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Giampaolo Pretto

DENTRO IL SUONO
Quarantanove studi per fare del suono la propria voce

Redatto con l’imprescindibile assistenza di


Nicola Campitelli

e coi preziosi contributi di


Elisa Romeo
Nicola Bighetti

Cos’è questo libro

Nell’estate del 1974 un bambino grassottello, già clarinettista mancato dopo sole due lezioni
(l’ancia gli fa orrore), impugna per la prima volta uno strano arnese, dal colore apparentemente
argenteo, e che - così asseriscono – si dovrebbe suonare per traverso. Per traverso??? Che idea
assurda! Il bimbo ci prova, ma rimane molto perplesso: ha già visto suonare uno strumento analogo
in televisione, ma nella scarsa definizione del bianco e nero dell’epoca scambia la parte esterna
della boccola per la lingua del flautista. “Ma perché per suonare quel flauto storto bisogna tirare
fuori mezzo metro di lingua?”, si chiede sgomento. Altra domanda: “Ma come si fa a muover le
dita senza poterle vedere?”.
Nel soffiare gli gira immensamente la testa: dopo pochi secondi gli manca ossigeno, si deve fermare
e soprattutto non ha nessuna voglia di riprovare. Dopo qualche giorno di tentativi scarsamente
convinti, sta per arrendersi definitivamente, di fronte alla difficoltà di un artificio che gli pare
assolutamente insormontabile: come diavolo si fa a muovere insieme tutte quelle dita nel passaggio
tra do e re della seconda ottava? Piange a dirotto, e comunica tra le lacrime ai genitori che
quell’arnese è troppo difficile, e che non farà mai il flautista. “Ok, pazienza”, dicono i genitori. Poi
però ci riflette qualche minuto, qualche ora e qualche giorno: “Ma ci sarà pure un modo di far
funzionare ‘sto maledetto coso!”, pensa. E comincia a lambiccarsi il cervello…

Sono passati quasi quarant’anni e diverse migliaia di concerti: ma “’sto maledetto coso” continua
a costringermi a pensare su come farlo funzionare a dovere. Dentro il suono è la sintesi di questo
pensiero.
Sia ben chiaro: quello che vi trovate tra le mani non è un metodo, tanto meno un metodo
accademico. I negozi sono già pieni di eccellenti e indispensabili metodi per flauto traverso,
completi di esercizi, tavole di posizioni e sezioni anatomiche. Semmai tenta di essere quel manuale
di istruzioni che si sono dimenticati di fornirvi quando vi hanno venduto il flauto, fosse uno, cinque
o trent’anni fa. Cerca di illustrare approfonditamente una della diverse possibilità di soffiare nel
flauto traverso moderno: la mia.
Il flauto si suona, suonare è giocare, e giocare è un affare maledettamente serio.
A un certo momento, se il gioco si fa davvero cattivo, bisogna rassegnarsi come minimo a imparare
bene le regole. Almeno un certo tipo di regole, quelle giuste per quel modo di giocare lì, diverso
da un altro ma ugualmente degno delle migliori cure.

Da quel lontano 1974 ho seguito le lezioni di molti insegnanti, la massima parte dei quali
assolutamente eccezionali, e a cui devo moltissimo: nessuno di loro aveva alcunché in comune con
gli altri. Ognuno di essi era portatore di una filosofia flautistica e musicale completamente diversa:
come tentare di armonizzarle tra loro? E soprattutto: cos’era bene per me?
Ho cercato allora di valorizzare la specificità di tutti quei diversi approcci, nell’ottica di
assecondare il più fertile melting pot, che mi permettesse però di aggiungere, a mia volta, una
creatività del tutto personale, basata sulle multiformi esperienze che andavo via via facendo, in una
professione iniziata assai presto.
A questo scopo in tanti anni di studio ho riempito quaderni e quaderni di annotazioni, appunti,
confronti, esercizi, tentativi, riflessioni: spesso sono ripartito da capo molte volte e ho riazzerato
tutto, altre volte mi sono trovato allo stesso incrocio ma proveniendo da un percorso diverso; alla
fine ho intravisto una direzione molto chiara, assolutamente la stessa che, io per primo, pratico
quotidianamente, quando porto il flauto alle labbra e cerco di concentrarmi sulla prima inspirazione
della giornata.
A questa strada ho cercato di conferire una struttura robusta, assieme a un tocco di razionalità, un
pizzico di filosofia, soprattutto molto pragmatismo. Dentro il suono è il desiderio di condividere
con chiunque ne abbia interesse questo percorso che negli anni, per merito delle centinaia di allievi
che mi hanno onorato del loro interesse, mi pare di poter dire sia diventata una piccola scuola.
Scuola frutto di un patchwork coloratissimo, per intessere il quale ho impiegato 38 anni. Non so se
mi sia riuscito: ma ciò che ho imparato su come funziona lo strumento, poco o tanto che sia, è tutto
qui dentro.

Del trattato scientifico Dentro il suono non vuole e non può avere l’esaustività e precisione in
terminologia e trattazione; del metodo non ha la sistematicità e progressività: si tratta di una terza
via, una sintesi empirica e prontamente utilizzabile di come si possa produrre un suono col flauto
traverso in modo consapevole. L’ho redatta in buona parte col sostegno insostituibile del
pazientissimo Nicola Campitelli. Non è diretto a una fascia specifica di apprendimento, ma è
fruibile a qualsiasi livello, tanto professionale che di studio. Ognuno può trovarvi una propria via
d’accesso, perfino sfogliarlo dall’ultima pagina alla prima, trattandosi anche di un oggetto di pura
lettura (non necessariamente da leggìo), attraverso la quale provare a chiarire certi aspetti del flauto
e del nostro corpo come generatori di suono. Contiene volutamente molte ripetizioni, perché
essendo il suonare un atto complesso che richiede massima chiarezza, accetto volentieri il rischio
di apparire pedante. Avrebbe infine l’ambizione di proporsi come aiuto concreto ai tanti
preparatissimi insegnanti di flauto, che talvolta potrebbero aver bisogno di sostegno nel tradurre ai
propri allievi i problemi relativi alla produzione del suono, partendo magari da una diversa
angolazione.

Alla fine della trattazione vi è una parte dedicata alla “risoluzione dei problemi”, perseguendo
l’analogia rispetto al manuale di istruzioni cui accennavo: questa parte vuole essere di concreto e
sincero aiuto, affinché il lettore vada il più direttamente e velocemente possibile a sciogliere nodi
alla soluzione dei quali personalmente ho dedicato fin troppo tempo della mia vita, identificandone
al volo le cause e approfittando dei miei errori.

Infine vi sono due appendici: la prima, redatta da Elisa Romeo e Nicola Bighetti - che hanno grande
esperienza in questo campo - vuole essere d’aiuto a chi desideri aiutare i più piccoli ad approcciare
in maniera più morbida il mio tipo di tecnica, che in effetti è andato formandosi per interlocutori
già adulti. La seconda contiene una selezione puramente rapsodica delle innumerevoli riflessioni
che in decine di anni mi sono trovato a fare, a margine della mia vita di musicista, con una
particolare attinenza al problema dello studio: dopo la prima scrematura ho tenuto solo quelle che,
a distanza di anni, mi dicevano ancora qualcosa, senza dare per scontato che possano dire qualcosa
ad altri.
Un’ultimo chiarimento: questo libro quasi non contiene accenni alle miriadi di problematiche
musicali e interpretative relative al repertorio, che sono naturalmente state a loro volta oggetto di
lunghissimi studi da parte mia: questo perché la mia idea è che la tecnica del suono vada scavata
profondamente per poi potersene liberare all’atto dell’interpretazione; ma che per diventare
davvero trascendentale, tale tecnica debba essere già, in nuce, intrisa di musica.
Un grazie, oltre ai Maestri che più mi hanno influenzato e aiutato (su tutti Renzo Pelli, Glauco
Cambursano e Patrick Gallois), ai miei tantissimi allievi: da tutti loro ho imparato quanto essi stessi
non immaginano nemmeno.

GP
" In realtà io abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà"
Ingmar Bergman

SOMMARIO

Prima sezione: le basi dell’emissione flautistica

Parte I - Le componenti esterne del suono


L’autentico controllo di postura e appoggio Es. 1, 2
Il controllo dell’attacco Es. 3, 4
La flessibilità Es. 5, 6
La compensazione
Approfondimento del rapporto tra flessibilità e compensazione
L’unione virtuosa di flessibilità e controllo labiale
Approfondimento sulla necessità di apertura labiale Es. 7
L’uso degli armonici nel fissaggio del suono Es. 8

Parte II - Le componenti interne del suono

La premessa necessaria: sbadigliare nel suono!


Approfondimento del concetto di pressione interna
Lo sbadiglio
Sbadigliare nel flauto Es. 9
Stimbrare attraverso lo sbadiglio Es. 10
Ingoiare il suono Es. 11
Cantare nel suono, ossia come il suono diventa la nostra voce Es. 12, 13, 14, 15, 16

Seconda sezione: la tecnica d’emissione avanzata

Introduzione:
La tecnica di “allineamento dei tre punti”

Parte I - Il primo punto: diaframma e area addominale

La cura dell’inspirazione
Le note tenute, Es. 17
La respirazione canina, Es. 18
Lo staccato diaframmatico, Es. 19

Parte II - Il secondo punto: gola e area oro-faringea

Sviluppo della tecnica del canto nel suono Es. 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30
Immediate applicazioni del canto nel suono:
- Il vibrato: creare il vibrato attraverso l’oscillazione della voce; aumentare la qualità e la densità del
nostro vibrato su base vocale Es. 31, 32
- Sviluppo e allenamento delle componenti esterne e interne del suono allo stesso tempo: come cantare
legando gli armonici
Es. 33, 34, 35
- Modulazione del suono in relazione alla tonalità: il “colore tonale” Es. 36
Approfondimento sull’utilità di acquisire il colore tonale
Gestione del suono nel passaggio da timbrato a stimbrato e viceversa Es. 37

Parte III - Il terzo punto: imboccatura e area linguale-labiale

Stabilizzazione dell’imboccatura attraverso gli arpeggi Es. 38, 39


Rafforzamento dell’imboccatura mediante i tremoli e i cromatismi Es. 40, 41, 42
Rafforzamento dell’imboccatura tramite tecniche contemporanee Es. 43, 44, 45
Approfondimento sulla sensorialità labiale
L’articolazione Es. 46
Lo staccato Es. 47
Altre possibilità di articolazione del suono
Due esercizi riassuntivi Es. 48, 49

Parte IV – Diagnosi e risoluzione dei problemi

Appendice I
La giusta impostazione fin dagli inizi: la tecnica dei tre punti spiegata ai bambini

A cura di Elisa Romeo e Nicola Bighetti


Appendice II
Riflessioni sulla pratica del suonare, di Giampaolo Pretto

PRIMA SEZIONE:
Le basi dell’emissione flautistica

Parte I: Le componenti esterne del suono

L’autentico controllo di postura e appoggio

La cosa più importante, quando ci accingiamo a suonare uno strumento, è senz’altro quella di
assumere un atteggiamento posturale il più rilassato possibile, in modo che nessuna tensione
negativa possa frapporsi tra il nostro corpo e la produzione di un suono.
Essendo il flauto un oggetto estraneo al nostro corpo, tendiamo spesso a inglobarlo nella nostra
struttura fisica mediante un eccessivo adattamento a esso: rischiando così di assumere
atteggiamenti posturali scorretti che possono influenzare negativamente l’emissione.
La più giusta reazione all’arrivo di questo corpo estraneo, al contrario, sarà quella di permettere
allo strumento di entrare con massima naturalezza a far parte del nostro corpo, diventandone
un’appendice naturale, ossia il prolungamento materiale della nostra insufflazione.

Una postura ottimale è imprescindibile ai fini di una corretta emissione del suono:
laddove per postura ottimale s’intende una posizione fisica che modifichi il meno possibile quella
che assumiamo senza flauto.
Affinché ciò avvenga, però, è necessario attivare un auto-controllo graduale e profondo durante
l’ingresso dello strumento all’interno della nostra struttura fisica.
A questo scopo abbiamo pensato di proporre una piccola serie di esercizi preparatori utili a un
approccio allo strumento che sia più naturale e spontaneo possibile.

Esercizio N.1:

Prendiamo in mano il flauto e poniamoci in una posizione eretta e stabile: controlliamo che la
nostra testa sia diritta; cha la nuca sia quasi “sollevata” verso l’alto da una trazione invisibile; che
le nostre spalle siano rilassate, spioventi e NON sollevate, nemmeno in minima parte; che le nostre
braccia infine siano distese in modo che il flauto sia verticale, di fronte all’ombelico e quasi
parallelo al nostro corpo, esattamente nella posizione in cui terremmo nelle mani un clarinetto.
Questa la chiameremo posizione neutra.
Da questa posizione portiamo molto (ma molto!) lentamente il flauto vicino all’imboccatura,
appoggiandovi le labbra ma senza suonare: ripetiamo più volte questo gesto, controllando che la
postura di base sia modificata il meno possibile. Le braccia si apriranno leggermente per sostenere
il flauto, le spalle dovranno rimanere basse e la testa ruoterà leggermente verso sinistra per
accogliere la boccola: dovremo percepire profondamente come passare dalla postura di uno
strumento frontale (oboe, clarinetto, flauto dolce) a quella di uno strumento, per l’appunto,
“traverso”, imponendo al nostro corpo la via più diretta, semplice e naturale. Consigliamo di
svolgere questo esercizio davanti a uno specchio al fine di raggiungere il migliore controllo della
nostra posizione: la cosa da evitare con la massima attenzione è l’avvicinamento eccessivo del
flauto al petto, che può determinare uno schiacciamento innaturale della cassa toracica e un
innalzamento della spalla destra.
Il concetto che ci deve saldamente guidare in questa fase è il seguente: NON dobbiamo essere noi
ad andare incontro al flauto, estroflettendo la testa o la nuca e cambiando la nostra naturale
postura, bensì è lo strumento che DEVE muovere verso di noi e ancorarsi alla nostra
struttura fisica, senza modificarla in alcun modo, lasciandoci così come saremmo senza il suo
arrivo!

Perché non suonare? Semplicemente perché a questo primo livello il solo pensiero di produrre un
suono, con tutto ciò che questo comporta in termini di aspettativa di qualità e possibili conseguenti
micro-tensioni, può distrarre la nostra mente dall’obiettivo che vuole “automatizzare”, (parola assai
importante che tornerà spesso in evidenza): il grado zero di tensione nell’approccio al flauto.

Una volta verificato il corretto funzionamento di questo esercizio potremo passare al seguente.

Esercizio N.2:

Ripetiamo l’esercizio precedente ma stavolta, appoggiata la boccola sul labbro inferiore,


v’insuffleremo dell’aria, rigorosamente calda, senza alcuna volontà di produrre un suono finito né,
ancor meno, pulito. Utilizzare aria calda significa farla uscire lentamente e dal profondo, un po’
come quando vogliamo scaldarci le mani infreddolite soffiando a bocca semi-aperta sui palmi. Per
la migliore produzione del suono, in tutti gli strumenti a fiato, l’utilizzo di questo tipo di emissione
è la conditio sine qua non (il concetto verrà sviluppato con esercizi appositi, vedi Parte II, es. 9-
11).
Il suono andrà attaccato sull’aria, cioè senza alcuna percussione di lingua che ne determini l’inizio:
questo perché già un semplice attacco di lingua è potenzialmente produttore di stress.
Dobbiamo altresì controllare che le nostre labbra, nel ricevere la boccola, non modifichino troppo
la loro posizione naturale, che deve rimanere distesa e rilassata; ma che al contempo assumano in
modo semplice e composto l’atteggiamento d’imboccatura minimo necessario a produrre il suono
sopra descritto.
Inspiriamo durante l’avvicinamento del flauto alla bocca, e controlliamo che le spalle rimangano
nella stessa posizione. E’ preferibile partire da una nota di facile emissione della 1° ottava, ad
esempio un SI naturale (terzo rigo). Il perché si inizi dal si naturale è presto detto: si tratta della
nota probabilmente più semplice del flauto, la più “vuota”, e che mette in vibrazione la minor
porzione di tubo, eccezion fatta per do e do #, note però molto più instabili come intonazione e
corpo interno.
Facciamo questo esercizio ripetutamente, una nota sola per volta, partendo sempre dalla
posizione neutra e facendovi ritorno, ma assolutamente non prima di aver completamente esaurita
l’aria! Svuotiamo ogni volta i polmoni fino alla fine, arrivando a una piccola apnea: da qui
cerchiamo di far sì che l’aria entri da sola mediante la semplice (quasi passiva) riapertura della
bocca, inondando la cassa toracica ormai vuota e sotto sforzo. NON pensiamo di introdurre l’aria
forzandone l’ingresso in modo volontario. Concentriamoci solo ed esclusivamente sulla posizione
assunta e sul rilassamento, conquistando quella specie di “grado zero” di tensione, di sotto al quale
vi è solo il rilassamento totale e indifferenziato, eccessivo, attraverso il quale nessun suono è
producibile.
Pensiamo a questo esercizio quasi come a una tecnica di meditazione col flauto. Per esperire fino
in fondo i benefìci derivanti dal profondo rilassamento prodotto da questa pratica, ogni
inspirazione, lo ripetiamo, va condotta fino al totale esaurimento dell’aria dei polmoni, onde
evitare, tra l’altro, il rischio d’iperventilarsi.
Proseguiamo passando attraverso tutte le note della prima ottava procedendo per cromatismo
discendente.

Vorremmo porre l’accento sull’importanza di lavorare un suono che definiremo grezzo (in quanto
non “finito”), ma che già contenga in potenza tutte le caratteristiche di un suono bello in profondità
e proiezione (torneremo più diffusamente su cosa queste caratteristiche possano significare), e
realizzato in modo estremamente naturale e rilassato. L’aggettivo “grezzo” non è da intendersi con
un’accezione negativa: significa che il suono sarà un po’ sporco nella definizione e pulizia esterna,
ma ben affondato e ricco di armonici nella sua componente interna.

Spesso, infatti, la volontà di ottenere troppo in fretta un materiale “finito” fa subentrare in noi una
serie di micro-tensioni che vanno a disturbare l’equilibrio del nostro corpo, arrivando poco alla
volta a “intossicare” la nostra tonicità muscolare, in primis quella labiale, diminuendone il
controllo. Invece quale modo migliore di approcciarsi al proprio strumento senza aspettative
o ansie da prestazione, semplicemente cioè insufflando aria calda da un’imboccatura
naturalmente conformata?

Il controllo dell’attacco

Per introdurre il terzo esercizio, ci avvaliamo della descrizione di un inconveniente tipico: capita
sovente che, quando non siamo tanto in forma, nell’appoggiare la boccola al labbro inferiore
tendiamo in qualche modo a “cercare” l’imboccatura, tramite piccoli spostamenti o micro-
irrigidimenti dell’intera muscolatura della bocca, sia quella grande (attorno alle labbra) che quella
piccola (il foro vero e proprio). Questo fa sì che lo stress dell’imboccatura riduca il volume del
suono e inneschi un circolo vizioso, tale da non riuscire mai a trovare una posizione comoda, un
po’ come quando siamo nervosi e cambiamo mille posizioni su una seggiola senza che nessuna ci
appaghi.
Per evitare questo, sia gli esercizi precedenti sia questo più in particolare, aiutano a far sì che la
posizione dell’imboccatura divenga più naturale e si attesti come definitiva, rimuovendo la causa
stessa della ricerca della posizione, cioè l’emissione del suono. L’attacco è già di per sé stesso
grande motivo di stress: eliminando il suono rimuoviamo il novanta per cento di questo stress.

La necessaria prosecuzione degli esercizi precedenti, quindi, sarà data dall’inserimento del colpo
di lingua, affinché anch’esso possa fluire nel circolo virtuoso del suonare rilassati.
Sempre ripartendo dalla posizione neutra, avviciniamo il flauto alle labbra e questa volta
produciamo un colpo di lingua volutamente senza produrre alcun suono (quindi quasi senza aria),
ma ascoltando solo l’ombra dell’altezza determinata dalla pura percussione della lingua contro il
foro labiale; tale percussione sarà sufficiente per permettere alla pochissima aria contenuta nella
bocca di porre in vibrazione la colonna d’aria del flauto.
Per produrre questo effetto è indispensabile che un organo per noi molto importante sia
particolarmente aperto e rilassato, insieme a tutto il resto del nostro corpo, la nostra gola: poiché
solo se essa è rilassata e l’aria è libera di girare all’interno della bocca, il suono si arricchisce di
un’eco naturale, prodotta dall’amplificazione di questo “rumore intonato” mediante le cavità
orofaringee e toraciche. Per ottenere questo risultato proviamo a creare maggiore spazio all’interno
della bocca: un espediente utile può essere di allontanare la lingua dal palato e arretrarla
mantenendola in una posizione bassa, come nell’atto di pronunciare una vocale profonda o una
consonante liquida (erre, elle).
Ripetiamo questo esercizio con lo stesso meccanismo del precedente, cioè soffermandoci più volte
sullo stesso suono e procedendo poi per cromatismo discendente su tutte le note della 1° ottava.
Utilizzeremo la pausa tra una percussione e l’altra per ritornare ogni volta alla posizione neutra,
dalla quale ripartiremo per poi appoggiare nuovamente la boccola alle labbra e produrre il suono
successivo: questo perché la nostra struttura fisica venga ad acquisire quell’automatismo elastico
che le permetterà di sentire il flauto come una naturale prosecuzione dei propri arti; e affinché
l’avvicinamento delle labbra alla boccola non sia mai più motivo di stress e di “rigido
posizionamento”, bensì di approccio confortevole. Quella ricerca spasmodica di una posizione
ideale per l’appoggio delle labbra sulla boccola si tramuterà in questione di una frazione di
secondo, e lascerà il posto alla stessa naturalezza con cui appoggiamo le labbra a una tazzina di
caffè.

Nel produrre questi suoni percossi, dobbiamo porre la massima attenzione ai seguenti aspetti:
- ogni percussione deve produrre un rumore (e non già un suono) cortissimo!
- quanto più è violenta la percussione della lingua, tanto più la gola dovrà essere rilassata,
onde “contenere” e amplificare questo rumore
- il riferimento ideale è il pizzicato degli archi, laddove il polpastrello è la punta della lingua,
la corda è la colonna d’aria, e la cassa armonica è la gola: definiamo tale tipo di staccato
percussivo, infatti, anche pizzicato di lingua.
- tale rumore, ancorché privo della regolarità di un vero suono, dovrà però già essere ad
altezza determinata, come può esserlo uno strumento a percussione, che in questo caso
andiamo a imitare.

