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Estetica dello “sfioramento”, o dell’empatia

e dell’ontogenesi∗
Luca Pinzolo

English title  Aesthetics of the “touch”, or empathy and ontogenesis

Abstract  The article tries to rethink empathy outside of a paradigm centered


on interiority, through a reversal of perspective that, through a path with
multiple entrances, privileges the dimension of an exteriority that cannot be
internalized and yet constitutes the feeling and being of the subject himself.
If, as Arendt teaches, man can find in his artifacts the guarantee of his own
consistency and subjective identity, on the other hand some places in the Weird
literature evoke a world that is foreign and incompatible with any human idea
of order and “cosmos”. This “order” finds, as Levinas teaches, its background
in an impersonal “there is”, the notion of which inherits and reformulates the
traditional concept of Being. It is the Being, thus intended, to activate the life
of the “soul” through an affection whose paradigm is the feeling of horror,
trace of an original and constitutive passivity.

Keywords  Weird, empathy, Levinas, Husserl, Arendt, Lipps, Lovecraft, Bierce,


Simondon

Non siamo noi come soggetti che sentiamo


qualcosa, ma al contrario offriamo noi stessi
a un sentire che è dislocato altrove.
Mario Perniola1


Questo lavoro è parte di un progetto più ampio che si propone di pensare
congiuntamente alcuni motivi dell’ontologia del giovane Levinas con altri emersi
dalla riflessione sulla transindividualità proposta da Gilbert Simondon. Di que-
sto progetto, al momento, è possibile solo abbozzare una provvisoria mappa, pur
nella consapevolezza che, come ammoniva Gregory Bateson, “la mappa non coin-
cide con il territorio”.
1
M. Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino 1991, pp. 95-96.

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© atque materiali tra filosofia e psicoterapia, 25 n.s., 2019, pp. 223-243 – ISSN 1120-9364
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1. Un “enigma tormentoso”

Un tratto qualificante delle attuali concezioni dell’empatia risiede


senz’altro nella presupposizione di uno spazio di interiorità come luogo
privilegiato per una visione esaustiva di una certa classe di enti: l’“ani-
ma”, o la “mente”, la si chiami come si vuole, come luogo immateriale e
tutto interno a sé stesso da cui guardare, “da dentro”, “cose” che di que-
sto “luogo” condividono la stessa stoffa immateriale – i vissuti, le emo-
zioni, le intenzioni, cose “mentali” o fatti dello spirito che non hanno
mai smesso di essere modificazioni della “res cogitans” e che si possono
offrire solo a una visione “interiore”.2
Sotto questo punto di vista, la relazione con l’Altro è, o può es-
sere, di natura empatica solo facendo dell’introspezione il paradigma
dell’empatia, ridotta, a questo punto, a un impiego estensivo della pri-
ma, o a una “introspezione vicariante” – per usare una efficace espres-
sione dello psicoanalista H. Kohut, secondo il quale, appunto, la base
della comprensione dell’altro non è se non quella stessa comprensione
di sé che si ottiene introspettivamente.3 Se, infatti, l’introspezione è
l’unico modo per avere accesso a quei fenomeni interni che costituisco-
no l’oggetto della psicologia, l’empatia non potrà che essere una sua va-
riante, ossia la visione “da dentro” del mondo interiore altrui.
Quanto, però, questo approccio resti nell’ambito dell’ipotetico e
sconfini con la proiezione immaginaria lo sapeva bene lo stesso Husserl,
allorché definiva l’empatia «un enigma oscuro e addirittura tormento­

2
Per una lettura storico-critica della sovrapposizione tra “mentale” e “imma-
teriale”, si rimanda a R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura (1979), trad. it.
Bompiani, Milano 2004, in part, la parte i, pp. 41-264. Un’ulteriore elaborazione
del tema, in consonanza con quanto qui si cerca di delineare, si può trovare in alcuni
sviluppi dell’approccio cosiddetto “neofenomenologico” e, segnatamente, in T. Grif-
fero, Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2013.
3
H. Kohut, “Introspezione, empatia e psicoanalisi. Indagine sul rapporto tra
modalità di osservazione e teoria” (1959), in Id., Introspezione ed empatia. Raccol-
ta di scritti (1959-1981), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 53: «I nostri
pensieri, desideri, sentimenti, fantasie, non possono essere visti, ordinati, uditi o
toccati. Non hanno alcuna esistenza nello spazio fisico, e sono tuttavia reali, tanto
che li possiamo osservare così come avvengono nel tempo: con l’introspezione in
noi stessi, e con l’empatia (cioè l’introspezione vicariante) negli altri».

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so».4 Possiamo fare un esempio delle difficoltà cui va incontro una teo-
ria della intersoggettività centrata sull’introspezione rifacendoci a un
passo di Alexander Lowen, fondatore della bioenergetica, una pratica
psicoterapeutica particolarmente attenta al “sentire”. È un passo, se vo-
gliamo, straordinario, perché l’autore ci mette sotto gli occhi tutti i
problemi cui va incontro un tentativo di pensare le relazioni intersog-
gettive facendo ricorso all’empatia – senza, però, vederne nemmeno uno:

Sentire un’altra persona è un processo empatico. L’empatia è una funzione


dell’identificazione: vale a dire che, identificandosi con l’espressione corporea
di una persona, è possibile sentirne il significato. Si può anche sentire che effet-
to fa essere quest’altra persona, benché ovviamente sia impossibile sentire quello
che sente un altro. I sentimenti e le sensazioni di ciascuno sono privati, sogget-
tivi. L’altro sente quello che succede nel suo corpo: voi sentite quello che succe-
de nel vostro. Ma, dato che tutti i corpi umani sono simili nelle funzioni fonda-
mentali, quando sono sulla stessa lunghezza d’onda possono entrare in risonan-
za. Quando succede, le sensazioni di un corpo sono simili a quelle dell’altro.5

Balza subito all’occhio come Lowen sovrapponga due esperienze di


diverso genere e due giudizi il cui soggetto è differente: da un lato ab-
biamo un’esperienza vissuta, ossia la “risonanza” in cui “entrano” due cor-
pi, dall’altro lato un giudizio mediante il quale viene postulata (ma non
sperimentata) una somiglianza tra i corpi e viene stabilito un rapporto
di causa ed effetto tra questa somiglianza e la possibilità di avvertire in
risonanza lo stare di due corpi sulla stessa “lunghezza d’onda”. Da un
lato, insomma, un soggetto immediatamente coinvolto in un evento che
affetta due corpi, dall’altro il soggetto di un atto cognitivo, ossia di un
giudizio che sussume la dinamica di quest’evento sotto una legge ge-
nerale. Ogni individuo è spettatore diretto di sé stesso e non ha alcuna
esperienza del vissuto di altri individui, né potrebbe mai averla; questo
però non toglie che possa avvertire qualcosa come un intreccio o una co-
vibrazione del proprio corpo e di quello altrui, “dato che” i corpi di tut-
ti gli esseri umani sono simili e, quindi, funzionano allo stesso modo.

