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Luca Pinzolo
Ipseità e Mitsein in Heidegger alla luce del transin-
dividuale di Gilbert Simondon
(doi: 10.30460/94074)
Ente di afferenza:
Societitrice il Mulino (mulino campus)
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LUCA PINZOLO
Se, come sottolineato anche da J.L. Nancy, l’esserci con altri è «essen-
zialmente co-implicato nell’ek-sistenza secondo Essere e tempo», è anche vero,
come ha notato lo stesso Nancy, che l’etica heideggeriana è ben lontana dal
mettere l’accento su questo aspetto (2001; trad. it. p. 125). L’altro uomo
che l’Esserci incontra nel suo aver a che fare con le cose del mondo in
cui si trova gettato sembra riguardare l’identità dell’Esserci stesso solo in
quanto contribuisce al suo smarrimento e tuttavia è un Esserci a sua volta,
e dell’Esserci ricalca proprio la caratteristica dell’“esser-ci-con”: incontrato
nel mondo, «è diverso dall’utilizzabile e dalla semplice-presenza» (Heidegger,
1927; trad. it. p. 143). Per cercare di meglio definire le modalità di questo
incontro, occorrerà allora ripartire dall’analisi del Dasein stesso. Tutto ciò
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Come è stato osservato, «l’esserci non va inteso come polo soggettivo, da far entrare
nachträglich in relazione con un altro polo soggettivo, con un altro esserci, ma è come la
relazione stessa tra l’uno [...] e gli altri» (Bancalari, 1999, p. 121); cfr. anche p. 123, in cui
si afferma che il Dasein è «l’apertura stessa dell’uno e dell’altro, “tra” il proprio e l’estraneo,
che precede e rende possibile la distinzione stessa».
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Naturalmente, ogni decisione in tal senso sarà un atto ogni volta sin-
golare, una singolare assunzione di responsabilità da parte di ciascun sé;
tuttavia, non si tratta di una decisione egoistica confinata nei limiti di un
individuo, ma una di una presa in carico del “sé” in quanto popolo. È per
questo che un atto individuale può andare al di là dell’individuo e “ar-
monizzarsi” con altri atti dello stesso genere: «attraverso questa decisione
siamo [...] rimandati al di fuori di noi, rimandati alla condivisione dell’ap-
partenenza al popolo. Nella presente situazione nasce una certa armonia
di noi stessi, al punto che potremmo effettivamente dire “noi”» (ibid.). È,
però, forte l’impressione che tale “armonia” sia solo l’effetto superficiale
di un’articolazione di atti ogni volta singolari e privati il cui unico nesso
è la mera simultaneità.
Farsi carico del “sé” del popolo equivale a cercare la «forma della
padronanza che un popolo ha di sé» (p. 83) in quello Stato che non è se
non la manifestazione di tale volontà di autoaffermazione e padronanza di
sé. Il “ci” dell’Esser-ci, il luogo della gettatezza dell’uomo, adesso, non è
più “il” mondo, ma “un” mondo storico determinato – luogo e momento
dell’inserimento di ciascuno nell’appartenenza al popolo: il Da è questo
stesso inserimento, che comporta ad un tempo «inserirsi nell’accadere [...]
farsi carico della tradizione, sottomettersi alla tradizione» (p. 169).
Il motivo del “noi” e del “popolo” come connotazione del Dasein
viene, in effetti, annunciata già nel § 74 di Essere e tempo, all’interno del
quinto capitolo intitolato “Temporalità e storicità”. Nel riprendere il filo
delle analisi svolte, Heidegger ricorda che l’Esserci, in quanto gettato, è
abbandonato a se stesso, ma lo è in quanto “essere-nel-mondo”; l’essere
abbandonato a se stesso coinvolge, pertanto, una costellazione di campi
che includono tanto l’essere assegnato ad un mondo quanto l’esistere con gli
altri: il “sé” appare, adesso, come dislocazione in un mondo ed essere-con
altri: di qui, come si sa, un’alienazione e una condizione di inautenticità
che gli sono costitutive.
