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INTRODUZIONE

di Marco Goldin

La stagione 2020-2021 per Linea d’ombra ha un significato particolare, poiché segna un


traguardo non banale e che non era per nulla scontato. Ho creato Linea d’ombra nel 1996 e
dunque nel 2021 cadranno i venticinque anni da allora. Possiamo chiamarle le nostre nozze
d’argento con l’arte. Le società organizzatrici di mostre in Italia, in quel momento, si
contavano sulle dita di una mano e niente lasciava presagire quello che sarebbe accaduto
dopo in un ambito sempre complicato e difficile. Ancor più difficile in questo 2020 devastato
dal virus. Per di più a fondare quella società, nel 1996, era un trentenne che fino alla metà
degli anni novanta aveva esperienza solo di esposizioni legate al Novecento italiano.

Quello che è successo da allora fa parte della nostra storia, e certamente un po’ anche della
storia delle mostre in Italia, cui Linea d’ombra ha saputo dare il suo contributo. Una storia fatta
di oltre undici milioni di visitatori finora e di relazioni con oltre mille musei prestatori in tutti i
cinque continenti. Musei che hanno concesso oltre diecimila opere giunte nel nostro paese.
Molte, moltissime tra queste opere veri e propri capolavori. Se c’è una sola cosa che mi fa
piacere ricordare infatti, questa è proprio la capacità di avere fatto mostre mai ancorate
all’annuncio dei soli nomi, ma sostanziate da quadri e sculture di qualità spesso superlativa.
Tanti ci hanno aiutato a percorrere questa strada, dai committenti agli sponsor a tutti i
collaboratori che ho avuto e che ringrazio di cuore. Niente sarebbe stato possibile senza di
loro.

Adesso viene questa mostra che ho pensato, in accordo con la città di Padova nella quale
mai Linea d’ombra aveva lavorato prima, per dare senso compiuto a questi venticinque anni.
Su Van Gogh ho lavorato e scritto, tra l’altro dedicandogli il mio primo romanzo, mentre
proprio in questi mesi sto scrivendo una sua grande biografia attraverso le lettere, in uscita per
La nave di Teseo a ottobre 2020. Questa esposizione, forte di ben novanta opere, con vari
musei prestatori e ovviamente al primo posto il Kröller-Müller Museum e poi il Van Gogh
Museum, ha l’ambizione di inserire Van Gogh nel flusso del suo tempo, nella precisa
relazione con altri artisti che per lui hanno contato.

Un’esposizione che dunque non si ferma a una visione esclusivamente monografica, ma


presenta l’opera del grande artista olandese con tanti approfondimenti non così usuali da
vedersi, e in questo modo colloca quell’opera meravigliosa entro non abituali confini. Dai due
anni nelle miniere del Borinage in Belgio, al tempo nel Brabante olandese, fino agli anni
francesi che la mostra indaga in modo approfondito.
Le sezioni della mostra
di Marco Goldin

