
sfilano sui carri allegorici lungo le strade di Putignano e di tante altre
località nel periodo di carnevale17. Tornando al Liber, si va da un
personaggio storico come Hygelac, re dei Geti, al mitico Orione,
passando per la spaventosa ma ormai estinta stirpe dei giganti, il cui
testimone è rilevato dai cosiddetti uomini immensi, i quali «nascono […]
nelle plaghe orientali» e «raggiungono quindici piedi di altezza […]
quando vedono un uomo, fuggono per i deserti vastissimi con le orecchie
ritte»18. Ci sarebbe di che tranquillizzarsi, se non fosse che «nasce, ad
oriente del fiume Brixonte, un genere di uomini di proporzione
grandissima, di corpo nero: raggiungono i diciotto piedi di altezza e,
come dicono, quando prendono gli uomini, li mangiano crudi»19: ci sono
tutti gli ingredienti per fare di costoro una terrificante maschera
demoniaca. Ed è interessante notare come siano contemplate anche
donne mostruose, «che hanno tredici piedi d’altezza e capelli fluenti fino
ai talloni, code di bue ai fianchi e piedi di cammello»20: qui, al
gigantismo, si aggiunge la presenza di attributi di altre specie animali,
che evocano accoppiamenti contro natura, ma incarnano pure un limpido
esempio di fantasia grottesca.
Con il passare dei secoli, il Medioevo imparerà ad essere più
indulgente nei confronti di tale grottesco, ad addomesticare la paura e la
stessa ripugnanza e a tradurre il Mirabilis Oriens – anche per la
concomitanza dei primi viaggi reali in quelle regioni – piuttosto in una
piacevole occasione di evasione fantastica, via via che si acquisiva la
certezza che di chimere si trattava, prive finanche di quel corpo che
invece potevano vantare le maschere modellate sulle imperfette ma
umane membra di coloro che si assumevano il compito di impersonare le
17
Del resto, come afferma Bachtin, «il gigante è per definizione l’immagine grottesca
del corpo» (L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 374).
18
Cfr. F. Porsia (a cura di), Liber monstrorum, cit., p. 197.
19
Ivi, p. 187.
20
Ivi, p. 181.

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figure del carnevale – va da sé che il gobbo o il gigante di turno
assolvevano l’incombenza mediante la sola adeguatezza della propria
fisicità. Ad ogni modo, «nonostante il loro fascino, le meraviglie
d’Oriente non rappresentavano in definitiva un’alternativa autonoma, una
prospettiva da cui effettivamente sfidare la centralità e il carattere
normativo dell’ordine naturale e morale dell’Occidente»21. Tanto è vero
che spesso, nei testi che narrano e descrivono tali soggetti, ritorna il
personaggio di Alessandro Magno, nella sua precipua qualità di
conquistatore, qui più in particolare nelle vesti di colui che stermina o,
più benevolmente, assoggetta specie umane o umanoidi che devono
necessariamente cedere spazio e potere a chi è stato creato a immagine e
somiglianza di Dio. È come se, in un certo senso, la regolata normalità
del quotidiano imponesse il suo giogo alla sfrenata eccentricità del
carnevalesco, in modo da inibire eventuali esplosioni non in linea con
l’ordine costituito. Un carnevale perenne non è ammissibile, anche
perché smarrirebbe la sua stessa ragion d’essere, almeno sulla base dei
principi che sorreggono il mondo nel quale esso è nato ed è prosperato,
sia pure con alterne fortune, fino ad oggi. Semmai, l’aspirazione a un
totale e definitivo sovvertimento in senso carnevalesco è uno di quei
sogni che, di tanto in tanto, fanno capolino nella fantasia di singoli o di
intere comunità, il più delle volte gestiti nei limiti di una festosa e
irriverente ritualità, ma che storicamente hanno pure dato vita a veri e
propri fenomeni di rivolta, di matrice sociale, politica e/o religiosa.
Ci sono, tuttavia, avvicendamenti storici e culturali che, in un certo
qual modo, danno davvero l’idea di un completo ribaltamento di
prospettiva, dell’irruzione di un vento di novità che rimette tutto in
discussione e che ispira negli spiriti un profondo bisogno di
rigenerazione. Quando accade ciò, sorge quasi spontaneamente chi riesce
a riassumere nella maniera più efficace e più icastica tanto fermento.
Ma, prima di giungere a Rabelais – che costituisce appunto
l’obiettivo cui tende il mio discorso –, giova soffermarsi un momento su
un poema cavalleresco che, insieme a tutta la tradizione eroicomica
italiana del Quattro-Cinquecento, rappresenta una fonte privilegiata per

