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L’economia del territorio milanese è in stallo. Nel quinquennio 2009/04 il GDP pro-capite è
sceso del 12%, un dato pessimo rispetto a quello registrato dalle altre cinque aree
metropolitane dell’Europa continentale con le caratteristiche socio-economiche più
comparabili a quelle del capoluogo lombardo. Barcellona, Lione, Amsterdam, Monaco e
Amburgo sono le principali metropoli di seconda fascia dell’area Euro, caratterizzate dalla
comune assenza di un ruolo di capitale amministrativa del proprio stato di appartenenza. In
media, nello stesso periodo, fortemente influenzato dalla corrente crisi economica e
finanziaria globale, il GDP pro-capite di queste aree metropolitane è rimasto invariato. La
performance migliore l’ha registrata Amsterdam con un +7% la peggiore Barcellona e Monaco
con un -3%. Analoghe evidenze sono offerte dalla dinamica del GDP per occupato. Con un
-8% Milano esprime il dato peggiore rispetto ad un range delle altre menzionate aree
metropolitane che si situa nell’intervallo compreso fra il -3% (Amburgo) ed il +4% (Barcellona
e Amsterdam).
Il ruolo del settore manifatturiero si è compresso: la sua quota di valore aggiunto è scesa dal
30% al 24%. Un -6% che non è, però, quantitativamente incoerente con le dinamiche di
terziarizzazione che hanno investito anche le altre aree metropolitane considerate (in media
-4.5%). Molto più preoccupante, invece, il confronto in termini di produttività: il valore aggiunto
per occupato del settore manifatturiero, nel quindicennio, è sceso del 5.3%, mentre nelle altre
aree metropolitane è cresciuto in media del 24%.
Meno grave il gap accumulato in termini di produttività dai settori che hanno registrato le
dinamiche più espansive in termini relativi: i servizi alle imprese (+3% in termini di quota di
valore aggiunto) ed i servizi finanziari (+3%). Nel primo caso il valore aggiunto per occupato è
sceso del 31% rispetto ad un dato medio delle altre cinque aree metropolitane del -14%, nel
secondo caso è salito del 57%, un valore addirittura superiore alla media dell’11%.
Nell’ultimo quinquennio (2009/04) nel territorio milanese sembrano invece in atto dei
cambiamenti quantitativamente più rilevanti sotto il profilo della forma giuridica delle imprese.
Le società di capitali, a fine 2009 pari al 37% del totale, sono circa il 20% in più rispetto al
dato nazionale. La loro quota sul totale è inoltre cresciuta dell’8%, rispetto a un dato lombardo
e a uno nazionale entrambi pari al +5%. Specularmente la dinamica delle ditte individuali, in
provincia di Milano pari a circa 116,000 a fine 2009, è stata molto negativa: la loro quota è
scesa di 7 punti percentuali (rispetto al -3% lombardo ed al -5% nazionale).
A fronte delle dinamiche, forse sarebbe meglio dire “statiche”, economiche e demografiche
evidenziate nei 13 anni compresi fra il 2009 ed il 1997 la tendenza ad una crescente
scolarizzazione delle forza lavoro è stata sostenuta, seppur in proporzioni, almeno per ciò che
concerne la Lombardia, non diverse da quelle in atto a livello nazionale. Gli occupati dotati di
titoli accademici (Laurea breve, Laurea, Dottorato,…) a fine 2009 erano in Lombardia
740,000, pari al 17.5% del totale, la crescita della loro quota in 13 anni è stata del 7.4%
(+73%). E’ ragionevole pensare che oggi a livello cittadino i laureati rappresentino almeno il
25% della forza lavoro occupata. Specularmente, sempre in Lombardia e nello stesso
periodo, gli occupati con titolo di studio inferiore al diploma di scuola superiore sono scesi dal
52% al 36%. Le difficoltà nell’inserimento della forza lavoro qualificata non appaiono peraltro
inferiori in territorio lombardo, rispetto a ciò che accade a livello nazionale. Nello stesso
periodo (2009/1997) la quota di laureati in cerca di occupazione è salita dal 5.7% all’11.8% in
Lombardia e dal 7% all’11.7% in Italia: il gap invece di allargarsi, a vedere i numeri, sembra
chiudersi.