Esercizio N.3

Dopo aver prodotto una serie sufficiente di tali rumori intonati, possiamo passare agevolmente allo
sviluppo finale dello studio precedente, cioè all’Esercizio 4.
Tale esercizio è in tutto e per tutto identico al precedente, tranne due aspetti:

- stavolta, con la massima gradualità, lasciamo che affiori naturalmente quella minima aggiunta di
emissione d’aria che consenta al rumore di tradursi in suono vero e proprio: poniamo la massima
attenzione, però, affinché l’aggiunta in questione produca il massimo risultato col minimo sforzo,
e sia tale da non entrare in conflitto con la percussione stessa.
In altre parole, se alla forza percussiva della lingua aggiungeremo troppa aria, il suono produrrà un
vero e proprio “scrocco”; se al contrario faremo sì che la velocità di emissione sia minima,
otterremo un frammento cortissimo di suono ma ampio e risonante, fornito di un’eco naturale.
Quest’eco produrrà una specie di effetto a campana di straordinaria importanza ai fini espressivi:
le cavità fonatorie amplificheranno questo breve staccato mettendolo in risonanza, così come una
corda percossa o pizzicata continua a vibrare per qualche decimo di secondo dopo essere stata
stimolata. Ciò ci permetterà tra l’altro di esperire profondamente la differenza tra suono tenuto e
suono risonante, due frecce fondamentali e opposte al nostro arco espressivo. Al fine di creare al
meglio tale risonanza è necessario che la direzione dell’aria sia molto bassa (vedi la parte seguente,
dedicata alla flessibilità), che la gola rimanga passiva e morbidissima, non produca cioè la minima
pressione interna, come spinta dell’aria, e che le cavità di risonanza (torace, gola, naso, testa) siano
atteggiate alla massima potenzialità amplificatoria.
- Nella pausa tra un suono e l’altro, diversamente da quanto fatto finora, manterremo stavolta il
flauto appoggiato alle labbra.
Esercizio n. 4

Vorremmo sottolineare l’estrema importanza di questi esercizi di approccio allo strumento che
sono dotati della massima efficacia, sebbene possano apparire a un primo esame troppo semplici o
poco appassionanti. Praticandoli per la prima volta si potrebbe pensare che non servano a nulla: e
ciò è sicuramente vero se li si esegue senza la più profonda concentrazione.
Consigliamo al contrario di includere assolutamente questi esercizi nello studio quotidiano, come
una specie d’immersione graduale grazie alla quale possiamo letteralmente scansionare il nostro
corpo e accertarci che ogni parte funzioni correttamente e senza tensioni: si tratta di una forma di
riscaldamento dolce, ma al tempo stesso veramente vigile, che sottopone la struttura fisica preposta
al suonare a una forma di stretching prezioso, nel predisporci a eseguire cose ben più complesse in
un secondo momento. Quanto maggiore sarà la difficoltà tecnica richiesta da ciò che
suoneremo, tanto più profonde e sicure dovranno essere le nostre fondamenta!

Una volta acquisita dimestichezza con queste tecniche si potranno sfruttare questi esercizi per le
più svariate esigenze: ad esempio l’Esercizio 4 può rivelarsi utilissimo per prendere confidenza
con un’acustica che non conosciamo, giacché ci permette di quantificare con buona esattezza
l’entità della risonanza della sala, calcolando istintivamente il ritardo che l’eco produce.
Suonare subito a piena voce, infatti, implicherebbe l’attivazione di una serie di meccanismi
costruiti su acustiche precedenti, che andrebbero a modificare il nostro equilibrio fisico cercando
una risposta muscolare già nota ma inadatta al nuovo ambiente: e quindi a creare inevitabilmente
delle contrazioni nel nostro corpo e quindi nel nostro suono.

La flessibilità

Abbiamo già esaminato quanto uno studio che parta dal rilassamento sia fondamentale per un
corretto approccio verso lo strumento: ciò costituisce la piattaforma indispensabile sulla quale
costruire una tecnica di emissione che ci permetta di esprimerci al meglio. Nel capitolo precedente
abbiamo esaminato ciò che avviene nella fase di approccio allo strumento, o per meglio dire nella
modalità con cui il flauto entra a far parte della nostra sfera psichica e fisica, sempre seguendo la
stella polare del rilassamento.
Avanzando gradualmente in questa direzione, esaminiamo ora cosa avviene nella fase successiva,
ossia nel momento cruciale in cui il flauto è già “in” noi, la boccola è saldamente appoggiata
all’imboccatura, e dobbiamo cominciare a gestire il suono vero e proprio su questa base rilassata.
Interviene ora un discorso imprescindibile che riguarda la flessibilità.

Per flessibilità intendiamo la duttilità con la quale possiamo riuscire, immettendo l’aria nel flauto
attraverso le nostre labbra, a mobilitare morbidamente l’imboccatura passando da un registro
all’alto della nostra estensione.
Affinché le labbra possano rendersi flessibili, tanto nell’architettura esterna che in quella interna,
è necessario che siano in grado di mobilitarsi in modo naturale, poggiando a loro volta su una
struttura stabile ma elastica al tempo stesso, rispettando al massimo la nostra fisiologia personale.
La nostra articolazione temporo-mandibolare svolge perfettamente questo ruolo: proprio
muovendo fluidamente tale articolazione, infatti, siamo in grado di modificare la posizione delle
labbra, sia in senso assoluto sia in relazione tra loro, e di controllare di conseguenza l’angolo
d’incidenza dell’aria all’interno della boccola del flauto, ciò che evidentemente è il nostro scopo
finale.

Pensiamo alla superficie del nostro labbro superiore come a un bersaglio contro il quale inviare il
flusso d’aria con la massima precisione. Secondo l’effetto che vorremo ottenere, sia esso di colore,
intonazione o spessore sonoro, il percorso che questa “pallottola” d’aria dovrà compiere sarà volta
per volta diverso. Ecco perché diventa fondamentale la capacità non solo di “mirare” nel modo
migliore il bersaglio stesso, ma anche di permettere al flusso di colpire più in alto o più in basso,
attraverso lo slittamento delle due arcate labiali tra di loro.
Tale slittamento si avvale di due posizioni:

- nel piccolo, può avvenire empiricamente anche solo pensando a questo: se il flusso dovrà colpire
più in alto, faremo slittare il labbro inferiore in avanti rispetto al superiore, alzando la superficie
del viso come per guardare un punto collocato in alto nel muro di fronte a noi; se viceversa vorremo
arrivare alla base del caminetto interno alla boccola, faremo avanzare il labbro superiore su quello
inferiore abbassando l’asse del viso come se volgessimo il nostro sguardo poco più in basso: il
tutto però, beninteso, senza mai abbassare o chiudere la posizione generale della testa e della
nuca, che comporterebbe automaticamente una chiusura della gola!
- nel grande, tali direzioni del flusso d’aria possono essere favorite dal movimento, più evidente e
massiccio, delle mandibole stesse, che supportano strutturalmente l’imboccatura.

Consiglio: Prima di approcciare un esercizio specifico con lo strumento, consigliamo di


sperimentare il meccanismo di flessibilità attraverso un’immediata verifica sensoriale: poniamo
una mano di fronte al nostro viso, con il palmo rivolto verso la nostra bocca; indirizziamo un
fascio d’aria, impostato come per il suono, verso il palmo stesso, portando più volte la direzione
dell’aria dall’attaccamento del polso alla punta dei polpastrelli e viceversa, in modo tale da
controllare il movimento dell’emissione verso l’alto e verso il basso nel modo più fluido e naturale,
senza muovere mai la testa ma solo le labbra e le mascelle.

In parole più semplici, dovremo essere in grado di controllare flessibilmente l’incidenza dell’aria
all’interno del caminetto tramite movimenti di slittamento che potranno essere minimi o più
evidenti a seconda delle esigenze di tessitura e di sonorità.

A tale scopo ecco degli esercizi, apparentemente molto semplici ma, se eseguiti con la cura dovuta
straordinariamente efficaci, gli esercizi 5 e 6.

Partiamo da una nota agevole della prima ottava, ad esempio il LA, e leghiamola per salti di ottava
ai due LA superiori tornando poi, flessibilmente, al suono di partenza.
Eseguiremo l’esercizio tenendo conto di quanto detto sulla flessibilità dell’imboccatura,
modificando l’angolo d’incidenza dell’aria verso l’alto salendo, e verso il basso scendendo.
Consigliamo di eseguire l’esercizio sempre davanti ad uno specchio per avere una migliore
percezione del movimento, che non dev’essere né eccessivamente grande, né troppo piccolo.

Tale esercizio avrà una reale utilità solo seguendo scrupolosamente le seguenti indicazioni:

- la sonorità sarà “comoda”, tra il mp e il mf


- l’attacco del primo suono di ogni sequenza sarà sempre senza lingua
- l’aria dovrà essere molto calda e venire dal profondo dei polmoni
- non diamo nessun tipo di vibrato, ma conferiamo la massima espressività nel legato, come
se si trattasse di una vera e propria frase musicale.
- ogni respirazione andrà condotta fino a esaurimento totale dell’aria
- il suono dovrà essere profondo e piacevole nell’emissione, ma dai contorni grezzi, cioè non
troppo pulito.
- nel salire d’ottava dovremo verificare continuamente che il foro labiale non si schiacci o
rimpicciolisca, ma rimanga al contrario il più aperto possibile, quasi al limite estremo della
“caduta” del suono stesso all’ottava inferiore
- la gola andrà tenuta aperta e rilassata, permettendo alla radice interna del suono di essere
amplificata naturalmente
- assecondiamo il naturale crescendo che si verifica nel salire di altezza
- come indicato nell’esercizio, arriviamo obbligatoriamente al re sovracuto; ove possibile,
gradualmente, spingiamoci fino alle note-limite di Mib e Mi naturale sovracuti.
- il movimento di slittamento delle labbra tra loro per innalzare o abbassare la direzione
dell’aria, aiutato o no dall’articolazione temporo-mandibolare, dovrà essere fluido e
rilassato

Esercizio N. 5

L’esercizio 6, contraddistinto da un numero diverso proprio per rimarcare l’importanza di eseguire


le stesse note in due modi differenti, consiste nella riesecuzione del numero 5 per intero, prestando
particolare attenzione, stavolta, al controllo dell’intonazione, che nella prima fase non è stata
deliberatamente oggetto delle nostre cure.

Riprendiamo sempre il nostro LA in prima ottava e leghiamolo al LA in seconda ottava, al LA in


terza ottava e torniamo indietro. Questa volta oltre ad alzare la direzione dell’aria, proviamo a
creare maggiore spazio prima all’interno della bocca (aumentando l’apertura della gola) e poi anche
all’interno del nostro corpo. Cerchiamo di visualizzare la nostra colonna d’aria, come se nel salto
di ottava fosse letteralmente stirata verso il basso, come se si allungasse. In questo modo sentiremo
che l’incremento di aria per sostenere le note più acute della 2° e 3° ottava, sarà compensato
dall’aumento di spazio interno dovuto allo stiramento della colonna d’aria, cosa che ci
permetterà di abbassare l’intonazione senza compromettere la qualità degli armonici. Il suono
manterrà le sue caratteristiche di ampiezza e di proiezione poiché non avremo mutato nulla
nell’imboccatura, ma solo nella parte interna: diamo luogo, in pratica, a una specie di meccanismo
inversamente proporzionale: quanto più alta sarà la direzione esterna richiesta all’imboccatura
tanto più basso sarà il nostro baricentro interno.
Tale meccanismo, delicato e fondamentale specialmente nell’esecuzione di salti e arpeggi, si
chiama compensazione.
Rieseguiamo quindi l’esercizio per intero prestando particolare attenzione, stavolta, proprio al
controllo dell’intonazione.

La compensazione.

Una volta acquisita e metabolizzata l’elasticità necessaria alla massima fluidità nel movimento
d’imboccatura, possiamo finalmente correggere con facilità l’intonazione delle note più acute,
attraverso il controllo della componente più interna del suono (che sarà oggetto di studio specifico
nella II parte), mediante questo meccanismo, detto appunto di compensazione.
Per spiegarci meglio potremmo accomunare questa tecnica ad una sorta di elasticità impressa alla
colonna d’aria, che ci consente di compensare appunto gli eventuali squilibri dovuti al movimento
di imboccatura.
Proviamo a visualizzare la colonna d’aria interna come un tubo cilindrico: per effetto della diversa
quantità di aria richiesta per suonare le diverse note nel flauto, lunghezza e spessore della colonna
stessa non possono né devono essere fissi, ma al contrario molto elastici, in modo da adattarsi alle
diverse altezze e dinamiche delle note che suoniamo.

Nell’esercizio 5 abbiamo spiegato quanto sia importante un buon movimento dell’imboccatura per
garantire sempre la giusta selezione degli armonici nelle note che suoniamo: dobbiamo però
riuscire nello stesso tempo a compensare l’intonazione senza agire troppo sull’imboccatura, bensì
interagendo anche sulla flessibilità della colonna d’aria dall’interno. Se noi provassimo a
correggere l’intonazione delle note acute solo attraverso l’imboccatura infatti, ossia solo soffiando
più in basso, andremmo irrimediabilmente a modificare anche l’equilibrio degli armonici perdendo
risonanza e proiezione, e in qualche modo “schiacciando” il suono, cosa da evitare sempre e a
qualunque costo! In generale consigliamo di correggere l’intonazione il più possibile dall’interno.

In pratica, quindi, dobbiamo consentire alla nostra colonna d’aria di allungarsi allorché il suono
cresce, e accorciarsi quando cala, così come faremmo se potessimo agire direttamente sul flauto
tirando fuori e dentro la testata durante l’emissione del suono, cosa ovviamente infattibile.
E’ molto importante riuscire a comprendere bene questo meccanismo. Ci serviremo di alcuni
esempi intuitivi e basati sulla semplice percezione.
Premessa necessaria, come sempre in questa fase, è l’apertura della gola: immaginiamo che, all’atto
di produrre il primo la, il fulcro del nostro suono sia collocato all’interno del foro labiale, ed
agganciato ad un elastico in posizione di riposo; man mano che ci innalziamo sul secondo e terzo
suono, immaginiamo di tendere progressivamente l’elastico verso la parte più bassa ed interna della
nostra colonna, estroflettendo la parte addominale, e spostando il fulcro del suono dalla punta delle
labbra all’interno della gola, come se dovessimo ingoiarlo: il la più acuto sarà ora amplificato dalle
cavità interne di orecchie-naso-gola; la colonna d’aria -essendo più lunga- ne abbasserà
l’intonazione; la direzione dell’aria nel caminetto, infine, sarà tenuta saldamente in avanti
dall’imboccatura, conformata verso l’alto. Da questa posizione, che rappresenta il punto d’arrivo,
torneremo poi gradualmente ai suoni inferiori riportando l’elastico in posizione di riposo:
definiamo questo ritorno de-compensazione.

Approfondimento del rapporto tra flessibilità e compensazione

Perché è così importante controllare la flessibilità nella conduzione dell’aria verso il suo punto di
contatto col caminetto, ovvero la superficie frontale interna della boccola? Il flauto possiede una
fisiologia specifica di cui tenere conto: se partiamo dalla prima ottava, possiamo comprenderne
bene il funzionamento. Le note più gravi sono quelle che costringono l’aria a percorrere la
maggiore porzione di tubo; man mano che si sale con l’altezza dei suoni, l’aria percorre invece una
strada sempre minore. Per indurre l’aria a percorrere tutto lo spazio interno del flauto, il modo
migliore è quello di indirizzarla verso la parte più bassa del caminetto in modo che possa far vibrare
agevolmente il tubo per tutta la sua lunghezza. Per contro, man mano che il cilindro d’aria interno
allo strumento si accorcia tramite il sollevamento progressivo delle dita, di pari passo si dovrà
alzare anche l’angolo di incidenza dell’aria. Ecco quindi che proprio la fisiologia dello strumento
ci rivela una necessità fondamentale nella tecnica di emissione: la flessibilità dell’ imboccatura,
aspetto che abbiamo già approfondito sopra, ma che potrebbe richiedere ancora qualche ulteriore
spiegazione.
Può essere molto utile paragonare gli spostamenti necessari alla nostra imboccatura al ben più
visibile movimento della mano sinistra di uno strumentista ad arco: un violinista, ad esempio,
determina l’altezza delle note prodotte dal proprio strumento spostando la sua mano sulla tastiera
dalle prime posizioni (più vicine al riccio) alle ultime (più vicine al ponticello). Nello stesso modo,
anche noi possiamo agire sulla nostra “tastiera”, costituita dal caminetto; attraverso il movimento
della “mano”, cioè l’imboccatura. A differenza della tastiera del violino, però, il nostro pozzetto ha
dimensioni ben più ridotte, e tutto si gioca di conseguenza all’interno di uno spazio piccolissimo:
il movimento dell’imboccatura è certamente meno macroscopico ed evidente rispetto a quello di
una mano, ma il suo micro-movimento dovrà essere vòlto al medesimo scopo.
Modificheremo quindi l’angolo di incidenza dell’aria emessa nel flauto, in modo che possa colpire
la zona più bassa del pozzetto per le note della 1° ottava (gli unici suoni naturali del flauto),
leggermente più in alto per le note della 2° ottava (i primi armonici, corretti in parte dalle posizioni
in uso) ed ancora più in alto per le note della 3° ottava, frutto anch’esse di suoni armonici corretti
in posizione.
Naturalmente la schematicità del movimento sopra indicato, volutamente semplificata, non arriva
certo a coprire tutte le necessità relative a dinamiche e colori diversi da un morbido mf: ad esempio,
se avremo la necessità di suonare ff in terza ottava, dovremo compensare l’intonazione crescente
tramite un certo abbassamento della direzione dell’aria, ma anche attraverso lo stiramento della
colonna d’aria in lunghezza necessario alla compensazione. Facendo interagire in modo virtuoso,
quindi, flessibilità e compensazione, saremo in grado di approcciare ogni nota in ciascuna sonorità
secondo le sue specifiche esigenze.

L’unione virtuosa di flessibilità e controllo labiale

Applichiamo ora lo stesso principio di flessibilità su un’ulteriore esercizio, il 7, un po’ più


impegnativo del precedente, e basato su sequenze di armonici. Questo studio andrà eseguito
esattamente come i numeri 5/6 dal punto di vista della ricerca di flessibilità, con l’unica differenza
che stavolta l’ascesa alle note acute e il ritorno verso il basso saranno prodotti dalla variazione di
emissione su un’unica fondamentale: così facendo, la trazione muscolare richiesta al foro labiale
sarà sensibilmente maggiore, costituendo in tal modo una stimolante progressione di difficoltà
rispetto a prima. L’unico grande pericolo, da evitare con la massima cura, può essere costituito
da una progressiva chiusura delle labbra, man mano che si procede verso l’acuto: poniamo la
massima attenzione affinché il foro labiale rimanga il più aperto possibile, relativamente alla
sonorità desiderata, anche nell’emissione delle note più acute. Queste ultime, quando di emissione
davvero troppo impervia, sono indicate tra parentesi e assolutamente facoltative, da eseguire solo
ed esclusivamente senza forzare!

Approfondimento sulla necessità dell’apertura labiale

Ottenere gli armonici, così come le note dell’ultima ottava, o i suoni nel piano, schiacciando o
stringendo le labbra tra loro e diminuendo l’apertura del foro è sì molto comodo a primo acchito,
ma estremamente dannoso per la qualità del nostro suono. Tale via, (che potremmo definire
una comoda scorciatoia che pagheremo a caro prezzo più avanti), consiste nello stringere le labbra
fra loro nella necessità di produrre una maggiore pressione. L’esempio classico che ci viene fornito
secondo questo tipo di scuola, è quello di una pompa da giardino la cui bocca va stretta per poter
arrivare più lontano col getto d’acqua: “O si aumenta la portata d’acqua (soffiando più forte e
quindi crescendo di intonazione e dinamica) o ne si aumenta la pressione, stringendo col dito
l’apertura della pompa, (nel caso del flauto stringendo le labbra)”, ci viene detto. Ma se è verissimo,
da un lato, che portata e pressione sono inversamente proporzionali, non è affatto vero che stringere
il foro labiale sia l’unico modo di aumentare la pressione dell’aria in uscita! Quanto più estesa sarà
la superficie labiale investita dal flusso d’aria, infatti, tanto maggiore risulterà la sensorialità
labiale che potremo arrivare a percepire! Quanto maggiore tale sensibilità delle labbra, tanto
maggiore il potenziale sviluppo della loro muscolatura: vero elemento questo, assieme al
controllo della valvola della gola (di cui parleremo più avanti), in grado davvero di distribuire la
pressione voluta, nonché di controllare ogni minuzia di colore, timbro e intonazione. Risulta anche
intuitivo, insomma, comprendere che se il nostro labbro diventerà ipersensibile nel recepire ogni
minuscola variazione di direzione, intensità e spessore del fascio d’aria in uscita, di pari passo il
nostro cervello potrà comandare molto più agevolmente il da farsi a una micro-muscolatura resa
così percettiva in relazione all’effetto desiderato. Sicuramente le labbra saranno un po’ più chiuse
nel piano che nel forte, questo sì, ma ciò non avverrà a causa di una pre-costituzione artificiale
della loro postura, bensì per la modellazione stessa del foro labiale da parte del flusso d’aria in
uscita, che ne conformerà ogni dettaglio come una guaina perfetta, senza mai esagerarne la chiusura
nemmeno di un’oncia in più dello stretto necessario. Ecco dunque l’ottimizzazione della
muscolatura, che garantirà il massimo rendimento col minimo sforzo. Ripetiamo un’ultima volta
questo importante concetto, da tenere sempre ben stampato nella mente, per evitare il più possibile
quello spiacevole effetto di “schiacciamento” che purtroppo si produce spesso in un suono ottenuto
tramite un’eccessiva chiusura labiale:
- Niente è più sbagliato che pre-costituire il foro d’imboccatura: è il flusso d’aria in uscita
che se lo costruisce, come un fiume che scolpisce da solo il suo alveo.

Nell’approcciare pertanto lo studio n. 7, nonché tutti gli esercizi incentrati sul controllo degli
armonici oggetto del prossimo capitolo, tanto più grande manterremo l’apertura del foro, tanto
maggiore sarà la fascia muscolare che verrà tonificata da questo allenamento. E’ altresì
importante che il punto di appoggio del labbro inferiore sulla boccola lasci il foro del flauto il più
possibile scoperto, così da poter avere il massimo raggio di azione nella gestione della mobilità
dell’imboccatura, ma soprattutto nella variazione di angolatura dell’arrivo del fascio d’aria
all’interno del caminetto.