21
L. Daston, K. Park, Le meraviglie del mondo, cit., p. 37.

50
l’autore francese22: il Morgante di Luigi Pulci. In esso compaiono due
personaggi che si caratterizzano, rispettivamente, per gigantismo e
semigigantismo, ovvero lo stesso Morgante (che dà il titolo all’opera,
non un dettaglio di poco conto, se si pensa che normalmente tale onore
era riservato agli eccelsi eroi del campo cristiano) e Margutte. Una
coppia di chiaro stampo carnevalesco, i cui corpi sproporzionati si
muovono liberamente sui campi di battaglia dell’eterna lotta fra paladini
e infedeli, compiendo imprese che hanno poco da spartire con il classico
canovaccio imposto all’eroe cavalleresco. Non è la loro presenza
nell’intreccio a sorprendere, visto che di giganti pullulava la tradizione
epico-cavalleresca, bensì il ruolo che è loro accordato – essi militano
infatti sotto le insegne cristiane, pur se in maniera tutt’altro che ortodossa
–, il peso che assumono nell’economia dell’opera (malgrado occupino
uno spazio relativamente marginale, specialmente Margutte) e,
soprattutto, la loro integrazione nella dimensione umana della storia, che
li porta a condividere vizi (molti) e virtù (poche) propri della nostra
condizione, semmai accentuandoli iperbolicamente, come ci si poteva
aspettare da individui della loro mole. E come esigeva la loro natura
carnevalesca, che ne fa due maschere indimenticabili, vettori, nella forma
e nella sostanza, di una visione grottesca che è senz’altro lusus letterario,
ma anche fonte di liberazione dal rigido fardello ereditato dal
Medioevo23. I monstra, insomma, abbandonano le lande remote
dell’Oriente o dell’Oceano e vengono a mescolarsi in mezzo a noi,
ancora una volta per monstrare, certo, ma qualcosa di nuovo rispetto al
passato.
E la prova più evidente e organica, nonché più riuscita dal punto di
vista letterario, del nuovo statuto assunto dai mostri, e più in particolare
dai corpi smisurati dei giganti, ci viene dai cinque libri del Gargantua et
Pantagruel di François Rabelais, dove il trionfo del carnevalesco assume
una valenza, una pregnanza, una densità di significati che, come ci

22
Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 375: «La
tradizione italiana dei giganti comici era molto nota a Rabelais e dobbiamo considerarla
come una delle fonti principali per le sue immagini grottesche del corpo».
23
A tal proposito è assolutamente memorabile e significativo l’irriverente, gioioso,
carnale Credo declamato da Margutte (XVIII, 115-120), che invito a rileggere, anche
solo per il piacere che procura, un piacere eminentemente carnevalesco.

51
suggerisce giustamente Bachtin, non ritroveremo mai più nella
letteratura. Se Morgante e Margutte avevano aperto la strada, con le
figure di Gargantua e Pantagruel veniamo travolti da un’autentica onda
d’urto che crea uno scompiglio di proporzioni commisurate a quelle dei
due protagonisti.
Consideriamo immediatamente i tre aspetti fondamentali della
questione: i due giganti, padre e figlio (senza dimenticare i genitori e la
moglie di Gargantua, anch’essi di taglia enorme), sono pienamente
integrati in una realtà totalmente umana e totalmente conosciuta (la
Francia contemporanea di Rabelais) e, perdipiù, sono re e principe di uno
Stato (sia pure chiamato Utopia); l’uno e l’altro, a dispetto di dimensioni
tradizionalmente associate a scarsezza d’intelletto e cieca violenza, si
affermano quali modelli di una nuova idea di umanità, paladini di
un’educazione a tutto tondo che si scuote di dosso lacci, vincoli e dogmi
della cultura medievale, insomma araldi di una completa catarsi,
individuale e collettiva, che parte dalla riappropriazione e finanche
dall’esaltazione del corpo, che nei giganti si esprime in tutta la sua
vitalità24; la presenza costante dei due protagonisti – che è dunque
spiritualmente, culturalmente ingombrante, oltre che fisicamente –
nell’orizzonte degli eventi impone, volenti o nolenti, una
carnevalizzazione di tutto il mondo nel quale essi si muovono e agiscono:
i loro corpi smisurati non possono passare inosservati, per cui, dal punto
di vista degli osservatori normolinei – e tanto più per chi ne è suddito –,
si vive giocoforza in una situazione di carnevale perenne, senza
nemmeno l’attenuante di un loro arrivo da terre remote (come accade per
Morgante e Margutte), dal momento che di entrambi i personaggi
seguiamo nel dettaglio la venuta al mondo, come se si trattasse di
bambini qualsiasi (si fa per dire: si leggano gli esilaranti capitoli del

