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LA PROFESSIONALIZZAZIONE
Nello studio di Villa è rinvenibile la ricchezza del dibattito originatosi e sviluppatosi
nei Paesi anglosassoni, in particolare negli Stati Uniti fin dall’inizio del secolo scorso.
La sua analisi permette di delineare le basi del percorso professionalizzante del servizio
sociale attraverso una disamina delle diverse concezioni che hanno orientato le
classificazioni dello stesso: dalla negazione di uno status professionale alla
semiprofessione, fino ad arrivare alla tesi delle professioni in via di sviluppo e alla
conclusiva fase del pieno possesso dei requisiti di professione vera e propria.
Il dibattito si origina con il saggio dello statunitense Flexner, il quale si domanda se il
servizio sociale può essere considerato una professione. La sua riflessione lo porta ad
una risposta negativa in ragione della scarsa rispondenza ad una serie di criteri tra i
quali quello della debolezza del sistema di conoscenze scientifiche. Tuttavia va
sottolineato che la sua proposta interpretativa si basa su parametri tipici delle
professioni liberali, non considerando che la professione dell’assistente sociale è
esercitata in forma dipendente.
Studi successivi come quello del britannico Carr Saunders, formulano una tipologia
gerarchica del sistema professionale, distinguendo fra professioni tradizionali, nuove,
parziali e pretese e identificano quella dell’assistente sociale come semiprofessione,
insieme ad assistenti sanitari, infermieri, farmacisti e optometristi. L’argomentazione
di tale classificazione attiene fondamentalmente alla condizione di dipendenza da
organizzazioni che aggiunge alla responsabilità verso il cliente, tipica delle professioni
tradizionali, quella verso l’istituzione in cui si opera. Dello stesso parere è anche
Etzioni che, accanto alla regolamentazione organizzativa, rileva anche la questione del
genere: la femminilizzazione spiegherebbe la tendenza ad assoggettarsi al controllo
amministrativo, mentre gli uomini sarebbero più orientati al libero esercizio delle
professioni. Sempre Etzioni, precisando che una formazione più breve ed uno status
meno legittimato sono le caratteristiche che giustificano la collocazione della figura
dell’assistente sociale tra le semiprofessioni, ritiene che queste ultime, aspirando a
diventare vere professioni, si espongano a una condizione di frustrazione che
eviterebbero se accettassero di essere “se stesse”. Questa interpretazione da una parte
sembra invitare i semiprofessionisti a rinunciare ad obiettivi di sviluppo professionale
e con ciò agli interessi dei clienti/utenti, dall’altra trascura la dimensione evolutiva dei
processi di professionalizzazione.
Una concezione meno statica è rinvenibile sia in Toren che ritiene che il valore
tassonomico non possa essere considerato in termini di provvisorietà, stante lo sviluppo
di tutte le professioni, sia in Millerson che enfatizza il carattere dinamico dello status
professionale in virtù del mutamento socio economico ed istituzionale. Tale posizione
risulta essere molto interessante per l’analisi di professioni che operano in contesti
istituzionali e organizzativi profondamente influenzati dai mutamenti politici, come lo
sono i servizi sociali.
Interpretazioni differenti sono quelle che convergono verso la definizione del servizio
sociale come professione in via di sviluppo; tra queste troviamo la posizione di Barber,
il quale, ritenendo che i suoi limiti possano essere posti in analogia con quelli
sperimentati anche dal professionalismo tradizionale nelle sue fasi iniziali, l’annovera
nel nuovo tipo di professione marginale o emergente stante ad indicare un’occupazione
che non è di livello così decisamente elevato o decisamente basso in entrambi i due
primi attributi del professionalismo (conoscenza generalizzata e orientamento
all’interesse comunitario) da far sì che il suo stato sia chiaramente definito da se stesso
e da altri. Egli inoltre introduce l’analisi dei modelli di comportamento delle leadership
delle comunità professionali orientati a rafforzarne lo status attraverso l’elaborazione
del codice etico, l’istituzione di organismi associativi e l’inserimento della formazione
nelle università.
La tesi di Greenwood definisce il servizio sociale come una professione in via di
sviluppo e afferma che l’assistente sociale ha sì raggiunto lo status di professione ma è
suo interesse consolidare la propria posizione che risulta essere ancora fragile in
termini di prestigio, autorità e monopolio.
Il riconoscimento come professione compare nella trattazione di Hughes che sottolinea
come il servizio sociale nasca dalla professionalizzazione dell’attività filantropica che
l’ha condotto verso la conquista di una specifica collocazione nell’ambito delle
professioni. Dello stesso parere è Wilensky, che già ad inizio anni 60, ritiene che per
il servizio sociale si possa considerare completata la successione di eventi che
caratterizza questo percorso e cioè la costituzione di un organismo associativo e di una
sede formativa di livello universitario, la normativa in tema di abilitazione e la
promulgazione di un codice etico; tappe conseguite negli Stati Uniti fra gli anni 1874
e 1948.