L’Esserci “ritorna a se stesso” mediante una “decisione”, anche se non
una qualsiasi: deve decidersi per quello che è, decidere di se stesso mediante
quella che Heidegger ha, notoriamente definito una “decisione anticipatrice
della morte”, che a tutti gli effetti va in direzione della propria finitezza e
che pone l’Esserci di fronte al proprio destino: è questo, adesso, a connotare
«l’accadere originario dell’Esserci quale ha luogo nella decisione autentica»
(1927; trad. it. p. 452), salvo che Heidegger qualifica subito questo “destino”
come “co-destino”, “destino comune” che riguarda interamente l’Esserci
persino nella dimensione del Mit. Ne segue che, ritornando a se stesso,
l’Esserci ritorna esattamente dove già era, ossia “nel” mondo e “con” gli
altri – se vogliamo, non si è mai spostato da lì e, del resto, non avrebbe
potuto farlo: non può andarsene da se stesso e, quindi, non può neanche
ritornare a se stesso o su/in se stesso – solo, “vi sta” in modo differente.
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Cfr. Derrida (1994a); trad. it. pp. 100-101, interamente dedicato a questa frase: «Qui
non c’è alcun fenomeno di presenza a sé ideale nella voce interiore. Si tratta proprio della
voce dell’altro [...], cioè una voce che non è situata né dentro né fuori dal Dasein, né vicino
né lontano, che partecipa in qualche modo all’apertura del Da del Dasein, e che assume la
forma esemplare di una voce, persino in assenza del portatore della voce».
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Dasein «di cui fa parte il con-essere» (p. 199): il parlare appare, pertanto,
come articolazione del con-essere stesso in quanto “comprensione”, per
cui Mitsein è tanto il “soggetto” quanto il “tema” di tale articolazione. Ora,
se esser-ci è al tempo stesso “con”-esser-ci, la comprensione e l’ascolto di
“sé” è, al tempo stesso, comprensione e ascolto del proprio “essere-con”
altri Dasein: è questa comprensione, questo ascolto, del proprio Mitsein a
essere, di conseguenza, condizione di un “colloquio”. Il comprendere com-
porta – meglio: “apre”, rende possibile – una relazione che coinvolge chi
parla, chi ascolta, ciò di cui si parla; l’ascolto è “triangolare” per i termini
che avvolge: “l’io”, “l’altro”, “la cosa”.
Un conto, però, è un rapporto tra interlocutori, un altro conto è la rela-
zione che ciascuno di essi intrattiene con l’oggetto del discorso; Heidegger
ci parla, in effetti, di una “doppia relazione”, o di “due relazioni” che pure
si danno solo l’una insieme all’altra, “essere con l’altro” ed “essere presso”
l’ente di cui si fa parola: «Anche quando stiamo esplicitamente a sentire il
discorso dell’altro, comprendiamo innanzi tutto ciò che è detto o, meglio,
siamo già anticipatamente con l’altro presso l’ente sul quale verte il discorso» (p.
201, corsivo mio). L’originarietà di questa comprensione è immediatamente
sovrapponibile alla cooriginarietà di questo “essere-con” ed “essere-presso”.
Si noti che Heidegger qui presenta le due relazioni – «con l’altro presso
l’ente» – senza congiunzione: come se non fossero due relazioni bensì
una sola, o come se si trattasse di un solo rapporto ma bidirezionale. Le
relazioni, poi, si possono articolare ulteriormente: “portare bei sich la voce
dell’amico”, “essere mit, con l’altro”, “essere bei, presso l’ente”: questo
bei indica lo stesso tipo di relazione nelle sue due occorrenze? Che cosa
comporta essere “con” l’altro e portarne le voce “presso” di sé?