4
E. Husserl, Logica formale e trascendentale (1929), trad. it. Laterza, Bari 1966,
p. 295.
5
A. Lowen, Bioenergetica (1975), trad. it. Feltrinelli, Milano 2004, pp. 86-87.

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Ma “chi” lo dice? Un conto è sperimentare la risonanza tra due corpi, un


conto è affermare che tutti i corpi sono simili: in questo secondo caso,
il giudizio esprime un sapere – quello per cui tutti noi, in fondo, “sap-
piamo” che i nostri corpi sono fatti allo stesso modo. Non è, però, dav-
vero credibile che sia l’esperienza della risonanza a rivelarmi questa so-
miglianza, e se anche fosse, questa rivelazione non aggiungerebbe nulla
a quello che sperimento sulla mia pelle e nelle mie membra; io “so” che
i corpi umani hanno struttura e funzioni simili semplicemente perché
me lo hanno detto, lo so perché lo ho appreso studiando l’anatomia, non
certo perché un’emozione mi ha consentito di accorgermene o di operare
un primo confronto da cui sarebbe sortito un giudizio che esprime una
somiglianza. Ora, questa somiglianza nelle funzioni principali dei corpi
umani, che io ho studiato e appreso, ma non vissuto in una Erlebnis, sareb-
be la “causa” di una particolare relazione che intreccia i corpi tra di loro e
fa sì che l’eco del vissuto dell’uno risuoni nel vissuto dell’altro – come se
un neonato di pochi giorni, quando rivolge il capo al volto della madre,
o si attacca a un seno o a un biberon, sapesse già di poterlo fare perché ha
di fronte a “sé” un alter ego – che questo, poi, sia ricondotto a un “corpo”,
anziché a una “coscienza”, cambia ben poco.
A ciò si aggiunga che, se è un preliminare “sapere” a essere condi-
zione di possibilità del “sentire l’altra persona”, questo non può essere
che indiretto, se non addirittura spurio: io posso avvertire la risonan-
za – e solo quella – di un vissuto altrui, come per esempio la paura, so-
lo a seguito di un sapere che mi ha portato a stabilire una correlazione
causale tra la somiglianza delle funzioni di due corpi distinti e la con-
seguente comunicabilità dei vissuti di ciascuno. Al di fuori di questo
giudizio, in mancanza di questo, gli stati altrui restano inaccessibili. La
comunicazione tra vissuti è il contraccolpo immaginario di un atto co-
gnitivo, ossia di un giudizio in cui vengono espresse delle conoscenze
ricavate altrove, ma non necessariamente dall’esperienza di un’effettiva
apprensione del vissuto altrui.

2. Due casi di empatia mancata

Ci possono essere delle situazioni in cui questo processo – che sem-


brerebbe così “immediato” oltre che frequente – fallisce o si inceppa?

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Senza fare riferimento a episodi, del resto assai controversi, offerti dalla
cronaca,6 possiamo trarre spunti di riflessione da almeno due racconti
del genere cosiddetto “weird ” che, pur nella forma della finzione e in
modo certo parossistico, ci presentano esattamente il rovescio di un’e-
sperienza empatica, se non la sua parodia. Il primo è un racconto di
Ambrose Bierce, intitolato La morte di Halpin Frayser.
L’enigmatico racconto di Bierce si svolge su due binari al tempo
stesso paralleli e sovrapposti: una “storia reale” – un omicida seriale
uccide la seconda moglie e il figlio di lei – e una storia “onirica – il fi-
glio, Halpin Frayser, sogna di essere ucciso dallo “zombie” di sua ma-
dre, con cui negli anni precedenti aveva stretto un legame ambiguo
e forse morboso. Due ordini di realtà, quindi, con lo stesso grado di
effettualità: una realtà “materiale” e una realtà “psichica”.7 In quanto
pur sempre “ordine di realtà”, il secondo – la realtà psichica – si pre-
senta con la stessa densità del primo: l’immagine posta di fronte agli
occhi, forse addormentati, di Frayser è quella della cieca e meccani-
ca materialità di un corpo. L’immagine psichica, in alti termini, ci
presenta la materia senza “anima”, ma non senza “animazione”, di un
corpo irriducibile alla coppia della connotazione husserliana Körper-
Leib. La Paarung, l’accoppiamento dei corpi, si produce in modo mec-
canico – lo strangolamento del giovane – i cui motivi restano inspie-
gati. Ecco la scena in cui, nella foresta in cui Halpin Frayser vaga,
immemore e senza una meta definita, appare improvvisamente la sa-
goma di sua “madre”:

L’apparizione che stava di fronte al sognatore nel bosco infestato da fantasmi –


così somigliante, eppure così diversa da sua madre – era orribile! Non ispirava
né amore né desiderio, nel suo cuore. Arrivò senza alcun seguito di piacevoli
ricordi di un passato dorato, né gli ispirò alcun sentimento: tutte le emozio-

6
Si pensi alle interminabili quanto inconcludenti dispute circa l’interpreta-
zione dei movimenti facciali delle persone in stato vegetativo, in cui si fronteg-
giano paradigmi etici e teologici in assenza, ovviamente, di qualsiasi evidenza
“ immediata”.
7
Su questa distinzione freudiana si veda, tra l’altro, S. Freud, Introduzione alla
psicoanalisi (1915-1917), “Lezione 23”, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012,
pp. 335-336.

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ni più squisite erano soverchiate dalla paura. Tentò di voltarsi e fuggire, ma le


sue gambe erano come di piombo: non riusciva a sollevare i piedi dal suolo. Le
braccia gli pendevano inerti lungo i fianchi: gli rimaneva solo il controllo de-
gli occhi che non osava spostare dalle vuote orbite dell’apparizione, che sapeva
essere non un’anima senza corpo, ma la più spaventosa creatura che infestasse
quel bosco: un corpo senz’anima! In quello sguardo vuoto non c’era né amore,
né pietà, né intelligenza, nulla a cui fare un appello di misericordia (…). Per
qualche istante (…) l’apparizione, a un passo da lui, rimase ferma a guardarlo
con la stolida malignità di un animale selvatico. Poi allungò le mani e balzò
sull’uomo con terribile ferocia!8