In Francia, la professione dell’assistente sociale è considerata la prima ad essersi
costituita come tale, in termini di formazione, organizzazione e riconoscimento
dell’utilità pubblica, risalendo la fondazione della prima scuola al 1911, l’istituzione
del primo diploma di Stato al 1932 e dell’associazione professionale al 1944.
In Italia, l’attenzione al concetto di professionalizzazione emerge con maggiore
intensità dopo il conseguimento del riconoscimento giuridico e ancor più dopo
l’istituzione dell’Albo e dell’Ordine degli assistenti sociali.
Niero individua 4 ondate generazionali del servizio sociale:
- negli anni 50-60 incentrato sul lavoro con il caso e quindi sul singolo
- nel periodo 68 e 75 sul contesto sociale
- negli anni 80 sul funzionamento organizzativo e sugli aspetti metodologici;
- negli anni 90 sul lavoro integrato con le reti solidaristiche
- il presente ci conduce invece ad introdurre l’interazione con il mercato, la
gestione della crisi globale e il tema del managerialismo
LA PROFESSIONALIZZAZIONE IN ITALIA
In Italia la professionalizzazione si è sviluppata in tre fasi/periodi:
- post bellica (anni 45-60) con l’inserimento degli assistenti sociali negli enti
assistenziali
- successiva alla contestazione del 68, segnata dalla stagione dei movimenti e
delle grandi riforme, che vede nascere e svilupparsi i servizi territoriali (anni 70-
80)
- caratterizzata dalla pluralizzazione dei servizi e dal successivo avvento del
managerialismo che ha inizio nel nostro Paese negli anni 90, per affermarsi nel
decennio successivo
Gli esordi della genesi del servizio sociale sono riconducibili al lavoro sociale di
fabbrica, avviato nel 1921 dall’Istituto Italiano di Assistenza sociale (IIAS) che vede
fra i suoi fondatori Paolina Tarugi, considerata la prima assistente sociale italiana. Nel
1928 viene istituita la Scuola di San Gregorio al Celio, nella quale Tarugi insegna, che
fornisce il diploma di “assistente sociale fascista” e che prepara all’inserimento di
questa figura in attività organizzate dalle confederazioni generali fascisti degli
industriali e dei lavoratori e negli enti assistenziali e previdenziali istituiti dal regime,
con particolare riguardo alla maternità, all’infanzia e ai sanatori.
Il secondo Dopoguerra e il processo di democratizzazione provocano una rottura con
il passato fascista, e ciò lo testimonia il dibattito sviluppatosi nel 1946 nel Convegno
di Tremezzo, considerato l’evento rifondativo del servizio sociale italiano.
L’orientamento principale è quello di assegnare alla formazione dei nuovi assistenti
sociali il compito di promuovere una professione che sappia contribuire al
rinnovamento democratico del sistema assistenziale.
Sul finire degli anni 40 si verificano alcuni eventi significativi per ciò che concerne la
rappresentanza del servizio sociale: nasce il Centro Nazionale Assistenti Sociali che
due anni dopo si trasforma in Associazione Assistenti sociali (Anas) e viene istituito il
Comitato Italiano di Servizio sociale.
Negli anni 50, il campo d’occupazione delle nuove assistenti sociali è costituito in
primo luogo dalla pletora di enti assistenziali, dedicati ad una miriade di categorie
giuridiche di assistibili (es. orfani e figli illegittimi), sorti durante il regime,
caratterizzati da una politica assistenzialistica al centro della quale vi è la
categorizzazione giuridica dei problemi sociali e delle risposte istituzionali e
un’impostazione verticistica e burocratica. Al loro interno, le assistenti sociali sono
impegnate a contrastare l’atteggiamento moralistico e clientelare dell’ente attraverso
l’applicazione del case work, cioè del metodo d’intervento con i casi singoli, che non
dovrebbe esaurire il campo d’azione dell’assistente sociale, chiamato a partecipare
all’elaborazione della politica sociale avvalendosi della documentazione relativa alle
necessità dei cambiamenti individuali, necessari nell’ambito del rapporto con gli utenti.
Dal punto di vista del sistema di conoscenze atte a orientare l’azione, il servizio sociale
italiano avvia le primissime fasi del processo di teorizzazione, avvalendosi della
maturità disciplinare raggiunta nell’ultimo trentennio negli Stati Uniti attraverso ad
esempio traduzioni di testi e apporti di esperti statunitensi.
Inoltre un impegno vigoroso, testimoniato anche dalla presentazione di proposte di
legge, è dedicato ad azioni volte al riconoscimento del titolo e la formazione
universitaria.
Negli anni 60, procede lo sviluppo del sistema assistenziale attraverso la proliferazione
degli enti e dei servizi, con un conseguente incremento del numero degli assistenti
sociali. Tuttavia anche in questo decennio il diploma di assistente sociale non gode di
alcun riconoscimento: si assiste così ad una compressione di questa figura
professionale all’interno delle pubbliche amministrazioni, che costituiscono il maggior
campo di occupabilità, ma con posizioni di scarso rilievo e senza possibilità di
progressione di carriera.