1. Il pittore come eroe

Nell’estate del 1888, dopo avere dipinto la serie memorabile con i campi di grano nella
pianura della Crau e attorno all’abbazia di Montmajour, nei pressi di Arles, due dei quali
presenti nella quarta sezione di questa mostra, Vincent van Gogh realizzò un piccolo quadro,
di un formato quadrato appena allungato verso l’alto. Quella tela, intitolata  Il pittore sulla
strada di Tarascona  e conservata nel Kaiser Friedrich Museum, venne distrutta durante un
bombardamento alleato su Magdeburgo sul finire della Seconda guerra mondiale. Vi si vede
il pittore, Van Gogh stesso, che cammina sotto il sole andando incontro al suo lavoro
quotidiano nella campagna. Il sentiero è tutto tormentato di tacche di colore e su di esso si
stende minacciosa, come la testa di un rapace che ghermisce, l’ombra del viandante. Lui
vestito di un azzurro un poco più scuro del cielo, mentre si fissa esattamente al centro di due
alberi, molto giapponesi nel loro disegnarsi dentro la vastità di quello stesso cielo.
Il cavalletto sulle spalle, la tavolozza e i colori nella mano destra, una tela sotto il braccio
sinistro, assieme a un bastone molto sottile. Sotto il cappello di paglia a larghe tese, del giallo
come del grano, lampeggiano i suoi occhi chiari, di quell’azzurro che sfuma nel verde e così
si confonde. Sono due gemme incastonate che risplendono. Mentre dietro il pittore scorrono
immagini quasi di un vecchio film in un primo technicolor. Il grano ancora da tagliare,
biondissimo e senza vento, e poi il verde dell’erba e poi altro grano ancora, più lontano.
Infine, la linea dell’orizzonte, il tetto rosso di una casa, qualche cipresso di un verde più scuro.
E appena percepibile, in una lontananza morbida di un lilla chiaro, la linea delle Alpilles.
Quelle piccole montagne che nella piana della Crau chiudevano lo spazio distante verso
nord e che di lì a pochi mesi avrebbero sovrastato, a Saint-Rémy, addossate alla casa di cura,
lo spazio della sua vita. Ah, c’era anche il fiato appena di una nuvola, quasi nascosta dietro i
rami di uno dei due alberi. Questo era tutto.
Ecco, la mostra parte da qui. Da questo quadro invisibile perché non più visibile. Ci sono tanti
modi di cominciare un viaggio, questo nuovo viaggio con Van Gogh. Tanti quanti ne ha
indicati lui. Infiniti. Ma questo è forse il più sulfureo, misterioso e cangiante in tutte le sue
sfumature. Febbricitante sempre, e allarmato nel suo incontro con il destino.  Il viaggio di
questo pittore, il viaggio di Vincent van Gogh, è precisamente il viaggio dell’eroe. Il pittore
come eroe. Colui che ha un compito, una missione da compiere e a essa tutto sacrifica. Vorrei
in ogni modo che questa mostra parlasse del pittore come eroe, e lo facesse vedere attraverso
le opere. Attraverso gli incroci del destino. Lo dicesse anche con le parole. Le parole di una
lingua semplice. E naturale.
È a questo tipo di pittore, a questo eroe moderno, che Francis Bacon ha guardato quando ha
deciso di dipingere alcune tele meravigliose, traendole proprio da quell’immagine che restava
in seguito alla distruzione del quadro dopo il bombardamento su Magdeburgo. Così ha preso
quella riproduzione in technicolor – si era alla fine del 1956 e poi all’inizio del 1957 – e l’ha
appesa con una puntina di ferro sul muro del suo studio. L’ha appesa, dopo averla a lungo
guardata, dopo avere a lungo pensato. Van Gogh sotto il sole del Midi, lungo la strada per
Tarascona, questo vedeva Bacon. Che aveva dipinto nel 1951 un primo ritratto ispirato a Van
Gogh, oggi conservato nel museo di Cleveland, dopo cinque anni nei quali aveva trascorso
diverso tempo nel sud della Francia.
Un grande pittore che dialogava con quel pittore eroe morto ormai da ben più che mezzo
secolo. Pensava a rendergli omaggio, poiché dentro di sé aveva sempre idolatrato
quell’olandese finito male in terra di Francia, in mezzo ai campi di grano. Rendergli omaggio
come si fa sì con il proprio eroe, ma l’eroe di tutti, quando la singolarità dell’esperienza
diventa quella di una moltitudine. Cominciò così a concepire alcune immagini, il loro senso, la
loro verità. In quella fascinazione che aveva per realizzare i suoi tanto particolari ritratti, tali
da rendere perfino i respiri di una persona, le pulsazioni del suo cuore, il ritmo. Difficile, così
difficile fare ritratti per Bacon – così come lo era stato per Van Gogh – perché si trattava di
arrivare a toccare lo spirito che una persona emanava da sé. Nel viso, l’infinito del tempo che
parte dalla vita.
In Bacon c’era il desiderio di rappresentare Vincent come un viandante in perenne cammino,
sfruttando quel taglio cinematografico delle immagini che facevano emergere la figura come
una silhouette quasi bruciata dal sole della Provenza. Quel sole che rendeva evidente oltre
ogni dire il ruolo dell’ombra. Tanto che il nero risultava nelle tele di Bacon un elemento
fondante molto più che non lo fosse stata l’ombra presente nel dipinto di Van Gogh. Il suo Van
Gogh era quasi una figura di maudit, una sorta di Rimbaud che fuggiva dal destino e dalla
vita, per incontrare la più autentica appartenenza al mondo. Appartenere e non evadere.
Infine, dopo rabbiose e grondanti settimane di lavoro, nel marzo 1957, nella Hanover Gallery
di Londra, in un’atmosfera confusa e festosa, vennero esposte alcune tele che Francis Bacon
aveva dedicato a Van Gogh. Partivano da quel quadro che l’artista aveva visto nella
monografia del 1945 pubblicata da Phaidon. Era tra l’altro la serie degli Studi per un ritratto
di Van Gogh e fu l’incerta, tellurica, grondante messa a fuoco di una figura che attraversava
lo spazio dell’opera come stesse solcando lo spazio del mondo. Appartenendo alla vita e
insieme alla morte, al tempo di prima e al tempo di poi. C’era in quei quadri il senso di una
direzione, l’apertura verso le strade dell’universo.
Bacon ha dipinto Van Gogh proprio così. Come chi parte e non è mai partito. Chi viaggia
ancora dopo avere a lungo viaggiato. E forse il suo viaggio l’ha condotto nell’interstizio
possibile tra il respiro e la sospensione del respiro, tra il pieno e il vuoto. Fino a che venga il
momento di lasciare il mondo, magari sotto quel sole che brucia ogni cosa. E lui non c’è più e
precede ognuno di quelli che passano, di quelli che vanno.
Bacon ha dipinto Van Gogh proprio così. Per questo motivo la mostra nasce eccezionalmente
da tre dei suoi quadri dedicati a Vincent van Gogh, compresi nella prima sala. Il pittore come
un eroe, colui che annuncia il futuro pur nell’apparente fallimento. E si carica il mondo sulle
spalle.

