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Con questi versi, Dante fa profetizzare da parte di Beatrice che «l’aquila non sarà per
sempre senza erede», ossia che il Sacro Romano Impero non rimarrà per sempre
vacante. Dante infatti riteneva che il trono del Sacro Romano Impero fosse rimasto
vacante dalla morte di Federico II di Svevia (morto nel 1250) in quanto da allora nessun
imperatore era stato più incoronato a Roma; c’è qui tutta la mentalità medievale per cui
l’impero fondato da Carlo Magno era come l’ espressione terrena della monarchia di Dio
sul mondo – si ricorda l’espressione dei crociati Gesta Dei per Francos, le azioni di Dio per
mezzo dei Franchi – ed allo stesso tempo traeva la propria legittimità dal fatto di essere
-1-
benedetto (anche politicamente) dal Papa di Roma. Beatrice profetizza che, come Dante
aveva sempre sperato e auspicato, l’imperatore tedesco Arrigo VII, chiamato anche
Enrico VII di Lussemburgo, scenderà e libererà l’Italia dalle guerre intestine provocate
dagli eserciti italiani che si erano schierati dalla parte del re di Francia Filippo il Bello («Il
gigante») il quale, secondo Dante, aveva provocato il trasferimento della sede papale da
Roma ad Avignone, facendo apparire così la Chiesa quasi una «puttana» (cfr. Purgatorio,
XXXII, 160) con cui «delinquere».
La criptica profezia di Beatrice dice dunque che un cinquecento dieci e cinque, «inviato di Dio,
libero da ogni intoppo e sbarramento (sbarro) verrà a liberarci, uccidendo la meretrice (la
fuia = la ladra) e il gigante che pecca con lei (con lei delinque)»1, ossia un messo di Dio che
viene tradizionalmente identificato con l’imperatore Arrigo VII che eliminerà la curia
ecclesiastica corrotta e la casata regnante francese.
L’identificazione del cinquecento diece e cinque con Arrigo VII viene ricavata dal riferimento
al simbolo imperiale presente negli stessi versi citati, l’aquila («aguglia»), tipico simbolo
dell’impero fin dall’ antica Roma; e che questo sovrano sia per Dante un messo di Dio si
può capire anche dall’accorato appello che il poeta stesso gli rivolgeva nell’ Epistola VII :
«In te crediamo e speriamo, affermando te del cielo ministro, della Chiesa figliolo, e della
romana gloria promotore… Rompi gli indugi, alta prole di Isaia, e dagli occhi del Signore
Iddio degli eserciti, alla cui presenza tu operi, prendi fiducia; e con la fionda della tua
sapienza e la pietra delle tue forze abbatti questo Golia [il re di Francia]…»2.
Come si vede Dante presenta l’imperatore con veri e propri titoli messianici; ma che
cosa c’entrerebbe il numero indicato da Dante, cinquecento dieci e cinque ?
Scritto con i caratteri per noi usuali, di derivazione indo-araba, sembra assolutamente
nulla:
500 / 10 / 5
500= D / 10= X / 5= V
DXV
ne emerge un anagramma della parola latina DVX, duce, guida vittoriosa del popolo, e
questa è sempre stata «l’interpretazione comune degli antichi»3.
«Altri – scriveva il critico letterario Natalino Sapegno – ha voluto vedere nel numero
dantesco un’ingegnosa trascrizione del monogramma greco del Cristo, intendendo che il
messo sia così designato come “un unto del Signore” […] Altri ancora […] pensando a
un papa, [vi ha visto l’ acronimo] di Domini Xristi Vicarius»4, con la lettera C di Cristi
sostituita dalla X, la CHI (C) dell’alfabeto greco che si ritrova per esempio nel famoso
1
Dante Alighieri, Divina Commedia, a cura di Giovanni Fallani e Silvio Zennaro, Roma, Newton & Compton,
1993 / 2010, p. 430, nota ai vv. 41-45.
2
Dante Alighieri, Epistola VII, 2 – 8, in Divina Commedia, cit., p. 430, idem.
3 Divina Commedia, cit., p. 430, idem.
4
Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, a cura di Natalino Sapegno, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp.
363-364.
-2-
monogramma di Cristo usato anche dall’imperatore Costantino, che andrebbe letto CHI-
RO, ossia C-R, le iniziali della parola Cristo.
Potremmo continuare ad attribuire al misterioso trigramma significati di questo tipo,
anche perché la sigla potrebbe essere interpretata in più modi, per esempio come Domine
X Verbæ, il Signore delle Dieci (decem) parole (i dieci Comandamenti); o magari come
Domini Xristi Victor, il Vincitore (inviato) del Signore Cristo. Questo procedimento era
ben noto fin dall’antichità e si ritrova per esempio nel noto acronimo ICHTUS, parola
che in greco significa pesce (da cui i termini italiani ittiologia, ittico, etc.), ma che in questo
caso è l’acronimo di
I esous Gesù
CH ristos Cristo
T heou (di) Dio
U ios Figlio
S oter Salvatore
Questa codificazione di una frase o di più parole mediante un acronimo composto con le
iniziali era conosciuto anche nella cultura ebraica con il nome di Notarikon .