Le statistiche regionali di Banca d’Italia aiutano, infine, a delineare i tratti fondamentali del
sistema di finanziamento delle imprese e dell’efficienza del settore creditizio, anche a seguito
della crisi finanziaria in atto dal 2008.
I margini sul tasso interbancario applicati al sistema delle imprese registrano una sostanziale
stabilità nel quinquennio 2008/04 e pertanto una sostanziale inelasticità alle condizioni di
finanziamento degli istituti di credito, attestandosi in un range molto stretto compreso fra il
2.5% (nel 2007) ed il 3.36% (nel 2004). Da evidenziare che la crisi finanziaria ha contributo,
spingendo le banche all’affannosa ricostituzione dei propri margini di profitto, ad un
innalzamento degli spread applicati (saliti in media, a fine 2008, al 2.91% rispetto al 2.5% del
2007). Da segnalare che, in termini assoluti, a fine 2008 contestualmente a un tasso
interbancario posizionato in prossimità del 2.9%, il costo del debito si attestava in media per
le imprese lombarde al 6.7%, con punte del 9.8% e del 9.5% rispettivamente per le famiglie
produttrici (in gran parte artigiani ed aziende a conduzione famigliare) e per le società non
finanziarie con meno di 20 addetti. La fotografia che ne esce è quella di un settore bancario
capace di difendere la propria profittabilità in virtù, in primo luogo, di una struttura di mercato
oligopolistica, considerazione del tutto coerente con le dinamiche molto positive in termini di
crescita della produttività per occupato del settore dei servizi finanziari, evidenziate in
precedenza.
Sotto l’effetto della crisi quello che si potrebbe definire il “moltiplicatore locale della moneta”,
pari al rapporto fra gli impieghi e i depositi a livello territoriale si è contratto più in provincia di
Milano (-11%) che nell’intera Lombardia (-7%) ed oggi si attesta ad 1.9x, un livello inferiore
del 13.3% rispetto al picco del 2007. In particolare nel 2009 la contrazione degli impieghi si è
concentrata sul settore produttivo. A fronte di una riduzione del volume totale di prestiti pari al
3.5%, quelli erogati alle famiglie consumatrici hanno registrato una crescita del 5.5%. I settori
imprenditoriali più colpiti sono stati quelli delle società finanziarie ed assicurative e delle
imprese medio grandi, viceversa la caduta dei volumi è stata meno consistente per le piccole
imprese (-1.1%).
Contestualmente il deterioramento sul fronte delle sofferenze è apparso evidente, in
particolare, nel caso delle imprese qualificate da Banca d’Italia come medio-grandi. In
Lombardia il rapporto sofferenze / prestiti a fine 2009 delle imprese medio-grandi si è
attestato al 3.3% registrando un incremento annuale del 76%. Nel caso delle piccole imprese,
sempre a fine 2009, si è superata altresì la soglia del 5%.
In questo quadro le risorse correnti del bilancio comunale dedicate alle cosiddette “Funzioni
nel campo dello sviluppo economico” sono state nel 2009, pari ad € 15.6 Mln: solo lo 0.84%
delle spese correnti. In termini relativi sul totale delle spese il 32% in meno di Torino (1.23%)
ed il 35% in meno di Genova (1.3%). A titolo informativo i principali capitoli di spesa del
bilancio comunale milanese 2009 dedicati alle cosiddette “Funzioni nel campo dello sviluppo
economico” sono intitolati come segue: “Piano di Marketing Territoriale 2009”, “Direct
Marketing” (partecipazione a 18 eventi fieristici), “Progetti Promozionali”, “Relazioni
Pubbliche”,… sostanzialmente “fuffa”.
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Questi dati, impietosamente, raccontano una storia molto diversa dalla narrazione che fa
parte a pieno titolo della mitopoiesi leghista di un’industriosa capitale morale tenuta a freno da
un paese arretrato e un po’ cialtrone. Le favolose sorti progressive della moda, dei media e
dell’editoria, dei servizi finanziari in tutte le loro filiere (retail banking, investment banking,
financial advisory,…), dei consulenti aziendali e dei professionisti operanti 24 ore su 24,
dell’editoria e dei servizi informatici sembrano decisamente appannati.