2. Gli anni della formazione. Dalla miniera di Marcasse all’Aia

Questa sezione della mostra, specialmente attraverso il disegno che si configura come la
parola del principio, mette in scena il percorso della prima formazione di Van Gogh. Percorso
durato appena tre anni, dall’estate del 1880 all’estate del 1883. Dal momento in cui egli,
consapevolmente, realizza i primi disegni al di fuori dell’accompagnamento alle sue lettere,
fino a quando lascia l’Aia per salire più a nord in Olanda, nella regione della Drenthe. Dalla
miniera belga nel Borinage fino a Bruxelles e da lì poi a Etten e all’Aia. Un vocabolario
scarno, fatto di presa di coscienza attraverso il disegno. Un vocabolario di parole incerte, che
inciampano nella descrizione buttata su fogli macchiati di unto e di grasso. Fogli sui quali si
appoggia, dolente, il sentimento di una vita trafitta fin dalla prima ora, quando l’eroe appare
già sconfitto, sul punto appena di cominciare il viaggio.
Tutte le decine di disegni che compongono la prima parte della mostra, quella che passa dal
Borinage al Brabante, sono le fitte, fittissime pagine di un diario che è insieme un’educazione
sentimentale e un’educazione all’arte. Entrambe da autodidatta, ma nella lucidissima
comprensione che la mancanza conduca a un dolore irredimibile. Il  Corso di disegno  di
Bargue, prestatogli dal signor Tersteeg, direttore della filiale Goupil dell’Aia, lo rende felice
perché gli consente di esercitarsi con profitto quando verranno gli ultimi tempi trascorsi nel
Borinage. Il 24 settembre 1880, quando sta per lasciare la miniera per Bruxelles, scrive a
Theo: “Come puoi vedere sto dunque lavorando come un matto, anche se per il momento non
ho ottenuto risultati molto soddisfacenti. Ma spero che queste spine daranno all’ora giusta il
loro fiore e che questa lotta in apparenza sterile non sia altro che un lavoro di procreazione.
Prima il dolore, poi la gioia”.
Van Gogh realizzò molti disegni nel Borinage, nel distretto sud-occidentale di Mons, tra il
dicembre del 1878 e l’autunno del 1880, quando faceva il predicatore laico nelle miniere di
carbone. Nulla rimane di quel tempo. Per cui Minatori nella neve e Zappatori (da Millet), che
daranno il via in mostra a questo percorso, restano tra le rarissime prove superstiti dei mesi di
settembre e ottobre 1880, mostrando tutte le incertezze, “la goffaggine” ha scritto Teio
Meedendorp, di Van Gogh nel disegno di figura. Ma occorre partire da qui, da una simile
strettoia della vita e del destino, per raccontare davvero la vita che poi sarà ispida di colori di
un pittore che ha per nome Vincent.
In questa sezione dedicata alla formazione dell’artista, il percorso prosegue con gli otto mesi
trascorsi a Etten, nella regione del Brabante dove era nato, arrivando da Bruxelles alla fine di
aprile del 1881. Raggiunge la famiglia, che vive nella canonica accanto alla chiesa. I mesi di
Etten vedono un primo, forte miglioramento nel disegno, che ancora per tutto l’anno resta la
forma di rappresentazione del mondo. Si inaugura qui una modalità di vita e lavoro che si
ripeterà non particolarmente dissimile lungo tutto il decennio, come la mostra farà vedere.
Dapprincipio era la perlustrazione del luogo e dei suoi dintorni, per formarsi una conoscenza
che poi desse la possibilità di iniziare a disegnare, e successivamente a dipingere. Era la
necessità che spazi e persone che li abitavano entrassero, attraverso gli occhi, nell’anima.
Uno scandaglio visivo che poi crescesse nella profondità interiore.
Quando arriva all’Aia, alla fine di dicembre del 1881, e dal primo gennaio affitta delle stanze
in Schenkweg dove allestisce anche uno studio, Van Gogh era alla ricerca di “tutte le scene
possibili con figure – un mercato, l’arrivo di una barca, un gruppo di persone in fila alla
mensa per i poveri, nella sala d’attesa di una stazione, all’ospedale, al monte dei pegni,
gruppi che parlano per strada o passeggiano. E tutto dipende dagli stessi problemi di luce, di
ombra e di prospettiva.” Riteneva che lo studio fosse il suo obiettivo principale e di doversi
impegnare per rendere il movimento delle figure.
Non tralasciò comunque di fare nuove illustrazioni, traendo ispirazione dalle stampe inglesi
per produrre per esempio una serie di litografie con temi legati al rapporto tra l’uomo e la
terra. Il motivo che sembrava appassionarlo di più era quello del raccoglitore di patate, come
si vedrà anche in alcuni disegni e dipinti del tempo successivo a Nuenen, presenti anche in
mostra. Aveva assistito alla raccolta delle patate sia nel Borinage che a Etten, prima che nei
dintorni dell’Aia nel 1882. Era una prefigurazione del grande tema del contadino che lo
occuperà, proprio a Nuenen, tra il 1884 e il 1885.
Ma quanto cercava in un modello, Van Gogh lo trova all’Aia in Sien Hoornik, una ex
prostituta incinta che divenne anche sua compagna, dopo l’incontro che si compì a fine
gennaio. Sien, sua madre e la prima figlia posavano per lui “con i vestiti adatti, abiti in lana
merino nera, bei modelli di cuffie e un bellissimo scialle.” Van Gogh intende creare, come
scrive, un effetto “alla Chardin”, qualcosa che egli ritiene che “alcune tra le serve ordinarie”
possiedano, ma non per esempio le donne borghesi come le sue sorelle.
È con certi meravigliosi, e dolentissimi, ritratti di Sien e della madre, anch’essi presenti in
mostra, che prenderà il via quella galleria di volti e figure che nei due anni trascorsi all’Aia
designeranno i confini di un mondo fatto di gemiti silenziosi, e lacrime non ostentate, e
miseria, e solitudine, e sofferenza nel corpo e nello spirito. Si trattava di dare senso a
quell’individualità dei soggetti che Van Gogh sempre preservò fin dal primo momento della
sua ricerca.
Il suo lavoro prende le mosse da quattro fonti di ispirazione ben precise: gli artisti della scuola
dell’Aia, gli artisti della scuola di Barbizon, gli antichi maestri olandesi e le incisioni su legno
di autori contemporanei, soprattutto inglesi. Ammira fortemente il realismo dei pittori della
scuola dell’Aia, costruito su un’inclinazione di carattere morale che non può non incontrare il
suo favore. Nel loro evidente richiamarsi ai pittori di Barbizon, egli sente così la perfetta
congiunzione con il concetto di paesaggio da lui tanto amato ed espresso tra gli altri da
Millet, Corot, Dupré, Rousseau e Daubigny. Si trattava, come alcuni quadri in esposizione
indicano chiaramente, di una natura venata sempre di un’inclinazione malinconica, spesso
vespertina, che corrispondeva perfettamente al suo spirito.
Ma va ricordato anche, come elemento non secondario, quanto egli apprezzasse il lavoro
degli incisori su legno inglesi, le cui immagini ponevano l’accento su temi sociali di indubbio
richiamo. Immagini che il pittore olandese poteva vedere in pubblicazioni come “The
Graphic” e ”The Illustrated London News”, che aveva regolarmente a disposizione. Van
Gogh poi ammirava grandemente Rembrandt come pittore religioso, e in questo senso è
significativa la sua predilezione verso l’episodio dei discepoli di Emmaus. Apprezzava poi la
spontaneità e la maestria nel disegno di Hals, e non poteva che essere immensa
l’ammirazione per i grandi pittori di paesaggio olandese del Seicento, coloro che avevano
fondato questo genere, a cominciare ovviamente da Jacob van Ruisdael, Koninck e Van
Goyen.
La visione tanto importante del paesaggio nasce dunque in Van Gogh sulla linea che
congiunge Van Ruisdael, la Scuola di Barbizon e quella dell’Aia. Con oltre venti disegni e i
primi dipinti del tempo dell’Aia, la sezione si chiude dentro questo spirito di intima attenzione
umana.