Ma come si vede non ci sono riferimenti intrinseci al fatto che questo numero-acronimo,
cinquecento dieci e cinque, indichi proprio Arrigo VII, imperatore del Sacro Romano
Impero, come «messo di Dio».
Se però introduciamo come metodo di decodificazione il sistema ebraico della
Ghematria (che personalmente non so se sia mai stato applicato a questo o ad altri versi
della Commedia) scopriamo qualcosa in più.
Ghematria è un termine che deriva dal greco Gheometreia, geometria, che in lingua ebraica
ha subìto una leggera storpiatura nella pronuncia e che è stato utilizzato in quanto come
la geometria concerne dei rapporti tra numeri. Il sistema ebraico della Ghematria infatti
associa ad ogni lettera dell’alfabeto ebraico un numero preciso, così che le lettere che
formano una determinata parola possono essere sommate e dare così a quella parola un
preciso numero corrispondente.
L’applicazione più famosa di questo metodo decriptante ad un numero enigmatico è
quella sul numero della Bestia dell’Anticristo nell’ Apocalisse (XIII, 18), il 666 che sarebbe
la somma dei valori numerici delle lettere ebraiche che compongono il nome Nerone-
Cesare (si legga da destra verso sinistra):
R S Q N (O) R N
-3-
Se applichiamo questo sistema al nome Arrigo, l’imperatore indicato da Dante come
restauratore dell’ordine, trascritto in latino, ossia la lingua “internazionale” d’ Europa
all’epoca della Commedia, ARRIGUS, otteniamo (si legga da destra a sinistra):
S V G I R R A
S V G I R R A
60 + 6 + 3 + 10 + 200 + 200 + 70
549
5
Monsignor Bruno Forte, teologo e vescovo di Chieti-Vasto, al convegno internazionale Dio oggi. Con Lui o senza
di Lui cambia tutto, a cura del Progetto culturale CEI, Roma, dicembre 2009.
6
Gianni Pilo, Sebastiano Fusco, Il simbolismo kabbalistico del Golem, introduzione a Gustav Meyrink, Il Golem, in I
grandi romanzi dell’orrore, Roma, Newton & Compton, 1996, p. 552.
-4-
Nemmeno in questo caso il numero totale risultante è 515 (somma di 500+10+5), ma
perlomeno appartiene già al quinto centinaio, cioè ai numeri dal 500 al 600.
Se però aggiungiamo al risultato 549 la prima lettera, Alef ()א, il cui valore di segno del
Divino e del principio è già stato ricordato e che corrisponde infatti al numero 1, il totale
549 che significa ARRIGUS diventa 550.
Anche così però il risultato non coincide con quello indicato da Dante (500 /10 / 5); ma
possiamo ipotizzare che Dante stesso abbia “personalizzato” il sistema della Ghematria
(ammesso che lo conoscesse davvero) per l’uso che doveva farne a proposito del nome
crittografato dell’imperatore Arrigo, e cioè che egli
- si sia servito della Ghematria rispettandone le regole di calcolo addizionale, ricavando
cioè come visto il numero 549 dalla somma dei valori numerici corrispondenti alle lettere
del nome ARRIGUS;
- sempre servendosi della Ghematria vi abbia aggiunto alla sequenza di lettere la Alef ()א
che ha valore di 1 ed perciò riferibile:
-sia all’articolo indeterminativo un , il quale nel verso profetico precede il numero,
e che Dante avrebbe così trasformato da articolo a numero, per cui la sequenza
completa diventerebbe (si legga da destra a sinistra):
S V G I R R A (A)
60 + 6 + 3 + 10 + 200 + 200 + 70 + 1
550;
-sia al valore simbolico della lettera stessa, che come già visto è un segno del Divino
e del principio, dello Spirito, e perciò qui avrebbe il significato di sigillo divino sulla
missione dell’imperatore Arrigo;
- a questo punto Dante avrebbe usato la somma risultante ottenuta per mezzo della
Ghematria (549) con aggiunto il numero 1 della lettera Alef (( )א550) scomponendola nei suoi
numeri base, cioè 500, 10 e 5;
- avrebbe poi scritto in lettere i numeri base 500, 10 e 5 la cui sequenza nasconde
appunto ARRIGUS + lettera Alef ( )אche è ricavabile, a questo punto, soltanto
ipotizzando che Dante abbia pensato alla serie non come ad una semplice somma:
500 + 10 + 5
che infatti non dà 550 ma 515, bensì come ad una espressione matematica che
introdurrebbe una moltiplicazione:
-5-
Il numero così ricavato grazie all’utilizzo della Ghematria da parte di Dante
nasconderebbe quindi intrinsecamente il nome dell’imperatore germanico Arrigo VII.