24
Si veda, in proposito, ciò che scrive Giorgio Manganelli in un articolo del «Corriere
della sera» citato in M. Pasi, S. Boccardi (a cura di), Storia della musica, Jaca Book,
Milano 1995, vol. II, p. 105: «Tutto Gargantua è un poema del corpo; poema totale,
spudorato, impudico, non lascivo, giacché mal s’acconcerebbe la lascivia alla
gigantesca presenza dei personaggi. Ma tutto ciò che è corpo è glorioso: e dunque il
libro di Rabelais, mirabile epifania delle membra, è per ciò stesso ‘enorme’, qualcosa
che svela totalmente la vergognosa meraviglia dell’esistenza fisica».

52
primo e del secondo libro in cui si descrivono la nascita e le prime gesta
dei due eroi). Insomma, la maschera della deformazione corporea, in
Rabelais, viene pacificamente assorbita in una normalità che, di
conseguenza, viene ridefinita da cima a fondo, in linea con il progredire
di un nuovo panorama umano, storico e culturale. Il mostro non fa più
paura – o meglio, un certo brivido lo suscita quando si arrabbia e fa
strage di nemici che rappresentano il male, la sopraffazione, il passato –,
ora fa ridere, ma si tratta di una risata che costruisce oltre che
distruggere; inoltre è un mostro che è del tutto a suo agio fra i non-mostri
e si diletta a indicar loro un cammino di rigenerazione. Si può dire che la
sproporzione di Gargantua e Pantagruel, lungi dall’evocare il caos
primordiale incarnato dai giganti dell’Antichità25, delinea una nuova idea
di ordine, che sorge dallo stesso disordine e da esso trae la sua forza,
secondo quel potente principio di unità degli opposti che è l’essenza del
grottesco.
È interessante notare come, tra le pagine dell’opera rabelaisiana, si
assista a un confronto diretto, talvolta anche cruento, fra mostri di nuova
e mostri di vecchia generazione, per così dire, un confronto che si
configura come una vera e propria contesa allegorica tra opposti modelli
di umanità – oltre che, ovviamente, un’occasione di piacevole evasione
fantastica, molto apprezzata dal pubblico. L’autore va a pescare nella
ricca tradizione teratologica medievale, in particolare nel descrivere il
viaggio per mare di Pantagruel nel IV e nel V libro, per subordinarla alla
complessiva visione carnevalesca del romanzo, che non a caso sfocia in
una sentenza, quella della Diva Bottiglia, che è tutto un programma:
TRINK! Rabelais attinge tanto al patrimonio di miti e leggende legati
all’India meravigliosa26, quanto a quello che ha nella Navigatio Sancti
Brendani la sua massima espressione, e in entrambi i casi è come se il
gigante Pantagruel divorasse, pur se solo metaforicamente, e
metabolizzasse figure mostruose vissute per secoli ai margini del mondo
conosciuto e dunque al riparo dagli assalti della ragione; è la ragione
carnevalesca, paradossalmente, a far luce sulle maschere del grottesco
25
Molti dei quali sono significativamente chiamati in causa nella genealogia di
Pantagruel, che Rabelais delinea nel 1° capitolo del secondo libro (F. Rabelais,
Gargantua e Pantagruele, RCS Libri, Milano 1998, vol. I, pp. 315-319).
26
Si veda M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., pp. 378-381.