3. Da Nuenen a Parigi. Un colore che cambia

Questa sezione della mostra, centrale in tutto il percorso espositivo, con diversi quadri anche
dei pittori che hanno accompagnato lo sguardo di Van Gogh a Parigi, indaga lo spirito di
quello straordinario percorso che porterà l’artista alla piena conoscenza di quanto per lui
avrebbe potuto rappresentare un colore nuovo, del quale sentiva la necessità dentro di sé. Lo
veniva esprimendo, nelle opere in un primo tempo appena, certamente nelle lettere che
indirizzava a Theo, lì dove emergeva la necessità di uscire da quell’atmosfera che lo riportava
ai disegni e alle arie quasi crepuscolari dei pittori della Scuola dell’Aia.

Sono le lettere, bellissime e piene di vento, nelle quali Vincent traccia il suo mondo, lo esprime
in sussulti e in una visione del futuro che non si distende oltre misura. Quella misura che aveva
fissato in una decina d’anni al massimo, come esprime in una lettera rimasta celebre scritta
ancora dall’Aia, all’inizio d’agosto del 1883, un mese prima di partire verso la Drenthe.
Occorre riandare a quella lettera, e la mostra lo fa, seguendo il filo, invisibile e no, del pittore
eroe che combatte con la vita e prova a superarla: “Quindi, quanto al tempo che ho di fronte
a me e in cui sarò in grado di lavorare, penso di potere, in tutta tranquillità, immaginare i fatti
seguenti: che il mio corpo si manterrà  quand bien même  per un certo numero di anni – un
certo numero che si aggirerà tra i sei e i dieci, credo. Questo posso assicurarlo senza gran
rischio, dato che al momento non c’è alcun  quand bien même  immediato”.Il pittore eroe è
anche il pittore profeta, colui in grado di anticipare quanto meno il suo futuro, con esattezza.
“È questo il periodo su cui posso contare sicuramente; quanto al resto, sarebbe uno speculare
troppo a vanvera osare di dire alcunché di preciso a mio riguardo, perché che ci sia o meno
qualcosa dopo quell’epoca dipende particolarmente da quei, diciamo, dieci anni. Se ci si
logora troppo in quegli anni, non si supera la quarantina; se si è forti abbastanza per resistere
a determinate traversie che in genere si presentano a quell’epoca, per risolvere determinate
difficoltà fisiche più o meno complesse, allora tra i quaranta e i cinquanta ci si ritrova su una
strada maestra nuova e relativamente normale.”
Nasce già qui questa tensione fatta di spirito e materia, di giorni e anima e non servirà
aspettare il grondare dei colori dal cielo di Provenza. La mostra ci va dentro come si sfogliano
le pagine di un diario, alla ricerca dei colori della vita. Dei colori della sua vita. Quei colori
che già si aprono di un poco nei due anni trascorsi a Nuenen. È per questo che l’esposizione
di Padova fa soste importanti sul tempo trascorso da Van Gogh al suo rientro nel Brabante
dove era nato. Quasi quaranta infatti, tra dipinti e disegni, sono le opere che ne identificano
qui lo slancio.
Nel dicembre 1883 giunge a Nuenen, nella casa dei genitori, non lontana dalla piccola
chiesa riformata dove il padre teneva i suoi sermoni. Lasciava la Drenthe preso dall’amore
verso un paesaggio non ancora rovinato dalla moderna società industriale. Questo determinò
il risultato di considerare  il lavoro del contadino come l’incarnazione più pura e autentica
della condizione umana. Si trattava del legame eterno esistente tra il contadino stesso e la
terra, che era per lui madre assoluta e portatrice di quei valori universali che sempre
ricercava. Egli era pronto per i due anni finali del suo tempo olandese, anni decisivi quant’altri
mai prima dell’approdo a Parigi, giunto dopo la sosta di tre mesi ad Anversa.
In una lettera a Theo: “Quando la gente di città dipinge contadini, le loro figure
splendidamente dipinte non possono fare altro che ricordare un parigino delle periferie.” Tutto
questo non preoccupava però minimamente il pittore olandese, il quale era impegnato invece
in un suo percorso di assoluta coerenza e rigore quasi monacale nell’avvicinarsi a queste
figure. E non conoscendo praticamente l’arte degli impressionisti, si volse dal punto di vista
tecnico e del colore, all’arte più accademica. Sebbene a Van Gogh non sfuggissero tutte le
motivazioni per le quali l’arte legata alla terra e alla figura del contadino andassero per la
maggiore, lui scelse di continuare sulla sua strada, incurante di quanto gli stava intorno. Perciò
la mostra si sofferma a lungo sul tema del contadino, sia con disegni sia con quadri, spesso
da considerarsi quali prototipi di avvicinamento all’opera riassuntiva, i Mangiatori di patate. I