Esercizio N. 7

L’uso degli armonici nel “fissaggio” del suono

Ora che siamo in grado di governare con la massima padronanza e naturalezza la “dislocazione”
più efficiente degli organi preposti all’emissione, in totale sinergia tra imboccatura e parte interna,
dobbiamo in qualche modo imprimere nella nostra memoria muscolare quegli automatismi che
all’occorrenza si attiveranno per produrre il suono che cerchiamo.
Detto in queste parole, il fenomeno appare più complesso di quanto sia nella pratica: i nostri
muscoli, infatti, sono perfettamente in grado di riprodurre posture e atteggiamenti che siano stati
loro impressi in una fase di lento e concentrato assorbimento delle informazioni provenienti dal
cervello: si tratta di dar luogo a veri e propri automatismi. Mille meccanismi e movimenti di
estrema complessità, nella nostra vita quotidiana, sono assimilati senza particolare sforzo grazie ad
una fertile predisposizione e a un uso costante, tanto da divenire veri e propri riflessi condizionati.
Si tratta qui semplicemente, di iniziare “costruendo” il meccanismo necessario, per poi fissarlo e
salvarlo nel nostro hard-disk interno tramite delle ripetizioni consapevoli e piacevoli.

In concreto: una volta che le nostre labbra, già calde e tonificate dagli esercizi precedenti, sono
poste nella migliore delle condizioni per svolgere il loro lavoro a priorità di prima ottava, si tratta
solo di fissare attorno al foro labiale la migliore tonicità muscolare necessaria e sufficiente ai suoni
della seconda e terza ottava: dovremo in altre parole entrare in “palestra” e attivare una specie di
lip-building.
Per eseguire l’esercizio 8, che chiameremo del legato di armonici, partiremo dalla prima nota
dell’ottava media che possa essere ottenuta come armonico di V da una fondamentale della prima
ottava. Per i flauti discendenti al DO si tratta del SOL medio, per quelli discendenti al SI del FA#.
Prendiamo come esempio il SOL della 2° ottava e leghiamolo alla posizione del DO 1a ottava
tornando infine alla posizione abituale, ma tenendo come risultante sonora sempre il sol medio.
Onde evitare la minima tensione nell’attacco del sol, lo raggiungeremo da una comoda legatura di
salto ascendente proveniente dal sol della prima ottava: applicando anche qui quella flessibilità di
imboccatura che abbiamo proficuamente approfondito nel capitolo precedente.
Eseguiremo l’esercizio il più p possibile, ma col foro labiale bene aperto.

Consigliamo di controllare inoltre la posizione dell’imboccatura:

- Il punto di appoggio delle labbra sul flauto deve consentire al foro della boccola di rimanere
più scoperto possibile, per consentire al suono di avere una maggiore proiezione.
- L’aria deve essere diretta in un punto piuttosto alto della boccola, per selezionare
l’armonico più alto. Bisogna arrivare a percepire l’aria in una zona più esterna del
labbro superiore.
Dal sol proseguiremo quindi salendo cromaticamente, fino a raggiungere la prima nota che, nei
flauti in do, può essere prodotta da due fondamentali diverse, cioè il do con due tagli, e così via
seguendo l’esercizio. Se disponiamo di un trombino discendente al SI partiremo dalla prima riga,
altrimenti dalla seconda.

Esercizio N. 8

Parte II: Le componenti interne del suono

La premessa necessaria: sbadigliare nel suono!

Ora che abbiamo affrontato nella Parte I le principali problematiche relative a postura, imboccatura,
flessibilità e controllo labiale, possiamo finalmente focalizzare gli aspetti relativi alle componenti
più interne del nostro materiale sonoro: di che impasto è fatto internamente, quale ne sia il nucleo
principale, e cosa dobbiamo attivare per incrementarne la densità.
Un fondamentale aspetto che riguarda la tecnica di emissione, a tale riguardo, è costituito dalla
cosiddetta pressione interna o sub-glottidale.

Risulta noto a chiunque abbia fatto l’esperienza di emettere una nota col flauto, che il problema
principale, specie all’inizio, è determinato dall’eccessiva velocità con cui l’aria viene dispersa: essa
infatti, in uscita dai nostri polmoni, raggiunge spesso troppo velocemente la superficie labiale, che
la accoglie brevemente e la convoglia all’esterno svuotando subito la sacca polmonare. Da qui il
fenomeno di dispersione che ci affligge e che, ai nostri primi passi, ci fa girare la testa. Il segreto
starà quindi nel rallentare l’uscita dell’aria trattenendola il più a lungo possibile nella nostra area
faringea, onde eseguire suoni sempre più lunghi. Risulta intuitivo che, se tratteniamo quest’aria, ne
aumenterà la densità interna e ne diminuirà la velocità. Come riuscire ad imprimere questo
rallentamento? Come spesso accade per le cose buone ed utili, questa azione è di una semplicità
assoluta, e dovrà diventare un riflesso automatizzato ogniqualvolta prenderemo in mano il
flauto per accingerci a suonare.

Arriviamo a spiegare tale azione con un esempio che fa parte delle nostre esperienze quotidiane:
se dobbiamo raffreddare una bevanda troppo calda, soffieremo su di essa (anzi, contro di essa),
stringendo istintivamente le labbra e soffiando con forza, dell’aria che proviene direttamente,
sottolineiamo “direttamente” dai polmoni attraverso una faringe quasi chiusa e sostanzialmente
inattiva. Se viceversa desideriamo scaldare i palmi delle nostre mani infreddolite, altrettanto
istintivamente terremo la bocca semi-aperta e inspireremo più profondamente abbassando al
massimo, senza forse farci caso, la cupola diaframmatica: come risultato la temperatura dell’aria
sarà ben più calda, avendo attinto dal profondo dei polmoni; la velocità di uscita sarà molto
rallentata; ma soprattutto l’aria non raggiungerà più direttamente come prima l’area labiale,
ma si soffermerà molto a lungo nella parte più profonda della gola. Ebbene, questa è la chiave
di volta.

Avremo quindi, empiricamente, scoperto molte cose insieme:

- che la velocità dell’aria in uscita è inversamente proporzionale alla pressione interna: ovvero più
la tratterremo nell’area oro-faringea, minore sarà la sua velocità di uscita e viceversa.
- che il flauto, nella norma, si suona emettendo aria calda (regola che in realtà vale per tutti gli
strumenti a fiato)
- che la gola assume in quest’ottica un’importanza fondamentale nel controllo dell’emissione: se
anziché spedire direttamente l’aria verso le labbra, riusciremo a trattenerla consapevolmente
nell’aria faringea, la gola diverrà una preziosa valvola per miscelare pressione e velocità in
ragione delle nostre esigenze esecutive.

Costituendo tale controllo il vero e proprio fulcro della nostra tecnica, tracciamo di seguito un
ulteriore approfondimento che in parte potrà sembrare ripetitivo in relazione a quanto già esposto:
ma così grande è la necessità, in questa fase, che nessun particolare rimanga oscuro, che riteniamo
prudente adottare il melius abundare quam deficere!

Approfondimento del concetto di pressione interna

Proviamo a immaginare il tragitto che segue l’aria prima di uscire dalla bocca e soprattutto quali
sono i meccanismi attraverso i quali noi possiamo influenzarne il percorso. Sappiamo che l’aria
viene immagazzinata nei polmoni e che inducendo l’abbassamento del muscolo diaframmatico
tramite un’inspirazione profonda riusciamo a condizionarne l’entrata. Ma per l’uscita? Nel
percorso d’uscita l’aria ha due possibilità: o va direttamente alle labbra, o passa attraverso la laringe
(che in questa sede per comodità identifichiamo con la gola) e solo successivamente raggiunge le
labbra.
Nel primo caso, il sistema che ci verrà più istintivo per operare il rallentamento necessario, sarà
quello di chiudere il foro labiale, affinché la strozzatura rappresentata dalle labbra così conformate
diminuisca drasticamente il diametro del cilindro d’aria che vi passa attraverso, facendolo uscire
più lentamente. Le labbra, dotate di una muscolatura molto elastica, possono sicuramente
influenzare tale uscita in modo sostanziale. Tuttavia essendo una parte del corpo molto delicata e
soggetta a notevoli mutamenti potrebbe essere rischioso affidarsi completamente a esse per gestire
il controllo della pressione: ci sono infatti giorni in cui potremmo non avere un controllo ottimale
del muscolo labiale e quindi compromettere la nostra emissione. Inoltre, se il flusso d’aria che sale
dai polmoni raggiungerà troppo direttamente la superficie labiale senza passare dalla necessaria
decantazione nella gola, diverrà irrealizzabile ogni tentativo di conferire al suono la risonanza, il
colore e la proiezione che desideriamo (questo concetto sarà sviluppato ulteriormente nel
successivo capitolo, “Cantare nel suono”). Ecco quindi delinearsi chiaramente la seconda
possibilità: la gola assumerà il ruolo di solida alleata dell’imboccatura, al fine di rallentare l’uscita
dell’aria prima che questa raggiunga le labbra: proprio grazie ad essa, e in un modo sicuramente
più sicuro e affidabile, potremo gestire deliberatamente spessore e velocità del flusso in uscita,
dando origine a quella “pressione interna” oggetto del nostro studio.
Senza porvi attenzione, peraltro, già in tanti piccoli gesti della nostra vita quotidiana siamo abituati
a dosare istintivamente velocità e pressione dell’aria: tutti noi avremo più volte spento delle
candeline, servendoci di aria veloce e in grande quantità (inevitabilmente “fredda”); e sempre a
tutti, per contro, sarà capitato di appannare un vetro col fiato, servendoci stavolta di aria calda e
molto più lenta. Questi due opposti esempi descrivono in modo rilevante come, attraverso un
consapevole utilizzo della gola, possiamo condizionare a nostro favore l’uscita dell’aria.
Possiamo già desumere quindi, che:

- il flusso d’aria deve sempre passare attraverso la gola prima di raggiungere le labbra: non solo
per frenare sensibilmente la velocità d’uscita, ma anche per ricevere dalla glottide quell’impronta
decisiva che ci sarà preziosa ai fini di controllare intonazione, colore, timbro, e conformazione
vocale del nostro suono. (Unica eccezione, l’esecuzione di brani in cui la velocità e varietà di
articolazione o la forza dello staccato rendano necessario l’utilizzo di aria più fredda e veloce,
direzionata con forza verso l’area linguale.)

- la gola stessa andrà allenata, così come abbiamo tonificato la muscolatura labiale nella parte
precedente, al fine di controllare con la massima efficacia qualità e quantità della pressione
interna.

Lo sbadiglio

L’esempio dell’aria che appanna un vetro è molto simile a un altro gesto che ripetiamo molto spesso
nella vita di tutti i giorni: lo sbadiglio. A tal proposito, se pensiamo alla pressione interna, possiamo
benissimo tradurre questo gesto simulando uno sbadiglio. Noteremo che, nell’atto di sbadigliare,
la gola costringe i muscoli della parte bassa del collo (i costrittori inferiori faringei) a estroflettersi:
ciò le consente di ampliarsi notevolmente in allungamento verso il basso. La lingua si appiattisce
e indietreggia, permettendo all’aria di salire agevolmente verso la zona palatina, laddove l’azione
dell’aria stessa, costretta a rifrangersi tra il palato molle e le cavità interne di naso e orecchie,
produrrà un suono simile al sibilo forzato di un sifone, del tutto simile a quello provocato da un
normale sbadiglio.
Proviamo quindi a produrre tale suono sbadigliando, cercando al tempo stesso di aumentarne al
massimo la sonorità: otterremo quel rumore di sifone che, una volta inserito nel nostro suono -
essendone a sua volta sovrastato- ne costituirà il nucleo centrale e più potente.
Ciò che sentiremo sarà un suono normale e particolarmente pieno di armonici: del rumore di cui
sopra non rimarrà alcuna traccia, ma esso ne costituirà comunque l’anima interna, lo scheletro.
Noteremo subito che l’aria arriverà con meno velocità alle pareti labiali: in questo modo la “focale”
del nostro suono non sarà più sulla punta delle labbra, bensì nella parte più interna del cavo orale,
strettamente a contatto con gola naso e orecchie. Questo fa sì che le naturali cavità di risonanza
della voce umana diventino esse stesse gli amplificatori più efficaci del nostro suono.
In quest’accezione di sonorità, pertanto, suonare parlare o cantare diventeranno sul piano fonatorio
un unico gesto totalmente accomunabile.
Possiamo iniziare con lo sperimentare l’efficacia della produzione dello sbadiglio interno al suono
attraverso alcuni semplici esercizi che non richiedono alcuna notazione specifica

Sbadigliare nel flauto

Esercizio n. 9:

Appoggiamo il flauto alle labbra assecondando la nostra naturale posizione d’imboccatura, e


mantenendo la bocca spalancata produciamo uno sbadiglio molto rumoroso; avviciniamo le labbra
tra di loro chiudendo progressivamente la bocca, nell’atto di accingerci a produrre un sol della
prima ottava; man mano che le labbra si avvicinano, sentiremo affiorare dapprima dei fischi
acutissimi e leggerissimi (whistle-sounds); quando l’imboccatura raggiungerà la consueta
conformazione atta a produrre il suono, faremo sì che l’aria, fino a quel punto costretta all’interno
della gola, fluisca infine al di fuori del foro labiale. Otterremo un suono, leggermente sfocato nei
contorni, ma di straordinaria densità. Tale densità è determinata in massima percentuale dalla
trasformazione in suono del rumore prodotto dallo sbadiglio.

Stimbrare attraverso lo sbadiglio

Esercizio N. 10:

Questo esercizio serve fondamentalmente a prendere consapevolezza della grande pressione


interna necessaria a produrre un suono stimbrato (concetto che svilupperemo adeguatamente nella
seconda sezione).
Eseguiamo nel modo più usuale un do basso nella sonorità di mf, controllandone la giusta altezza
(la di riferimento 442 HZ) con un intonatore.
Estraiamo ora la testata di circa 1-1,5 cm e, servendoci dello stesso accordatore, cerchiamo di
portare il suono, che risulterà ora piuttosto basso, a un’intonazione corretta, ma con i seguenti
accorgimenti:

- suoniamo il più p possibile, aumentando al massimo l’entità dello sbadiglio senza far fluire
troppo velocemente l’aria contro il foro labiale (che produrrebbe un eccesso di timbratura
“esterna”)
- aiutiamoci a innalzare l’intonazione attraverso il più grande slittamento possibile del labbro
inferiore in avanti, utilizzando la flessibilità d’imboccatura (vedi Parte I cap. II).
- Inspiriamo molto profondamente, senza alcun attacco di lingua, e portiamo ogni volta il
suono fino al totale esaurimento dell’aria
- Eseguiamo più volte questo studio anche sul si (se il nostro flauto possiede la discendenza
a tale nota), sul do # e re bassi
- Cerchiamo di percepire quanto le pareti labiali in questa fase siano sostanzialmente
passive e ininfluenti, e quanto decisivo sia invece il nocciolo interno del suono generato
dallo sbadiglio, direzionato verso l’alto per alzare l’intonazione.

Ingoiare il suono

Esercizio N. 11:

Eseguiamo un SI naturale sul terzo rigo, iniziando a emettere il suono con una posizione interna
esageratamente chiusa (quasi con la bocca serrata e la lingua molto vicina al palato), e una
posizione esterna di imboccatura piuttosto alta: otterremo una nota volutamente molto crescente;
creiamo poi, nel corso dell’emissione, uno spazio via via sempre maggiore all’interno del cavo
orale, allontanando la lingua dal palato e abbassandola di pari passo alla mascella inferiore,
avvertendo quasi la sensazione di far gonfiare una piccola pallina da ping pong all’interno della
bocca. Sentiremo il suono acquisire un volume tanto maggiore quanto più l’aria guadagnerà spazio
verso l’interno, mentre l’intonazione del SI risulterà progressivamente sempre più calante ma anche
più risonante.
Poniamo attenzione ai seguenti aspetti:

- Il suono finale, pieno e risonante, al nostro orecchio sarà troppo calante: ma se imposteremo
la lunghezza della testata su questa specifica posizione, facendo sì che si riferisca
perfettamente al 442 HZ, essa diventerà la posizione di riferimento sulla quale costruire poi
tutta la tessitura del flauto, inglobando in noi stessi la radice vera e propria del suono.
- Concentriamoci sulla percezione della risonanza profonda all’interno delle orecchie, quasi
come se il suono uscisse dai nostri timpani anziché dalle labbra. Se il nostro suono non
echeggia con forza dentro le nostre orecchie, non arriverà mai a raggiungere con
efficacia le orecchie dei nostri ascoltatori!

Un altro esempio che rende molto bene la forza dello sbadiglio è quello di provare a urlare sotto
voce, come talvolta facciamo a teatro per attirare l’attenzione di qualcuno senza far far sì che si
voltino4
tutti. Se proviamo a farlo, possiamo subito notare come per “urlare sottovoce” dobbiamo
imprimere una grande energia all’aria e lo facciamo proprio attraverso la gola che genera una
notevole tensione all’interno della colonna. Immaginiamo di dover attirare l’attenzione di qualcuno
che ci sta lontano per avvisarlo magari di un’imminente situazione di pericolo. Ciò che faremo,
all’atto di urlargli sottovoce “ehi, fa’ attenzione!” si tradurrà fisicamente in un’istintiva iper-
compressione della colonna d’aria interna ma correlata alla massima proiezione della voce
stessa, che giungerà attutita ma penetrante.

Cantare nel suono, ossia come il suono diventa la nostra voce

Una delle caratteristiche fondamentali che determinano la qualità di un suono è rappresentata dalla
sua “proiezione”, in altre parole dalla capacità di inviare tutti i dettagli relativi a ogni singola nota
alle orecchie dell’ascoltatore, ovunque egli sia posto, riuscendo a coprire ogni tipo di distanza, sia
ravvicinata che lontanissima, con l’efficacia necessaria a supportare al meglio la nostra materia
sonora.
Ciò non significa necessariamente che si debba suonare “forte”: perfino un pp delicato ed
evocativo, deve poter essere colto con estrema chiarezza tanto dal loggione di una sala da duemila
posti, quanto tra le ben più piccole mura domestiche.
Portiamo quindi alle estreme conseguenze la similitudine cui abbiamo accennato nel precedente
capitolo: se suonare, parlare e cantare sono frutto della stessa attitudine fonatoria, è evidente che
anche il flautista sarà costretto ad amplificare il suono attraverso le proprie cavità di risonanza, così
come un cantante lirico è costretto a fare allorché, come usa dire nella tecnica vocale, “imposta”
la sua voce.
Diremo quindi che ogni suono acustico, non riverberato elettricamente, e che sia emesso da una
corda vibrante, sia essa di metallo, vocale, o d’aria, dovrà disporre di un amplificatore specifico:
tale amplificatore, che nel caso degli strumenti a corda è rappresentato dalla cassa armonica di
risonanza, e nel caso di alcuni strumenti a fiato da campane più o meno evidenti, per quanto
riguarda il flauto, così come per attori e cantanti, è costituito unicamente dalle cavità di
risonanza facciali e toraciche.

Ciò che conferisce proiezione a un suono è la capacità di contenere la gamma più ampia possibile
di armonici: sappiamo infatti che ogni suono può essere scomposto nella serie di armonici che lo
costituiscono, partendo dalle frequenze più basse per arrivare a quelle più acute. E’ fondamentale,
quindi, affinché un suono abbia una buona proiezione, che nel suo spettro ci sia una presenza
equilibrata, o comunque controllata e consapevole, di armonici bassi come di acuti.
Come ottenere questo risultato, apparentemente così complesso, col nostro strumento?

Prima di proporre una serie di esercizi che si riveleranno di estrema e piacevole naturalezza, nonché
di sorprendente efficacia, consigliamo di acquisire subito, e definitivamente, uno specifico
approccio mentale verso la produzione del suono.
Anziché tediare subito il lettore con una trattazione eccessivamente scientifica, riteniamo al
momento più produttivo, a tale scopo, lanciare una piccola serie di consigli di matrice intuitiva,
quasi aforismi, frutto della pratica quotidiana e di un lavoro “in prima linea”; questi “tips”, per
dirla col linguaggio dei manuali informatici, potranno seguirlo nella pratica di studio quotidiano
come nell’esercizio della professione, e saranno sviluppati in modo avanzato nella II Sezione.

- l’attitudine al canto, già fondamentale per un musicista, è addirittura essenziale per uno
strumento che, come il nostro, ha un impiego nella letteratura compositiva di ogni epoca,
all’ottanta per cento basato sul cantabile, e che spesso deve saper rendere cantabile anche
la tecnica digitale
- non è possibile intonare un intervallo sullo strumento con la giusta padronanza, se il nostro
cervello non l’ha prima impostato attraverso l’orecchio interno, di cui il canto è la perfetta
riproduzione esteriore
- cantare il suono, l’intervallo o addirittura la frase completa che ci accingiamo a eseguire
prima ancora di suonare, ci permette, grazie a una perfetta mimesi corporea, di semplificare
o addirittura risolvere problematiche complesse nella conduzione del suono
- l’atteggiamento mentale verso l’emissione del suono, la postura fisica ma soprattutto la
vera e propria tecnica respiratoria - fonatoria di base nel flautista e nel cantante sono
assolutamente identiche: ad eccezione dell’area labiale-articolativa e, naturalmente, di
quella manuale.

Proponiamo subito un semplice esercizio per iniziare a prendere confidenza con questi concetti:

Esercizio N. 12:

Negli esercizi precedenti, abbiamo prodotto il rumore del sifone attraverso uno sbadiglio che ha
rallentato l’uscita dell’aria e attivato l’amplificazione del suono tramite le cavità oro-faringee.
In questo esercizio faremo lo stesso, ma anziché produrre un rumore, metteremo in vibrazione le
nostre corde vocali cantando una nota: il rallentamento impresso alla colonna d’aria sarà pressoché
lo stesso, col vantaggio però di produrre un suono musicale anziché un rumore indeterminato.
L’aria, una volta messe in vibrazione le corde vocali, dovrà disporre ancora della velocità
necessaria e sufficiente per giungere al foro labiale, e riuscire a far vibrare anche la colonna d’aria
interna allo strumento.