Vale la pena di notare, alla fine, che, se Dante conosceva realmente la Ghematria, egli non
si è affatto confuso nell’uso della lettera Alef ( )אcon la Ain ( )עsoltanto perché entrambe
le lettere si possono tradurre con la nostra A, e nell’uso della Shin ( )שcon la Samech ()ס
che possono essere entrambe tradotte con la nostra S; e anzi non si è confuso nemmeno
nella trascrizione di una sola di queste due lettere con le nostre A ed S. Se per esempio
avesse scritto con l’iniziale esatta e la finale sbagliata (si legga da destra a sinistra):
SH V G I R R A
il risultato sarebbe stato 789; mentre se viceversa avesse trascritto il nome sbagliando
soltanto l’iniziale:
S V G I R R A
60 6 3 10 200 200 1
il risultato sarebbe stato 480; mentre invece il numero esatto 550, cinquecento più dieci
per cinque, che permette di crittografare il nome dell’imperatore (più la Alef/1) è
ottenibile soltanto con l’uso dell’ alfabeto ebraico che abbiamo visto.
Si può notare anche che, se tutto quello che fin qui abbiamo detto è vero, Dante forse ha
persino saputo sfruttare la pronuncia della lettera iniziale usata, Ain ()ע, in modo che fosse
possibile leggere il nome del sovrano Arrigo anche come AINRRICUS, forma più vicina
al tedesco Heinrich (pronuncia Ainric), che è forse la forma originale del nome e che è,
come già visto, ancora talvolta usata per indicare lo stesso re, Enrico VII di
Lussemburgo; con le doppie R che ne risultano che potrebbero addirittura indicare la
pronuncia “arrotata” della R tipica del tedesco!
Ricordiamo per esempio che non è affatto assurdo che Dante conoscesse anche qualche
parola di lingua e grammatica araba, e se ne sia servito, sia nel noto episodio di Plutone
che pronuncia la frase «Papè Satan, Papè Satan aleppe!» (Inferno, VII, 1), che in arabo
significherebbe “È la porta di Satana, è la porta di Satana, fèrmati” (Bab e Shaytan, bab e
Shaytan, alebbi!) oppure “Disonore, Satana, disonore, Satana, nella tua casa” (Babù Shaytan,
babù Shaytan, al e’ beyt! ; alludendo al fatto che Dante vi entra ma non è un morto e quindi
nemmeno un dannato)7; e anche nell’episodio del saluto di Nembrot a Virgilio (e,
suggerirei, a Dante stesso che così si presenta in modo velato ma conscio del proprio
7
Divina Commedia, cit., p. 69, nota al v. 1.
-6-
valore): «Rafèl maì amèch zabì almi!», che in arabo significherebbe “O elevato sulle
acque dolci e profonde della scienza!” (Inferno, XXXI, 67)8.
Alla luce di tutti questi dati, è possibile ipotizzare che Dante Alighieri conoscesse
veramente questo codice alfabetico-numerico ebraico chiamato Ghematria e se ne sia
servito in modo geniale per uno dei molti versi del suo intramontabile «poema sacro»
(Paradiso, XXV, 1).
8
È l’interpretazione di Ernesto Silvio Parodi (cfr. Dante Alighieri, Divina Commedia, a cura di M. Manfredini,
Firenze, Nerbini, 1940, Annotazione finale al canto e verso cit.).
-7-
-8-
ALFABETO EBRAICO
-1-
Simbologia dell’ alfabeto ebraico
-2-
Palmo della Forma 20 CH / K CAF כ
mano
(continua)
-3-
500 CAF finale כ
Bibliografia:
- Occultismo, mistero e magia, Grandi temi De Agostini, Novara, De Agostini, 1976 (ed. or. Barcelona 1973), p. 55.
- Gianni Pilo, Sebastiano Fusco, Il simbolismo kabbalistico del Golem, introduzione a Gustav Meyrink, Il Golem, in I grandi
romanzi dell’ orrore , Roma, Newton & Compton, 1996, pp. 558-559;
- Luciano Sampietro, Nostradamus settimo millennio, Casale Monferrato, PIEMME, 1999, pp. 124-125;
- Torino Enciclopedia (a cura di), Conoscere gli Ebrei, Città di Torino – Regione Piemonte, Archivio delle tradizioni e del costume
Ebraici “Benvenuto e Alessandro Terracini”, Torino, 1982, p. 39.
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