L’empatia sparisce dietro al “riconoscimento”; il corpo viene, in ef-


fetti, riconosciuto e identificato come quello della madre di Halpin, ma
solo per esclusione di tutti quei tratti che ne farebbero il corpo viven-
te di un soggetto, in particolare di una mamma. Corpo e, soprattutto,
sguardo appaiono privi di vivacità, intelligenza, volontà: privi, cioè, del
minimo indizio di un “sentimento” o di una qualche “vita interiore”.
La Paarung si presenta in una grottesca parodia: Halpin Frayser si
muove in relazione e simmetricamente ai movimenti del Körper-Leib
della madre; entrambi si danno in un accoppiamento mortale, pur in
un’asimmetria incolmabile – quella tra un vivente e un non vivente –,
ma subito la scena si sposta nell’immaginario, la Paarung si traduce una
visione onirica, quella in cui Frayser, dopo aver visto il cadavere della
madre, sogna la sua stessa condizione di cadavere:

Questa azione liberò le energie fisiche di Halpin Frayser senza incidere sul-
la sua volontà; la sua mente rimaneva ancora sotto l’influsso dell’incantesimo,
ma il suo corpo potente e le membra agili, animati da una propria cieca, insen-
sata vitalità, resistettero risolutamente. Per un attimo ebbe la sensazione di as-
sistere come semplice spettatore a una battaglia tra un’intelligenza morta e un
meccanismo vivo. (…) Halpin Frayser sognò di essere morto.9

8
A. Bierce, “La morte di Halpin Frayser” (1891), in Id., Tutti i racconti dell’or-
rore, a cura di G. Pilo e S. Fusco, Newton Compton, Roma 1994, p. 62.
9
Ivi, pp. 62-63.

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Bierce, insomma, sembra offrire al lettore un caso di “grado-zero”


dell’empatia, se non addirittura un’empatia, per così dire, bloccata,
come si è detto, in una parodia – un riconoscimento effettivo e com-
pleto che si blocca prima di diventare “empatia”. Ancora: la “simme-
tria” e l’“accordo” tra i due corpi si ripete, in una ulteriore parodia,
nella postura in cui viene ritrovato il cadavere di Halpin: disteso sulla
schiena, un braccio teso e sollevato in avanti, l’altro braccio piegato,
con la mano serrata intorno alla gola, il corpo riproduce e riflette la
scena del suo assassinio.
Si pensi invece, per contrasto, a un famoso caso di empatia presen-
tato da Lipps, la visione dei gesti di un acrobata al circo e i vissuti a
essa corrispondenti. Una percezione visiva è immediatamente accom-
pagnata da una tensione corporea oggettivata, la mia, ma che adesso io
vedo là: «la tensione non smette (…) di essere la mia tensione e di venir
sentita da me come la mia tensione. Eppure sento questa mia tensione
nel movimento percepito otticamente. La esperisco come qualcosa che
vi appartiene immediatamente».10 L’empatia sta esattamente in que-
sta sorta di identificazione con quello che vedo: io «non sono accanto
all’acrobata, bensì esattamente dove si trova»;11 l’empatia è, pertanto,
nella ricostruzione che ne offre Lipps, «il lato interiore» di una imita-
zione interna12 ma che si produce in una, o a partire da, una percezio-
ne esterna. Se ogni mio gesto corporeo è accompagnato da un “senti-
mento” dello sforzo, nel caso della visione dei gesti di un acrobata, as-
sistiamo a uno sdoppiamento e una ricomposizione di gesto e vissuto:
il gesto è là, viene percepito, ma il sentimento dello sforzo resta mio,
avvertito “dentro di me”. In tal caso, gli atti dell’acrobata vengono
“empatizzati”, allo stesso modo in cui io posso, nel rivolgere la mia at-

10
T. Lipps, Ästetik. Psychologie des Schönen un der Kunst, (1903-1906), trad. it.
parziale “L’estetica e il problema dell’empatia”, in M. Accornero (a cura di), Mo-
vimento, percezione, empatia, Mimesis, Milano 2009, p. 46; su questo “case-study”
lippsiano si veda A. Pinotti, Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, La-
terza, Roma-Bari 2011, in part, le pp. 46-51.
11
Ivi, p. 48.
12
Ibidem.

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tenzione ai miei stessi movimenti corporei, riconnettervi i vissuti cor-


rispondenti mediante un atto di “auto-empatia”. 13
Il secondo esempio è ricavato da un romanzo breve di H. Ph.
Lovecraft, Le montagne della follia. La trama è il resoconto di un viag-
gio di esplorazione nelle terre polari, nel corso del quale alcuni scien-
ziati si imbattono casualmente in resti di costruzioni edificate da an-
tichi esseri di natura ibrida (né animali, né vegetali, ma con tratti di
entrambi), nonché in alcuni dei loro discendenti. Quella che segue è la
descrizione del paesaggio montuoso in cui si cominciano a intravvedere
le costruzioni di quegli esseri:

È difficile descrivere le nostre sensazioni di attesa spasmodica nel momen-


to in cui ci preparavamo a sorvolare il punto più alto e a gettare lo sguardo
su un mondo mai calpestato da piede umano (…). C’era in quella barriera
montana e nei ritagli di cielo opalescente intravisti tra le sue vette un tòcco
di malvagità misteriosa che si estrinsecava in alcunché di elusivo e attenua-
to impossibile a tradurre in parole. Era piuttosto qualcosa in cui entravano
simbolismi di vago carattere psicologico e associazioni mentali estetiche, un
misto di poesia e di pitture esotiche con miti arcaici in agguato nelle pagine
di libri esecrati e proibiti. Anche la spinta del vento aveva una vena partico-
lare di inconscia malignità; e per un istante sembrò che il suo suono com-
posito includesse bizzarri sibili musicali estendentisi su ampia scala, come
quelli provenienti dalle risonanti e onnipresenti bocche delle caverne. C’era
in quel suono una nota di reminiscente repulsione complessa e inattribuibile,
come per qualunque altra impressione funesta.14

13
Th. Lipps, Einfülung, innere Nachahmung und Organempfindungen (1903),
trad. it. parziale “Empatia, imitazione interna e sensazioni organiche”, in M. Ac-
cornero (a cura di), Movimento, percezione, empatia, cit. p. 58: «nel mio braccio sen-
to me stesso attivo, in tensione, sotto sforzo e soddisfatto nella mia meta. Una tale
attività, tuttavia, non può aver luogo nel mio braccio (…). Tale attività è da ricon-
durre al mio umore, a quello stato psicologico, a quella rappresentazione di scopo,
per soddisfare la quale io ho esteso effettivamente il mio braccio (…). Con ciò si è
inteso dire che il mio fare non “appartiene” immediatamente al mio braccio. Esso
è in un certo senso empatizzato in esso».
14
H.Ph. Lovecraft, Le montagne della follia (1936), trad. it. SugarCo, Milano
1983, p. 55.