53
medievale27. La quintessenza di questo grottesco è rappresentata dalla
figura, spaventosamente e comicamente composita, di Quaresmeprenant,
ossia Quaresimarca (o Quaresimante), il cui nome è la chiara spia di una
contrapposizione a Pantagruel – e a Gargantua –, un’antitesi, appunto
quaresimale, del re di Carnevale incarnato dai due giganti rabelaisiani.
Tre interi capitoli del IV libro sono dedicati alla descrizione di questo
mostro, sovrano dell’isola di Sottobanco: il 30° agli organi interni, il 31°
alle parti esterne, il 32° alle sue attitudini28. In tale personaggio, autentico
trionfo di fantasia e di creatività carnevalesca, si riassume icasticamente
tutto ciò che si vuole spazzar via di un passato imperniato sulla rinuncia,
sull’autocommiserazione, su una sterile spiritualità che mortifica
impietosamente la dimensione corporea. Nelle prime righe a lui
consacrate (che, per quanto banali rispetto al seguito, sono
particolarmente illuminanti) si dice che è «un mezzo gigante di primo
pelo e con doppia tonsura […] buon cattolico, tutto casa e chiesa. Piange
tre quarti del giorno. Non lo si incontra mai a un festino di nozze»29.
Viceversa, tra il 57° e il 62° ci imbattiamo in un altro gigante, anch’esso
sovrano di un’isola, che viene celebrato quale «protomaestro d’arti del
mondo», ossia l’inventore di tutti i saperi e di tutte le tecniche in
possesso dell’uomo; il suo nome è Gaster, vale a dire il ventre, la pancia
o, per dirla con Rabelais, la trippa. Il significato di quest’altra maschera è
molto chiaro ed è esplicitamente espresso e ripetuto: «E tutto per la
trippa!»30; ogni scoperta, ogni invenzione può essere ricondotta, in ultima
analisi, alla pancia, ovvero al primario bisogno umano di riempirla per
non morire di fame e di sete. In Gaster, dunque, Pantagruel può
rispecchiarsi e trovare una sorta di precursore di quel gigantismo vitale e
positivo che egli e la sua famiglia hanno trapiantato direttamente nel
cuore della Francia e non in chissà quale remoto paradiso terrestre31.

27
Cfr. ivi, p. 440: «Le meraviglie leggendarie del mar d’Irlanda si trasformano così,
nelle pagine di Rabelais, in un gioioso inferno carnevalesco».
28
F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, cit., vol. III, pp. 1125-1141.
29
Ivi, pp. 1121-1123.
30
Ivi, p. 1261.
31
La dimostrazione più lampante della piena integrazione di Gargantua e Pantagruel
nella realtà del loro tempo è data dalla lunga permanenza, prima dell’uno poi dell’altro,
a Parigi, dunque nel cuore pulsante non solo della Francia ma della stessa Europa del

54
Lungi dal caratterizzarsi solo per imprese iperboliche che, non a
caso, da allora in poi saranno definite pantagrueliche e che senz’altro
rappresentano uno dei più attraenti e più significativi motivi d’interesse
del romanzo – ma anche meno sorprendenti, nel senso che da giganti di
tal fatta non ci si può non aspettare tanto incontenibile esuberanza –,
Gargantua e Pantagruel si ergono ad autentici modelli di vita, di
comportamento, di saggezza. In loro sembra realizzarsi in pieno il
progetto umanistico di rifondazione dell’uomo basato su un percorso
educativo accuratamente concepito e ancora più accuratamente
realizzato. I due giganti, disponendo di mezzi e risorse ignoti a chiunque
altro, possono conseguire risultati che per la normale umanità è solo
utopia, meta irraggiungibile di un cammino comunque teso al
miglioramento di sé. Rabelais dedica interi capitoli alla formazione
intellettuale e più ampiamente umana dei suoi eroi, dove le ragioni e i
bisogni della mente non sono mai disgiunti da quelli del corpo e
un’attività intensa di studio non sottrae nulla al legittimo desiderio di
godersi pienamente la vita, così che, come recita il titolo del 23° capitolo
del I libro, «Gargantua fu educato da Ponocrate in modo tale che non
perdeva un’ora del giorno». L’esito di tanta applicazione non tarda a dare
i suoi frutti, come si legge nel capitolo successivo:

Così fu educato Gargantua e questa regola seguiva giorno per giorno;


traendone naturalmente tutto il profitto che voi pensate possa trarre un giovane
giudizioso da un sì costante esercizio. Il quale, per quanto potesse sembrar
gravoso al principio, divenne poi, per consuetudine, leggero e dilettevole tanto
da somigliare a un passatempo da re più che a una disciplina da scolaro32.