contadini ovviamente assieme ai tessitori, ai quali è dedicato uno dei tanti approfondimenti in
mostra.
Intanto, nel mese di novembre 1884 Vincent dà il via a una serie di teste che rappresentano
un progetto unitario e formano una parte importante di questa sezione. Sono volti, su tele di
piccolo formato, inquadrati in primissimo piano, secondo uno stile che rimanda agli olandesi
del XVII secolo, e soprattutto a Frans Hals per quanto riguarda la pennellata fluida e densa di
colore. Van Gogh ammirava da molto tempo Hals e nell’ottobre del 1885 ebbe anche modo
di ristudiarlo dal vero al Rijksmuseum durante una visita di tre giorni ad Amsterdam, nella
quale puntò ovviamente la sua attenzione anche sull’amato Rembrandt. Di Hals, Van Gogh
prediligeva l’idea di dipingere sempre la verità della vita nel momento in cui accadeva, la
pennellata rapida, l’assenza di un disegno preparatorio sottostante i dipinti, la sensazione che
i suoi quadri potessero risultare non finiti mentre vivevano di una loro assoluta completezza.
In una vasta contemporaneità di visione, terminate a luglio 1884 le ultime versioni dei tessitori,
e lavorando ugualmente alle teste dei contadini, lo sguardo di Van Gogh torna a indirizzarsi
anche verso il paesaggio, per il quale i dintorni di Nuenen offrono non pochi spunti. Spesso,
quel paesaggio diventa luogo di ambientazione stessa del lavoro dei contadini, anche se
talvolta si offre nudo nella sua semplicità in apparenza perfino banale, ma che gli consente di
misurare luci poco per volta nuove. E colori essi stessi poco per volta nuovi, fino a che
saranno, tra ottobre e novembre dell’anno successivo,  alcuni finali, e bellissimi, paesaggi
sempre nel Brabante, come quello in esposizione proveniente dal museo di Utrecht. Prima di
presentarsi, fatta la sua sosta ad Anversa, a Parigi al cospetto dell’arte degli impressionisti. È
infatti proprio nel secondo dei due anni trascorsi a Nuenen che avviene un primo,
fondamentale scatto nell’ambito di un colore che comincia appena ad abbandonare le terre
frequentate dagli artisti di Barbizon e della scuola dell’Aia, da lui tanto amati.
A questo punto la mostra si sposta definitivamente in terra di Francia, e per i primi due anni a
Parigi. Nell’autunno del 1886, quando è arrivato da pochi mesi nella capitale francese, Van
Gogh scrive all’amico pittore inglese Horace Mann Livens: “In primavera, potrei dire a
febbraio o anche prima, potrò andare nel Sud della Francia, la terra dei toni azzurri e dei
colori brillanti.” È l’intenzione, subito espressa, di proseguire il suo viaggio verso la vera luce,
verso i veri colori, verso quella terra fatta di chiarità dell’aria e di orizzonti che si percepivano
nitidamente a grandi distanze. Poi però spenderà un anno di più, decisivo, nella capitale
francese e la sua partenza avverrà non nel febbraio del 1887 ma del 1888.
È simbolico il congedo da Parigi, dal momento che Vincent, in compagnia di Theo, visita, la
mattina del 19 febbraio 1888, lo studio di Seurat, per vedere l’ultimo quadro da lui dipinto in
ordine di tempo. Quasi un omaggio al pittore che, con le sue nuovissime ricerche sul colore,
aveva scosso dalle fondamenta la sicurezza di un colore che fosse unicamente
rappresentazione dell’occhio fisico. Nel pomeriggio Theo lo accompagna alla Gare de Lyon,
da dove prende un treno che più o meno quindici ore dopo lo vede arrivare ad Arles.
Questi due anni trascorsi a Parigi, praticamente privi come sono di lettere dal momento che i
due fratelli vivono insieme, e dunque privi delle parole dirette dell’artista, sono anni  decisivi
per il rapporto che si viene instaurando con le opere degli impressionisti e dei post-
impressionisti come Seurat e Signac, che Van Gogh può finalmente vedere nelle varie
esposizioni che si susseguono, a cominciare appunto dall’ultima in rue Lafitte nel maggio e
giugno del 1886.
La mostra di Padova si concentra a lungo su questi mesi parigini che corrono filati come non
mai, tra scoperte, rammemorazioni sul passato e cedimenti della vita. E lo fa non solo con
opere bellissime di Van Gogh, tra le quali una delle versioni più note tra i suoi quasi quaranta
autoritratti, ma anche  con dipinti di autori che per Vincent hanno contato, ovviamente da
Seurat e Signac fino a Pissarro nei suoi anni di vicinanza al post-impressionismo,  e fino al
momento del primo incontro con Gauguin, alla conclusione 1887. E fa questo non con quadri
generici ma con tele effettivamente viste da Van Gogh in quel momento a Parigi.
4. Un anno decisivo, 1888