Partendo da una nota dell’ottava media del flauto, possibilmente della mano sinistra, ad esempio il
LA naturale della seconda ottava, proviamo a mettere in vibrazione le corde vocali fino a produrre
contemporaneamente al suono col flauto anche una qualsiasi nota ad altezza determinata con la
voce; se non riesce, iniziamo anche senza flauto, cercando di far partire il canto dalla consonante
sonora "v", prima atteggiando le labbra ad imboccatura flautistica con il dito indice che funge da
boccoletta, infine cantando la stessa nota sul flauto.
Se all’inizio si rivelasse particolarmente difficile, consideriamo che sostenere questo doppio suono,
di flauto e voce, richiede maggiore quantità di aria e sostegno diaframmatico. I corpi vibranti,
infatti, sono in questo caso due: le corde vocali, e la corda d’aria del flauto, con la conseguente
necessità da parte nostra di sostenere un doppio sforzo.
A tale scopo dovremo vigilare affinché:

- la nostra respirazione attinga dal profondo dei polmoni


- l’inserimento della voce avvenga in maniera graduale, e a un volume che ci risulti comodo,
sia esso f che p
- il suono cantato possa esser mantenuto stabile, su una qualsiasi nota che non impedisca la
medesima stabilità a quella eseguita “di posizione”
Ultimo espediente se questo canto non dovesse proprio uscire, è quello di iniziare producendo
prima la nota cantata ma già col flauto al suo posto: appoggiamo lo strumento all’imboccatura,
(analogamente a quanto fatto in precedenza per lo sbadiglio) e senza suonare cantiamo a bocca
semi-aperta la nota scelta; quando il canto si sarà stabilizzato, avvicineremo lentamente le labbra
al flauto, permettendo loro di conformare gradualmente il foro d’emissione; quando esso sarà
formato, sempre continuando a cantare, faremo infine fluire l’aria al di fuori delle labbra, come un
torrente che finalmente sappia dove incanalare le sue acque, cercando di sostenere entrambi i suoni
contemporaneamente.

Una volta acquisita una certa dimestichezza nella produzione di un qualsiasi doppio suono voce-
flauto, si potrà finalmente cominciare a cantare suoni di altezza voluta, mettendoli ora
deliberatamente in relazione intervallare precisa con un’altra o più altre note eseguite di posizione;
man mano che aumenterà la nostra abilità, saremo in grado di rendere indipendenti le due linee che
risulteranno, e arrivare a eseguire delle vere e proprie composizioni a due voci.
Questa finalità è preziosa non tanto sul piano concertistico (sebbene nel nostro repertorio
contemporaneo si trovino esempi simili), quanto su quello del conseguimento della massima
maestrìa nel controllo dell’intonazione e sull’arricchimento dei colori interni al suono.
Così come un grande vino deve saper sprigionare una complessità olfattiva portatrice di decine di
diversi aromi e sentori, anche il nostro suono, all’orecchio di chi ascolta, dovrà dispiegare la più
vasta varietà di colori e suggerimenti uditivi.
Tutto ciò può avvenire, nella gran parte dei casi, solo con l’utilizzo creativo e consapevole di quel
meraviglioso strumento di cui tutti disponiamo gratuitamente: la voce.

Prendiamo nuovamente una nota della mano sinistra della 2° ottava, partendo stavolta dal sol, ed
iniziamo ad utilizzare sempre meglio la nostra voce con l’esercizio 13, facendo attenzione ai
seguenti aspetti:

- cerchiamo di mantenere il più stabilmente possibile l’intonazione della nota tenuta


- respiriamo liberamente, ma solo al termine dell’aria, per poi riattaccare direttamente il canto
dalla nota successiva
- l’intonazione dei suoni cantati dovrà essere ora molto precisa: qualora avessimo dei dubbi
fermiamoci a riascoltare attentamente l’intonazione della nota bordone (solo suonata)
- manteniamo la gola in una posizione allungata verso il basso, mentre l’imboccatura rimarrà
stabilmente all’altezza necessaria all’emissione del sol (labbra abbastanza pari tra loro, e
viso rivolto in alto, vedi cap. flessibilità)
- la gola non deve mai irrigidirsi!
- la nota cantata non dovrà mai essere forzata, ed eseguita con la vocale più comoda rispetto
alla tessitura!
- NB - l’estensione scritta è puramente indicativa: in questo caso, per esempio, le voci
maschili intoneranno l’ottava reale sotto, mentre voci sopranili potranno raggiungere
le altezze scritte. Non è importante l’ottava reale, ma il rapporto tra gli intervalli e
l’intonazione. Potremo anche spezzare le ottave laddove la voce faticasse ad arrivare
troppo in alto o troppo in basso.

Esercizio N. 13

Nel prossimo studio, dopo aver sperimentato le semplici scale dell’es. 13, inizieremo a prendere
sempre maggior confidenza e a sviluppare l’elasticità del legato di voce, intonando i rassicuranti e
agevoli intervalli che formano la triade maggiore.
- le note tra parentesi sono quelle che non tutti, per estensione vocale, potrebbero
raggiungere; eliminiamole quindi se sono fuori portata, passando direttamente alla nota
successiva
- qualora fosse più agevole, si potrà naturalmente cantare in tutto o in parte l’ottava inferiore
o superiore, così come partire da qualsivoglia suono della triade modificando la struttura
dell’esercizio: insomma ciò che va allenato è lo spostamento intonato della voce su note
tenute stabilmente col flauto!
- sperimenteremo che la voce potrà, in certe relazioni di tessitura, creare disturbo e turbolenze
nel suono del flauto: entro il limite del possibile questi disturbi potranno essere corretti con
l’allenamento, ma prestate la massima attenzione a non forzare mai la voce mantenendo la
gola rilassata, all’occorrenza astenendovi da quegli specifici suoni, e solo da quelli, che
creino davvero troppi problemi, continuando però a sviluppare tutti gli altri.

Esercizio n. 14

Proseguiamo i nostri studi di canto aggiungendo una difficoltà per volta: nei prossimi due esercizi
dovremo coordinare, oltre alla gestione dei due suoni, anche un semplicissimo movimento di dita.
Ciò conferirà ulteriore scioltezza e indipendenza, che ci sarà preziosa quando affronteremo gli studi
avanzati della Sezione II. Il vostro strumento si sta gradatamente trasformando da monodico in
polifonico, se non altro per l’esecuzione di semplici bicinia.

Esercizi n. 15 e 16 (di seguito)

Seconda Sezione: Tecnica d’emissione avanzata

Introduzione:
la tecnica di “allineamento dei tre punti”

Suonare rappresenta un’attività notevolmente complessa e stratificata, tanto dal punto di vista
neurologico quanto da quello psicomotorio: ricordiamoci che il lavoro di strumentisti possiede
molti tratti in comune con l’attività atletico-agonistica. Analogamente a questa, infatti, le nostre
performance durano assai poco rispetto al lungo periodo di preparazione necessario, e debbono
attingere necessariamente i propri automatismi da un allenamento costante e profondo, svolto per
lo più in un’ottica preventiva e costruttiva ben precedente alla performance stessa. E’ fondamentale
perciò affrontare lo studio quotidiano come una vera e propria preparazione atletica in grado di
conformare corpo e mente all’estrema complessità coordinatoria preposta al suonare: chiameremo
tale pratica studio di accumulo, o di progresso (vedi anche Parte IV, Risoluzione dei problemi),
contrapponendola allo studio finalizzato, che risponde a necessità meno costruttive e più
direttamente risolutive.

Ricorriamo a un’immagine raffigurando il nostro suono come un ponte lungo ed elastico che
poggi saldamente su tre pilastri: ognuno di essi è totalmente indispensabile al sostegno del ponte
stesso e strettamente interdipendente all’altro. Questi tre pilastri vanno perciò considerati come i
“tre punti” di appoggio necessari alla formulazione di un suono consapevole. La localizzazione, la
manutenzione ma soprattutto l’allineamento di queste tre colonne saranno oggetto di un grande
approfondimento nella seconda sezione. I tre punti sono:

- il diaframma
- la gola
- le labbra

Sviluppare, controllare, padroneggiare la necessaria e continua interazione tra questi tre punti,
grazie ai prossimi esercizi diventerà gradualmente il nostro più grande punto di forza.
Analogamente alla stabilità del ponte-suono, infatti, sarà la struttura stessa, ossia la nostra
“macchina fisica”, ad acquisire una robustezza e un controllo definitivamente consapevoli. Questo
ci permetterà inoltre di soffrire in misura quasi ininfluente di quei cali di forma, di quei momenti
di annebbiamento strumentale che caratterizzano un suonare all’insegna dell’estemporaneità nella
preparazione, dell’eccessiva episodicità di studi non risolutivi.
Quanto appreso nella prima sezione, propedeuticamente essenziale alla seconda, verrà da qui in
poi sviluppato tramite l’approfondimento più attento di ogni singolo aspetto legato alla gestione
dei tre punti. Nello studio quotidiano, non dovrà esserci necessariamente una priorità specifica o
un ordine preciso da dare alle varie parti, ma dovrà presto maturare la consapevolezza delle
tematiche da approfondire in relazione ai nostri punti deboli, siano essi stabili o transitori.

Parte I
Il primo punto: diaframma e area addominale

Non vuole essere tra gli scopi di questo manuale l’affrontare in modo scientifico ciò che avviene
esattamente all’interno del nostro corpo durante una corretta respirazione diaframmatica: esistono
ottimi metodi e trattati, dedicati in particolare alla tecnica lirica vocale, notevolmente esaustivi
sull’argomento, e forniti di ogni supporto visuale, sezioni anatomiche e disegni molto
particolareggiati degli organi interni che concorrono all’atto respiratorio e fonatorio su base
diaframmatica. Consigliamo a chi volesse approfondire l’argomento di esaminare tali testi con la
massima attenzione. In questa sede, invece, ci basta indurre nel lettore, in modo semplice ed
empirico, una riflessione del tutto pragmatica a questo riguardo: quando suoniamo la nostra
respirazione dev’essere cosciente, profonda, consapevole; e tutto ciò che avviene nell’area
diaframmatica deve poter essere sotto il nostro controllo, diretto o indiretto.

- La cura dell’inspirazione

Converrà ricordare innanzitutto qualche breve concetto: il diaframma, cupola muscolo-tendinea


che divide la cavità toracica da quella addominale, è un muscolo a funzionalità involontaria. Ciò
dev’essere ben chiaro, perché spesso si fa una grande confusione tra l’azione della muscolatura
addominale, (che concorre in modo decisivo a una postura corretta) e il cosiddetto uso del
diaframma. L’attività ottimale di questo muscolo può solo essere indotta, indirettamente, da una
respirazione profonda e rilassata, (che ha come conseguenza l’estroflessione della suddetta fascia
addominale), al fine di abbassare al massimo la cupola diaframmatica stessa. Ecco perché sentiamo
il bisogno di osservare la pancia che fuoriesce, nel corso d’una respirazione corretta. Dobbiamo al
contempo fare attenzione, però, a non contrarre inutilmente, come spesso accade in modo
totalmente esagerato e improduttivo, i muscoli addominali. Il diaframma, lo ripetiamo, deve solo
essere messo in condizione di abbassarsi gradualmente e totalmente, per favorire la massima
espansione polmonare, niente di più di ciò che facciamo inconsapevolmente allorché riposiamo
supini su un letto, in posizione orizzontale: faremo dunque sì che la respirazione avvenga nello
stesso modo anche in posizione verticale. Può senz’altro aiutare, tanto visualmente che fisicamente,
il cercare di percepire l’abbassamento delle spalle nel corso dell’inspirazione, sia in piedi che
seduti: una respirazione corretta non potrà mai avere luogo se le spalle e/o il trapezio si alzano nel
corso dell’immissione dell’aria nei polmoni.

Una volta dato l’avvio a una profonda inspirazione, avremo dunque messo in atto tutto ciò che è in
nostro potere per far sì che la conduzione del suono sia perfettamente controllata, seppur
indirettamente, dal diaframma? La corsa più graduale possibile del diaframma verso la sua
posizione di riposo, cioè il rialzo della cupola diaframmatica stessa, è condizione necessaria e
sufficiente? Certamente no: è necessaria ma non sufficiente. Non è certo contraendo
spasmodicamente i muscoli addominali bassi però, come prima chiarivamo, che possiamo
ottimizzare i benefici effetti di questa corsa. Ciò su cui ci dobbiamo invece profondamente
concentrare è la qualità della risposta a tale movimento.

Se inspireremo profondamente e gradualmente, tenendo le spalle ben basse, avremo creato il


presupposto necessario per una corretta emissione: ma se tale emissione avverrà in maniera troppo
veloce e immediata subito dopo la ripartenza del diaframma dalla posizione estroflessa a quella
interna, il nostro suono sarà debole e durerà pochissimo. Come potremo dunque controllare la lenta
gradualità con cui il diaframma ritorna “a casa”? Semplicemente opponendogli una forza
contraria che lo costringa a rientrare lentamente: questo incontro di forze crea una
compressione, che chiameremo pressione interna.

La qualità della risposta dunque, come dicevamo all’inizio, è fondamentale per indurre il
diaframma a lavorare al meglio. Tale forza contraria sarà da noi impressa per mezzo dei due punti
che saranno oggetto approfondito dei prossimi due capitoli, gola e labbra, mediante il più attento
controllo, rispettivamente, dell’area oro-faringea e di quella dell’imboccatura. Gola e labbra,
miscelando la loro forza in una sinergia virtuosa, produrranno, “contro” il rientro del diaframma,
una pressione che ne rallenterà la corsa imprimendo al suono in uscita una struttura
profondamente radicata nel nostro corpo; e questo, solo questo, significherà di conseguenza
“suonare col diaframma”.

Questo capitolo, di conseguenza, sarà sostanzialmente povero di esercizi scritti: una volta chiarito
come si deve respirare, infatti, e più in particolare come si deve “inspirare”, l’unica cosa cui
abituarsi è ricordarsi di farlo il più correttamente possibile, prima di ogni suono che emetteremo
nel corso di tutta la nostra vita. Tale concetto, apparentemente semplice, quasi lapalissiano, è al
tempo stesso difficile da mettere in pratica, perché spesso pensiamo di poter suonare quasi senza
inspirare o facendolo male, in modo superficiale e deconcentrato: senza entrare cioè nel profondo
di un automatismo, naturale fin che si vuole, ma che dev’essere comunque indotto in modo corretto.
Nel corso della nostra vita, anche senza flauto, quante volte ci troviamo, infatti, a respirare
affrettatamente, in modo affannoso e nevrotico, creando le condizioni per una cattiva ossigenazione
del sangue e causando irritabilità e instabilità? Ecco quindi che abituarci a controllare la
respirazione, pratica che non certo a caso sta alla base di qualsiasi disciplina di rilassamento e
controllo della propria emotività, avrà la doppia efficacia di aiutarci a suonare ma anche a vivere
meglio: facendo divenire la pratica quotidiana di uno strumento a fiato un mezzo per costringere la
nostra mente a perfezionare l’automatismo fisiologico cui più di tutti è legata la nostra
sopravvivenza. Ispirazione e in-spirazione sono dunque la stessa parola, e sovrintendono entrambe
al raccoglimento interiore che precede e crea, dal nulla, quel bellissimo suono che sta nella nostra
mente, e che vogliamo produrre.
Il momento che precede la produzione del suono è dunque cruciale:

-inspirazione
-ispirazione (e concentrazione)
-ascolto del suono ancor prima della sua emissione

Questi momenti coincidono e avvengono mentre il flauto - altro da noi - si avvicina e diventa
parte di noi.

Una volta avviato il flusso d’aria nel migliore dei modi, secondo i parametri sopra descritti, tutto
sarà ora demandato alla risposta della gola e delle labbra, miscelate tra loro in forza e
consapevolezza d’intervento. La qualità di tale risposta, come dicevamo, sarà approfondita
mediante specifici studi nei prossimi capitoli: esercizi che non avranno alcuna utilità, né alcun
modo di attecchire, però, se il primo punto, l’inspirazione, non sarà risolto.

Qui di seguito daremo qualche indicazione su come eseguire degli esercizi che non necessitano di
una specifica notazione, ma che sono più che altro trasmissibili con semplici istruzioni, dettate in
gran parte dal buon senso.

- ESERCIZIO 17: Le note tenute

Fin da bambini veniamo informati dell’utilità di eseguire note lunghe, o tenute.


L’esercizio 17 consiste semplicemente nell’emissione di una lunga serie di questi suoni ad libitum.
Certamente questa è una pratica utilissima, ma solo se eseguita ponendo la massima attenzione a
una serie di accorgimenti che ricordiamo di seguito, e che sarà opportuno memorizzare al meglio
nell’affrontarla:

- Scegliamo sempre, all’inizio e per riscaldamento, una nota o delle note che siano di nostra
personale, facile emissione: ognuno di noi ha dei suoni preferiti, e non c’è niente di meglio
che partire da quelli
- Inspiriamo profondamente, in piedi o seduti, avvalendoci di uno specchio frontale:
controlliamo di tenere le spalle basse, e di abbassarle ulteriormente nel corso
dell’inspirazione
- Durante l’inspirazione stessa cerchiamo di rilassare al massimo la zona del plesso solare,
sotto lo sterno, e concentriamoci chiudendo gli occhi sul rendere l’immissione dell’aria nei
polmoni simile a quel tipico “sospiro di sollievo” che istintivamente traiamo quando cessa
improvvisamente una forte tensione o in seguito alla sospensione di un forte esercizio fisico.
Inspirare dev’essere un’azione piacevole e dal potere rilassante.
- Attacchiamo la nota senza alcun attacco di lingua, che di per sé stesso è già causa di
tensione; e non preoccupiamoci tanto della pulizia del suono quanto della sua profondità.
- Non interrompiamo l’emissione del suono fino all’esaurimento totale dell’aria nei polmoni:
nella fase di riscaldamento cerchiamo di arrivare sempre fino a quel leggero e innocuo
piccolo spasimo che si prova quando si sia drenato anche il minimo carburante ancora
presente nel torace
- In seguito a tale spasimo cerchiamo di NON introdurre l’aria nei polmoni con un atto
volontario, ma facciamo sì che ciò avvenga in modo automatico tramite la semplice ri-
apertura della bocca, che si schiuderà leggermente verso il basso una volta finito di emettere
il più piccolo rivolo di suono residuo attraverso l’imboccatura
- Concentriamoci affinché il ciclo di inspirazione-emissione del suono-ripartenza
dell’inspirazione s’inscriva in una specie di gesto circolare, attraverso il quale ogni suono
successivo sarà un po’ più lungo, compatto e caldo del precedente
- Dopo esserci impratichiti, avviamo il metronomo contando i battiti, per cercare di
guadagnarne via via sempre qualcuno in più

- Esercizio 18: La “respirazione canina”

Come contraltare all’inspirazione profonda, lenta e rilassata di cui sopra, può essere talvolta utile
ricorrere, per un veloce riscaldamento della muscolatura respiratoria generale - soprattutto in
relazione alla necessità di recuperare un riallineamento posturale e respiratorio corretto in breve
tempo – alla cosiddetta respirazione canina.
Tutti abbiamo ben presente come respira un cane, specie in seguito ad un forte sforzo: estraiamo
come lui la lingua per quasi tutta la sua lunghezza, e avviamo una respirazione intensa e veloce,
cercando di emettere un suono che si avvicini il più possibile a una vocale profonda, tra la A e la
O, emessa da una gola molto aperta verso il centro del nostro corpo; tale respirazione, veloce e
sussultoria, se portata avanti con la massima intensità per qualche minuto, ha lo scopo di porci in
una condizione di massima efficacia all’avvio del suono successivo, specie se ci predisponiamo a
eseguire un brano in cui lo staccato e l’articolazione da una parte, o un vibrato intenso dall’altra,
siano particolarmente impegnativi.
Questa pratica piuttosto faticosa, utile talvolta anche per attenuare la tensione prima di una
prestazione particolarmente ansiogena, proprio per la sua caratteristica di spezzare il fiato, un po’
come succede nel corso di un’attività sportiva alla fine del riscaldamento, è molto utilizzata anche
da tutti coloro che, oltre agli strumentisti a fiato, devono utilizzare la miglior respirazione possibile,
ossia cantanti e attori.

- ESERCIZIO 19: Lo staccato diaframmatico

Abbiamo esaminato poco sopra quanto la respirazione diaframmatica sia condizione necessaria ma
non sufficiente per controllare la conduzione di un suono tenuto: ma cosa cambierà se viceversa
tale suono dovrà essere corto, o se si deve eseguire una sequenza di suoni brevi staccati tra loro?
In tal caso, la brevità del rientro della corsa diaframmatica, anziché essere un handicap, potrebbe
rappresentare la chance di attribuire a quel singolo suono una pienezza che normalmente verrebbe
“spalmata” su durate maggiori; il volume d’aria che si utilizzerà per ogni singolo suono, quindi,
sarà il massimo possibile, essendo il suono stesso sostanzialmente privo della pressione interna
creata dal rallentamento della corsa diaframmatica.

A tale scopo ecco l’esercizio 19, da applicarsi a qualsiasi sequenza di note staccate, siano esse
disposte su scala, arpeggio o intervalli di ogni genere: eseguiremo delle semplici sequenze di
quartine regolari partendo dalla tessitura medio-bassa, e a un tempo possibilmente abbastanza
sostenuto, conferendo una spinta diaframmatica per ciascuna nota. In questo specifico caso,
quindi, l’efficienza della fascia addominale sarà stavolta discriminante: dovrà lavorare molto,
infatti, per velocizzare al massimo quello stesso processo che sta alla base della respirazione
profonda, accelerandolo artificialmente ma senza sovrappore tensione. In realtà, si tratta quasi
dello stesso studio della respirazione canina, però applicato sull’emissione di una serie di
note.
Tale studio è volto a utilizzare l’intera colonna d’aria per ogni singolo suono; gli attacchi andranno
eseguiti senza l’uso della lingua, grazie all’uscita improvvisa della colonna d’aria spinta dall’area
addominale verso l’alto: tale colonna d’aria stavolta non incontrerà delle forze opposte che la
rallentino e la trasformino in pressione! Raggiungerà prima una gola apertissima e rilassata,
proseguendo poi verso l’imboccatura, che dovrà essere più aperta possibile. All’inizio
dell’esecuzione si dovrà attivare un’inspirazione profonda: in seguito, le inspirazioni successive
saranno brevi e spesso inserite all’interno dello staccato stesso, la cui brevità di emissione non
richiederà un accumulo particolarmente cospicuo di aria nei polmoni.
NB - È utile chiarire che questo tipo di staccato molto difficilmente trova un’applicazione esecutiva
diretta in brani di repertorio: per la chiarezza necessaria a un’articolazione perfettamente
intelligibile l’uso della lingua è di prassi totalmente necessario per finalizzare al meglio le esigenze
espressive della dizione flautistica. Va osservato però che, come studio di elasticità e flessibilità,
tale staccato diaframmatico ci porrà in una condizione di ottima ossigenazione labiale e di generale
comfort respiratorio, divenendo uno dei fattori possibili di un più ampio e consapevole indirizzo
della colonna d’aria verso l’imboccatura: la posizione e la conformazione delle labbra, infatti, per
compensare la “prepotenza” di questi piccoli fiumi d’aria in continuo arrivo, varieranno
sensibilmente per assecondare i vari registri interessati.
Volutamente, nel corso dello studio, alterneremo intervalli più piccoli a veri e propri salti di
tessitura, utili a stimolare la massima flessibilità di postura labiale nel compensare l’arrivo
dell’aria.