Garzonio Dell’orto, nel suo rapporto su una ricerca condotta nel 1964, in tema
d’inserimento del servizio sociale in amministrazioni comunali lombarde, identifica tre
ragioni alla base del potenziale di rinnovamento derivante dall’inserimento del servizio
sociale negli enti: il suo approccio democratico che può concorrere alla trasformazione
del rapporto fra pubblica amministrazione e cittadino; la sua competenza tecnica
specializzata che può introdurre una visione più efficace del sistema di risposta ai
problemi sociali; la sollecitazione a rivedere l’impalcatura piramidale e centralizzata
della struttura amministrativa, per lasciare spazio alla collegialità e alla discrezionalità
tipica dell’intervento professionale.
Nella trattazione dei risultati, emergono tre forme di collocazione degli assistenti
sociali nelle amministrazioni locali:
- Burocratizzazione:
assimilazione pressoché completa nell’ambito dell’organizzazione burocratica che
cancella le fondamentali caratteristiche della professione e uniformizza questi tecnici
agli impiegati amministrativi; essa è dovuta sia ai sovraccarichi di lavoro sia alla
mancata distinzione delle competenze.
- Autonomia:
derivante dalla separazione istituzionale della professione dal resto dell’organizzazione
con ridotti rapporti fra tecnici e apparato amministrativo e con una conseguente elevata
possibilità di esercitare funzioni proprie, ma anche di rischiare una segregazione
accentuata in virtù del potenziale innovativo contenuto nel criteri, nel metodo e nelle
tecniche che contrastano con l’inerzia istituzionale.
- Politicizzazione:
corrispondente a una situazione in cui il professionista è identificato con il livello
politico con il quale può comunicare in termini fluidi; l’amministratore è interessato
al servizio sociale e può avviare esperienze pilota, inchieste, forme d’intervento
innovative, ma può anche, nei casi limite, tentare di strumentalizzare l’assistente
sociale ai propri fini.
IL DIBATTITO IN CORSO
Il servizio sociale italiano, presente sulla scena da più di cinquant'anni, vive un grande
ritardo nell'affrontare in modo sistematico il tema della valutazione. Molti sono i motivi
che hanno contribuito a determinare questa situazione.
Un aspetto, non irrilevante, lo si può ritrovare già nella traduzione dei termini inglesi
social work e social worker, in servizio sociale e assistente sociale termini che
richiamano una dimensione caratterizzata dal prendersi cura, un accento sulla
disponibilità ad aiutare gli altri, a trovare nella propria attività la realizzazione
personale, elementi che sembrano aver prevalso, anche nelle rappresentazioni sociali,
sulla funzione produttiva di questa nuova professione. Non a caso, a partire dalle sue
origini, il servizio sociale si caratterizzò (e tuttora rimane tipizzato) da una quasi totale
presenza femminile, tanto da far dire a Vallin che la professione di assistente sociale
risponde come poche altre alle esigenze dell’anima femminile. Anche il sociologo
Martinelli, analizzando la figura dell’assistente sociale sottolineava come: la
professione è nata femminile perché nella tradizione culturale italiana alcune
professioni per le quali si richiederebbero doti particolari di sensibilità, sono state
riservate alle donne fin dall’inizio dell’epoca industriale.
Niero inoltre, ha attribuito una certa debolezza del dibattito e della riflessione su
metodologie, tecniche e strumentazioni professionali proprie e distintive del servizio
sociale.
Queste considerazioni offrono una prima chiave di lettura del ritardo con cui in Italia
ci si è affacciati alla considerazione della necessità di sviluppare processi valutativi
dell’azione professionale, avvertita come meno cogente dagli assistenti sociali, in
quanto il valore dell’intervento viene probabilmente ricercato, principalmente, nella
relazione tra operatore e utente.
Un secondo filone di motivazioni, che ha reso più lento l'emergere del tema della
valutazione, è connesso alla storia della formazione al servizio sociale che ha visto in
una prima fase il sorgere di scuole private o pubbliche al di fuori del contesto
accademico. È solo dalla fine degli anni 80 che si è avuto l’inserimento a pieno titolo
dei corsi di servizio sociale nell'università, ma nonostante ciò il processo di
accademizzazione non si è raggiunto in modo pieno: ad esempio non si è creato, come
all’estero, uno specifico settore disciplinare; non vi sono dipartimenti di servizio
sociale; i piani di studio previsti a livello ministeriale non sono coerenti con la
complessità del ruolo e le competenze da formare; i docenti di servizio sociale
incardinati nelle università sono in proporzione risibile, rispetto al numero dei corsi di
laurea attivi ecc.
Se si volge lo sguardo al contesto europeo la differenza, rispetto al dibattito e alle
esperienze in quest'ambito, emerge con chiarezza.
A conclusione di queste riflessioni, si può tuttavia affermare, che nel contesto italiano
sta crescendo l’attenzione verso la valutazione, esempio lo sono: l’associazione italiana
di Valutazione, l’AIDOSS e la Fondazione Zancan.