La mostra, arrivata alla sua quarta sezione, fa una sosta molto importante sul tempo trascorso
da Van Gogh ad Arles, con alcuni dipinti celebri. Sezione molto articolata nel suo essere un
racconto preciso di quanto accaduto in quell’anno decisivo. Perché il  1888 è realmente un
anno fondamentale nella pur breve vicenda dell’artista olandese, poiché maturano, nella
concretezza e nella bellezza dell’opera, molte riflessioni che lo avevano occupato nei due
anni parigini. Dall’approfondimento del rapporto ideale con Millet, rivisto però alla luce del
Sud, fino alla predilezione verso l’arte giapponese.
Ad Arles Vincent giunge il 20 febbraio 1888, trovando alloggio all’ Hôtel-Restaurant Carrel,
al 30 di rue de la Cavalerie. Subito dà al fratello le prime indicazioni sul paesaggio che ha
visto arrivando con il treno, quel paesaggio che desiderava incontrare venendosene via dalla
città che lo aveva confuso e frastornato: “Ho visto magnifici terreni rossi coperti di vigne, con
sfondi montagnosi del più fine lilla. E i paesaggi nella neve con le cime bianche contro un
cielo tanto luminoso quanto la neve, erano belli come i paesaggi invernali fatti dai
giapponesi.” E qui subito il riferimento a quel Giappone che aveva tanto amato a Parigi e che
è anche uno dei motivi fondanti della sua scelta della Provenza.
Nei quasi quindici mesi di permanenza ad Arles, Van Gogh realizza circa duecento quadri,
cento tra disegni e acquerelli e ha il tempo di scrivere duecento lettere, quasi tutte, come
sempre, indirizzate al fratello Theo. Quando arriva ad Arles, la città conta più o meno 30.000
abitanti ed è un po’ la quintessenza della Provenza. Ci si può chiedere perché Vincent l’avesse
scelta, e non per esempio Aix o Martigues o Avignone, quando decide di scendere a Sud. Di
sicuro non c’è un unico motivo, ma un’articolata serie di risposte possibili.
Egli ammira molto per esempio il pittore marsigliese Adolphe Monticelli e Arles poteva essere
una sorta di testa di ponte sulla strada per Marsiglia. I due fratelli avevano costruito a Parigi
una collezione di opere di Monticelli, il cui colore fondo e materico Vincent riteneva derivato
da Delacroix, altro pittore da lui assai considerato. Ma anche altri artisti potevano avere
influenzato la sua decisione di scegliere Arles come meta provenzale. In giovane età, nel
1855, Degas visitò la città. Lo stesso Toulouse-Lautrec, conosciuto nell’atelier di Fernand
Cormon a Parigi, e originario del Sud, potrebbe avergliene parlato.
Ugualmente, l’amore per le stampe giapponesi poteva avere condizionato la sua visione del
Sud e infatti scrive a Bernard poche settimane dopo esservi arrivato: “Questo paese mi
sembra bello quanto il Giappone per la limpidezza dell’atmosfera e gli effetti brillanti del
colore.” Ma anche la lettura dell’opera dello scrittore provenzale Alphonse Daudet offre
occasioni di un colore nuovo per la visione di Van Gogh. Soprattutto il Tartarin de Tarascon,
uscito nel 1872, lo colpisce molto, tanto da citarlo molto spesso nelle sue lettere, riferendosi
alla “gaiezza” provenzale. Che associa anche alla sua pittura, non di rado. Infine, può non
essere stato secondario il richiamo della leggendaria bellezza delle donne arlesiane, spesso
ricordata nei giornali, nelle guide e nei romanzi.
Quando arriva ad Arles, Van Gogh trova però una situazione artistica che poco ha a che fare
con il suo desiderio, e ancora di più la sua necessità,  di essere il pittore del futuro. I luoghi
arlesiani servono piuttosto come fondale per una rappresentazione pittorica convenzionale.
Soprattutto il cimitero di Les Alyscamps è l’ideale punto di appoggio per una resa romantica
della vita locale. Vincent vide subito immagini di questo tipo, come quella di un giovane che
attendeva l’innamorata nella luce del tramonto proprio a Les Alyscamps.
La rappresentazione del Sud che Van Gogh aveva in mente si scontrava con questo tipo
di  imagerie  e soprattutto con quella costruita da un giovane pittore originario di Alès, una
cittadina a nord di Arles, Joseph Belon. Negli stessi giorni in cui Van Gogh dipingeva i suoi
infiammati campi di grano nella pianura della Crau, con la figura del seminatore oppure con
quella di un uomo e una donna che stavano vicini in mezzo a quel giallo, Belon dipingeva un
uomo e una donna ugualmente vicini ma in un contesto completamente diverso.
L’assoluta modernità dei quadri di Van Gogh si specchiava nel gusto dell’ancora trionfante
Salon, da cui del resto lo stesso Belon proveniva. Nel suo desiderio di raccontare un episodio
di vita locale, all’ingresso degli Alyscamps, tratteggiava un giovane arlesiano che cercava di
scusarsi con la fidanzata, gelosa di lui. Sul fondo, sotto l’arco di Saint-Césaire toccato dalla
luce del sole, continuava il ballo tradizionale della farandola, con le donne nei loro
caratteristici abiti dei giorni di festa. Arles era dunque contemporaneamente quanto dipingeva
Van Gogh e quanto dipingeva Belon.
In ogni caso, nessun pittore prima di Vincent van Gogh aveva scelto Arles come base, mentre
lui sognava di stabilirvi il tanto desiderato “Atelier del Sud,” vera e propria comunità di pittori
che avrebbe dovuto nascere attorno alle figure di Gauguin e Bernard. Sia come sia, Van
Gogh manifesta ad Arles, e ancor di più nei suoi immediati dintorni, nella continua immersione
in una natura assoluta, tutti quei tratti che faranno di lui il pittore che conosciamo e lo
porteranno a vivere con un’intensità fuori del comune gli ultimi due anni e poco di più della
sua vita.
Sono due le aree che attorno ad Arles lo catturano, la prima delle quali resterà il suo
riferimento preferito per tutto il tempo di permanenza lì: la pianura della Crau, con l’area
contigua dell’abbazia di Montmajour, in direzione nord est a non più di cinque chilometri da
dove abitava, e tra l’altro luogo dei suoi celeberrimi campi di grano, dipinti a metà giugno di
quell’anno. E poi la zona che costeggia l’Arles-Bouc canal, invece verso sud.
Era comunque preoccupato che le sue immagini del Sud potessero avere una esagerata
derivazione da quelle del Nord, senza quindi possedere quei requisiti di gaiezza trovati nelle
pagine di Daudet, Zola o Maupassant, o ancora nelle incisioni dei giapponesi. Timore che si
rivelerà del tutto infondato, come questa sezione ampia della mostra testimonia con grande
chiarezza.
La mostra intanto si sofferma su quelle due settimane, nella seconda metà di giugno, quando
Vincent è reduce dai cinque giorni trascorsi a Les-Saintes-Maries-de-la-Mer: “Adesso che ho
visto il mare, sono assolutamente convinto dell’importanza dello stare nel Sud, esagerando
con il colore”. Dopo avere abbandonato il pensiero di Saintes-Maries, dove in realtà
immagina di voler tornare, Vincent annuncia a Theo che sta lavorando ad alcuni disegni di
campi di grano, “verdi e gialli”, e che sta cominciando a rifarli in pittura: “Sono esattamente
come quelli di Salomon Koninck – sai, l’allievo di Rembrandt che dipinse vaste e distese
pianure.”
Sono i campi di grano, in una serie di sette, fatti nella pianura della Crau nella seconda metà
di giugno del 1888 e interrotti da piogge torrenziali tra il 20 e il 23. Talvolta con le Alpilles
sullo sfondo, raramente con la città, mescolando la parte antica con la ferrovia e i segni della
prima industrializzazione, come peraltro avviene nella versione in mostra proveniente dal
Musée Rodin di Parigi. Si reca addirittura una cinquantina di volte tra La Crau e Montmajour,
dove esperimenta proprio il senso delle distese pianure e dell’infinito che lo riporta alla
memoria dei campi dipinti dai grandi olandesi del XVII secolo.
Van Gogh nota come il paesaggio sia diventato assai diverso rispetto alla primavera, ma non
per questo sente meno amore verso di esso. E quasi si esalta nel ricordare a sé stesso come
stia riuscendo a rendere i toni della Provenza così come li rendeva, non lontano da lì,
Cézanne a Aix. Il colore è acceso, vibrante, ma vi si sente il tono di un’intimità che ci
consegna gli esiti del rapporto tra l’anima del pittore e l’anima della natura. E questo
mentre  dipingeva “nel mezzo dei campi di grano, in pieno sole.”  In una lettera a Émile
Bernard del 18 giugno, prima delle piogge, specifica molto bene questa sua condizione:
“Quanto a me, mi sento molto meglio qui di quanto non mi sentivo nel Nord. Lavoro anche nel
mezzo del giorno, sotto un sole cocente, senza alcuna ombra, nei campi di grano e godo di
tutto questo come una cicala”, indicando poi tutti i toni e i mezzi toni del giallo che riesce a
rendere nella pittura. È un’esaltazione suprema, davanti e dentro quel colore che forgerà la
sua opera da qui in avanti.