Parte II
Il secondo punto: gola e area oro-faringea

E’ arrivato ora il momento di sviluppare in maniera sempre più estesa e virtuosistica quanto appreso
nella sezione precedente a proposito della voce dentro il suono. Gli esercizi proposti di seguito,
pensati in modo gradualmente sempre più impegnativo, conferiranno ai nostri automatismi fisici
lo sviluppo di una padronanza sempre più definitiva del materiale sonoro. La coordinazione tra
intonazione vocale e strumentale da un lato e movimento di dita e imboccatura dall’altro, per mezzo
dei prossimi studi maturerà in modo naturale e progressivo fino a divenire abituale. Ciò che
emergerà inoltre sarà una consapevolezza polifonica del tutto nuova, di utilità estrema
nell’accostare il nostro suono a quello di altri strumenti: diventerà cioè sempre più agevole
amalgamare la nostra pasta timbrica all’interno di un gruppo da camera o di un’orchestra.

Sviluppo della tecnica del canto nel suono

Nel prossimo studio riprenderemo la tipologia di vocalizzi già esaminati negli esercizi 13-16, con
l’unica variante che il primo intervallo che intoneremo non sarà più un unisono bensì una terza
maggiore.
A questo proposito sarà utile chiarire ancora una volta come interpretare la scrittura della linea
vocale riguardo alle differenti estensioni: data l’estrema varietà di tessitura “naturale” o falsettistica
di cui possiamo disporre secondo il nostro sesso e/o dell’elasticità delle nostre corde vocali, per
convenzione, la chiave di violino che indica la linea vocale, non significherà quasi mai l’ottava
effettiva di esecuzione, ma rappresenterà i puri rapporti intervallari indipendentemente dall’ottava
“d’effetto” che potrete raggiungere.
Per esempio, il primo Reb cantato all’inizio dell’esercizio 20, seppur agevole per una voce maschile
di media estensione, potrà essere intonato, come effetto, anche all’ottava reale inferiore, come fosse
scritto cioè sul terzo rigo in chiave di basso: ciò potrebbe facilitare l’esecuzione del Reb successivo,
molto difficilmente eseguibile per una voce maschile se non dotata di un falsetto particolarmente
naturale.
Una voce femminile, per contro, non avrà alcuna difficoltà a intonare l’esercizio seguendo
perfettamente i suoni reali.
Di conseguenza, nell’accingerci ad approfondire tutti i prossimi esercizi, teniamo ben presente le
seguenti regole:
- Mentre la scrittura relativa alle note del flauto è da osservarsi in maniera scrupolosa,
l’altezza dei suoni cantati potrà variare di ottava secondo le caratteristiche vocali di
ognuno.
- L’emissione della voce nel suono dovrà mantenersi assolutamente naturale e mai
forzata, né in altezza né in volume né in estensione, a necessaria tutela della salute
delle vostre corde vocali che, se forzate in modo improprio, potrebbero danneggiarsi
inutilmente.
- L’emissione della voce nel suono dovrà comportare (come già illustrato per l’Esercizio
12), un ampliamento e allungamento della gola verso il basso; l’aria che in tal modo
farà vibrare le corde vocali dovrà essere emessa in modo lento, naturale e uniforme.

Di seguito esercizio n. 20

Partiamo ancora da una nota di facile emissione come ad esempio il SOL della 2a ottava e
intoniamo con la voce l’intervallo alla 6a minore inferiore (SI naturale). Muoviamo poi il bicordo
ottenuto verso la quinta giusta costituita dal La (suonato) e il Re (cantato). Divertiamoci a ripetere
questo passaggio in forma ritornellata fino a verificare di aver acquisito una buona sicurezza e
soprattutto un'ottima intonazione. Ripartiamo ora dalla quinta così ottenuta per raggiungere la
terza maggiore costituita da SOL (cantato) e SI (suonato). Ripetiamo nuovamente il passaggio fino
ad averlo consolidato e poi ricominciamo eseguendo i tre intervalli nel modo descritto.
Procediamo poi come indicato attraverso i successivi passaggi ritornellati che ci condurranno, una
volta messi in sequenza, a eseguire con facilità l’ultima parte dello studio.

Di seguito es. n. 21

Ora, dopo aver maturato la giusta confidenza nel dar luogo a seste, quinte e terze così come
potremmo fare con le doppie corde di un violino, siamo pronti ad affrontare i prossimi esercizi, che
di questi intervalli (e di altri) faranno largo uso.

(Di seguito)
Esercizi 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30

Immediate applicazioni del canto nel suono

Il vibrato
Come creare il vibrato attraverso l’oscillazione della voce; aumentare la qualità e la densità del
nostro vibrato su base vocale

Il flauto può vantare tra i suoi punti di forza un’estrema duttilità di suono, fattore che gli conferisce
numerose possibilità espressive.
Come già esaminato, possiede la capacità di variare la pasta interna passando da una maggiore
densità (timbratura) alla più eterea rarefazione (stimbratura): ma anche quella di poter generare un
vibrato profondo e controllato, esattamente così com’è possibile ai cantanti.
Il vibrato è un potente mezzo espressivo che consiste nella variazione periodica dell’altezza di una
nota, o meglio nella variazione della sua frequenza.
Più precisamente nel vibrato si distinguono due caratteristiche:
L’ampiezza, che consiste nella misura dell’onda sinusoidale che costituisce la variazione di
frequenza del suono.
L’intensità, che consiste nel ritmo al secondo con cui si presentano queste piccole variazioni di
frequenza.

Nel caso del flauto, il controllo di entrambe queste caratteristiche va collocato all’interno dell’area
oro-faringea che è oggetto della nostra approfondita ricerca in tutti gli studi di canto nel suono.
Esattamente come avviene per i cantanti, infatti, la colonna d’aria, avviata e sostenuta da un
consapevole controllo dell’appoggio diaframmatico, trova un punto di passaggio obbligatorio nella
modulazione fonatoria: ecco che l’aria, salendo sulla base della spinta diaframmatica, subisce un
reale controllo nella modalità di uscita attraverso la muscolatura della gola, il movimento delle
corde vocali e la mascheratura o proiezione delle cavità facciali. Intensità e ampiezza di vibrato
vengono così erogate in modo naturale dalla flessione controllata e periodica della colonna d’aria
all’altezza della gola. La lunghezza della colonna d’aria che dovrà subire questa vibrazione sarà
tanto maggiore quanto più forte l’intensità dinamica richiesta dalla produzione di un suono dato:
in un ff, quindi, la colonna d’aria sarà molto lunga e avremo la sensazione di controllare il
vibrato più con un’oscillazione diaframmatica che di gola; nel vibrare morbidamente una nota
nel p (per esempio il do diesis iniziale dell’Après-midi d’un faune di Debussy), l’oscillazione del
vibrato sarà collocata invece con estrema chiarezza nella zona della glottide.

Per approfondire questo aspetto, ecco l’esercizio 31. Sempre partendo da una nota relativamente
comoda della seconda ottava (in questo caso abbiamo scelto il Si), intoniamo contemporaneamente
l’unisono e cominciamo a far oscillare la nota cantata verso il semitono inferiore, lentamente, con
un effetto simile al glissato. Aumentiamo via via la velocità dell’oscillazione, fino a consentire
alla voce di seguire il suo vibrato “naturale”. In questo modo percepiremo chiaramente quanto
la gola partecipi all’oscillazione del suono e alla formazione del miglior vibrato.

di seguito Esercizio 31

Nello studio seguente procediamo con lo stesso esercizio e sulla medesima nota, ma questa volta
facciamo oscillare l’unisono cantato verso il semitono superiore.

Noteremo come i due esercizi producano due tipi di vibrato diversi: il primo più profondo e ampio,
mentre il secondo più brillante e intenso. Entrambe le tipologie di vibrato potranno essere utilizzate
con la più grande efficacia e consapevolezza, secondo le esigenze dettate dalla musica.
NB - Attenzione: il momento più importante di entrambi gli studi consiste in ciò che succede nella
nota vibrata in ff alla fine di ciascun esercizio. L’effetto che si può ottenere con una corretta
esecuzione, evidenzia in modo inequivocabile come il motore oscillatorio interno sia
indispensabile alla modulazione del vibrato più intenso. Quando, avendo ancora aria sufficiente
per farlo, fermeremo improvvisamente la voce mantenendo saldamente il suono tenuto col flauto,
il fatto stesso di lasciare immutato questo movimento oscillatorio (incuneato saldamente tra
diaframma e gola) produrrà un vibrato con caratteristiche di profondità, qualità e radicamento fisico
totalmente nuovi e completi; e il nostro vibrato sembrerà pieno e profondo come quello prodotto
dalla mano sinistra di un grande strumentista ad arco.

di seguito Esercizio 32

Sviluppo e allenamento delle componenti esterne e interne del suono allo stesso tempo :
Cantare legando gli armonici
Nella prima sezione abbiamo avuto un primo importante approccio alle due tecniche principali
relative allo sviluppo di muscolatura labiale da una parte, e all’aumento in densità interna del suono
dall’altra: rispettivamente il fissaggio del suono attraverso gli armonici e il canto nel suono.

Ora è arrivato il momento di approfondire ulteriormente tali tecniche, grazie a tre esercizi pensati
su tre step successivi, i primi due dei quali rappresentano un punto di passaggio obbligato per
riuscire proficuamente nell’esecuzione del terzo, il più complesso e utile: sono gli esercizi 33, 34
e 35.
Nel primo prenderemo ulteriore confidenza col legato di armonici; nel secondo controlleremo
l’ottimale intonazione di scale cantate con la voce all’interno di una fondamentale tenuta dal flauto
(“dentro il suono”, appunto); infine nel terzo cercheremo di coordinare con la massima scioltezza,
e contemporaneamente, questi due fondamentali aspetti della nostra emissione, necessari a
rinsaldare al meglio il fatidico allineamento dei tre punti; punti che saranno tutti e tre attivati dalla
gestione contemporanea di queste due notevoli difficoltà.

- Il primo punto (area diaframmatica) verrà allenato, in particolare negli studi 34 e 35, da una
profonda e rilassata respirazione, seguita dal drenaggio completo dell’aria, usata ogni volta fino al
più totale esaurimento; lo sforzo richiesto all’area diaframmatica affinché sostenga un doppio
suono, inoltre, farà il resto.
- Il secondo punto (area oro-faringea) verrà coinvolto, sempre nel 34 e 35, dalla necessità di
un’emissione più fluida e naturale possibile (massima attenzione: mai forzare la voce!) di note
intonate su scala di grado congiunto nella tessitura più adatta alla nostra voce
- Il terzo punto (area labiale) sarà tonificato al massimo nel 33 e 35 dal difficilissimo compito di
sostenere suoni sempre più acuti attraverso una digitazione svantaggiosa: ben diverso, infatti, è il
tono muscolare che si richiede per l’emissione di un Mi acuto come armonico di 5a (più ottava) da
un La o di 3a (ma più due ottave!) attraverso la posizione di un do basso.

Partiamo dall’esercizio 33: è il primo dei tre passi necessari ad automatizzare la coordinazione tra
legato di armonici e canto nel suono, e l’unico dei tre – essendone la preparazione – in cui non è
previsto l’uso della voce.
La cosa fondamentale è partire dalla posizione cosiddetta naturale del Do, ossia quella che
conosciamo tutti e che utilizziamo più frequentemente: iniziando col Do nel piano, a labbro
rilassato e gola aperta, digitiamo alternativamente la posizione di fa e do basso, cercando di
concentrarci sul pur leggerissimo sforzo cui è sottoposto in questa tessitura il nostro foro labiale
quando il Do è ottenuto attraverso posizioni più chiuse. Affinché l’esercizio sia utile al sommo
grado, è importante tornare alla posizione del suono naturale per confrontarla con la produzione
degli armonici, e allenare sempre di più il foro labiale a tonificarsi attraverso questa trazione,
leggera ma benefica.
Legenda - le note poste tra parentesi sono le digitazioni suggerite: qualora non ve ne siano nella
parte inferiore del pentagramma, significa che la nota va emessa nella posizione ordinaria. Man
mano che si sale col suono, aumentano le posizioni di fondamentali che possono avere come
risultato l’armonico richiesto: a partire dalle 4 posizioni abbiamo inserito per semplicità il simbolo
dell’armonico già dall’inizio della nota; questo per rimarcare che anche la cosiddetta posizione
“naturale” cui siamo abituati, in realtà, non è che una fondamentale naturale modificata, e il suo
effetto è già di per sé stesso un armonico.

di seguito Esercizio 33

Esaminiamo ora l’esercizio 34: inseriamo, senza alcuna rigidità, delle sequenze di scale per grado
congiunto all’interno del suono tenuto. Concentriamoci il più possibile sul legato della voce, sul
passaggio da nota a nota vòlto a mantenere il più attento controllo dell’intonazione e
dell’omogeneità nell’uso della voce. Respiriamo sempre molto profondamente prima di attaccare,
cantiamo all’ottava che ci risulti più naturale, più acuta o grave a seconda delle caratteristiche
vocali personali, ma rispettando le altezze relative. Cerchiamo pazientemente, senza forzare, di
guadagnare con la voce l’emissione di qualche nota via via sempre più in basso o più in alto di
quelle suggerite dall’esercizio, puramente indicative. Non dobbiamo necessariamente partire dal
canto della tonica, se questa crea particolari difficoltà: le vocali indicate all’inizio sono puramente
suggestive di una posizione interna, ma la cosa più importante è che l’attitudine della gola sia di
profonda apertura e rilassamento nel corso del canto.

Di seguito Esercizio 34

Ed ecco infine l’esercizio 35, che contiene i due precedenti e li coordina nel modo più approfondito.
Si tratta sicuramente di uno studio piuttosto ostico all’inizio, ma se affrontato nel modo giusto, con
pazienza e massimo rilassamento, senza impennate, può davvero contribuire a rinforzare con
grande efficacia tutta la struttura complessiva implicata nella produzione del suono.
Inspiriamo sempre con profonda calma e profondità. Le labbra devono mantenersi, specie all’inizio
dell’emissione di ogni suono, ben aperte e percettive dell’enorme variabilità in pressione finale del
flusso in arrivo. La voce deve distribuirsi in maniera calda e libera all’interno del suono, come a
“immergersi” nel colore principale, senza mai forzare ma selezionando con la massima qualità
d’intonazione la relazione con la nota-pedale di riferimento.
In particolare l’ultima parte dello studio va affrontata solo dopo un lungo riscaldamento, onde
evitare irrigidimenti controproducenti.

Di seguito esercizio 35

Modulazione del suono in relazione alla tonalità: il “colore tonale”.

Siamo spesso abituati a pensare all’emissione di una singola nota come a un fenomeno puramente
“orizzontale”: in altre parole, essendo il flauto uno strumento monodico, un la è sempre un la e un
mi bemolle è sempre un mi bemolle.
Proviamo a cambiare attitudine mentale solo per un momento e prendiamo ad esempio un SI
naturale della seconda ottava, come quello con cui inizia la Fantasia di G. Faurè. Questo SI, visto
dall’ottica tradizionale del puro “bel” suono flautistico, dovrà essere caratterizzato da un attacco
soffice, un vibrato dalla sinusoide regolare, e dalla massima pulizia di emissione nella sua sonorità
di p dolce. Tutto vero, ma cosa faremo, per quanto attiene al colore di questo SI? Per colore
intendiamo qui non la dinamica assoluta, bensì proprio quella particolare qualità timbrica
determinata dallo spettro degli armonici: se consideriamo, infatti, che questo SI rappresenta nella
fattispecie la quinta della triade di mi minore, al suo colore potrà essere conferito quello spettro
armonico peculiare che gli permetterà di aderire in modo straordinariamente più efficace alla triade
esaminata. Come? Avvalendoci della dimestichezza ormai acquisita nella gestione del canto
all’interno del suono, proviamo a cantare, lentamente e profondamente, la triade di mi minore
all’interno del SI naturale tenuto, indipendentemente dalla nostra estensione vocale: si tratta solo
di intonare con la massima cura, tenendo il SI pedale, le note MI, SOL e SI di qualsiasi ottava,
legandole morbidamente tra loro. Una volta ottenuto il massimo equilibrio e la migliore
intonazione possibile tra voce e suono, fermiamo improvvisamente la voce, e teniamo saldamente
il SI, mantenendo invariato il “calco” fonatorio (ovvero la posizione interna tra diaframma, gola e
imboccatura: l’allineamento dei tre punti). Ciò che otterremo sarà un SI dotato di uno spettro
armonico permeato in maniera evidentissima dalla triade di mi minore. Una prova di questo? Se
possiamo avvalerci di un pianoforte, abbassando il pedale di risonanza, eseguiamo un accordo di
Mi minore lasciandolo vibrare a lungo, e giustapponiamovi il SI ottenuto in tal modo: noteremo
immediatamente quanto il nostro suono e lo spettro armonico della triade si fondano con facilità,
favorendo al massimo legame e intonazione.
Viceversa, dopo aver cantato nello stesso SI tenuto la triade, ad esempio, di SI maggiore, (mutando
così la sua funzione da quinta della triade di MI min. a fondamentale di quella di SI maggiore, e
cantando le note SI, RE # e FA #), proviamo nuovamente a stoppare la voce e a far aderire il suono
così ottenuto allo stesso accordo di prima: noteremo quanto, sulla tonalità di mi minore, il nuovo
SI suoni troppo brillante e chiaro, con uno spettro armonico troppo acuto e tagliente, e quanto poco
si amalgami con gli armonici prodotti dal pianoforte. Se vorremo, potremo proseguire in questa
direzione considerando di volta in volta il SI come terza della triade di Sol maggiore, come quinta
della triade di MI maggiore, come settima maggiore di do maggiore, e così via: ogni volta lo stesso
Si acquisirà un colore che differirà in modo lieve ma sostanziale rispetto alla sua collocazione
su altri suoni.

Attraverso lo studio del canto nel suono, insomma, ogni nota si arricchisce degli armonici dei
suoni che ci cantiamo dentro.

Possiamo allora acquisire l’esatta percezione di come la gola incida realmente nel conferire al
suono le più varie sfumature timbriche e i più diversi colori, e sviluppare tale abilità attraverso un
lavoro specificamente mirato.
NB - Ogni volta che parleremo della gola ci riferiremo fondamentalmente ad una parte specifica di
essa, ovvero alla laringe che contiene le corde vocali, le quali, attraverso le diverse contrazioni dei
fasci muscolari che le compongono, permettono all’aria di uscire con maggiore o minore pressione.

Esercizio preliminare
Partendo da una nota data col flauto, cantare nel suono alternativamente l’intervallo di 3a maggiore
e di 3a minore. Nell’esecuzione dell’esercizio, una volta avviato con sicurezza tale doppio suono,
togliere la voce e, restando nella medesima posizione interna, ascoltare alternativamente la
risultante timbrica che rimane nel suono semplice: tale suono manterrà una specie di “impronta”
diversa secondo l’intervallo che vi avremo inserito. Si noterà come l’intervallo di 3a Maggiore
conferirà al suono un timbro più chiaro e brillante, mentre quello di 3a minore un timbro più scuro,
richiedendo essi un calco armonico e fonatorio del tutto diverso, e di assoluta evidenza.

A questo punto siamo già in grado di sentire quanto la posizione interna della gola modifichi il
suono e possiamo divertirci a sperimentare l’incidenza nel colore di una nota con tutti gli intervalli
possibili, arricchendola man mano negli armonici e nella proiezione.
Facciamolo con l’esercizio 36. Le note della mano sinistra della seconda ottava sono le più semplici
e, all’inizio, le più utili sulle quali avviare al meglio la nostra nuova consapevolezza riguardante il
colore armonico: essendo inoltre le più “vuote” di armonici (il canneggio del flauto viene qui usato
per meno della metà della sua lunghezza) sono quelle che più debbono e possono arricchirsi della
nostra vocalità.
L’ideale sarebbe attaccare la nota pedale tenuta dal flauto in modo morbido, anche senza attacco,
e con una sonorità che non superi il mf; inseriamo questi lenti arpeggi ascendenti e discendenti con
la massima profondità vocale, e nella tessitura più conferme alla nostra estensione, sforzandoci di
legare al massimo tra un suono e l’altro e di rendere espressivo questo canto, utilizzando aria calda
e profonda. Infine poniamo la più grande attenzione alla qualità dell’intonazione. Alla fine
dell’esercizio, se lo avremo bene eseguito, sperimenteremo una piacevolissima sensazione di calore
interno, di espansione dei muscoli del collo e della gola, nonché di una maggiore tonificazione
nella definizione del foro labiale.

di seguito Esercizio N 36

Approfondimento sull’utilità di acquisire il colore tonale:


Il “canto nel suono” sottopone il diaframma a uno sforzo maggiore poiché deve sostenere
contemporaneamente tanto il suono che la voce. Per questo, la pratica costante nel tempo di tale
esercizio, conferirà un notevole aumento della capacità di tenuta dei suoni, soprattutto della 3a
ottava. Quanto più resisteremo nel tenere note lunghe cantate e suonate, tanto più la trazione
diaframmatica sarà sottoposta a un sano e costruttivo allenamento, fino ad arrivare alla massima
capienza polmonare e a una straordinaria resistenza respiratoria - come si sa estremamente utile in
uno strumento a grande dispersione d’aria qual è il flauto.