Il Centro-Sinistra che si candida a governare Milano, pur consapevole delle scarse leve
soprattutto finanziarie che un’amministrazione comunale può mettere in campo al fine di
praticare una politica industriale adeguata allo sviluppo del territorio, non può non raccogliere
questa sfida. E ciò, in particolare, nel confronto con una giunta uscente che nulla ha fatto in
merito e che con la propria gestione maldestra, in pieno coordinamento con la politica
nazionale della maggioranza di Centro-Destra, della nascente Agenzia Nazionale
dell’Innovazione ha dato una pessima immagine di sé.
Pur consapevoli che da sole e che senza una riforma complessiva del sistema fiscale capace
d’introdurre i necessari incentivi all’imprenditorialità (e non alla “speculazione finanziaria”) ed
all’innovazione, una decisa svolta non sarà possibile, riteniamo che le proposte di seguito
formulate possano costituire quanto meno dei piccoli contributi per favorire un’inversione di
tendenza.
Mediante l’utilizzo del microcredito sono possibili politiche di sostegno e di avvio della
piccola impresa individuale, con importanti ricadute in termini d’inclusione sociale dei
destinatari.
Tramite il microcredito si consente, infatti, a soggetti altrimenti privi dei requisiti per
accedere al credito nelle forme ordinarie di ottenere finanziamenti finalizzati all’avvio
e allo sviluppo d’iniziative imprenditoriali o all’inserimento nel mercato del lavoro, in
un contesto caratterizzato, come si è visto, da un costo del denaro particolarmente
elevato per le imprese di piccole dimensioni. Si segnala altresì che l’importo medio
dei prestiti concessi dal sistema creditizio alle piccole imprese (il cui perimetro,
secondo la definizione di Banca d’Italia, è rappresentato dalle cosiddette Famiglie
Produttrici e da quelle con un numero di occupati inferiore a 20 dipendenti) in
Lombardia non supera i 40,000 €.
Tra le cause della scarsa diffusione del microcredito, una delle principali deve essere
individuata nell’assenza di una normativa specifica, ciò che determina la sostanziale
assenza di grandi operatori specializzati e la necessità di agire all’interno del quadro
normativo del credito ordinario, con rigidità e vincoli spesso incompatibili con la
natura del microcredito, in cui all’erogazione delle somme necessarie devono
affiancarsi indispensabili attività di aiuto e indirizzo per l’inclusione economica e
sociale del beneficiario.
Con il D.lgs. 141 del 13 agosto 2010 è stata introdotta nel Testo Unico Bancario
(TUB; artt. 111 e 113) un’importante deroga alla riserva di legge per l’erogazione del
credito ( la concessione di finanziamenti nei confronti del pubblico è riservata a
banche e intermediari finanziari), volta a colmare la lacuna legislativa in tema di
microcredito: i nuovi artt. 111 e 113 del TUB contengono, infatti, una organica
disciplina del microcredito, disciplinando – peraltro con ampi rinvii alla normativa
secondaria di futura emanazione - i requisiti di finanziatori e beneficiari.
Nell’ambito del rinnovato quadro normativo è quindi possibile ipotizzare nuove forme
di gestione del microcredito, che coinvolgano tutti i soggetti oggi operanti nel settore
(ONLUS, organismi di volontariato, investitori istituzionali, fondi di garanzia, banche)
e che consentano di superare la frammentazione e la scarsa diffusione che sino ad
oggi hanno caratterizzato questo strumento.
A monte della proverbiale scarsità delle risorse, questi obiettivi e questa attenzione al
momento ed al luogo, intesi come somma di procedure, pratiche e regole, degli
interventi ne limitano l’orizzonte operativo e l’efficacia.
I “privati” frequentano lo “spazio” per comprare i lavori degli utenti o per commesse
ad hoc.
Nel solo settore Biotech, in forte crescita, fra le 319 imprese italiane del settore il 36%
è localizzato in Lombardia e fra queste la maggior parte proprio nell’area Milanese,
dove pure si concentra la gran parte dei pochi operatori di Venture Capital e Private
Equity italiani.