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Attributi o qualità come “malvagità”, “malignità”, “repulsione” ap-


paiono come proprietà “oggettive” della barriera montana, del vento o
dei suoni che vengono avvertiti.15 La cosa interessante è che questi sta-
ti qualitativi – emozionali – vengono descritti come appartenenti alla
lettera a cose come le montagne o ad agenti atmosferici come il vento.
Non c’è alcuna proiezione di stati affettivi del soggetto sugli oggetti e
sull’ambiente (né, del resto, alcuna immedesimazione). Allo stesso mo-
do, non può prodursi alcun tipo di “giudizio riflettente” così come teo-
rizzato da Kant. Si ha, infatti, giudizio riflettente ogni qual volta, per
così dire, l’intenzione conoscitiva viene sospesa e l’oggetto può suscita-
re un giudizio in cui si esprime l’armonia o l’accordo di facoltà umane,
ragione teoretica e ragione pratica, solitamente dissonanti. È impossi-
bile ogni giudizio riflettente perché le forme di queste montagne ap-
paiono del tutto incoerenti. Si considerino ancora questi due passi tratti
dal medesimo racconto:

L’effetto era quello di una città ciclopica di architettura ignota all’uomo o


all’immaginazione umana, con un vasto aggregato di costruzioni nere come la
notte costruite con mostruose perversioni delle leggi geometriche.16

L’effetto di quella visione mostruosa era indescrivibile perché, fin dall’inizio,


non si poteva attribuirla che a qualche infernale violazione delle leggi della
natura (…). Era, assai chiaramente, la città blasfema (…) nella sua obiettiva,
ineluttabile e potente realtà.17

Lo spettacolo è assolutamente incoerente ma, stranamente pro-


prio per questo, si impone nella forma di un’oggettività senza alcuna

15
In altre opere di Lovecraft troviamo espressioni come “odore morboso”, “ge-
mito di flauti blasfemi” ecc. per uno studio sull’aggettivazione in Lovecraft in di-
rezione di un “ipernaturalismo” si veda M. Fisher, The weird and the eerie. Lo stra-
no e l’inquietante nel mondo contemporaneo (2016), trad. it. Minimum Fax, Roma
2018, in part. il cap. i. Per una lettura dell’opera di Lovecraft nel quadro del “re-
alismo speculativo”, si veda G. Harman, Weird Realism: Lovecraft and Philosophy,
Zero Books, Winchester-Washington 2012.
16
H.Ph. Lovecraft, Le montagne della follia, trad. it. cit., p. 40.
17
Ivi, p. 57.

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correlazione con un soggetto, che richiederebbe pur sempre una sor-


ta di accordo o armonia prestabilita tra un polo soggettivo e un po-
lo oggettivo. Ogni accordo e ogni correlazione sono già-sempre in-
terrotti e non ricomponibili. È stato, d’altronde, lo stesso Lovecraft
a rintracciare la materia prima della letteratura del terrore nel “ma-
cabro dell’universo”, ossia in «una sospensione malefica e particolare,
o una sconfitta, di quelle leggi fisse della Natura che sono la nostra
unica salvaguardia contro gli assalti del caos».18 Come in altri conte-
sti osserva Levinas, «L’esterno – se si può ancora usare questo termi-
ne – rimane senza correlazione a un interno. Non è più dato; non è
più mondo»,19 presentandosi, piuttosto, come un’esteriorità appiccico-
sa che avvolge i soggetti e che non può mai essere del tutto esperita
in modo chiaro e distinto.
Questo assurdo panorama si impone agli osservatori come pura e
semplice realtà e oggettività che non si danno più come correlato di una
soggettività – anzi, se si vuole, sono occasioni in cui la soggettività ap-
pare decentrata e spossessata di ogni possibilità di donazione di senso.
Proprio perché, in altri termini, questo reale è oggettività senza più al-
cun rapporto possibile con un soggetto spettatore, esso presenta in sé
stesso, come suoi attributi, quelle connotazioni e quelle qualità che, al-
meno dall’età moderna in poi, sono proprietà di un soggetto. Si pensi
al termine “blasfemia” e all’aggettivo “blasfemo”, il cui uso è così ricor-
rente nella scrittura di Lovecraft: la blasfemia, in genere, è l’effetto di
un atto umano, ma qui, al contrario, abbiamo delle rocce e degli edifici
che, nella loro stranezza, non ci appaiono come “blasfemi”, ma, “sempli-
cemente”, lo sono. Lovecraft presenta, a noi, un “mondo senza di noi”, 20
ossia irriducibile a coordinate umane, e, anzi, tale da assorbirle e to-
glierle a noi – “oggettività” ed “esteriorità” sono, adesso, qualità ricava-
te per usurpazione dal soggetto.

18
H.Ph. Lovecraft, L’orrore soprannaturale nella letteratura (1927), trad. it. Su-
garCo, Milano 1994, p. 19.
19
E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente (1947), trad. it. Marietti, Casale Mon-
ferrato 1986, p. 51.
20
L’espressione “mondo senza di noi” viene proposta e analizzata nel volumet-
to di E. Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta (2011), trad. it. Nero, Roma 2018.

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Un confronto ulteriore con quello che Lipps denomina “empatia


percettiva generalizzata” consente di vedere meglio, anche se per con-
trasto, la specificità di quest’esperienza. Osservo, scrive Lipps, una li-
nea tracciata su un foglio di carta: essa “procede”, “fugge”, “si innalza”,
è “continua” o “spezzata” o “interrotta” e così via… In breve, la linea
presenta in sé stessa tensioni e moti del mio corpo, presenta, cioè, qual-
cosa di “mio”, qualcosa che appartiene a me, è me, ma in un doppio mo-
vimento per cui mi arriva come se appartenesse a qualcosa di altro da me
e, nello stesso tempo, viene avvertito come in me e proveniente da me
stesso. Resto, cioè, presente e prossimo a me stesso pur e proprio nel
ricevere da altro qualcosa di me che, tuttavia, non se ne era mai andato,
non aveva mai cessato di essere presso di me e me:

A una tale empatia do espressione già nella vita ordinaria, quando dico che la
stessa linea si estende, si piega, oscilla su e giù, si delimita; oppure quando di-
co che nel ritmo è presente un’aspirazione a fuggire o una tendenza a conte-
nersi, una tensione e una distensione, e così via. Tutto ciò è la mia attività, il
mio vitale movimento interiore, però appunto oggettivati (…), io oggettivo o
proietto me stesso nell’oggetto (…). Ritrovo lo stato d’animo nell’oggetto; in
breve, lo empatizzo. 21

Riepiloghiamo. Nel racconto di Bierce viene presentata l’esperienza


di un corpo riconosciuto come tale, ossia come un corpo e in partico-
lare come il corpo della madre del protagonista, ma non come un “io”
incarnato. Ma non si può neppure dire che si tratti di un mero Körper:
è come se fosse un Körper-Leib non più-non ancora Leib. In altri ter-
mini, l’interruzione di quel movimento che ci porterebbe a riconoscere
un Leib in ciò che a prima vista ci appare come Körper, fa precipitare lo
spettatore nell’indecidibilità di entrambi – Körper e di Leib.
In Lovecraft, invece, abbiamo a che fare con dei dati qualitativi,
solitamente correlato di connotazioni “emotive”, depositati oggettiva-
mente, e non nella forma del “come-se”, in re e che, proprio per que-
sto, ci arrivano come “blasfeme”. Nell’un caso, un corpo sprovvisto di

21
Th. Lipps, “Fonti della conoscenza. Empatia” (1909), trad. it. in «Discipline
filosofiche», 2, 2002; fascicolo monografico dedicato a Lipps, pp. 49-50.