Utilizzare la voce nel suono, peraltro, trasforma in qualche misura il flauto in uno strumento
polifonico. Ciò sottopone il nostro orecchio interno a un esercizio notevole perché deve riuscire a
“intonare” gli intervalli con la voce, mettendoli in relazione alla nota eseguita dal flauto. La
consapevolezza intervallare, radicata in ogni musicista, arriva a raffinarsi ed esprimersi al suo
massimo potenziale. Tanto per la pratica strumentale orchestrale che per quella cameristica
e d’assieme in generale, questo è un esercizio dall’enorme potenziale applicativo. Il nostro
orecchio si abitua a percepire uno stesso suono in relazione ad intervalli sempre diversi: non appena
il cervello, attraverso l’orecchio, individua la nota di riferimento suonata attorno a noi da qualsiasi
strumento o gruppo di strumenti, modula in qualche centesimo di secondo la risposta più
appropriata per quel riferimento, inducendo una risposta fisica di adeguamento del calco fonatorio
alla velocità del più pronto riflesso condizionato. Un po’ come quando, guidando, s’intravvede un
ostacolo e la reazione nervosa che corregge la traiettoria si gioca nell’àmbito di pochi frammenti
di secondo, così la correzione di colore armonico-tonale, se impostato sul training sopra esposto,
diventa un fatto di riflesso immediato. Ecco così che non si corregge l’intonazione di un suono
emesso dopo un lungo processo di ascolto e dopo aver attivato una coscienza critica molto
dispendiosa in termini di tempo; bensì si modula il proprio suono con la stessa prontezza che ci
viene spontanea attivando lo strumento per noi più spontaneo e veloce: la nostra voce; e attraverso
un mezzo che non è tanto riflessivo, quanto istintivo.

Gestione del passaggio tra stimbrato e timbrato e viceversa

Nella prima sezione abbiamo approfondito quanto la pressione sub-glottidale riesca a produrre
l’innervatura interna del suono (es. 9), lasciando aperta la possibilità di definire il contorno esterno
di questo stesso suono, attraverso un appropriato uso della muscolatura labiale. Ciò può generare
alcune problematiche concernenti l’intonazione assoluta: nel passaggio, veloce e flessibile, tra la
stimbratura e la timbratura cambia in modo sostanziale, infatti, l’angolazione con cui il flusso
d’emissione raggiunge la parete labiale e di conseguenza il caminetto della nostra boccola. Gestire
di conseguenza, con vera padronanza, tutti i punti intermedi tra un suono stimbrato (evanescente,
dai contorni sfumati) e uno timbrato (i cui contorni siano definiti e massicci) significa
padroneggiare in maniera perfetta un ulteriore elemento tecnico ed espressivo di questo suono.
A tale scopo è stato scritto l’es. 37. Accendiamo l’intonatore tarato su 442, attacchiamo senza usare
la lingua un sol della prima ottava pp impalpabile, al limite dell’udibile, controllandone la
corretta intonazione; la pressione sub-glottidale, nella forma già appresa di un lentissimo
sbadiglio, deve essere alla massima potenza. All’inizio la nostra imboccatura, tramite una leggera
estroflessione del labbro inferiore rispetto al superiore, indirizzerà il fascio d’aria verso l’alto,
affinché il sol non cali. Nel crescendo successivo si dovrà gradualmente ridurre questa pressione,
aumentare la velocità dell’aria che permetterà l’aumento di volume del suono, mentre la superficie
labiale da passivo punto di passaggio dell’aria dovrà gradualmente divenire una robusta parete
muscolare in grado di contenere l’aumentato afflusso, indirizzandolo verso un punto d’incidenza
più basso all’interno del caminetto della boccola: tale movimento sarà ottenuto con una decisa
estroflessione, stavolta, del labbro superiore sull’inferiore, coadiuvata dall’abbassamento della
mascella inferiore e di tutto il mento. Ciò dovrà avvenire a una pulsazione di tempo molto lenta, e
presteremo la massima attenzione affinché l’intonazione rimanga il più stabile possibile, non
perdendo mai di vista l’ago dell’intonatore.
Successivamente, attiviamo il processo contrario: partendo da un ff molto timbrato, in cui la
trazione richiesta alla superfice labiale sia la massima possibile, passiamo gradatamente al pp
originario, rallentando la velocità dell’aria, sollevando gradualmente il punto di rifrangenza
dell’aria nel caminetto, e tornando ad aumentare la pressione interna al massimo grado, quasi
pensando di “ingoiare” l’aria, più che di lasciarla uscire. Controllando l’emissione davanti ad uno
specchio ravvicinato, il vapore caldo dell’aria in uscita alla fine di questo processo, dovrebbe
lasciare, nell’estremo pp, l’impronta di una specie di triangolino sulla parete esterna della boccola:
più precisa sarà la forma di questo triangolino, più pulito sarà l’effetto del pp, in questo caso
denominato, come per il canto, “filato”.
L’ultima parte dell’esercizio è naturalmente quella di unire le due parti con un crescendo seguito
da un diminuendo con la massima lunghezza di tenuta del suono.

di seguito Esercizio 37

Parte III
Il terzo punto: imboccatura e area linguale-labiale

Stabilizzazione dell’imboccatura attraverso gli arpeggi

Affinché la nostra imboccatura possa poggiare solidamente sulla boccola e divenire il


sensibilissimo bersaglio del flusso di emissione, la posizione delle labbra, tanto tra di loro quanto
nell’appoggio, dovrà divenire solida e consapevole. Nella prima sezione abbiamo già esaminato
quanto sia fondamentale controllare flessibilmente la stabilità ma al tempo stesso la mobilità delle
fasce labiali in relazione ai salti di tessitura. Ora proseguiamo quest’analisi con alcuni esercizi di
approccio prevalentemente digitale, ma che in realtà mettono a dura prova anche la stabilità della
nostra imboccatura. In ciascuno di questi esercizi il nostro scopo sarà di colpire la micro-
muscolatura labiale là dove essa potrà creare la risonanza più efficiente per ogni singolo suono; al
tempo stesso di mantenere ben saldo il controllo dell’imboccatura pur sottoponendolo a
spostamenti di una certa entità.
Non si è ritenuto di compilare qui una serie di studi basati su quegli arpeggi consonanti e tonali cui
siamo già abituati, non certo perché essi non possano rivelarsi utili, (la loro pratica assidua è al
contrario fondamentale!), ma solo per la ricchezza straordinaria di letteratura didattica già esistente
ed esaustiva al riguardo, dai classici di Taffanel & Gaubert agli “studi giornalieri” di Moyse (testo
particolarmente prezioso), per arrivare agli eccellenti volumi di Trevor Wye e molti altri ancora,
redatti da insigni pedagoghi. Qui il focus è rappresentato piuttosto dalla pratica di una vera e propria
scomodità, digitale e mentale: tale pratica, se correttamente condotta, magari anche attraverso
personali varianti creative apportate dal singolo esecutore, può generare l’evolversi di automatismi
nuovi, per un controllo sempre maggiore.

NB - L’esercizio 38 è pensato in modo tale da creare gradualmente un aumento esponenziale


dell’entità dello spostamento labiale: nelle prime sequenze esso sarà quasi nullo, pur a fronte di
una certa complessità di digitazione; procedendo nelle successive la necessità di mobilitare
l’imboccatura si farà via via più pressante. L’esercizio 39, invece, andrà affrontato con molta
gradualità e pazienza, essendo di esecuzione davvero molto impervia. Il tempo dovrà all’inizio
esser molto lento seppur regolare; labbra e gola dovranno già essere ben calde da allenamento
pregresso; l’emissione delle note più acute non dovrà mai essere forzata; l’articolazione dovrà
variare dal tutto legato al tutto staccato a quella mista suggerita. Ci si limiti, quando necessario, a
esercitare a lungo anche singole, brevi parti di questi arpeggi, talora semplici quartine o gruppi
ancora più piccoli. Lo scopo finale è quello di arrivare a eseguire tale studio, o almeno parte di
esso, senza eccessivi sforzi.
N.B. Importante - E’ interessante riconoscere quanto, nell’abituale tecnica quotidiana di ogni flautista,
lo studio degli arpeggi sia costantemente disatteso in favore di scale o passaggi di tecnica misti, più spesso
applicati direttamente ai passi difficili dei singoli brani oggetto di studio. Se questi ultimi aspetti non
vanno certo trascurati, è la tecnica trascendentale dell’arpeggio - che nel flauto risulta particolarmente
difficile rispetto agli altri legni – il fulcro del vero controllo: uno strumento come il nostro, privo di un
riferimento stabile e solido sul piano dell’imboccatura, è proprio nel rafforzarla e strutturarla in massimo
grado che può compiere un salto di qualità decisivo. E’ necessario insomma scuotere fortemente l’albero,
in modo profondo ed elastico, per testare la resistenza di rami e radici.

di seguito Esercizi 38 e 39

Rafforzamento dell’imboccatura tramite tremoli e cromatismi

-Tremoli

Una volta strutturata in modo saldo ma elastico la complessa architettura labiale, dovremo ora
cercare di rinforzarla, affinché si alleni a sostenere grandi afflussi di aria, tanto in volume che in
pressione, convogliandoli poi con sicura tenuta muscolare verso la rifrazione finale dell’aria
all’interno del caminetto. Abbiamo già preso in esame con l’esercizio sul legato di armonici
(sezione I, cap. 1, terzo paragrafo) quanto un attento sviluppo dell’area labiale - sia in sensibilità
sia in resistenza - ci porti a tonificare la struttura stessa del foro delle labbra. Molti altri sono i tipi
di training cui possiamo sottoporre le nostre labbra: tra questi uno studio fondamentale è quello
sui tremoli. La veloce alternanza di due note separate da un intervallo maggiore alla 2a, sottopone
infatti la muscolatura delle labbra alla necessità di conformarsi solidamente nella postura
intermedia più efficace per l’emissione delle due note alternate, che sarà tanto più robusta quanto
più ampia è la divaricazione dei suoni stessi. Negli esercizi seguenti sarà importante controllare
una morbida apertura della gola, una buona velocità dell’aria e puntare alla massima definizione di
entrambi i suoni.

di eguito Esercizio 40

-Cromatismi

Lo studio dei cromatismi nel flauto traverso è spesso considerato, e giustamente, troppo facile e
agevole perché possa incidere in maniera reale sullo sviluppo tecnico. A ben vedere, però, se il
cromatismo è delimitato nell’ambito di una terza maggiore e ripetuto un notevole numero di volte,
passando realmente in ogni tessitura ad alta velocità e con la massima precisione metronomica, ma
soprattutto ricercando la massima uguaglianza ritmica, può fornire un warm-up
straordinariamente efficiente. Il calco fonatorio si appoggia comodamente nell’ambito della terza,
proiettando a distanza ciò che la perfetta sincronizzazione di dita e timbratura labiale riescono a
produrre. L’efficienza esecutiva necessaria a mantenere, come dicevamo, una reale uguaglianza
ritmica anche in posizioni impervie è tale da rendere questo esercizio particolarmente indicato
qualora si abbia poco tempo a disposizione e si desideri imprimere la massima coordinazione a
tutti i meccanismi che concorrono all’emissione. Altrettanto essenziale, ai fini della massima utilità
di studio, si rivelerà il drenaggio completo di tutta la capacità polmonare per ogni singolo
passaggio: ossia dovremo evitare assolutamente di interrompere ciascuna sequenza cromatica
prima di aver completamente esaurito tutta l’aria contenuta nei polmoni. Il segno di ritornello
sta solo a significare “n” ripetizioni, secondo le capacità di ciascuno, ma comunque non siano mai
meno di due per ogni riga. Eseguiremo i cromatismi con la massima omogeneità dinamica e di
distribuzione del suono, tutto assolutamente legato e alla massima velocità che ci permetta il nostro
controllo. Il metronomo segnato, seppur auspicabile, è puramente indicativo, ma molto difficile da
rispettare nelle posizioni più acute, per le quali sarà bene abbassare un po’ il tempo.

di seguito Esercizio n. 41

Per finire, ecco un esercizio per mettere a dura prova contemporaneamente la stabilità del flauto,
la tenuta dell’imboccatura e la difficoltà digitale.

L’esercizio 42 potrà sembrare a prima vista ostico o quasi ineseguibile, ma va subito chiarita una
cosa: non è da concepire in un arco continuo. Si tratta in realtà di una lunga sequenza di passi
nel registro acuto e in posizioni scomode che, se praticati abbastanza a lungo e con la dovuta calma,
possono contribuire a rinsaldare al massimo la coordinazione tra imboccatura e dita, e arrivare
letteralmente a scolpire la muscolatura labiale. È noto, infatti, che spesso la nostra pigrizia di
esecutori ci porta a praticare per studio, con grande prevalenza, le soluzioni tecniche più comode
delle prime due ottave, mentre raramente ci soffermiamo con la dovuta calma a ripetere
complesse sequenze di note acute! Va poi osservato che, nel progressivo allontanamento dal
concetto di tonalità, le soluzioni digitali che includono note non riconducibili ad accordi consueti
sono sempre più presenti nel nostro repertorio, ed è buona prassi avvicinarvisi per tempo (le
armature di chiave presenti nello studio servono solo a diminuire il numero di alterazioni
transitorie).

Nell’eseguire l’esercizio 42 sarà bene osservare le seguenti istruzioni:

- ogni battuta rappresenta un mattone della costruzione complessiva, e può essere eseguito
sia separato che unito alla battuta/alle battute successive o precedenti: ognuno di questi
mattoni, però, andrebbe ritornellato all’inizio almeno 4 volte; l’indicazione di ritornello per
ogni battuta - o gruppi di battute - è solo suggerita qua e là, ma in realtà è ad libitum, ossia
a totale discrezione dell’esecutore: è chiaro che i passi più scomodi e impervi andrebbero
ripetuti “n” volte, fino a che non si abbia un totale controllo su di essi
- Lo studio è pensato per favorire il rinforzo della muscolatura labiale, pertanto va eseguito
legato
- la velocità di esecuzione dei passi va tarata sull’eseguibilità in sequenza: ovvero si scelga
sempre un tempo abbastanza moderato che consenta la ripetizione più rilassata e
automatizzata possibile della battuta o delle battute, e non richieda un eccesso di attenzione;
l’ideale sarebbe arrivare a eseguire ogni passo in modo facile e quasi pensando ad altro,
foss’anche molto lento
- la sonorità sia sempre ricondotta alla massima comodità di esecuzione, evitando
unicamente l’eccesso di afflusso d’aria all’imboccatura, che dovrà essere allenata mediante
uno sforzo lento, costante, di controllo della muscolatura, un po’ come nelle sequenze di
armonici; si assecondi dunque la sonorità che ci permetta di ottimizzare il rapporto tra
pressione e quantità d’aria per quella specifica tessitura
- si ponga attenzione a legare molto bene con le dita, senza scatti e sfarfallamenti, tenendo i
polpastrelli molto bene aderenti alle chiavi e senza picchiare con forza eccessiva i tasti dello
strumento
- si eserciti una costante pressione di sbadiglio acuto (vedi Sezione prima, Parte II, terzo
paragrafo) affinché l’aria arrivi all’imboccatura già disciplinata in forza ed efficacia

Di seguito Esercizio 42
Rafforzamento dell’imboccatura tramite tecniche contemporanee

Molte delle tecniche più in uso nella musica contemporanea dedicata al flauto, oltre a qualificarsi
come strumenti necessari all’interpretazione del repertorio più impervio, offrono al tempo stesso
un ottimo veicolo per un sempre maggiore sviluppo del controllo trascendentale del suono.
Prenderemo in esame un numero limitato di effetti ormai storicizzati nella letteratura del XX e XXI
secolo: più precisamente gli effetti di chiave-pedale, cluster e multifonici.

- Chiave-pedale: l’effetto di chiave-pedale si rivela nella sostanza molto simile al già affrontato
studio sul legato di armonici: si tratta in realtà di una fibrillazione veloce e regolare (di fatto, un
tremolo o un trillo) tra due o più posizioni di fondamentali (talvolta corretti nella digitazione) che
producono un suono armonico tenuto. Il ricorso a fondamentali diverse e legate tra loro non solo
produce sfumature di colore molto affascinanti sulla stessa altezza, ma rinforza la muscolatura
labiale in modo direttamente proporzionale alla difficoltà di emissione dell’armonico stesso.
Naturalmente a partire da una certa tessitura in su, ogni nota è eseguibile da sempre più numerose
posizioni di fondamentali (si veda il paragrafo dedicato al legato di armonici nella Prima Sezione):
la tipologia di scambio delle fondamentali tra loro, e la loro stessa scelta, determina il colore e la
difficoltà di emissione del chiave pedale. Potremmo definire questo effetto una specie di moderno
vibrato, giacché sempre più compositori lo utilizzano per abbellire note tenute all’interno di un
brano in cui il vibrato classico costituirebbe un elemento troppo tradizionale.

L’esercizio 43 è in realtà uno specchietto descrittivo dei principali suoni chiave-pedale che
possiamo trovare in repertorio: si noti che spesso tale effetto viene descritto anche sotto la grafia
di trillo di armonici con le posizioni delle dita inserite tra parentesi. Qui si opta per la versione del
tremolo tra due fondamentali indicate con la testa a rombo bianco, grafia forse più diffusa.
La sonorità di esecuzione, al fine di allenare la micro-muscolatura labiale al meglio, dovrebbe
arrivare al più piano possibile, relativamente alla tessitura.

NB: Poiché spesso tali fondamentali vanno corrette al fine di ottenere un colore di suono
migliore e per facilitare la digitazione, per alcuni armonici si troverà l’indicazione della nota
di base e delle dita con cui eseguire il tremolo. Esempio: “pos. RE - tr 4 sx” significa: posizione
Re, trillo con il quarto dito della mano sinistra.

di seguito Esercizio 43

- Cluster: in qualche modo opposta alla tecnica del chiave-pedale è quella che sta alla base dei
cosiddetti cluster: questi faticosissimi effetti sono dei veri e propri grappoli di armonici
compresenti, che possono essere ottenuti mediante la più robusta percussione linguale sulla
muscolatura labiale rinforzata al massimo. Partendo da una fondamentale molto bassa, fino al RE
della prima ottava, e assestando un colpo di lingua fortissimo e cortissimo che costringa l’emissione
verso la parte più alta del caminetto, si produrrà un multifonico costituito dalla presenza simultanea
di più armonici vicini. L’utilizzo dei cluster permette uno straordinario potenziamento della tenuta
nella macro-muscolatura labiale, laddove il chiave pedale al contrario tonifica maggiormente la
micro-muscolatura delle labbra. Bisogna tuttavia usare l’accortezza di arrivare a studiare i cluster
solo a imboccatura molto calda e allenata, e con la massima apertura labiale. Alcuni minuti di
questo faticosissimo esercizio sono in grado di allenare la struttura delle labbra a tal punto che in
seguito la massima timbratura delle note più afone della prima ottava diverrà molto più agevole.
L’esercizio proposto di seguito, affronta i cluster nelle prime due note fondamentali a seconda della
discendenza del proprio trombino, ossia SI e DO bassi. Tali fondamentali sono quelle da cui si può
ottenere il massimo numero e varietà di emissione dei suoni compresenti.
In seguito suggeriamo di procedere cromaticamente fino a raggiungere almeno la fondamentale
FA, che è l’ultima attraverso cui si può, abbastanza agevolmente, ottenere tale effetto. In coda sono
infine alcuni esempi di cluster misti da fondamentali diverse, nelle grafie più consuete (notare che
i primi armonici, quelli più vicini alla fondamentale, spesso non sono scritti nel “grappolo”
complessivo, per un fatto di maggiore leggibilità).

- le note siano sempre molto corte e separate


- la selezione graduale degli armonici superiori deve avvenire tramite un indirizzo sempre più alto
nel caminetto del flusso d’aria in uscita
- il colpo di lingua dev’essere molto potente
- va usata pochissima aria in relazione alla potenza della lingua
- il labbro dovrà essere aperto e non troppo “selettivo”, come si volesse volutamente sfrangiare il
suono in più componenti indipendenti

Di seguito Esercizio 44

- Multifonici

Tutti ricordiamo senz’altro i nostri primissimi passi nell’emissione flautistica: in particolare, la


difficoltà di sostenere a lungo una nota della terza ottava (ottenuta tramite le digitazioni
tradizionali, che altro non sono che armonici corretti da posizioni alternative convenzionali) senza
che il suono cadesse su componenti di fondamentali, dando luogo spesso all’emissione di più suoni
contemporaneamente, pur cercando di ottenere esattamente l’opposto. Lo studio dei multifonici,
in fondo, altro non è che il rendere consapevole e voluta questa specie di “imprecisione”
nell’emissione. Soffiando cioè in modo deliberatamente non mirato all’ottenimento della massima
pulizia, bensì mantenendo il soffio stesso su una posizione più passiva, imprecisa e intermedia, su
alcune digitazioni in particolare si ottengono dei grappoli di suoni contemporanei, simili a dei veri
e propri accordi. Tali accordi sono formati da rapporti che l’orecchio classico considera dissonanti,
essendo pressoché impossibile ottenere triadi consonanti e stabilmente intonate attraverso questa
tecnica. La musica contemporanea ha spesso attinto al colore ambiguo e incerto di questi accordi
a fini espressivi e costitutivi di una specifica poetica. A livello puramente tecnico però, che è quello
che interessa in questa sede, l’ottenimento dei multifonici può educare in qualche modo le labbra
a registrare una sensibilità specifica molto sviluppata. Se non è poi così difficile, infatti, ottenere
un accordo casuale tramite questa tecnica, è davvero difficilissimo riuscire a riprodurre
coscientemente, più volte e con la massima precisione multifonici le cui principali note costitutive
siano chiaramente riconoscibili e, a modo loro, intonate pur nella dissonanza.
Le labbra, insomma, apprendono con uno specifico training graduale, una micro sensibilità che,
tanto quanto la selezione degli armonici puri, potrà permettere loro di padroneggiare con assoluta
sicurezza anche i più microscopici flussi d’aria; a tutto vantaggio anche dell’emissione delle note,
diciamo così, tradizionali.

Esistono migliaia di combinazioni digitali diverse per ottenere multifonici che abbiano la
compresenza di 2,3, 4 fino a 5-6 suoni diversi: non è questa la sede per approfondire l’argomento,
pressoché inesauribile e oggetto di tavole e metodi appositi assolutamente esaustivi.
Nell’esercizio che segue, vi è solo l’indicazione di posizioni molto comuni, ossia alcune delle note
che eseguiamo quotidianamente soffiando in modo tradizionale. Le posizioni che si riferiscono a
tali note sono già posizioni eccellenti per formare multifonici: semplicemente non è nostra
abitudine cercare proprio questi suoni multipli. Stavolta sarà nostra cura “estrarre” da tali posizioni
consuete i suoni suggeriti: alcune di esse avranno solo bisogno di una leggera “correzione”, in altre
parole l’aggiunta di una chiave o l’apertura di un mezzo foro (per i flauti con la meccanica aperta)
che sarà chiaramente segnalata. Alcuni accorgimenti:

- la direzione dell’aria segua la formazione dei multifonici


- la muscolatura del labbro non sia mai troppo “definita” e circoscritta, ma aperta a un certo soffio
- l’intonazione delle varie componenti non dovrà essere ricercata con precisione, ma solo accennata
- la sensazione da ricercare maggiormente è quella della massima sensibilità labiale

di seguito Esercizio 45

Approfondimento sulla sensorialità labiale:

I cinque sensi di cui siamo forniti (o nove, secondo le teorie), come tutti sanno, possono essere
educati e allenati in modo virtualmente infinito. Parliamo ad esempio del gusto e dell’olfatto: vi
sono persone che, educando in modo radicale e sempre crescente questi due sensi e utilizzandoli
sinergicamente, arrivano a distinguere fino a decine delle più diverse componenti in un cibo o in
un vino, tramite un’ accorta ipersensibilizzazione, incrociata e allenata in modo virtuoso.
Altrettanto dobbiamo e possiamo fare noi flautisti a proposito dell’educazione labiale; i sensi
coinvolti sono il tatto e l’udito:
- il tatto, perché se ci abituiamo in modo davvero profondo, l’epidermide labiale (attraverso i
corpuscoli di Meissner, i meccanocettori più sensibili) può arrivare a cogliere sfumature di
complessità inimmaginabili
- l’udito, perché dobbiamo arrivare a sentire davvero, con un ascolto di qualità trascendentale, le
minime sfumature che l’uscita dell’aria arriva a produrre. Incrociando questi due sensi in modo
virtuoso (e certo non solo per l’emissione dei multifonici), saremo in grado di raggiungere un
elevatissimo controllo.