A titolo esemplificativo, sempre nel settore Biotech Milano è riuscita ad attrarre per tre
volte in quattro anni la fiera BIOEurope Spring (BIO: Bio Industry Organization), una
delle “vetrine” di settore più rinomate e qualificate, capace di attrarre da tutto il
mondo i Top Executives delle principali società del settore: tutto ciò grazie alle
eccellenze locali, all’attività di Assobiotech, alla Regione Lombardia, in piccola parte,
senza, però, alcun supporto della Municipalità.
Ancora sul fronte del Trasferimento Tecnologico nell’ambito del settore farmaceutico /
biotecnologico vale la pena segnalare il caso di successo della Fondazione Toscana
Life Sciences (TLS): un’iniziativa non-profit che vede tra i propri stakeholders il
Comune di Siena, la Provincia di Siena, la Regione Toscana, MPS, la Fondazione
MPS, la Camera di Commercio locale ed alcune Università toscane e che, nell’ultimo
triennio, ha dato luogo ad una decina di aziende incubate ed a numerosi progetti di
Trasferimento Tecnologico.
Premesso che sarebbe esiziale per la riuscita del progetto la selezione di personale
inadeguatamente qualificato e selezionato per vie politico/clientelari, la preconizzata
Tech Transfer Task Force Milanese dovrebbe avere gli obiettivi di seguito declinati.
Passando dagli obiettivi strategici a quelli operativi, le principali attività che la Tech
Transfer Task Force dovrebbe svolgere sono le seguenti.
Premesso che 1) nel territorio milanese e più in generale nel nostro paese si registra
un’inadeguata capitalizzazione delle imprese e ancor più una strutturale scarsità di
capitale destinato all’innovazione, 2) la disponibilità di capitale a sostegno
dell’innovazione è un potenziale driver per la crescita dell’economia locale, 3) la
dismissione, per fare cassa, di asset pubblici (mobiliari e immobiliari) è un trend che non
si invertirà anche nell’ipotesi di una vittoria alle prossime elezioni comunali della
coalizione guidata da Giuliano Pisapia.
L’idea dovrebbe essere quella di destinare una parte (da quantificare) delle risorse
rivenienti da future cessioni di attività patrimoniali al finanziamento di uno o più fondi di
“Venture Capital municipale” operanti a livello territoriale.
Tale intento non deve però essere interpretato come un’aspirazione dell’istituzione locale
a trasformarsi in un puro venture capitalist. L’obiettivo non è, infatti, quello di destinare
risorse pubbliche all’integrale finanziamento di progetti imprenditoriali, bensì quello di
intervenire a supporto degli imprenditori innovativi in quel ruolo estremamente delicato
del “venture capital” che nell’esperienza dei mercati finanziari più maturi è sopperita dai
cosiddetti Angel Investors.
La “logica” del Venture Capital è, in ogni caso, quella della diversificazione dei rischi e
dell’attivazione degli adeguati incentivi impliciti in un co-investimento fra un imprenditore
innovativo e un investitore istituzionale (il Fondo di Venture Capital). Se un imprenditore
innovativo presenta a un fondo di Venture Capital un business plan da finanziare di € 10
Mln, come minimo il Venture Capitalist gli chiederà un co-investimento personale di € 1
Mln. La funzione degli Angel Investors è quella di colmare il gap fra la dotazione
personale / famigliare dell’imprenditore innovativo e la richiesta di co-investimento del
fondo di Venture Capital.
Pertanto nella prospettiva delineata del lancio di un fondo di Venture Capital municipale
capace di fungere da Angel Investor l’obiettivo dell’investimento di risorse pubbliche
sarebbe quello di intervenire al fine di abbassare la soglia di accesso, in termini
d’investimento personale dell’imprenditore innovativo, al finanziamento di progetti di
Trasferimento Tecnologico promettenti da parte di fondi di Venture Capital. Un simile
utilizzo delle risorse pubbliche si inserirebbe, quindi, in una logica di partnership
pubblico / privato nell’ambito della quale la validazione del fondo / dei fondi di Venture
Capital veri e propri - del mercato - sarebbe imprescindibile.