Si aggiunga che, nel passo sopra riportato relativo a questi due rapporti,
Heidegger fa riferimento ad un colloquio come ad un evento “determinato”
e “specifico”: “anche” quando capita effettivamente che qualcuno ci rivolga
la parola, si verifica questo “essere-con”/“essere-presso”; Heidegger fa rife-
rimento ad un episodio che, per quanto frequente, è comunque “possibile”,
potrebbe non accadere; tuttavia ci dice che proprio questo episodio, se e
quando si verifica, presuppone già dal suo principio un “essere-con”/“es-
sere-presso”. Però, nel passo relativo all’ascolto della voce dell’amico che
ciascun Dasein porta con sé, e che precede di circa una pagina il passo sopra
citato, non sembra esservi riferimento ad un evento occasionale, anche se
non eccezionale né raro: ogni Dasein porta “sempre” con sé, più che “la
voce dell’amico”, “l’ascolto” di tale voce.
Proviamo a tirare le fila del discorso: la questione dell’identità del Sé si
lega alla questione di definire un “noi”. Abbiamo visto che il Sé è, per così
dire, “abitato” sia dall’eco della voce dell’amico, che gli “dice” la sua stessa
struttura relazionale, sia dalla voce della coscienza che lo chiama, vicever-
sa, all’isolamento; abbiamo anche sottolineato i tratti analoghi di tali voci.
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5. Il transindividuale
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Il termine “transindividuale”, come è stato notato, ancorché criticamente, da M.
Combes, si trova, così, a dover rendere ragione sia di quanto precede l’individuazione, sia
di quanto la eccede «ed è disponibile per una individuazione ulteriore» (2014; trad. it. p. 76).
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all’ascolto della voce dell’amico, che non dice altro se non il Mitsein stesso
e nulla di più: qualsiasi enunciato dichiarativo presuppone un “mit” che si è
già-sempre instaurato. Essere-con e essere-presso sono due direzioni di uno
stesso evento, la gettatezza progettuale del Dasein in quanto bei; in questo
senso si può dire che l’individuazione del Dasein come “sé” presuppone
quella relazionalità che questi, pur nel suo isolamento, o forse proprio in
virtù di esso, reca già sempre con sé.
6. Conclusioni
con la sua “eco” – quella voce che è possibile ascoltare solo in quanto già
la si porta con sé.
Ci troviamo davanti a un problema che nello stesso tempo segnala un’e-
sigenza teorica. Il solo piano individualistico rende impossibile concepire
ogni tipo di relazione sociale, e tuttavia la stessa ontologia heideggeriana,
almeno nei luoghi in cui cerca di farsi carico e di garantire l’articolazione
del Dasein come Mitsein, di fatto non ne prescinde, tiene, cioè, conto della
dimensione della singolarità e della solitudine nel momento stesso in cui
indaga la possibilità di un’autentica articolazione plurale del “Da”. Hei-
degger, ipotizziamo, vede chiaramente, al di là delle soluzioni offerte, che
isolamento e relazione devono potersi dare insieme nella loro tensione4,
pena l’oscuramento della dimensione sociale in quella «mostruosità [...]
dell’identico che si mette a proliferare come una cellula cancerosa, senza
produrre nient’altro che ripetizione e tautologia» (Lévinas, 1965; trad. it.
p. 63).
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È noto che questa stessa tensione costituisce il problema di cui si è fatto carico Lév-
inas, seppure in polemica aspra con Heidegger. Sul nesso separazione-relazione in Lévinas
cfr., tra l’altro, Mura (1982); per un tentativo di rintracciare in Lévinas una “fondazione
transindividuale della solitudine” in un confronto con Simondon, cfr. Pinzolo (2010). Per
una discussione del problema in una prospettiva più ampia cfr. Vergani (2012), in part. p.
13: «la separazione è direttamente una relazione. Dunque una slegatura che al tempo stesso
è anche un legame [...], la relazione… non annulla la separazione, per la precisa ragione
che, al contrario, da essa si alimenta».
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