L’articolazione

L’articolazione è un meccanismo di cooperazione tra vari organi che collaborano allo svolgimento
di un’azione complessa. Basti pensare alle articolazioni ossee attraverso le quali siamo in grado di
compiere i movimenti più difficili, o anche all’articolazione tra tutti gli apparati di fonazione
(laringe, lingua, labbra, mandibola ecc.) e ai complessi movimenti che essi compiono per
“articolare” appunto tutti i fonemi del nostro linguaggio. Bene, l’articolazione che interessa nel
nostro discorso non è molto diversa da quest’ultima, tanto più che utilizziamo esattamente le stesse
parti del corpo sia per parlare che per suonare il flauto.
Per comprendere meglio l’importanza dell’articolazione all’interno del discorso musicale, può
essere utile un esempio nell’ambito del linguaggio. Proviamo a immaginare di pronunciare delle
parole, ricche di vocali e consonanti, compiendo il minor movimento possibile tra articolazione
temporo-mandibolare, lingua, e così via: ci renderemo subito conto che ogni parola prodotta sarà
molto confusa e sfocata. Altrettanto avviene nella corretta “dizione” di una frase musicale: è
proprio la mancanza di chiarezza articolativa il primo punto dolente che spesso contraddistingue
un’esecuzione mediocre.
Grazie ad una buona articolazione noi non facciamo altro che rendere chiaro e quindi più espressivo
ciò che suoniamo. E lo facciamo soprattutto attraverso un buon controllo nell’utilizzo dell’aria e
della lingua.
La pronuncia che diamo al suono non è molto diversa da quella che diamo alle parole. Nello stesso
modo quindi abbiamo bisogno di una tavolozza di colori molto eterogenea che ci consenta di
produrre le più svariate pronunce, così come accade nei pressoché infiniti fonemi delle migliaia di
lingue e dialetti che affollano il globo.
Per questo motivo ci sembra opportuno chiarire alcuni concetti che si riferiscono all’attacco del
suono. Esso può rappresentare un problema difficile e ansiogeno per i flautisti, soprattutto in alcuni
registri e in tessiture particolari. E’ infatti nota la difficoltà di attaccare suoni ppp in 3a ottava. Per
risolvere questo problema bisogna prima cercare di chiarire da cosa dipende l’attacco del suono.
Quando pensiamo all’attacco, inevitabilmente, ci concentriamo sul ruolo della lingua,
dimenticando completamente che ciò che fa scaturire davvero il suono è la pre-compressione e
l’indirizzo dell’aria stessa. Quando vi è un qualcosa che compromette l’attacco, molte volte le
ragioni vanno ricercate in un cattivo utilizzo dell’aria. Quando ci troviamo ad attaccare un suono
ppp in 3a ottava, spesso ci concentriamo sul peso della lingua e non teniamo conto che questa
lavorerà tanto meno quanto più faremo lavorare l’aria.
A volte attacchi molto duri dipendono dal fatto che, dietro la lingua, la colonna d’aria non dà la
giusta spinta, e quindi manca di quella pressione, ben preparata e pronta a uscire, che produrrà il
migliore attacco una volta che la lingua si sia tolta di mezzo. Se la responsabilità dell’attacco sarà
tutta demandata alla lingua, difficilmente quest’ultima potrà rimanere morbida e produrre un
attacco dolce.
Al contrario dovremo affidare l’attacco in maggior percentuale all’aria e alla pressione interna,
lasciando che la lingua intervenga semplicemente per dare una maggiore definizione al suono.
Uno studio molto utile anche per gli attacchi dei suoni ppp in 3a ottava è quello del legato di
armonici, attraverso il quale, una volta studiata la quantità di pressione interna necessaria a
sostenere un suono, potremo sperimentare quanto più semplice e leggero sia il ruolo della lingua
nell’attacco.

Torniamo ancora una volta, nell’esercizio 46, a utilizzare in maniera creativa e consapevole quei
veri e propri maestri d’emissione che sono i nostri suoni armonici. Questa volta sfrutteremo la
difficoltà nel sostenere tali suoni per migliorare la nostra capacità di attacco.
Partiamo direttamente da una nota della 3° ottava come il RE. Iniziamo a soffiare l’aria nel flauto
con una dinamica quasi inudibile e da una direzione molto bassa (ottenendo quindi il multifonico
inferiore già preso in esame nell’esercizio precedente); un po’ alla volta aumentiamo la pressione
interna e alziamo la direzione dell’aria fino a selezionare gli armonici acuti che consentono al RE
di essere risonante. Tale esercizio è molto utile perché ci consente di acquisire una sorta di memoria
delle altezze dei suoni. In pratica, partendo sempre da una direzione bassa (e quindi impropria per
una nota acuta) e spostandoci verso l’alto, il nostro cervello memorizza anche le varie altezze che
incontra via via. Quando attaccheremo una nota acuta non faremo altro che ripercorrere in modo
velocissimo questo processo.
Una volta raggiunta la nota interessata procediamo con l’esercizio sul legato di armonici, ma questa
volta li separiamo con il colpo di lingua, concentrandoci sempre sulla pressione interna
necessaria a sostenere il suono. Terminato l’esercizio, produciamo degli attacchi solo con l’aria
ripetutamente prima sugli armonici che producono il RE e in seguito sulla nota reale. Una volta
raggiunta una buona definizione nell’attacco con l’aria, potremo ripetere quest’ultimo esercizio
aggiungendo il colpo di lingua. È importante, però, prestare sempre grande attenzione alla
pressione interna dell’aria, che deve anticipare il colpo di lingua nell’attacco.
Noteremo allora che l’intervento della lingua nell’attacco sarà molto più morbido, perché avremo
ormai già allenato i nostri muscoli ad affidare all’aria e alla pressione interna la maggiore
responsabilità nella produzione del suono. Se ciò è abbastanza semplice per il RE, man mano che
si sale nelle note più acute (senza forzare!) sarà evidente come la difficoltà d’attacco aumenti, ma
come possa essere brillantemente risolta attraverso la pre-compressione del flusso d’aria in uscita,
cui giustapporre il movimento linguale di attacco vero e proprio solo quando la guaina labiale
sarà formata.

di seguito Esercizio 46

Lo staccato

Parlando di articolazione non potevamo infine esimerci dal trattare ciò che ne rappresenta il
materiale principale, ossia lo staccato, nelle sue più varie tipologie.
Abbiamo già esaminato come il colpo di lingua, nella produzione di alcuni attacchi, debba essere
morbido e dolce per consentire al suono di iniziare con le stesse caratteristiche.
Diversamente, nell’articolazione dello staccato, abbiamo spesso bisogno di una maggiore
definizione del suono e del colpo di lingua, affinché si arrivi a produrre una pronuncia
perfettamente intelligibile all’interno di ogni frase composta di note legate e staccate. Molte volte,
infatti, rischiamo di utilizzare un’articolazione così uniforme che a distanza di un paio di metri,
specie in un ambiente caratterizzato da una certa risonanza, già non si distingue chiaramente la
differenza tra legato e staccato, nonché la tipologia dei vari tipi di staccato possibili.
Dobbiamo sempre considerare che il nostro suono deve viaggiare, arrivando con grande qualità
anche a decine di metri da noi; e che talvolta la nostra percezione non corrisponde a quella che
giunge ai nostri ascoltatori.
In particolare nello staccato possiamo aver bisogno di tante diverse articolazioni, quante sono le
pronunce fonetiche dei suoni che vogliamo in tal modo rendere ancora più espressivi.
Sarebbe impensabile utilizzare lo stesso tipo di articolazione di riferimento, ad esempio, tra un
brano di J. S. Bach e uno di B. Bartòk.
Per definizione lo staccato consiste semplicemente nell’esecuzione di più note separate tra di loro.
Ora, questa separazione può consistere nel semplice colpo di lingua che interviene a dividere due
suoni, oppure in una porzione di tempo leggermente più lunga che renda i suoni ancora più separati
tra loro.
Nel primo caso l’intervento della lingua è molto veloce. Questo permette di interrompere l’uscita
dell’aria per un tempo brevissimo; il risultato sarà quello che noi chiamiamo comunemente
staccato-legato, dove nell’articolazione utilizziamo più aria che lingua.
Nel secondo caso invece la lingua occlude l’uscita dell’aria per un tempo maggiore, offrendoci
come risultato uno staccato più percussivo con note più corte e separate tra di loro. Questa tipologia
di staccato si affida maggiormente alla forza percussiva della lingua, che, una volta allontanatasi
dal punto di attacco, ritorna velocemente nella medesima posizione, lasciando uscire pochissima
aria e quindi producendo un suono molto corto. Nella produzione di tale staccato, la forza della
percussione linguale sarà sempre inversamente proporzionale alla quantità di aria utilizzata:
ecco perché per produrre uno staccato davvero brillante e definito (come per esempio nel primo
movimento del concerto di J. Ibert) la forza dell’articolazione nella produzione del ff sarà
prioritaria rispetto alla spinta dell’aria, che dovrà essere semplicemente regolare e costante.

Qualora il problema del nostro staccato fosse invece la debolezza del colpo di lingua, un esercizio
molto utile consiste nell’eseguire un passaggio staccato senza suono. Togliendo completamente
l’aria, infatti, saremo costretti a far lavorare molto di più la percussione della lingua, non essendo
più condizionati da una “castrante” necessità di produzione di un suono finito. La lingua, libera
finalmente di produrre un “rumore intonato” così come gli strumenti a percussione, sarà in grado
di tonificarsi: non dimentichiamo infatti che la lingua è un muscolo, e come tale può essere allenato.
Questo tipo di esercizio può rivelarsi molto utile nello studio tanto del semplice quanto del doppio
staccato poiché è un efficace allenamento per rafforzare ed eguagliare il doppio colpo di lingua (ta-
ka). Abbiamo già affrontato l’argomento attraverso gli esercizi 3 e 4 nel primo capitolo della prima
sezione: ora sviluppiamo ulteriormente tale concetto.

Fase n. 1: creare il suono di percussione determinato.

Supponiamo di volere applicare la ricerca di uno staccato senza suono a una sequenza di quartine
in arpeggi alternati a gradi congiunti: quale esempio migliore dell’Allemanda della Partita in La
minore di J.S. Bach? Concentriamoci nell’uso di uno staccato semplice in cui sia prodotto un
rumore intonato dato dalla percussione della lingua contro la parete labiale. Tale rumore dovrà già
contenere in sé alcuni elementi fondamentali, tra cui:
- la direzione dell’aria più in basso o più in alto nel caminetto a seconda che si voglia suonare nella
prima, seconda o terza ottava
- massima apertura labiale.
- gola molto aperta e rilassata.
- nessuna pressione interna aggiunta, che soffocherebbe il suono.
Lo scopo principale dell’esercizio sarà di far acquisire a tale “rumore intonato” tutti gli elementi
necessari all’articolazione del brano, tranne il suono stesso.
Quando poi, lentamente e gradualmente ma soprattutto senza alcuna maggiorazione di stimolo
dell’aria, inizierà ad affiorare da questo rumore intonato un embrione di suono, questo non sarà
più conseguente all’articolazione, bensì parte stessa integrante dello staccato!

In altre parole non avremo la sequenza “colpo di lingua - successiva spinta dell’aria”, bensì la
presenza simultanea totale di staccato e aria: la percussione stessa, infatti, permetterà alla
pochissima aria necessaria all’emissione del suono di scaturire naturalmente. In tal modo lo
staccato non sarà “ingolfato” o schiacciato, bensì libero di lasciar vibrare la corda d’aria.
Altro esempio eloquente è quello di pensare più che ad uno staccato vero e proprio a un “pizzicato
d’aria”, laddove la corda d’aria del flauto è la corda del violino, e la lingua il polpastrello che
pizzica la corda. Le nostra cavità fonatorie, infine, funzioneranno come la cassa armonica del
violino stesso, amplificando per qualche decimo di secondo questo suono staccato, conferendogli
quell’effetto campana già oggetto dell’esercizio n. 4.

Fase n.2: Passaggio dallo staccato semplice al doppio e triplo staccato.

Concentriamoci su quella specie di “rimbalzo” cui possiamo assoggettare la lingua nel ritorno
dalla percussione principale che genera lo staccato sopra descritto. Tale rimbalzo, nella naturale
ammortizzazione della forza espressa nella percussione principale, contiene in potenza quel
frastagliato micromovimento che genera un velocissimo staccato intermittente. Concentriamoci sul
fatto che il dorso della lingua si avvicini al palato molle generando un suono che stia a metà tra la
“g” e la “r”, cioè tra le consonanti gutturali e quelle liquide; un po’ come se, al ritorno dall’impulso
principale dello staccato la nostra lingua volesse atteggiarsi alla produzione di una specie di
frullato. Esercitiamoci a lungo in vari suoni della prima ottava a generare questo particolare tipo di
“staccato di rimbalzo”: otterremo in tal modo una straordinaria definizione nel “ta” dello staccato
principale, assieme a un ricchissimo staccato “passivo” generato ossia dal movimento semi-
involontario del dorso della lingua. Una volta padroneggiato questo ricco staccato di rimbalzo,
sempre rigorosamente senza la produzione di un suono vero e proprio, saremo pronti a collocare
in modo più ordinato e consapevole lo staccato stesso all’interno dei passaggi più complessi.

di seguito Esercizio 47

Altre possibilità di articolazione del suono

Nel flautismo moderno l’uso di strumenti prevalentemente metallici e forniti di boccola ci porta a
considerare lo staccato come mera interruzione di un suono legato o, al contrario, come punto di
partenza dello stesso. Chi faccia uso di strumenti antichi conosce invece perfettamente quanto le
mille sfumature possibili di incidenza consonantica della lingua contro denti e labbra possano
produrre altrettanti colori nella produzione di un suono. Tuttavia anche nel flauto moderno è
possibile sperimentare una notevole varietà di pronunce articolative: a seconda della forza e della
direzione che si decide di imprimere alla lingua, anche in virtù della posizione interna in cui va a
insistere la lingua stessa, è possibile produrre le più ampie varietà di staccato e di attacco del suono,
un po’ come le mille possibili consonanti in tutte le lingue del mondo. Consigliamo di sperimentare
nel modo più creativo ed esteso queste diverse tipologie di pronuncia. Non sempre, per altro,
nell’attacco di un suono può rivelarsi necessario o produttivo l’utilizzo della lingua: talvolta
possiamo essere costretti, magari da imperative necessità dinamiche nel pp, a far scaturire l’avvio
di un suono da un attacco impalpabile o cristallino. In questo caso l’utilizzo della lingua, seppur
dotato di ogni possibile ammortizzazione, si rivelerebbe troppo invasivo e rude. Eccoci quindi alle
due principali possibilità in atto per risolvere questi casi: da un lato, il cosiddetto attacco sul fiato,
nel caso di una nota tenuta in pp; dall’altro lo staccato di labbra, nel caso di una nota sempre nel
pp ma corta o addirittura puntata.
L’attacco sul fiato è già stato illustrato ampiamente nell’introduzione all’esercizio 46: si tratta di
avvicinare la punta della lingua al foro di emissione preparando al tempo stesso un flusso di
emissione perfettamente conformato alla tipologia di suono voluto; l’aria eserciterà la sua pressione
contro una lingua che fungerà da mero “tappo di contenimento”; attaccare il suono significherà
semplicemente consentire all’aria di uscire naturalmente tramite l’apertura di questo passaggio.
Nel caso dell’attacco di labbra invece la lingua non avrà più alcuna incidenza né attiva né passiva
sulla partenza del suono, e se ne rimarrà in posizione di riposo: saranno semplicemente le labbra
stesse che, nello schiudersi tra loro formando un microscopico foro labiale, produrranno l’effetto
voluto in maniera del tutto simile alla pronuncia di un “pu” il più soffice possibile. Ciò è
particolarmente utile per attaccare note puntate nel pp nel registro medio acuto: dobbiamo quasi
pensare che dal foro labiale esca una minuscola bolla d’aria che, producendo una specie di “p” lasci
uscire una “goccia” densissima di suono puro.

Due esercizi riassuntivi

Ecco infine due esercizi che riassumono in sé alcune delle principali difficoltà illustrate: la
flessibilità, l’uso degli armonici, il canto nel suono, il passaggio di registro.

di seguito Esercizi 48 e 49

Parte IV
Diagnosi e risoluzione dei problemi

Quante volte ci siamo trovati, nella pratica di studio quotidiana, a non capire perché mai lo
strumento non rispondesse docilmente al nostro pensiero? A lambiccarci sul perché il giorno prima
fossimo nel pieno controllo dei nostri mezzi e in quel momento magari nulla ci soddisfacesse? A
chiederci, prima di un concerto o di un impegno gravoso, cosa mai rendesse il risultato sonoro di
quel momento così lontano da ciò che avremmo sperato?
L’instabilità della nostra resa strumentale può diventare la principale fonte di ansia; la discontinuità
e vaghezza dei risultati migliori uno spauracchio temibile, pronto ad azzannarci proprio nei
momenti di massima vulnerabilità; la difficoltà di riprodurre un risultato ottimale, in modo
consapevole e stabile, una specie di feticcio irraggiungibile.
Così può non essere e così soprattutto non dev’essere.
L’atto fisico del suonare, se da un lato è molto complesso e richiede anni per essere automatizzato,
dall’altro ubbidisce a dei meccanismi che possono essere individuati con l’ausilio della massima
razionalità; e per i quali vigono le stesse regole universali di rapporto causa-effetto che valgono
per ogni altra attività psico-fisicamente impegnativa.
A meno che, infatti, non insorgano gravi problemi fisici o neurologici, di origine psico-somatica
od organica, il nostro lavoro dev’essere solo quello di comprendere profondamente, col più
implacabile senso della realtà, come funzionino davvero mente e corpo quando il flauto arriva
esigendo la loro attenzione.
Il controllo tecnico generale sul flauto può essere improntato alla massima sicurezza: se insorge un
problema c’è sempre una causa molto chiara, che va semplicemente individuata. Ciò che dobbiamo
fare è improntare la nostra analisi alla massima pazienza, avviando poi una risoluzione che parta
da una corretta diagnosi del problema. È inutile imbottirsi di antibiotici se basta un’aspirina;
parimenti è ininfluente l’aspirina se necessitiamo di una cura più lunga e complessa. Studiare tanto,
di per sé stesso, non ci mette certo al riparo dai problemi: conta solo curarsi nel modo giusto e al
momento giusto.
Va chiarito preliminarmente, però, che dobbiamo focalizzarci sui due grandi filoni di studio
principali già menzionati, entrambi necessari e in qualche modo opposti: lo studio che potremmo
definire di accumulo o di progresso, e lo studio finalizzato, ossia quello più sintetico e aderente al
conseguimento immediato del risultato voluto.
L’uno non può esistere senza l’altro: attraverso lo studio di progresso dobbiamo riempire la
dispensa, col massimo ordine e in modo razionale e progressivo, di tutti quegli alimenti che poi,
all’atto dello studio finalizzato, ci forniranno le calorie necessarie allo scatto. Insistere unicamente
su uno studio lento e laborioso ci potrebbe impedire di costruire quei riflessi automatici di cui
necessitiamo durante un’esecuzione, che risponde a dei tempi che non sono necessariamente i
nostri. D’altro canto uno studio troppo frammentario e finalizzato, momento per momento,
unicamente alla risoluzione di quel determinato problema, ci rende completamente schiavi della
funzionalità di quel preciso riflesso neuro-muscolare, bloccandosi il quale… siamo perduti!

Ora, molto pragmaticamente, proporremo qui di seguito l’elenco di una serie di indizi realativi ad
altrettanti problemi, tra i più diffusi e comuni, a partire dai quali possiamo cercare delle soluzioni
basate su studi specifici, per la massima parte presenti in questo volume, alcuni altri già
sicuramente bagaglio della nostra attrezzatura tecnica.

Ho una respirazione breve, insufficiente

1) Il motore è scarico. L’aria esce troppo velocemente perché manca della compressione interna
necessaria a rallentarla, in particolare tra primo e secondo punto, ossia tra area diaframmatica e
gola. Tale compressione dev’essere forse allenata maggiormente.
Approfondire la Parte II della Prima sezione, “le componenti interne del suono”, e praticare gli
esercizi 9, 10, 11 e 17 con la massima concentrazione.

2) Il foro labiale è troppo aperto. Sebbene la qualità del suono sia spesso direttamente correlata
all’apertura del foro labiale, qualora esso sia eccessivamente aperto, senza compensare tale apertura
tramite un vero controllo muscolare (apertura indifferenziata), l’aria esce troppo facilmente.
Ottimizzare il rapporto tra il secondo e il terzo punto, ossia tra gola e fascia labiale, al fine di
sviluppare la muscolatura delle labbra: sarà tale muscolatura, compensando l’apertura, che rimarrà
comunque significativa, a rallentare il flusso d’aria in uscita. Esercizi 8, 33, 34, 35 e relative
spiegazioni

3) La direzione del flusso d’aria non è corretta. Ogni nota (circa 40 nel flauto traverso moderno),
e ogni sonorità relativa a ciascuna nota (circa 8, dal ppp al fff) producono moltiplicate tra loro 320
variabili: sembrerà impossibile, ma i nostri automatismi interni possono arrivare a memorizzarle
tutte, conservando una specie di “imprinting” riproducibile nel rapporto tra direzione
dell’imboccatura e fasce labiali. Se sull’ispessimento delle muscolature labiali abbiamo detto, per
quanto riguarda la direzione, ossia la vera e propria traiettoria del fascio d’aria in uscita, potrebbe
essere necessario attivare una più conveniente efficienza rispetto alla specifica tipologia di ogni
tessitura prima, e di ogni nota poi: la dispersione d’aria potrebbe esere dovuta anche a questo.
Esercizi 5, 6, 38, 39, 42, 46, e in generale salti e arpeggi di ogni tipo con la massima flessibilità.