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connotati “intenzionali” o “spirituali”, o la cui apprensione si è fer-


mata troppo presto, o è arrivata troppo tardi, nell’altro caso, un mon-
do di cose e oggetti in cui tali connotati si sono già-sempre depositati
e sono stati tolti a “noi”: da un lato, un corpo senza affetti, dall’altro
lato dei reperti di affetti pietrificati. Entrambi casi di “impresenta-
bilità” che, tuttavia, non dipende da un difetto nell’esibizione, ma da
un eccesso traumatizzante, da una pienezza eccessiva nell’esibizione
stessa: non si comprende, non si “empatizza” proprio perché non c’è
niente da capire, perché non si apre la via per alcun “supplemento di
indagine” – è tutto quanto già lì ma, proprio per questo, è incompren-
sibile e ci riempie di terrore.
Si tratta di capire se queste esperienze, senz’altro confinabili sul
piano della finzione letteraria e certamente “eccessive” e inusuali, 22 se-
gnino lo scacco definitivo dell’empatia o, piuttosto, forniscano degli
spunti per ripensarne la portata. Questo a partire da una ripresa della
parola nel suo senso etimologicamente più antico, che indica, al di là
e prima del “co-sentire” o del “sentire-in”, «un movimento dall’ester-
no dell’anima verso il suo interno. Per questo la particella “en” (…) si-
gnifica (…) un rafforzativo della dimensione patetica che caratterizza
la sensibilità psichica».23 Il tentativo qui proposto consiste nel coglie-
re nell’affettibilità e nell’affezione l’avvento di un’ontogenesi che tro-
va la sua matrice in un’esteriorità non assimilabile né interiorizzabi-
le. Questa esteriorità ci appare, a una prima occhiata, come un “mon-
do” circostante riempito di “cose”, le cui disposizioni definiscono luoghi,
confini, distanze, relazioni.

3. La “sicurezza degli oggetti”

Un punto non marginale della riflessione di Hannah Arendt sul-


la condizione umana consiste nell’aver mostrato quanto della nostra

22
Ma, d’altra parte, il già richiamato testo di Mark Fisher sostiene il carattere
di dimensione dell’esperienza del weird e dell’eerie, opportunamente ripensati in
correlazione con l’Unheimlich freudiano.
23
F. Desideri, “Empatia e distanza. Un frammento”, in «Atque», 25-26, 2002-
2003, p. 8.

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Estetica dello “sfioramento”, o dell’empatia e dell’ontogenesi

consistenza e identità dipenda dalla permanenza e dalla solidità degli


oggetti che ci stanno intorno – e, simmetricamente, quanto della crisi
dell’umanità contemporanea dipenda dalla loro sistematica deperibi-
lità e consunzione.
Se il mondo umano, sostiene Arendt, ha senz’altro una base o un fon-
do nella cosiddetta “Natura”, esso, tuttavia, non è del tutto naturale – è
un mondo di artefatti, di “opere”, in cui si esplica e si esprime l’uomo in
quanto homo faber. L’operare è inteso, forse in modo un po’ estetizzante,
come attività di trasformazione della natura allo scopo di produrre og-
getti durevoli (le opere d’arte ne sono l’esempio più calzante). Mentre
il lavoro è subordinato ai ritmi, ai tempi, ai modi dei cicli naturali, l’o-
perare subordina la natura a un disegno spirituale, in altri termini a un
progetto, ed è in base a questo progetto che un oggetto prodotto può an-
che essere modificato o addirittura distrutto.
Arendt fa, a questo proposito, un’osservazione interessante. Le co-
se prodotte dall’operare svolgono l’importante funzione di «stabiliz-
zare la vita umana (…) gli uomini, malgrado la loro natura sempre
mutevole, possono ritrovare il loro sé, cioè la loro identità, riferendo-
si alla stessa sedia e allo stesso tavolo». 24 In altri termini, gli ogget-
ti prodotti costituiscono un “mondo oggettivo”, ossia, forse, la stessa
dimensione dell’oggettività e della sostanzialità: sono loro, cioè, a stare
di fronte a noi come oggetti “oggettivi” e permanenti – loro, appunto, e
non la “natura”, che è avvolta in noi e nel nostro ciclo di vita; è questa
permanenza, questa “oggettività” a costituire la nostra stessa identità,
una identità, quindi, che si costituisce sulla falsariga della permanenza
degli oggetti. La cosiddetta “oggettività” del mondo naturale è un’im-
magine derivata dall’interposizione del mondo oggettivo degli ogget-
ti tra noi e la natura. O, anche è un’immagine ottenuta per proiezione
del “mondo oggettivo” sulla natura.
Nel caso della natura, nel suo movimento ciclico, non si danno vi-
ta né morte, almeno «nel senso in cui lo intendiamo noi», 25 bensì di
“apparizione” di forme e del loro “riassorbimento” nel flusso natura-
le. Nel caso dell’uomo, al contrario, parliamo di nascita, vita, mor-