5. Di lune e nuvole. Van Gogh e la fine del suo viaggio

L’uomo vive nel colore e del colore, perché giunge dalla luce e senza la sua forza e la sua
potenza miracolosa nulla sarebbe. Il pittore eroe pone, davanti a tutti, i suoi passi su questa
strada. E in un antico frammento presocratico, attribuibile forse ad Antifonte, si legge che la
vita dell’uomo dura un giorno, però con gli occhi rivolti alla luce. Come se in quell’atto
primordiale di appartenerle fosse già inscritta tutta intera la vita, e la vita potesse durare il
tempo di un levarsi del sole e andare a esso incontro. In questo senso lo spazio, percorso e
abitato dalla luce, e dai colori che ne risultano i sovrani, non è più, e in alcun modo potrà più
essere, indifferenza. Ma differenza e peculiarità, precisione dell’atto della descrizione,
innamoramento e sostanza, battito del cuore e vento partecipe. Il pittore sente così il mondo
con altri occhi, gli occhi del primo uomo che ha camminato sulla terra. E quel  sentire  è
il vedere, attraverso la luce e i colori, i luoghi dell’origine, così da percepire il senso anche
mitico di spazi che sono dalla forma del principio.
Il vedere di Van Gogh è un vedere totale, che non lascia alcuna zona non scandagliata, non
coperta dalla sua brama di conoscere e scardinare il senso e la forma del mondo. Ama della
luce, e sempre più sarà nel tempo trascorso a Saint-Rémy-de-Provence, lo spirito ma anche la
carne. Non gli basta, non gli può bastare, la pelle della luce, non gli basta stare su un bordo
e semplicemente rifare la natura. Dall’Aia, a Théo, già alla fine del 1882 aveva scritto: «Non si
tratta di copiare servilmente la natura, ma molti di noi non possiedono quella conoscenza
intima della natura che assicura la freschezza e la verità alle opere.» Il vedere di Van Gogh è
onnivoro, non lascia spazi di sospensione ma è una continua attività dello sguardo complice e
partecipe. Egli accende il mondo, lo spalanca e lo squaderna. E conducendolo su una soglia,
lo presenta. Sulla linea di un burrone, su un precipizio, e lo illumina perché alla fine la qualità
di quel mondo scoperto, così terribilmente umana e talvolta devastata, non sia solo in potenza
ma anche in atto.
È proprio a Saint-Rémy che questa disposizione di Van Gogh tocca il suo acme, specialmente
nella descrizione di una natura che si accende oltre ogni misura. Dai campi agli alberi, dal
cielo con le sue nuvole stracciate di bianco alla luna rossa del destino, prima che siano a
Auvers quei covoni sorvolati da corvi ormai sul ciglio di uno sprofondamento nel cuore della
terra. E su tutto ciò, nella quinta sezione con una decina di bellissimi quadri finali, la mostra si
soffermerà, prima di chiudersi.
Van Gogh, partito da Arles l’8 maggio del 1889, arriva in treno a Saint-Rémy e dopo una
camminata di mezz’ora dalla stazione ferroviaria, accompagnato dal reverendo Frédéric
Salles, giunge nella casa di cura di Saint-Paul-de-Mausole appena fuori la piccola città. Si
trattava di un antico monastero romanico, che già nel 1605 era stato utilizzato per malati
mentali, mentre all’inizio del XIX secolo venne del tutto trasformato in un istituto solo a questo
dedicato, con un reparto maschile e uno femminile. Salles scrisse a Theo che «il signor Vincent
era del tutto tranquillo e spiegò da solo al direttore il suo caso, come un uomo completamente
consapevole della propria condizione.»
Il 9 giugno, il dottor Peyron annunciava in una lettera a Theo che finalmente aveva potuto
dare il permesso a Vincent di uscire dall’istituto, per iniziare a conoscere il paesaggio e
dipingere. Van Gogh poté dunque avventurarsi al di fuori delle mura, alla ricerca di nuovi
soggetti per la sua pittura. Ma prima che settimane sempre più tormentate prendessero il via,
culminate con la crisi di luglio, realizzò dalla finestra della sua camera uno dei quadri più belli
dell’intera sua vita, nel quale dipinse le nuvole più affascinanti e perigliose che di lui si
ricordino. Proveniente dalla Ny Carlsberg di Copenaghen, questa tela sarà al centro, in
mostra, di quel capitolo indimenticabile che ruota attorno alla casa di cura di Saint-Paul-de-
Mausole. È il  passaggio avvenuto verso quella pittura fatta di una visione tutta partecipata,
mossa e frastagliata come se il grano ancora verde, battuto dal temporale, fosse il segno di
una burrasca in mare aperto. E parlando della particolare prospettiva sghemba, quasi
precipitante lungo la diagonale dal blu delle Alpilles verso il verde dei campi, parlava di “una
prospettiva alla Van Goyen”. Cosa che in questo modo riallacciava il suo legame mai sopito
con gli autori della Golden Age olandese.
Il percorso espositivo fa su questo un’altra importante sosta, con un secondo quadro molto
famoso dipinto da Van Gogh alla metà di luglio, nel quale fa la sua comparsa un effetto
stilistico assai marcato, quasi sperimentale, un effetto non particolarmente amato da Theo. Si
tratta dello stesso scorcio del precedente, ma con una visione più ravvicinata, con l’occhio che