4) Problemi di postura: alzo le spalle e non avvio una profonda inspirazione su base
diaframmatica.
Esercizi 1, 2, 18, 19

5) Problemi di pressione e ossigenazione non inerenti al flauto. Prima di studiare sperimentare


una moderata attività fisica, come una camminata a passo veloce di media durata.
6) Tensioni palatali, sia nella parte rigida che in quella molle. Molto canto nel suono e lavoro sul
rapporto tra timbratura e stimbratura, es. 10, 12, 13, 37

Il suono contiene troppo soffio e impurità

7) Le muscolature labiali non lavorano nel modo giusto. Tale problema è quasi sempre
determinato dall’iper o dall’ipo-funzionalità dei muscoli delle labbra, che possono essere
intossicati dal troppo lavoro, o al contario astenici per eccesso di rilassamento. Poiché è spesso più
vera la prima ipotesi, l’ideale è studiare poco, anche pochissimo, ma spesso durante la giornata.
Prima va riattivata la più grande fluidità di movimento d’imboccatura, e poi ricostruita la
muscolatura, prima nel macro infine nel micro. Es. 1, 2, 5, 6, 7, 8, 35, 38 (molto lento), 40, 45

8) La direzione del flusso d’aria non è corretta. Soluzione analoga al punto 3.

9) Le labbra sono troppo deboli e non oppongono sufficiente resistenza all’uscita dell’aria.
Tonificazione morbida e progressiva delle fasce labiali. Esercizi 40, 41, 42, 43 (specie nelle
posizioni più acute) e 44, quest’ultimo solo dopo un grande riscaldamento.

10) L’approccio e la posizione delle labbra, nonché la formazione stessa del foro labiale, sono
troppo irregolari rispetto al foro della boccola. Esercizi dall’1 al 5 davanti ad uno specchio,
osservando attentamente che il labbro inferiore non copra più di un quarto circa del foro della
boccola: in caso così non fosse, liberare il foro del flauto portando la sensibilità di appoggio sul
labbro inferiore leggermente più in alto, tanto più quanto il labbro stesso sia più carnoso.

Il suono è piccolo

11) Il suono è un contenitore vuoto, con poca densità interna. In tal caso dobbiamo ispessire la
nostra colonna d’aria aumentandone la potenza, sia da parte della spinta diaframmatica che nella
risposta da parte del secondo punto in particolare, ovvero l’area della gola. Focalizzare quanto
esposto nella Parte I della seconda sezione, poi, nell’ordine, esercizi 18, 19, 17, 7, 37, poi dal 12 al
16 con maggiore intensità dinamica sul cantato che sul suono.

12) Il suono manca di proiezione. Forse non utilizziamo a sufficienza le cavità di risonanza.
Esercizi 9, 11, 31, 32, 35

Non riesco a controllare l’intonazione

13) Problemi nella coordinazione tra movimento d’imboccatura e rilascio della pressione. Forse
non riusciamo a produrre la massima sinergia nella collaborazione tra la flessibilità del movimento
d’imboccatura, che mira il bersaglio nell’uscita dell’aria, e il controllo di aumento/diminuzione
della pressione. Soluzione molto simile a quella del punto 3, ma vanno aggiunti gli esercizi 7, 12,
35 ma soprattutto, e con la massima precisione, il 36
Non riesco a controllare davvero l’intensità e la velocità del vibrato

14) Il vibrato è prodotto da un movimento troppo superficiale e casuale dell’aria. Esercizi 31,
32, 12-16, con respirazioni molto profonde e massima precisione ritmica

Non riesco a suonare un vero pp pulito sulle note della terza ottava

15) La colonna d’aria non è pre-compressa nel modo giusto prima dell’uscita. Quando suoniamo
pianissimo nelle note acute dobbiamo immaginare di avere una specie di filo di ferro interno che
spinge contro il nostro foro labiale per uscire: è un flusso dal diametro piccolissimo ma densissimo,
che va pre-costituito tramite una compressione interna enorme: va quindi allenato al massimo il
rapporto tra i primi due punti. Praticare gli esercizi del punto 1, cui vanno aggiunti il 37 e il 46.
16) L’imboccatura non direziona l’aria sufficientemente in alto. Esercizi 5, 6, 33, 37 ma due
ottave sopra, 39 ma lentissimo, 46.
17) L’imboccatura è artificiosamente già troppo estroflessa e sbilanciata verso una posizione
troppo alta. In tal caso, controllare bene la postura labiale davanti allo specchio, correggerla e
risolvere secondo il punto 16.

Il mio staccato è poco sonoro

18) La lingua separa ma non percuote. Lo staccato dev’essere più un generatore di suono, che
un semplice diaframma intermittente posto tra un suono e l’altro. La lingua deve produrre una
percussione amplificata dalle cavità fonatorie, rilassate e aperte. Pochissima o nulla pressione
interna. Esercizi 3, 4, 19 (per contrasto) e 47

Il mio staccato è sfibrato e stopposo

19) La muscolatura delle labbra è intossicata da troppa tensione o trazione, e/o il foro labiale
è troppo piccolo. Es. 2, 3, 4, 5, 6, 8, 40

Le note della prima ottava non escono con pienezza

20) La direzione dell’aria non colpisce abbastanza in basso il caminetto. Es. 5, 6, 37


21) C’è troppa pressione interna e poca timbratura labiale. Es. 3, 4, 19, 37, 47
22) La macro-muscolatura labiale è troppo debole. Es. 8 e 33 solo nella parte acuta, 44
23) Il suono va riempito dall’interno, stesse considerazioni del punto 1.

Sento che il suono è troppo disomogeneo e ineguale secondo la tessitura

24) Difetto tra i più classici. Si risolve solo con l’esercizio più odiato dai flautisti: arpeggi di ogni
tipo, in ogni tonalità, in ogni sonorità! Arpeggi e salti, salti e arpeggi in continuazione, specie se
molto scomodi. In questo volume, esercizi 5, 6, dal 38 al 42, 48, 49

Cresco molto di intonazione quando suono staccato nel forte

25) Non è usata tutta la colonna d’aria nella sua interezza, ma solo la parte che sta tra il secondo
e il terzo punto. Es. 3 e 4 conferendo la massima risonanza interna.

26) Vedi punto 20


Cresco molto di intonazione quando suono espressivo nel forte

27) La direzione dell’aria è troppo alta. Vedi punto 20.

28) Il vibrato è troppo tra secondo e terzo punto, e ne va abbassata la focale. Es. 31 con la
massima escursione verso il basso.

Cala molto la mia intonazione nei diminuendi e negli sfumati

21) Non si coordinano abbastanza bene i movimenti d’aumento della pressione interna e di
graduale estroflessione d’imboccatura, con la progressiva diminuzione di velocità dell’aria. Stessi
esercizi dei punti 15 e 16

Appendice I:
La giusta impostazione fin dagli inizi: la tecnica dei tre punti spiegata ai bambini

Appendice II
Riflessioni sulla pratica del suonare
di GP

“Migliorare se stessi è l’unico modo di migliorare il mondo”.


L. Wittgenstein

In realtà mi accorgo che non dovrebbe esistere il concetto di studio puro, ma di pratica del suonare.
Non una preparazione fittizia e iper-sacrificale di tecnica “pura” per raggiungere un momento
esoterico in cui tutto funzioni, per cominciare solo da lì a far musica: così ci si spaventa nella fase
iniziale, mentre non si ha più il desiderio di creare nell’ultima fase. Al contrario, l’idea dev’essere
quella di suonare, suonare sempre, anche quando si studia: perché allenare la parte meccanica
conferendole un senso musicale porta molti più risultati. Già dal primo suono della giornata si può
andare verso l’emozione creativa: così non si perde un solo secondo, e ogni passo è inserito
automaticamente nella direzione della conquista di una sonorità personale.

A volte si rischia di studiare in apnea. È al contrario importantissimo seguire la naturalezza del


respiro, almeno quando ciò è possibile, cioè quando si studia da soli. Mai forzare, nemmeno nel
riattaccare troppo spesso i suoni, rischiando l’iperventilazione e la paranoia!

Talvolta la ricerca spasmodica della sensazione fisica piacevole, fine a se stessa, durante
l’emissione di un suono, ci può sviare dal fatto che magari tale suono non è di per se stesso
espressivo, inserito in quel contesto musicale, solo perché ci dà piacere il suonarlo. Dobbiamo
ascoltarci con orecchio imparziale, per verificare se siamo solo irretiti da un suono piacevole -
stadio che comunque va attraversato, necessario ma non sufficiente - o se quel suono sia davvero
adatto a quell’espressione musicale. Oltre allo sviluppare un orecchio davvero auto-critico, c’è un
solo modo per verificarlo: leggere bene, ma davvero bene, la partitura, e registrare molto spesso le
proprie esecuzioni.

Un pericolo sempre in agguato, se si possiede uno spirito critico molto sviluppato nello studiare, è
di rinchiudersi troppo spesso in un anfratto zeppo di studi alchemici ed eccessivamente astratti. In
tal caso, l’unica medicina benefica è il ricorrere ogni tanto, per contrasto, all’aspetto ludico e
facilmente virtuosistico del suonare: utilizzare il bene-rifugio, piuttosto rinfrancante, del suonare
tanto, forte e veloce, sospendendo per un momento l’autocritica e divertendosi un po’ a … menar
le mani!

È noioso vibrare sempre DOPO l’inizio della nota: lo sentiamo però sempre prima negli altri che
in noi stessi…

Quando vedo la mano destra di un grande violoncellista ho l’immagine emblematica di quanto


deve diventare facile ottenere la conduzione perfetta di un suono: miscelare velocità e pressione
come fa lui o lei, facendo scorrere l’arco sulla corda con fermezza e fluidità mirabili e,
diversamente da quanto posso fare io, ben visibili. L’equilibrio perfetto tra peso e velocità: questo
posso ottenere anch’io, soffiando…

Quando abbiamo paura di suonare, la cosa più sciocca è che per un momento viviamo nel terrore
di non riuscire più a fare cose che, nella realtà, sono ormai indivisibili da noi.

Ho imparato che occorre troppa energia per essere pigri.

Sviluppare la sensibilità nella muscolatura labiale è un percorso difficile e delicato: non da


effettuare astrattamente, bensì attraverso quella velocità, di pensiero e di azione, determinata da un
movimento fluido che aiuti gli elementi a comporsi; esattamente come quando si va in bicicletta,
ed è ben più facile stare dritti se si è già in moto che quando si è quasi fermi.

Quando sento il flauto farsi piccolo nelle mani, allora so che sto suonando bene.

Non mi pongo nella dimensione di dire qualcosa di nuovo, posso anche usare la lingua d’altri: a
patto però che sia ben chiaro che, almeno in quel momento, sono io a parlare.

L’arido eccesso di stile è cantare una frase molto intensa controllando nello specchio se siamo ben
pettinati.

Il flauto mi sembra l’unico strumento che può diventare espressivo utilizzando l’antimateria: un
suono così astratto che talvolta sembra riprodurre il rumore del pensiero.
A non esser curiosi si perde sempre qualcosa.

Devi accettare, di tanto in tanto, di provare anche a suonare come “loro”: per imparare qualcosa di
alternativo e metterti in discussione; confidando sul fatto che, fortunatamente, non suonerai mai
come “loro”.

Per la stabilità e l’equilibrio del flauto sulle mani, niente di meglio che arpeggiare, a lungo e in
tutta la tessitura, in FA# maggiore.

Talvolta si rischia di suonare in maniera mediocre per delle motivazioni che sono esclusivamente
psicologiche, veri e propri spauracchi interiori che la mente costruisce, come:
- l’idea stessa di essere bravi ci fa paura
- qualcosa nel profondo di noi stessi disprezza quella sottile arroganza insita nell’estrema
efficienza strumentale
- costruiamo una specie di feticcio di alcuni stati di forma assoluta esperiti nel passato, e suoniamo
con la paura di non saper più riprodurli

La tecnica trascendentale è quella che contiene il “sale” del movimento senza averne la frenesia.

Non si può suonare i classici, in particolare Mozart, senza ricercare spasmodicamente la “grace
under pressure”.

A inizio studio, dopo un breve riscaldamento, l’unico modo di costruire un’imboccatura granitica
è di non staccare la boccola dalle labbra per almeno tre quarti d’ora.

Nello scolpire il suono, prima si lavora di scalpello, e solo dopo di cesello!

Quando si fanno le pulizie lo sguardo è al pavimento, quando si suona il flauto è appena sotto al
soffitto.

La nota più sorda e intrattabile del flauto è il Mib medio nel f: se riesci a riempirla da dentro, a
creare un nucleo morbido e interno, per le altre note sarà uno scherzo.

Le note basse nel flauto non esistono: esiste la prima ottava.

Stare a lungo sugli armonici della terza ottava in diminuendo al ppp senza schiacciare le labbra: è
la chiave d’ingresso all’orchestra.

Niente è più sbagliato che pre-costituire il foro d’imboccatura: è il flusso d’aria in uscita che se lo
costruisce, come un fiume che scolpisce da solo il suo alveo.

Una bella sonorità non può che essere generata dall’eleganza e dall’economia di ogni gesto.

Un suono che sia veramente il “tuo” non esce per abitudine, per sforzi nervosi e inconcludenti o,
peggio, mediante forzature su come vorresti che esso fosse: ma assecondando un intimo, possente,
morbido slancio.

Energia e ansia vanno sempre in direzioni opposte.

Gonfiare un po’ le guance creando un pallone nella bocca, conferire un moto contrario all’aria che
si è appena buttata fuori sbadigliando, partendo da una gola che autoriflette l’aria che essa stessa
emette: in fondo uno dei segreti sta nel soffiare e trattenere al tempo stesso… L’aria che esce alla
fine ha comunque la meglio, e deve arrivare a chi ascolta: possibilmente senza dargli un cazzotto,
ma circondandolo in un abbraccio di suono, in una nuvola che lo avvolge e lo attira a noi.

Rassegnati, lo strumento è sempre più forte di te: non ingaggiare mai alcuna forma di lotta per
cercare di dominarlo. L’unica possibilità è accettare che esso misuri, oltre alle tue note, gli spazi
della tua psiche più profonda, facendosi strumento di terapia. Il flauto ti costringe a fare i conti con
te stesso, e solo dopo aver setacciato le tue tensioni sa restituire il tuo suono.

Suonare.
Perché suonare?
Alternare densità a rarefazione. L’in-spirazione è ispirazione.
Approccio, postura, gesto. Assecondare, combattere, alternare. Immaginare. Preparare prima,
progettare, lasciar scorrere la materia già sentita interiormente. Far fluire per poi volontariamente
trattenere; percepire, nell'interno più nero e profondo. Godere, per e attraverso la materia.
Introiettare per poi smentirsi regalando, proiettando, lanciando. Velocità snella ed agile, nervosa,
nell'alternanza emozionale, ma senza esibirla.
 Condivisione, inclusione, narrazione! Massima
semplicità d'azione, massima economia di mezzi: ma conseguente alla scansione microscopica di
un dettaglio che vive dentro di noi. Che forma i muscoli, informa di sè la nostra voce; ci costringe
a uscire allo scoperto, a parlare, a farci non-materia che si esprime ancor prima del suono. Necessità
assoluta, ingovernabile, di farsi conduttori di un pensiero; fame e sete di penetrare lo squarcio
intuitivo di qualcuno che ci ha preceduto, e che ha incommensurabilmente goduto, egli per primo,
di quel lampo che non muore.

Suonar bene uno strumento equivale a produrre una piccola, innocua magia: un gioco di prestigio
senza alcun trucco, dove lo stupore in chi assiste è determinato dalla sensibilità e non dalla
credulità. Chi possiede nelle mani, nel fiato, nella braccia questa piccola magia fatica molto a
rinunciarvi, e forse non dovrebbe mai farlo: conosce una strada che agli altri è ignota, e di cui essi
hanno bisogno.

L'aria invade i nostri polmoni, in profondità, chiamata a lenire tensioni e a curare ferite: indotta dal
nostro bisogno, ma anche e soprattutto dal nostro desiderio. Ne esce impregnata di noi, così come
sorgenti profonde si arricchiscono di minerali, scaturendo arricchite in carattere e potenza. Si fa
suono, infine, quest'aria: un suono che se non sa parlare è solo il sibilo della nostra sconfitta.

In musica l'esattezza è scarnificazione; enucleazione dell'essenzialità; imperativa economia di


mezzi.
 Il gesto si fa suono, drenando dal profondo la perizia di un artigianato evolutosi con anni
di tornio, e di stratificazioni sovrapposte. L'essenzialità diventa allora esigenza, comando,
risoluzione: e ha molto a che vedere con la violenza, con l'estremizzazione intima ma
unilateralmente aggressiva di un comando nervoso e deflagratorio. 
Forse anche per questo
l'esattezza è solo uno degli aspetti della musica: un circuito che si autoalimenta e contiene le
pulsioni aggressive di noi umani, elevandole attraverso l'intuito geniale e creativo di una partitura.
L'affetto richiede tempo e, paradossalmente, ragionamento; la perfezione richiede lucidità,
prontezza e determinazione. Cattiva.

Un giorno un grande Maestro mi fece l’onore di prendere un caffè da me. Vide sul leggio una copia
aperta degli "Studi giornalieri" di Moyse con un metronomo accanto, e disse: "sono venuto in una
casa civile".

Far musica significa spesso assaporare l'illusione di mettere in ordine la realtà.

La muscolatura delle labbra per noi flautisti, che non mettiamo in vibrazione corpi esterni come le
ance, rappresenta un problema molto delicato, un po' come per gli ottoni. I piccoli muscoli labiali
che circondano e sostengono il foro d'emissione dell'aria dovrebbero essere allenati con la massima
gradualità e rilassamento, onde evitare che, come succede alle macro-muscolature del nostro corpo,
si irrigidiscano per uno sforzo eccessivo, esercitato troppo a lungo sul punto sbagliato. Anche la
produzione di un eccessivo soffio all'interno (o esterno) della focale sonora può essere ricondotto
a una "fasciatura" non rilassata e uniforme del flusso d'aria da parte del foro labiale. Per questo
motivo le nostre labbra vanno allenate con molta gradualità a fare sforzi sempre maggiori, partendo
da un coinvolgimento minimo per arrivare alla massima tensione richiesta, per esempio, dalla
tenuta di una nota acuta nel pianissimo.

Il peggior nemico dello studio è la ripetitività, l’ossessività. La nostra mente si abitua troppo in
fretta a risolvere alcuni schemi, e dobbiamo ingannarla variando con la massima creatività anche i
più piccoli dettagli di ciò che studiamo e di come lo facciamo. La cronicizzazione dei problemi ha
luogo specialmente quando il percorso è toppo noto, e la liturgia di approccio agli studi troppo
uguale a se stessa. Ogni giorno inventarsi uno studio nuovo, un approccio diverso, una distrazione:
tonificare ogni giorno muscoli diversi, tornandoci periodicamente!

È importante sapere dove voglio andare se intraprendo un cammino. Altrettanto fondamentale,


ancora prima di cercare un suono, è riuscire a visualizzarlo. Il mio suono ideale, forse, è un nocciolo
vivo e pulsante, di colore scuro, inserito in un involucro ovalizzante morbido, quasi amniotico, di
un colore più tenue: si muove fluido, scorrevole, sotto il giallo-verde della brillantezza…

Troppe informazioni nel suono uccidono il fraseggio.

Il gusto di suonare in orchestra, assolutamente unico a mio avviso, consiste nel divertirsi a recitare
un “cameo” che l’autore ci affida, emergendo solo per una attimo dal mare magnum dell’orchestra
mediante una sintesi, che dovrebbe essere poetica e personale, costituita di poche note preziose,
per poi rituffarsi nelle profondità di quello stesso mare. E’ un’esperienza comunitaria, di forza
condivisa e di energia che si moltiplica, che può talvolta arrivare a stordire per l’intensità emotiva
che produce.

Ci sono essenzialmente due modalità di approccio allo studio: quella di aprire le chiuse dei canaletti
e irrigare il campo intero; e quella di arrivare ad innaffiare ogni singola pianta. Forse la cosa
migliore è impratichirsi in entrambe.

Leggi bene la partitura. Non la parte: la partitura. Quando hai finito di leggerla studiala. Poi
rileggila. Poi ristudiala. Conoscere bene, ma davvero bene, un testo, richiede molto più tempo e
cura di quanto pensi. Quando conoci bene il testo, allora sì: soffia in quella direzione, e le note
arriveranno tutte.

Studiare per ore senza concentrazione è un po’ come accumulare paccottiglia che va a finire,
inutilizzata, a riempire la cantina.

Sul palco è il mix tra grande organizzazione nella struttura ed estrema vocazione improvvisativa,
ciò che fa davvero la differenza. L'architettura complessiva deve poter essere solida ma non rigida,
e imporci una specie di ambito ristretto, (la cosidetta prigione creativa dei compositori, propria
anche degli esecutori), che delimita uno spazio di regole all'interno delle quali muoversi: dopodichè
l'interprete deve vuotare il sacco della propria interiorità lasciando affiorare l'irrazionale ma anche
l'aggressivo; senza dimenticare lo humour, che è il sale di tutto…

Il punto d’arrivo è riuscire ad "improvvisare" ciò che si suona come se lo si componesse lì per lì:
una freschezza artificiale, sì, ma non artificiosa: basata su un grandissimo lavoro precedente.
Nello studio non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi: è l’approccio mentale al
problema, che può essere semplice. Tramite questo approccio si scompone poi il problema stesso
in tanti piccoli pezzi, da allineare poi secondo un’idea.

Lo studio di base (o studio di progresso) è adatto ai lunghi percorsi: lo studio in camerino prima
di un concorso o un concerto dev’essere molto diverso: studio sintetico, di scatto e di potenza!

L’ancoraggio fisico delle dita alla tastiera mediante mezz’ora di tecnica digitale pura, prima di un
concerto impegnativo, è decisivo.

I “tre punti” sono la struttura analizzata dell’emissione: ma la colonna d’aria uscendo è unica, ed è
coinvolgendoli tutti e tre che diventa naturale. La tecnica di fuoriuscita dell’aria va sì scomposta:
poi però… non dimenticare di dimenticartene.

FINE

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