24
H. Arendt, Vita activa (1958), trad. it. Bompiani, Milano 1994, p. 98.
25
Ibidem.

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te, la “vita” essendo, infatti, «l’intervallo di tempo tra la nascita e la


morte»; 26 analogamente, nel caso della vita umana, parliamo di «cre-
scita e deperimento». 27 Ed è così che la vita umana si può caratteriz-
zare come la dimensione del senso: le cose hanno, per noi, una crescita
e un deperimento se considerate separatamente dal resto della natura
e, per ciò stesso, dotate di una relativa permanenza di cui noi possia-
mo parlare. Meglio: noi possiamo parlare di “nascita”, “deperimento”
e “morte” solo a proposito di ciò che ha una qualche permanenza nel
tempo – dove c’è solo metamorfosi non c’è tempo, né discorso possibi-
le, né, dunque, senso. Il tempo del discorso dotato di senso è l’intervallo,
ossia una pur minima interruzione del flusso o del ciclo naturale delle
apparizioni e delle sparizioni.
Da qui anche un’ulteriore considerazione: dalla permanenza degli
oggetti emerge la temporalità orientata dell’operare, che si articola se-
condo un inizio definito, uno svolgimento e una fine definita, in cui l’atto
si estingue e sparisce nel prodotto. L’opera introduce nella vita umana
la dimensione della finalità, che in natura – checché se ne possa pen-
sare – è ben difficile rintracciare.28 In sostanza, l’attività produttiva, in
quanto orientata alla produzione di oggetti, ci consegna la “temporali-
tà” intesa come segmentazione del divenire in momenti ordinati secon-
do una linea progressiva.29
Come si è detto, l’opera introduce l’idea della permanenza, dell’og-
gettività e della sostanzialità. Adesso abbiamo visto che essa inaugu-
ra anche la direzione temporale della finalità. In altri termini, creando
e producendo, l’uomo diventa non solo signore della natura, ma anche
signore di sé: se ha ricavato la sua identità e la sua sussistenza a partire
dalla permanenza degli oggetti, in questo suo essere capace di soprav-
vivere alla loro distruzione, egli si realizza e si riconosce come artefice
di sé stesso e, quindi, padrone di sé.

26
Ibidem.
27
Ivi, p. 70.
28
Ivi, p. 102.
29
E questo a differenza del mero “lavoro” che, «assorbito nel movimento cicli-
co del processo vitale del corpo, non ha né un inizio né una fine»: ibidem.

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Estetica dello “sfioramento”, o dell’empatia e dell’ontogenesi

4. L’insicurezza degli elementi: l’ontogenesi come “orrore”

Una volta stabilito, grazie ad Arendt, che l’uomo riceve, attraverso


un movimento retrogrado, quella solidità e quella permanenza che lui
stesso ha semplicemente immesso nel ciclo naturale con la sua attività
produttiva, è, forse, possibile tentare una diversa contestualizzazione.30
Arendt indaga la “condizione umana” partire da «ciò che facciamo», 31
ma potremmo interrogarci ulteriormente sulle condizioni di questo stesso
“ fare”: è quello che ha tentato Levinas in alcune pagine di Dall’esistenza
all’esistente e di Totalità e infinito.32 Mentre Arendt sembra convinta che
la fabbricazione di oggetti artificiali possa rescindere del tutto l’im-
mediata collocazione dell’uomo nella natura, Levinas, nel ricondurre
il “fare” dell’uomo alle sue condizioni ontologiche di esistenza, sem-
bra, piuttosto, riferirsi a una “sospensione” parziale, e certo non defini-
tiva, del legame che avvolge l’esistente umano a un fondo impersonale
di “essere”. Lavorare, operare, fabbricare ecc. vengono concettualizzati
nel loro nesso con lo sfondo elementale dell’esistenza umana: si tratta di
quell’indeterminato «che non determina nulla», mero galleggiamento
di «qualità senza supporto» o di «aggettivi senza sostantivi»33, fondo
senza inizio che non smette mai di ritornare – di «venire sempre senza
che si possa possedere l’origine».34
Ricostruiamo, in estrema sintesi, il tessuto argomentativo delle pa-
gine che stiamo leggendo. La vita, afferma Levinas, almeno a par-
tire dal contributo offerto dalle scienze nel xix secolo, appare come
«il prototipo della relazione tra esistenza e esistente»; tale relazione
definisce un “aver-da-essere” che si compie come “lotta-per-la-vita”. 35

30
Anche a costo di una trattazione che Arendt stessa ha deliberatamente la-
sciato da parte: si vedano le pagine (10 segg.) in cui distingue l’indagine sulla
“condizione umana” da quella relativa alla “natura umana”.
31
Ivi, p. 5.
32
E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente (1947), trad. it. Marietti, Casale Mon-
ferrato 1986; Id., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (1971), trad. it. Jaca Book,
Milano 1980.
33
E. Levinas, Totalità e infinito, trad. it. cit., p. 133.
34
Ivi, p. 142.
35
E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, trad. it. cit., p. 17.

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Quando Levinas parla di “relazione”, intende a un tempo “aderenza”


e “separazione”, almeno abbozzata tra esistenza ed esistente: è attra-
verso questa tensione che «l’essere nasce all’esistenza». 36 Da qui muove
la descrizione di queste «forme concrete» di relazione-non relazione:
la “fatica”, uno di questi fenomeni concreti, la cui descrizione prece-
de e annuncia le pagine sull’“ipostasi”, deve essere concepita in que-
sti termini, ossia come «evento di nascita» di un esistente singolare. 37
Nell’intenzione di Levinas, prendere in considerazione le dinamiche
di “lotta-per-la vita” rilette, come è noto, nei termini drammatici di
una condanna a vivere, equivale all’abbandono di un’indagine di tipo
“antropologico” limitata alla presa d’atto di contenuti della coscienza
umana, in base all’assunto per cui, al contrario, sarebbe nel “tra” del-
la relazione dell’esistente all’esistenza che andrebbe cercata la matrice
di tali contenuti. Si danno, insomma, dei «fenomeni che precedono la
riflessione»:38 tali fenomeni – che sono come “precondizioni” dell’am-
bito del “soggettivo” – di per sé non sono né oggettivi, né soggetti-
vi, trattandosi, piuttosto, di «eventi drammatici» in cui un “sentire”
funziona come presa di posizione nei confronti dell’esistenza 39 prima
ancora di essere “sentito” in una coscienza riflessiva. Si tratta di una
«localizzazione della mia sensibilità» che non coincide, né si risolve
mai pienamente, con il «sentimento della localizzazione,40 e ciò perché
l’essere da cui ci si discosta – e a cui ci si rapporta nello scansarsene –
«non è né una persona, né una cosa, e nemmeno la totalità delle perso-
ne e delle cose. È, invece, il fatto che si è, il fatto che il y a».41
Dato tutto ciò, Levinas può sottolineare come lavoro e opera, non
solo il lavoro schiavile, ma anche una qualunque attività scelta «con la
massima libertà», persino «lo sforzo più spontaneo»,42 comportino sem-
pre «fatica e pena», comportino sempre un “impegno” nei confronti del
proprio esistere e, al tempo stesso, un tentativo di presa di distanza –

36
Ivi, p. 18.
37
Ibidem.
38
Ibidem.
39
Ibidem.
40
E. Levinas, Totalità e infinito, trad. it. cit., p. 139.
41
E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, trad. it. cit., p. 16.
42
Ivi, p. 28.