si è introdotto ben dentro quel brano di natura comunque claustrale, durante il tempo della
piena estate, con i toni caldi a dominare la scena. E il grande disco della luna nascente che
sta sorgendo dal fianco delle Alpilles.
Questi dunque che danno conto dell’ambiente circostante, assieme anche alla visione del
Monte Gaussier che si trova sul lato sud della casa di cura e che Van Gogh dipinse
nell’autunno di quel 1889, direttamente sul motivo, poco fuori il grande portone di accesso,
oppure quelli appena più lontani come  Il burrone  o perfino la scena con il  Buon
Samaritano  tratta da Delacroix ma ambientata negli stessi canaloni sotto le Alpilles, sono
paesaggi di inaudita novità. Tutte opere straordinariamente presenti in mostra. Nell’opera pur
sempre così tormentata di Van Gogh, non c’è mai stato periodo alcuno, come questo di Saint-
Rémy, in cui questo disagio dell’anima abbia condotto a un rapporto diretto, e si direbbe
quasi simbiotico, con la natura. Ciò che appare e ciò che permane ma anche quanto
scompare e allora di quella scomparsa bisogna farsi profeti. Così egli ha fatto aggirandosi sui
sentieri di terra attorno alla casa di cura.
Van Gogh sommamente sopravvive – e giunto a Saint-Rémy mancherà poco più di un anno
alla sua morte – fino a un certo momento alla sua emozione debordante, e così facendo
lascia che quell’emozione che tracima in commozione e strazio sia il punto di raccolta in cui
tutto il mondo così trasformato si deposita. Le forze del mondo e dell’anima individuale si
uniscono per dare luogo a quell’armonia saettante in cui infine si riconoscano gli elementi e
l’intero. Gli elementi come parti del tutto sono per Van Gogh la scelta di un percorso difficile,
accidentato, perché molto spesso era l’impossibilità e l’incapacità di giungere alla totalità
senza spezzare lo scorrere delle cose, dei volti. Non a caso anche qui a Saint-Rémy egli
continua a lavorare sugli stessi volti, e lo farà spesso ricorrendo ai pochi sguardi che hanno
fatto parte della sua recente vita, come quello della signora Ginoux presente in mostra e che
egli riprende dal disegno fatto da Gauguin nella Casa Gialla nell’autunno 1888.
La storia, e con essa questa mostra, è ormai sul punto di concludersi. La mattina del 20
maggio 1890, Vincent lascia Parigi, dove si era fermato a casa di Theo rientrando da Saint-
Rémy. Prende il treno in direzione di Auvers-sur-Oise, dove lo aspetta il dottor Gachet, amico
di molti tra i pittori impressionisti, a cominciare da Pissarro e Cézanne. Gachet incita subito
Van Gogh, come scrive già il giorno successivo al fratello e alla moglie: «Poi mi ha detto che
bisogna lavorare con grande ardimento e non pensare affatto a ciò che ho avuto.»
All’Auberge Ravoux, nella piazza del Municipio, trova una camera più a buon mercato di
quella che all’Auberge Saint-Aubin gli aveva proposto lo stesso medico. Arriva ad Auvers con
una rinnovata sensazione di impotenza davanti alla natura e alla possibilità di rappresentarla.
La luce e i colori di Saint-Rémy, tatuati sulla sua pelle e sulla sua anima, erano stati troppo.
Van Gogh sopravvivrà fin quando a restare in vita sarà il sogno della pittura. Il sogno che con
la pittura egli avrebbe potuto dire quel grumo di lacrime e sangue, di poltiglia di terra e
cenere di cielo, che gli cadeva davanti agli occhi ogni mattina. Il sogno di una pittura che
dapprincipio era stata l’illusione di copiare Mauve e gli olandesi, poi di rifare i Giapponesi,
poi di creare con Gauguin l’Atelier del Sud, luogo d’incontro di immaginate, comuni
sensibilità. E infine, da una suggestione gauguiniana, volare verso i Tropici, dove Gauguin era
già stato – la Martinica, nell’estate del 1887 – e dove, facendo vela verso la direzione
opposta, andrà per la prima volta, lasciando terra da Marsiglia, nemmeno un anno dopo la
morte di Vincent.
Il quale dunque sopravvive fino al momento in cui il sogno si spezza, poi il peso diventa
insopportabile. Il sogno di un’arte essenziale, totalmente rinnovata nella forza e nella
pregnanza del colore. Segno indelebile di quel viaggio che attraverso lo spirito poteva
condurre all’anima del mondo. Sogno che metteva nel conto la possibilità ardita di dipingere
quell’anima invisibile con il visibile dei colori accesi e della natura. Il visibile di una luce che si
spandeva nel paesaggio e nei cuori. Una sorta di grande liturgia rappresentativa, infinita, che
viene alternandosi alla manifestazione di uno stupore così doloroso e malinconico. Fin
quando la malinconia non vince. Rifare a ritroso il cammino, mostrare che la scelta del luogo
e dell’ora non era da una casualità ma dal viaggio consapevole. Questo era l’estremo
tentativo di vita. Van Gogh possiede il senso dell’utopia ed egli non è solo un sognatore ma
anche colui che prevede il futuro. Nell’apparente sconfitta si fa oracolo, effettivamente è
l’eroe del primo capitolo di questa mostra. La fine coincide con il principio.

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