Ecco che un gigante si trasforma, sotto i nostri occhi, in un giovane


giudizioso, tanto giudizioso da trasformare in passatempo ciò che in

XVI secolo. Più esattamente Gargantua si trattiene nella capitale dal 16° al 34° capitolo
del I libro, Pantagruel dal 7° al 23° del II libro. Entrambi hanno modo di lasciare un
segno indelebile del loro passaggio: Gargantua, appena arrivato, si impadronisce delle
campane di Notre-Dame, mentre Pantagruel si distingue per la capacità di dirimere una
controversia assolutamente incomprensibile. Per entrambi, tuttavia, il soggiorno a Parigi
è soprattutto funzionale all’acquisizione di una cultura che, come vedremo, ne farà i
campioni di quell’umanesimo che allora andava affermandosi in Europa.
32
F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, cit., vol. I, p. 143 (corsivi miei).

55
realtà si svolge secondo una ferrea disciplina: ma questo è appunto uno
dei vantaggi dell’essere un gigante, il quale, se ben indirizzato, può
giovarsi della sua forza spropositata per elevarsi a vette altrimenti
inaccessibili. Prova ne sia ciò che si legge in apertura di 8° capitolo del II
libro, dove protagonista è invece Pantagruel: «Come potete immaginare,
Pantagruele studiava in modo egregio e profittava di conseguenza, perché
egli possedeva un intendimento a doppio risvolto e una memoria della
capacità di dodici otri più qualche botte da olio»33. Ecco svelato
l’arcano, o almeno una parte di esso: il gigante dispone di una memoria
esorbitante, comicamente misurata in otri e botti d’olio, dunque è per lui
un gioco da ragazzi acquisire agevolmente un sapere sconfinato. Questo è
anche un modo per sottolineare la distanza che ci separa da un
personaggio la cui esistenza resta pur sempre relegata
nell’immaginazione carnevalesca. Ma, fintanto che tale immaginazione
può avere effetti positivi sulla realtà circostante, è bene metterla a
profitto.
Gargantua è un re di carnevale che ha la peculiarità di stare al
potere dal primo all’ultimo giorno dell’anno, non egli si immola per il
bene della comunità, bensì i nemici che premono ai confini del suo regno
e pretendono, sostanzialmente, di riportare il mondo in una condizione di
cieca violenza e meschina prevaricazione. Nella battaglia contro
Picrochole, Gargantua convoglia la sua forza prodigiosa per sbaragliarne
l’esercito, dimostrando una volta di più la completezza delle sue doti e
delle sue virtù. Si tratta, tuttavia, di una forza illuminata, che fa sì strage
di nemici – che soccombono letteralmente come birilli, come è lecito
attendersi dallo scontro fra un gigante e creature che appaiono come
formiche al suo cospetto –, ma che è sostenuta da una saggezza che porta
l’eroe, dopo aver trionfato, a proferire una concione ai vinti che comincia
così:

Per quanto è dato riandare con la memoria a tempi lontani, i nostri padri,
avi e antenati furono di tal sentimento e natura che, a celebrazione perenne delle
battaglie combattute, dei loro trionfi e vittorie, amarono meglio erigere trofei e

33
Ivi, p. 365 (corsivo mio).

56
monumenti di magnanimità nel cuore dei vinti che non ambiziose architetture
sopra le terre conquistate34.

La guerra, dunque, nell’ottica del re di carnevale, della maschera


gigantesca, è soltanto un momento di passaggio, un evento transitorio
finalizzato al raggiungimento di una duratura e prolifica pace. Il conflitto
contro il superbo Picrochole si configura allora come un’occasione per
estendere la giurisdizione carnevalesca su un territorio fino ad allora
governato secondo le vecchie e consunte leggi di un mondo che ha perso
le sue prerogative. La fondazione dell’abbazia di Thélème, improntata a
un’unica regola aurea, FA’ CIÒ CHE VUOI, e che si delinea piuttosto
come un’anti-abbazia, è il più degno epilogo di un’irruzione senza
precedenti del carnevale nella realtà ufficialmente consacrata.
A un’altra guerra assistiamo nel II libro, e stavolta tocca a
Pantagruel difendere il regno del padre dall’assalto dei Dipsodi, i quali
possono però contare su un’armata di giganti, capeggiata da
Lupomannaro. Un conflitto decisamente interessante, visto che oppone
figure solo apparentemente simili, ma che sono figlie di due antitetiche
concezioni della deformazione corporea, come se sul campo di battaglia
si consumasse un avvicendamento epocale. Forse non è un caso se tale
contesa viene preceduta da un evento che rimanda miticamente alla fine
del mondo. Pur se involontariamente, Pantagruel sbaraglia le schiere
dell’esercito nemico (di taglia umana) in una maniera tanto originale
quanto del tutto in linea con la sua natura di gigante e di figura
carnevalesca. Vale la pena leggere il passo in questione:

D’improvviso, a causa delle droghe che Panurgo gli aveva propinato, a


Pantagruele venne da pisciare, e pisciò in mezzo al campo così bene e sì
copiosamente che li sommerse tutti quanti, e vi fu un suo diluvio personale per
dieci leghe all’intorno. […]
A tal vista, quelli che erano usciti dalla città credettero a un massacro
generale. «Guardate il sangue come scorre» dicevano. Ma si ingannavano,
scambiando per sangue dei nemici il piscio di Pantagruele […].
Alcuni dicevano ch’era il Giudizio finale, cioè la fine del mondo […]35.

34
Ivi, p. 261.
35
Ivi, p. 521.

57
Un banale gesto fisiologico, se compiuto da un gigante in un
contesto a misura d’uomo, può assumere una portata apocalittica, che
rischia di travolgere in un baleno tutto ciò che gli si para dinanzi.
Malgrado la pacifica convivenza, si tratta pur sempre di due mondi
separati da uno scarto insopprimibile, che necessita di un’accurata
gestione per non dar luogo a disastri. Un’esuberanza a doppio taglio,
quella della festa carnevalesca incarnata da Pantagruel, che mette in luce
la sostanziale precarietà della condizione umana, la sua grandezza
assolutamente relativa se posta a confronto con elementi e forze che la
sovrastano. Esemplare in tal senso è la scoperta, da parte di Alcofibras
(controfigura di Rabelais nel romanzo), nella bocca di Pantagruel di un
vero e proprio universo parallelo, «dove si trovano più di venticinque
regni abitati, senza contare i deserti e un grande braccio di mare»36, un
universo che è del tutto ignaro dell’esistenza del nostro e viceversa,
separati l’uno dall’altro dal fatto di collocarsi fuori o dentro il corpo del
gigante. In proposito è illuminante quanto scrive Bachtin: «Nella storia di
questo mondo ‘più antico della terra’ che si trova nella bocca di
Pantagruele, si intravede l’idea della relatività dei giudizi spaziali e
temporali, ma visti sotto il loro aspetto comico e grottesco»37. Ecco, è
appunto in questa interpretazione comica e grottesca della relatività che
l’uomo consegue la sua salvezza. Pantagruel è un gigante bonario, è
probabilmente la quintessenza del re di Carnevale che libera la comunità
da tutti i mali e dona una prosperità duratura. La più plastica
dimostrazione di ciò sta proprio nella zuffa che ingaggia prima con
Lupomannaro (un nome che è tutto un programma), poi con gli altri
trecento giganti, che sbaraglia servendosi del corpo ormai inanimato di
Lupomannaro come di una mazza. I giganti diabolici della tradizione
medievale non hanno più ragion d’essere nella nuova realtà
rinascimentale, per cui non possono che soccombere sotto le percosse,
più stravaganti che violente, del campione di questa nuova realtà.
L’epilogo della lotta risulta altamente significativo: «Finalmente, quando
vide ch’erano morti tutti, Pantagruele ruotò alto nell’aria il gran

36
Ivi, p. 557.
37
M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 371.

58
corpaccio di Lupomannaro, come fosse una fionda, e lo scagliò lontano il
più possibile al di là dei bastioni»38. Solo un gigante, naturalmente
armato di buone intenzioni, è in grado di compiere un gesto tanto
esplicito di liberazione e di purificazione. Un gesto che esprime l’eterno
e utopico sogno di un carnevale perenne, che non ha niente a che fare con
la conformistica carnevalizzazione postmoderna e che può realizzarsi
solo nelle pagine di un’opera unica come il Gargatua et Pantagruel di
François Rabelais39.

38
F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, cit., vol. I, p. 531.
39
Dopo di lui i giganti, quelli veri, tendono fatalmente a rarefarsi anche sul proscenio
della letteratura, tant’è vero che Don Chisciotte, a caccia anch’egli di un inafferrabile
carnevale, dovrà arrangiarsi a vedere in innocui mulini a vento i corpi immani di esseri
disposti a mettere alla prova il suo eroismo.

59

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