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Estetica dello “sfioramento”, o dell’empatia e dell’ontogenesi

partecipazione allo sfondo elementale dell’esistenza e, al tempo stesso,


interruzione della fluidità che caratterizza l’elemento:

L’intorpidimento della fatica (…) è una impossibilità di seguire, una sfasatura


costante e crescente dell’essere rispetto a ciò cui resta attaccato, come una ma-
no che a poco a poco lascia ciò che tiene e a cui tiene, nell’istante stesso in cui
ancora tiene. Più che esserne una causa, la fatica è questo allentamento stesso.
E lo è, nella misura in cui non risiede semplicemente in una mano che lascia il
peso che solleva con fatica, ma in una mano che tiene (a) ciò che lascia anche
quando l’ha abbandonato e resta ancora una contrazione.43

Ciò che si verifica, in ogni caso, non è l’effettuazione di uno stato


in un organismo psicofisico singolare, bensì un «affaticarsi d’essere».44
Vediamolo nel dettaglio. Ci si affatica di qualcosa che non si ha né si è
(più) del tutto: contatto e distanza, rimbalzo in un organismo di qual-
cosa che si è prodotto altrove e come in «un ritardo» rispetto a una
condizione senza tempo, «la fatica (…) è come un ritardo dell’esistente
sull’esistenza (…). Grazie a questa distanza nell’esistenza, quest’ultima
è relazione tra sé stesso e un esistente; l’apparire, nell’esistenza di un
esistente».45 L’uomo “nasce” letteralmente come sensibilità e come co-
scienza attraverso questo “ritardo” rispetto all’il y a – e non a caso, come
già detto, queste pagine sulla fatica anticipano quello che sta per essere
descritto come l’evento dell’ipostasi46 – ma non per questo chiude ogni
rapporto o contatto col suo “c’è”.

43
Ivi, p. 24.
44
Ivi, p. 28.
45
Ibidem.
46
Ivi, p. 24: «In seguito mostreremo infatti che questa sfasatura dell’essere ri-
spetto a sé stesso, che per noi è la caratteristica principale della fatica, costituisce
l’avvento della coscienza, cioè di un potere di “sospendere” l’essere attraverso il
sonno e l’incoscienza». Circa il nesso sensibilità-coscienza, si veda questa anno-
tazione di Levinas, in cui coscienza, sensibilità e rapporto con il “fondo pesante”
dell’essere sono espressamente richiamati: «in quanto coscienza, io sono un insie-
me di contenuto sensazioni del peso. Queste sensazioni hanno un oggetto – la ba-
se. (…). Il peso considerato non più in quanto più o meno pesante, ma come qua-
lità – è l’esistenza stessa»; E. Levinas, “Note filosofiche su Eros. Terzo gruppo”, in
Id., Eros, letteratura filosofia. Prove romanzesche e poetiche, note filosofiche sul tema di

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La “condizione umana”, se si può usare questa espressione arendtia-


na, è, piuttosto, una nascita incessante in cui l’ente esistente come ipo-
stasi e il “c’è” si danno continuamente insieme, nel loro toccarsi e di-
stanziarsi – in una ritmica solo apparentemente contraddittoria che
avvolge la possibilità della dissoluzione dell’esistente e del manteni-
mento di un suo fondo di sussistenza: individualità pietrificata in una
persistenza indefinita, senza divenire, «il soggetto è inseparabile in
concreto dall’esistenza».47 Il “c’è” è, a un tempo, base dell’esistente e
fondo in cui l’esistente sprofonda; la permanenza dell’esistente appa-
re come la permanenza o l’ininterrotto, del suo stesso sprofondare – la
“nascita” e l’“inizio” non essendo altro che la localizzazione singolare di
un decentramento. Per questo Levinas potrà affermare che «lo sfiora-
mento dell’il y a è l’orrore», specificando che «l’orrore non è in alcun
modo un’angoscia di morte (…). Esso è la partecipazione all’il y a (…)
che ritorna nel seno di ogni negazione, dell’il y a “senza vie d’uscita”.
È, se si può dire, l’impossibilità della morte, l’universalità dell’esisten-
za persino nel suo annientamento».48
L’orrore, in questo contesto, è affezione costituente, evento del sen-
tire che si effettua nello spazio intermedio di una relazione e che con-
trassegna, nell’attivarlo, un processo di individuazione. L’affezione e
il sentire si articolano in una tensione che coinvolge in un unico, ma
sdoppiato, movimento “sentire-in” e “sentire-tra”. L’empatia appare,
adesso, come eco, nel soggetto, del rimbalzo, in un ente singolare, di
quella partecipazione all’impersonale entro cui si è istituito in virtù di
un movimento di ritiro. Ma, di più, l’esistenza nella sua possibilità di
conservarsi, nella sua durata indefinita, si riproduce nell’immagine di
un corpo inanimato e spettrale: questo, lo spettro-zombie, è il contrac-
colpo immaginario, la Phantasie dell’orrore che si lega a quell’affetti-
bilità che ci fa nascere, parodia, non meno “reale”, di un doppio mo-
vimento, costituente e, al tempo stesso, dissolutivo, che prende la forma
di una destituzione ininterrotta – l’esistere unitamente e accanto alle
proprie condizioni di esistenza. L’ossessione che agita lo spettro e non

eros (2013), a cura di J.L. Nancy-D. Cohen-Levinas, trad. it. a cura di S. Facioni,
Bompiani, Milano 2017, p. 199.
47
Ivi, p. 201.
48
E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, trad. it. cit., pp. 52-53.

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Estetica dello “sfioramento”, o dell’empatia e dell’ontogenesi

cessa di farlo ritornare davanti a noi è, così, l’immagine distorta del-


la continuità dell’esistente, nell’impersonalità assurda dell’esistere, lo
spostamento indefinito del suo limite.
Lo spettro, in altri termini, il “revenant”, è l’immagine bloccata e
capovolta di un processo di individuazione: in quanto “questo” corpo
singolare che, tuttavia, prende gli stessi connotati anonimi e assurdi
dell’il y a, condensa in sé la duplice immagine di un soggetto che non
è più tale e quella della sussistenza indefinita dell’essere anonimo – se
vogliamo, non è “più” soggetto, non è “ancora” puro e vuoto il y a, ma
conserva i tratti di entrambi.49 Così, se si vuole, Halpin Frayser trova
nello spettacolo del corpo in movimento, anche se “morto”, di sua ma-
dre il proprio alter ego capovolto in una grottesca parodia: trovando,
cioè, sé stesso nella propria morte.
L’orrore, pertanto, è la forma paradigmatica di un “sentire” in cui
accade l’ipostasi e si attivano le precondizioni della coscienza, o, anco-
ra, si potrebbe dire, è l’essere che si annuncia come “sensibile” nel suo
sfiorare un ente e attivarlo come sensibilità e coscienza. Secondo tale
prospettiva, “che è” coincide con la delineazione di un “esperire” ori-

49
In uno sconcertante passaggio di Gilbert Simondon dedicato al culto dei
morti, questi vengono presentati come grumi di affetti che circondano i vivi e,
nel fare loro quasi ombra, si impongono come simboli transindividuali dell’affet-
tività stessa. I defunti, grazie alla loro ingombrante “presenza dell’assenza”, sono,
pertanto, simboli di affetti allo stato pre-individuale, senza soggetto o portato-
re, senza possibile correlazione con un’azione – o, anche, alludono ad un agire
pietrificato, senza agente, ricondotto alla dimensione del puro e impersonale
evento dell’Essere: «Quando scompare, l’individuo è annientato solo per quel
che riguarda la sua interiorità; ma perché sia annientato oggettivamente, biso-
gnerebbe supporre che anche l’ambiente si annienti. L’individuo continua a esi-
stere, e persino a esistere attivo, come assenza rispetto all’ambiente […]; il mon-
do è costituito dagli individui attualmente viventi, che sono reali, e anche dai
“buchi di individualità”, veri e propri individui negativi composti da un noccio-
lo di affettività ed emotività, che esistono come simboli […]. Gli individui vi-
venti hanno l’onere di mantenere nell’essere gli individui morti, in una perpetua
nekuia […]. Il subconscio dei viventi è tutto intessuto del compito di mantenere
nell’essere gli individui morti che esistono come assenza, come simboli speculari
dei viventi», G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva (1989), trad. it.,
DeriveApprodi, Roma 2001, pp. 90-91.

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ginariamente “cosmico”,50 è l’Essere che reca in sé quelle “qualità” che


possiamo dire nostre solo in virtù del fatto di averle ricevute, in una ori-
ginaria passività. Se accettiamo questa interpretazione, di matrice de-
leuzeana – certo da approfondire –, l’orrore diventa quell’“αιστητεον”
che “risveglia” e attiva la coscienza in quanto tale, nel suo distanziarla
e, al tempo stesso, sfiorarla in un “incontro” traumatico.51

50
Sull’“esperienza cosmica” si veda M. Perniola, Del sentire, cit., pp. 101-104.
51
Si tratta di un tema affrontato da Gilles Deleuze nella sezione di Differen-
za e ripetizione (1968), trad. it. il Mulino, Bologna 1971, dedicata all’“immagine
del pensiero”. Deleuze attribuisce all’“essere del sensibile”, distinto dall’“essere
sensibile”, la funzione di «fare realmente nascere la sensibilità nel senso» (p. 227).
Questo motivo si ritrova anche in J.-F. Lyotard, “Anima minima” (1993), in Id.,
Anima minima. Sul bello e sul sublime, trad. it. Pratiche, Parma 1995, pp. 122-123:
«la sensazione è anche l’affezione che il “soggetto” – (…) lo chiamerò: anima –
prova in occasione di un evento sensibile (…). L’anima non esiste se non in quanto
è affetta. La sensazione, piacevole o detestabile, annuncia pure all’anima che essa
non esisterebbe affatto (…) se non fosse affetta da nulla. Quest’anima non è che
il risveglio di un’affettività (…). La sensazione fa effrazione in un’esistenza iner-
te. La mette in allarme, ma bisognerebbe dire: l’esiste». Su questo passo di Lyo-
tard, si veda F. Carmagnola, “Prima e dopo il soggetto. Anima”, in J. Orsenigo
(a cura di), Il soggetto. Eredità, genealogie, destituzioni, Mimesis, Milano 2017, pp.
147-164. Sulla possibilità di concepire le sensazioni in termini “materici” o “ele-
mentali” delle sensazioni, si veda E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, trad. it.
cit., p. 46 e segg. Un’interessante variazione e approfondimento di questo motivo
è rintracciabile nelle ricerche “atmosferologiche” di G. Böhme, di cui si veda At-
mosfere, estasi, messe in scena (2001), trad. it. a cura di T. Griffero, Marinotti, Mi-
lano 2010 e dello stesso T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali,
Laterza, Roma-Bari 2010.

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Estetica dello “sfioramento”, o dell’empatia e dell’ontogenesi

Riassunto  Il contributo cerca di ripensare l’empatia al di fuori di un paradigma


centrato sull’interiorità, attraverso un ribaltamento di prospettiva che, attra-
verso un percorso a più entrate, privilegia la dimensione di un’esteriorità non
interiorizzabile e tuttavia costitutiva del sentire e dell’essere del soggetto. Se,
come insegna Arendt, l’uomo può trovare nei suoi artefatti la garanzia della
propria consistenza e identità soggettiva, d’altra parte alcuni luoghi della let-
teratura weird evocano un mondo estraneo e incompatibile con ogni idea uma-
na di ordine e di “cosmo”. Questo “ordine” trova, insegna Levinas, il suo sfon-
do in un “c’è” impersonale, la cui nozione eredita e riformula il tradizionale
concetto di Essere. È l’Essere così inteso ad attivare la vita dell’“anima” attra-
verso un’affezione il cui paradigma è il sentimento dell’orrore, traccia di un’o-
riginaria e costitutiva passività.

Parole chiave  weird, empatia, Levinas, Husserl, Arendt, Lipps, Lovecraft, Bierce

Luca Pinzolo  Dottore di ricerca in filosofia presso l’Università di Nizza, già as-
segnista di ricerca presso il Dipartimento di scienze umane per la formazione
“Riccardo Massa” dell’Università Milano-Bicocca, è attualmente docente a
contratto presso il medesimo Dipartimento. Ha pubblicato saggi su Althusser,
Lévinas, Bergson e Deleuze. Tra le sue pubblicazioni: “Morceau de résistance.
L’altrimenti che essere come risemantizzazione dell’ontologia in Emmanuel
Lévinas” («Studi filosofici», xl, 2017); “L’evento della volontà in una prospet-
tiva comparativa. L’azione e l’agente nella Bhagavadgītā” («Atque», 21, 2017);
“Ceci n’est pas un sujet. Un ripiego del sé tra reticenza e parresia” (J. Orsenigo
(a cura), Figure del soggetto, Milano, 2017); “La voce tra sonorità e respirazione
in Emmanuel Lévinas. Abbozzo di una metafisica dell’atmosfera” («Atque»,
20, 2017); “Esistenza umana e ‘povertà di mondo’. Un tentativo di riformu-
lazione del concetto di ‘povertà’ a partire da Martin Heidegger” («Quaderni
materialisti», 15, 2016); nonché i volumi Relazione e ontologia. Verso la transin-
dividualità a partire da Emmanuel Levinas e Gilbert Simondon (Milano, 2017) e
Il materialismo aleatorio. Una filosofia per Louis Althusser (Milano, 2012).

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